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il manifesto,

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La formula di rito, «le sentenze si rispettano», vale anche in questo caso, che riguarda la vicenda del sindaco di Riace, benché non si tratti ancora di una sentenza. L’indipendenza della magistratura è un fondamento dello stato di diritto ed è una garanzia per tutti, specie di questi tempi, in cui la legalità soggiace troppo spesso ai rapporti di forza esistenti. Ma questo non significa che non si possano fare riflessioni critiche sulla magistratura, com’è diritto e obbligo di ogni cittadino consapevole. E allora l’arresto di Mimmo Lucano, un sindaco - come hanno scritto e testimoniato a migliaia, in passato e in questi giorni - che ha fatto rinascere e dare speranza alla gente di una terra segnata dall’abbandono e da una criminalità endemica, è una enormità.

Una enormità da inquadrare in un contesto storico.

Perché qualche considerazione d’insieme sull’opera della magistratura in Calabria occorrerebbe farla. È necessario che l’opinione pubblica nazionale si ponga qualche domanda sul fatto che in una terra dove l’amministrazione di un grande città come Reggio, viene sciolta per mafia, dove a San Luca d’Aspromonte da anni non si riesce ad eleggere un sindaco, venga arrestato il primo cittadino di un centro che fa della solidarietà umana un principio di sopravvivenza della popolazione. È una domanda a cui occorre aggiungere una considerazione più ampia. Perché se è vero che in Calabria operano magistrati come Nicola Gratteri e altri meno noti di lui, che rischiano la vita facendo il proprio mestiere, è anche vero che un’ampia zona di inerzia domina il resto della magistratura regionale.

Si mette sotto controllo il telefono di un sindaco - certo, disinvolto e arruffato nel rispetto delle regole amministrative - ma il cui disinteresse personale è noto anche alle pietre della strada, e che cosa si è fatto per smantellare le reti del caporalato che fanno schiavi i ragazzi nordafricani nelle campagne di Rosarno?

Che cosa ha fatto la magistratura calabrese per perseguire gli autori dei tanti incendi che in questi anni hanno distrutto migliaia di ettari di bosco, devastato campagne, ucciso persone e animali? Dov’erano e dove sono tanti magistrati calabresi, quando si costruisce abusivamente, si elevano case in zone franose, si deturpano le coste, si piantano pale eoliche tra gli uliveti, si fa a pezzi un paesaggio che un tempo era uno dei più selvaggi e suggestivi della Penisola? E dunque una parola di verità bisogna pur dirla.

Se il territorio di questa regione è oggi uno dei più sfigurati d’Italia, una responsabilità non piccola è addebitabile all’inerzia della sua magistratura, alla sua insensibilità civile, alla sua modesta cultura. È da qui, solo da questo capovolgimento assurdo dei valori, che è potuta venire l’enormità dell’arresto di Mimmo Lucano.

lavoce.info, Il Parlamento europeo ha approvato la nuova direttiva sul copyright. Tra maggiori tutele per i produttori di contenuti e rischio di censura, ora spetta ai singoli stati recepire e applicare la nomativa. (m.p.r.)

La tutela dei diritti di proprietà, anche intellettuale

Molto probabilmente esiste un larghissimo accordo intorno all’importanza dei diritti di proprietà per il buon funzionamento di un’economia di mercato, pur in presenza di un settore pubblico di dimensioni relative ampie. Secondo un vasto novero di scienziati sociali, che va dai giuristi ai filosofi, dagli scienziati politici agli economisti, la loro definizione e tutela rende più ordinata e vivibile la vita collettiva, anche se ciò può portare a una disuguaglianza notevole nella distribuzione di questi diritti. Gli economisti sono particolarmente interessati al modo in cui diritti di proprietà ben definiti inducano cittadini e imprese a investire di più, in modo tale da aumentare l’utilità e il rendimento che ricavano dai beni che ne sono oggetto: perché mai dovrei ristrutturare una casa se esiste un rischio elevato di essere espropriato oppure di essere deprivato del bene da parte del primo che passa?

La civiltà industriale si è col tempo sviluppata anche grazie alla definizione dei cosiddetti diritti di proprietà intellettuale, cioè sulle opere dell’ingegno umano (brevetti, software, design, marchi, diritto d’autore), fissando generalmente limiti temporali, cosicché, a un certo punto, le idee possano diventare patrimonio comune – e non privato – degli esseri umani. La tecnologia, nel nostro caso l’invenzione di internet insieme con il ruolo progressivamente più esteso dei social network, impone la necessità di pensare a come questi diritti di proprietà intellettuale – e in particolare i diritti d’autore – debbano essere tutelati in presenza di una possibilità di espandere (quasi) infinitamente i contenuti digitali: può accadere infatti che lo stesso filmato o la stessa notizia divenga virale e finisca per apparire su centinaia di migliaia di pagine internet.

Per qualche tempo è stata coltivata l’illusione che i meccanismi di trasmissione dei contenuti su internet potessero essere decentrati secondo un meccanismo apprezzabilmente “democratico”. Al contrario, la dominanza di pochi motori di ricerca e pochi social network ha fatto sì che la distribuzione dei contenuti sia invece prevalentemente avvenuta in maniera accentrata, secondo un meccanismo di finanziamento basato in larga parte sugli introiti pubblicitari ottenuti dalle grandi piattaforme. La lamentela dei produttori di contenuti è che le piattaforme hanno potuto sfruttare i contenuti senza pagare “il giusto prezzo”, che dipenderebbe per l’appunto da una remunerazione del diritto d’autore: ciò vale per giornali e produttori di notizie nei confronti dei siti che aggregano le notizie, come Google News, e per i produttori di video e brani musicali che compaiono su YouTube e social network come Facebook e Twitter.

Due articoli per i produttori di contenuti

Ebbene, questa settimana il Parlamento europeo in seduta plenaria ha approvato a larga maggioranza una direttiva sul copyright digitale che – negli articoli 11 e 13 – sposta il bilanciamento della tutela del diritto d’autore nella sfera digitale a favore dei produttori di contenuti e a svantaggio delle grandi piattaforme. L’articolo 11 in particolare si focalizza sull’estensione del diritto d’autore per gli editori e in generale i produttori di notizie rispetto agli “information society service providers”, cioè le piattaforme che ospitano link e riassunti delle notizie. Naturalmente, le grandi piattaforme – da Google a Facebook, a Twitter – hanno rimarcato come l’aggregazione di contenuti da parte loro aumenti di molto il numero di utenti che vengono smistati dalle piattaforme stesse agli articoli originali, così da aiutare i produttori a ottenere ricavi, pubblicitari e non. La replica degli editori è che – nel caso delle notizie – il riassunto della notizia stessa è la notizia, cosicché la piattaforma finirebbe per cannibalizzare i siti originali senza un’adeguata compensazione.

Nel caso invece dell’articolo 13, il riferimento è ai contenuti audio e video, per i quali è necessario che le piattaforme verifichino l’identità di chi detiene il diritto d’autore e – grazie a tecnologia adeguata – siano in grado di rimuoverli sotto richiesta di chi detiene i diritti originali. I detrattori della norma lamentano il rischio di censura, nella misura in cui ogni riutilizzo creativo di contenuti, ad esempio nella forma di una parodia o di una replica, sia potenzialmente soggetto alle richieste di eliminazione dalla piattaforma da parte dei creatori dei contenuti originali.

Come al solito nelle faccende sociali, economiche e giuridiche, entrambe le parti coinvolte nella contesa hanno le loro ragioni da far valere attraverso attività di lobbying e di propaganda verso l’opinione pubblica. In attesa che il processo legislativo UE faccia il suo corso (è necessaria l’approvazione dei singoli stati perché la direttiva possa essere definitivamente applicata attraverso provvedimenti legislativi nazionali), si può rilevare come sia sensato che il pendolo della tutela dei diritti di proprietà e di utilizzo da parte di terzi si muova ora nella direzione favorevole ai primi, così da incentivare e finanziare la produzione di contenuti. Tuttavia, per rispondere alle forti critiche mosse dagli oppositori, è importante che il pendolo non si sposti eccessivamente nella direzione presa questa settimana, e in particolare che si eviti un utilizzo strumentale della nuova disciplina – specialmente dell’articolo 13 – per censurare contenuti sgraditi. Sotto questo profilo è opportuno rammentare che nulla vieta, anche nel nuovo contesto normativo, di produrre contenuti gratuiti per i quali nessuna disputa “sul giusto prezzo” può aprirsi, in quanto il produttore stesso ha deciso di facilitare la diffusione azzerando il proprio guadagno monetario diretto.

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    La Corte dei Conti ha certificato che nel 2016 la spesa complessiva dello stato italiano ha totalizzato 829 miliardi coperti per l’86,5 per cento da entrate fiscali, ossia ricchezza prelevata ai cittadini, e per il restante 13,5 per cento da altre entrate come affitti, concessioni, vendite di immobili, indebitamento.

    Le entrate fiscali comprendono tre grandi categorie: i contributi sociali, le imposte dirette e le imposte indirette. I contributi sociali sono prelievi sulla produzione, in parte a carico dei lavoratori, in parte dei datori di lavoro, e sono utilizzati per pensioni e altre provvidenze di carattere sociale. Le imposte dirette sono prelievi sugli introiti dei cittadini. Le imposte indirette sono prelievi sugli acquisti per beni e servizi. L’analisi dei dati rivela che oggi i tre settori contribuiscono al gettito fiscale in misura quasi paritaria. Più precisamente nel 2016 i contributi sociali hanno rappresentato il 31 per cento del gettito fiscale, le imposte dirette il 35 per cento, quelle indirette il 34 per cento. Situazione piuttosto diversa da quella del 1982 quando i contributi sociali rappresentavano il 40 per cento di tutte le entrate fiscali, le imposte dirette il 35 per cento, quelle indirette il 25 per cento.

    Ma per capire come sia cambiata la politica fiscale in Italia, più che concentrarci sulla composizione del gettito fiscale, conviene focalizzarci sulla pressione fiscale, il valore che indica la porzione di prodotto nazionale assorbita dal prelievo.

    Nel 2016 la quota complessiva prelevata dalla pubblica amministrazione è stata pari al 42,9 per cento del Pil, il 10,5 per cento in più di quella prelevata nel 1982 quando era al 32,4 per cento. Ma l’aumento non è stato omogeneo per i tre canali. Per la verità la pressione fiscale dei contributi sociali è rimasta pressoché stabile nel tempo al 13 per cento del Pil. Il vero balzo in avanti l’hanno fatto le imposte indirette che dal 1982 al 2016 hanno visto aumentare la propria pressione del 6,1 per cento, passando dall’8,1 per cento al 14,4 per cento del Pil. Quanto alle imposte dirette, nello stesso periodo la loro pressione è aumentata solo del 3,6 per cento passando dall’11,2 al 14,8 per cento del Pil.

    Il lotto e il gioco d’azzardo ci hanno messo del loro per fare crescere il gettito delle imposte indirette, ma il ruolo principale l’ha svolto l’Iva, l’imposta sui consumi che rappresenta il 60 per cento dell’intero gettito indiretto. Lo dimostra l’andamento dell’aliquota ordinaria che è passata dal 18 per cento nel 1982 al 22 per cento nel 2016. Un aumento odioso pagato principalmente dalle categorie più povere che per definizione consumano tutto ciò che guadagnano. Uno schiaffo che brucia ancora di più se consideriamo che sulle imposte dirette è stata operata una certa regressività a vantaggio dei redditi più alti.

    Si prenda come esempio l’IRPEF, l’imposta sul reddito delle persone fisiche che rappresenta il 73 per cento dell’intero gettito diretto. Quando venne introdotta, nel 1974, era formata da 32 scaglioni, il più alto dei quali al 72 per cento oltre 252mila euro. Una grande parcellizzazione dovuta non alla bizzarria dei parlamentari, ma al rispetto dell’articolo 53 della Costituzione che espressamente recita: “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.
    Purtroppo non passò molto tempo e già si cominciò a picconare la progressività riducendo gli scaglioni e le aliquote sui redditi più alti. E se nel 1983 gli scaglioni erano già diventati 9, col più alto al 65 per cento oltre 258mila euro, nel 2016 li troviamo a 5 col più alto al 43 per cento oltre 75mila euro. Il risultato è che se nel 1983 su un imponibile di 252mila euro, non da lavoro dipendente, si pagavano 143mila euro di IRPEF, oggi se ne pagano 104 mila, praticamente 40mila euro in meno.
    Al contrario chi guadagnava 13mila euro nel 1983, 3mila euro pagava allora e 3mila euro paga oggi. Stante la situazione non deve sorprendere se l’82 per cento dell’intero gettito IRPEF è pagato da lavoratori dipendenti e pensionati.

    I ricchi sono stati favoriti non solo grazie all’accorpamento e all’abbattimento delle aliquote, ma anche perché non tutti i redditi concorrono al reddito complessivo su cui si calcola l’IRPEF. Un esempio è rappresentato dagli affitti su cui si può scegliere di pagare una cedolare secca del 21 per cento. Altri esempi sono gli interessi bancari o i dividendi obbligazionari, su cui si applica un prelievo secco del 26 per cento.

    E se è impossibile calcolare la perdita per le casse pubbliche di questa serie di favori accordati alle classi più agiate, di sicuro si può dire che contribuiscono ad aggravare le disuguaglianze perché favoriscono l’accumulo di ricchezza nelle mani di una minoranza. Basti dire che l’1 per cento più ricco degli italiani possiede il 21,5 per cento del patrimonio privato, mentre il 60 per cento più povero non arriva al 15 per cento.
    E poiché lo scandalo si fa sempre più grave, perfino l’OCSE invita a considerare l’introduzione di un’imposta progressiva sul patrimonio. In particolare sostiene che «ci potrebbe essere lo spazio per una tassa patrimoniale nei Paesi in cui la tassazione sul reddito da capitale è bassa e dove non ci sono tasse di successione». Un’esortazione che sembra diretta in maniera particolare all’Italia dal momento che non sono previsti cumuli, né per i redditi da capitale né per i valori patrimoniali, mentre l’imposta di successione è quasi inesistente. Se seguissimo il consiglio dell’OCSE, renderemmo un servizio non solo all’equità, ma anche alla sostenibilità dei conti pubblici da tutti invocata in nome del debito pubblico. Finalmente dalla parte dei cittadini più deboli come prescrive la Costituzione.

    Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

    Comune-info,

    «Non sono prove anonime, stravolgono i programmi scolastici, mettono in discussione l’aiuto reciproco tra bambini e soprattutto la loro serenità, tra deliranti cronometri, insegnanti che diventano sorveglianti e aule trasformate in celle di massima sicurezza, da cui a bambini e bambine di sette anni non è consentito allontanarsi per fare la pipì. Tuttavia quando si ragiona sulle motivazioni del rifiuto delle prove Invalsi, previste da queste settimana, si sottovaluta un aspetto, il più inquietante ma anche motivo di speranza: quei test si reggono prima di tutto sull’obbedienza gratuita dei docenti chiamati a somministrarli seguendo un vergognoso Manuale. Se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore, tutto quell’odioso esperimento crollerebbe».

    Il grande esperimento Invalsi: appunti sull’eteronomia

    Anche quest’anno, come ormai da una quindicina di anni a questa parte, si svolgeranno i test Invalsi. Anche quest’anno nelle classi seconde e quinte della scuola primaria. Anche quest’anno poco più di un milione di bambine e bambini di sette e dieci anni verranno sottoposti ai test. A sottoporli alla somministrazione saranno circa 50 mila maestre e maestri (su circa 250 mila in servizio nella scuola primaria), ma il calcolo è approssimativo, perché è difficile prevedere quanti insegnanti verranno chiamati a somministrare più volte. Le prove sono rimaste due per le classi seconde (lettura e matematica) e sono diventate tre per le quinte, con l’aggiunta dell’inglese. Anche quest’anno il Grande Esperimento prende il via.

    Nel tempo si sono sciolti molti dei dubbi e delle controversie che accompagnavano l’introduzione di queste prove nella scuola italiana. All’inizio l’Invalsi e il Ministero sostenevano che le prove fossero anonime e raccolte ai soli fini statistici, mentre l’evoluzione e le dichiarazioni degli ultimi anni hanno chiarito che i dati sono collegati in maniera stringente al singolo bambino e alla singola bambina per formare un profilo valutativo che li accompagna nel corso degli studi e che in futuro potrebbe benissimo venire utilizzato per selezionare – ad esempio – gli accessi universitari, come d’altronde era stato ventilato nella prima versione del decreto attuativo dell’esame di maturità, o – chissà – addirittura nelle procedure di selezione del personale lavorativo.

    Anche l’affermazione che le prove non potevano essere valutate e che l’Invalsi stessa sostenesse la non opportunità di allenarsi ad esse stravolgendo la programmazione scolastica è progressivamente caduta, sostituita tutt’al più da generici suggerimenti di non eccedere negli allenamenti comunque predisposti anche nei siti istituzionali.

    Le resistenze diffuse opposte nei primi anni da parte del personale docente e da gruppi di genitori organizzati si sono progressivamente indebolite, lasciando oggi l’onere della contestazione del test a piccoli gruppi di docenti determinati e a isolati genitori, mentre le case editrici scolastiche hanno infarcito orrendamente i già poco appetibili libri di testo di sfilze di quiz a risposta multipla.

    La stessa macchina Invalsi si è evoluta, traendo insegnamento dalle resistenze e modificando la propria articolazione (nelle scuole medie e superiori ad esempio disseminando le prove su un intero mese e automatizzando le procedure di correzione, in modo da vanificare in gran parte l’indizione di scioperi) estendendo in questo modo la capacità dei test di sconvolgere la normale programmazione scolastica per tutta l’ultima parte dell’anno.

    D’altra parte, accanto a quello che sembra proprio un trionfo della macchina-Invalsi, cresce un ostinato insieme di interventi critici che raccolgono, incrementano, combinano e ripropongono le critiche che hanno accompagnato l’evoluzione del Grande Esperimento in questi ultimi quindici anni. In questi testi interessanti che circolano sulle riviste e nei social sono molti gli aspetti dei test Invalsi che vengono messi in discussione; mi pare tuttavia che poco si sia riflettuto seriamente su un aspetto, forse ingannati dall’apparentemente inoppugnabile trasparenza della risposta, e cioè su chi fossero i soggetti sottoposti all’esperimento.

    Milgram

    Facciamo un passo indietro, al 1961. Il sociologo statunitense Stanley Milgram organizza un esperimento di psicologia sociale per raccogliere dati sulla possibilità dei soggetti di compiere azioni in contrasto con i propri principi etici se sottoposti ad ordini provenienti da un’autorità scientifica riconosciuta. Milgram è influenzato dal processo Eichmann che si sta svolgendo in Israele e vuole scavare attorno all’affermazione di tanti soggetti implicati nella Shoah che si difendono affermando di aver solamente eseguito degli ordini.

    Nell’esperimento vengono contattate persone cui viene chiesto di collaborare ad una raccolta dati in una serie di prove di apprendimento. Il loro compito consiste nel somministrare un rinforzo negativo – scosse elettriche di intensità crescente – ai soggetti che sbagliano le risposte. In realtà le scariche elettriche sono finte e gli allievi che le ricevono sono collaboratori di Milgram che fingono la sofferenza con grida e lamenti, mentre altri collaboratori – che interpretano gli scienziati – sollecitano gli insegnanti a non derogare dal protocollo sperimentale e ad infliggere le scosse previste.

    I risultati dell’esperimento furono inquietanti: dei quaranta soggetti sottoposti alla procedura una buona percentuale proseguì nel protocollo infliggendo scariche elettriche visibilmente dolorose per molto tempo, in alcuni casi spingendosi fino ad infliggere le scariche più intense sufficienti a far svenire l’allievo. L’obbedienza spingeva cioè i soggetti a derogare dai principi etici cui erano stati educati e nei quali si riconoscevano. Questo stato eteronomico, nel quale il soggetto non si considera più capace di prendere decisioni autonome ed agisce come strumento delle decisioni di un’autorità superiore, in questo caso era stato indotto dalla autorevolezza del soggetto superiore che dettava gli ordini e il protocollo sperimentale: la scienza. Era in nome dell’indiscutibilità della scienza che i soggetti sottoposti all’esperimento rinunciavano ai propri principi etici, convinti di operare secondo un principio superiore e di non essere responsabili delle sofferenze inferte ai (finti) allievi.

    Certo influivano altri fattori sulla decisione di obbedire fino in fondo o di interrompere l’azione, come la distanza da colui che riceveva le scariche elettriche e la vicinanza e l’insistenza dello “scienziato”, ma tutti risultavano subordinati alla trasformazione che il “protocollo scientifico” operava sulla situazione, sul contesto. All’interno del contesto definito dall’esperimento – piccolo tassello di quel grande apparato tendenzialmente indiscutibile che si chiama Scienza – il soggetto riconosceva l’autorità del “protocollo” e quindi la propria azione obbediente cessava di venir percepita come immorale, ma al contrario appariva legittima e ragionevole.

    Il Grande Esperimento Invalsi

    Torniamo al presente. Ai circa 50mila docenti della scuola primaria impegnati nelle prove Invalsi viene consegnato ogni anno un Manuale del somministratore. I test infatti, per affermazione degli stessi scienziati Invalsi, sono rilevazioni scientifiche che devono svolgersi secondo un rigido protocollocui non si può assolutamente derogare, pena la perdita di validità dei dati raccolti. Così nel Manuale (nel 2017 contava 25 pagine) leggiamo i vincoli organizzativi e metodologici che i docenti somministratori devono far rispettare a tutti i soggetti testati, siano essi sedicenni o bambini e bambine di sette anni. Vediamo alcune di queste regole.

    Prima di tutto l’insegnante viene investito dell’autorevolezza dell’apparato scientifico che organizza il test. In carattere grassetto gli organizzatori dell’esperimento si rivolgono al docente affermando che “in qualità di Somministratore, lei è responsabile della somministrazione di questi strumenti agli alunni della classe che le è stata assegnata”. La scelta dei termini attraverso i quali viene affidato il compito non è certo casuale, la distanza da una pratica didattica è evidente e netta, qui il docente viene interpellato non più come tale, ma come “Somministratore di strumenti”, deve svestire i suoi panni professionali per vestirne altri e compiere azioni cui deve essere guidato. Nessuna autonomia di giudizio può essere concessa: “Lei si attenga in maniera precisa e rigorosa [grassetto nell’originale] alle procedure di seguito descritte” che – sole – permetteranno di “somministrare le prove nel modo indicato nel presente manuale” e di “assicurare che la somministrazione avvenga nei tempi stabiliti”.

    Gli ordini sono perentori e passo passo traghettano l’insegnante dal regno della didattica al regno della scienza statistica, in cui ogni elemento di relazione umana costituisce problema e disturba:

    «Lei dovrà seguire le seguenti regole generali durante la somministrazione:
    NON risponda alle eventuali richieste di aiuto degli alunni sulle domande delle prove cognitive (Italiano e Matematica).
    NON dia alcuna informazione aggiuntiva, indicazione o suggerimento relativamente al contenuto di alcuna delle domande della Prova».

    Qui il manuale è particolarmente insistente, perché le e gli insegnanti hanno nel loro codice deontologico non scritto il principio sacro di aiutare bambine e bambini a comprendere il sapere e la realtà. Derogare ad una richiesta di aiuto in questo senso significa rinunciare a qualcosa che, anno dopo anno, diventa un habitus della personalità di un docente, si incorpora in lei o in lui. Allora il Manuale dedica molti passaggi a questo elemento, arrivando fino a dettare parola per parola ciò che dovrà venire risposto al bambino o alla bambina che si rivolgesse per una spiegazione o un chiarimento:

    «LA MIGLIORE RISPOSTA da dare a qualunque richiesta di aiuto è: ‘Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda. Se ti può essere utile, rileggi le istruzioni e scegli la risposta che ti sembra migliore’».

    Dopo aver proibito ogni tentazione didattica, il Manuale istruisce sulla vigilanza delle prove. Anche qui il testo è molto chiaro, ricorda molto le indicazioni per i concorsi pubblici ma le supera in rigidità disciplinare e burocratica. Così ordina ai somministratori (gli ex docenti): “Prima dell’inizio delle prove si assicuri che gli allievi siano disposti nei banchi in modo che non possano comunicare tra di loro durante lo svolgimento delle prove stesse”; “mentre gli allievi sono impegnati nello svolgimento delle prove, giri costantemente tra i banchi”; “Durante tutte le somministrazioni eserciti una costante vigilanza attiva…”; “gli alunni [devono essere] attentamente sorvegliati”; “È sua responsabilità adottare tutte le misure idonee affinché […] gli allievi non comunichino tra di loro”.

    Se l’obiettivo è impedire la comunicazione (non solo il copiare) tra bambine e bambini, per farlo occorre mettere mano anche agli ambienti. Così “si raccomanda vivamente, nel limite del possibile, che la somministrazione non avvenga nella loro aula, ma in locali appositamente predisposti e di dimensioni tali da consentire di disporre i banchi in file singole e convenientemente distanziati uno dall’altro”. Questa architettura perfetta, che va dai banchi al linguaggio al divieto assoluto di comunicare non può venire modificata neppure per l’urgenza di bisogni fisiologici, tanto che il Manuale accorda il permesso di autorizzare l’uscita del bambino o della bambina “solo in situazioni di emergenza (ad esempio, nel caso si sentano male)”, e quindi non in caso scappi la pipì o la cacca.

    A questo punto, trasformati i docenti in somministratori e sorveglianti e l’aula in una cella di massima sicurezza, l’esperimento può avere inizio con una frase precisa: “Dare il via dicendo ‘Ora girate la pagina e cominciate’”[grassetto nell’originale].

    Ovviamente, come ogni somministratore di esperimenti, l’insegnante deve essere pronto a mentire, sempre per il fine superiore della scienza. Così il Manuale suggerisce di “rassicura[re] coloro che non fossero riusciti a portare a termine la prova” e di “spiegare agli alunni […] se ritenuto opportuno, che non verrà dato alcun voto per lo svolgimento della prova”, anche se ormai moltissime scuole usano le prove come verifiche della materia testata e da quest’anno l’esito delle prove di terza media viene inserito nel curriculum dello studente e farà parte della certificazione sulle competenze del primo ciclo.

    Si arriva all’assurdo della prova di lettura per la classe seconda elementare, che prevede il somministratore con il cronometro e lo svolgimento in due minuti esatti per misurare quante parole vengono riconosciute. In questa prova l’indicazione del Manuale dice una cosa e il suo contrario: “Quando vi darò il via, dovete cominciare la prova vera e propria e cercare di fare più in fretta che potete ma non vi preoccupate se non riuscite a finire”. Ma se non devo preoccuparmi se non finisco, perché mi si cronometra?

    Il protocollo nascosto

    Spesso mi sono chiesto in questi anni: perché un insegnante dovrebbe rinunciare ai propri principi pedagogici e – in fin dei conti – etici, per contraddirli facendo il “somministratore”? Per giunta senza il riconoscimento di alcun emolumento economico. C’è probabilmente il timore delle sanzioni, di essere considerati dei rompiscatole, per alcuni sicuramente c’è la convinzione che questa sia la strada giusta per una rigenerazione di stampo neopositivista della scuola italiana (anche se a quindici anni dall’inizio dei test ho visto molti fervori raffreddarsi). Però ugualmente, per lungo tempo, non riuscivo a capire fino in fondo come facesse ad andare avanti questo Grande Esperimento. Poi mi è tornato in mente Milgram.

    Come le persone interpellate da Milgram, i docenti in questi anni hanno creduto che i soggetti sottoposti alla sperimentazione fossero le alunne e gli alunni delle loro classi, mentre i veri bersagli di questa enorme operazione pseudoscientifica erano loro stessi. Era la loro obbedienza a venire messa alla prova, ad essere osservata e studiata per capire fino a che punto un insegnante medio era capace di rinunciare a principi etici e convinzioni pedagogiche profondamente radicate nel proprio statuto professionale per trasformarsi in un burocrate che eseguiva gratuitamente ordini lontani dalle proprie convinzioni. Questo era il vero, sotterraneo, protocollo dell’esperimento Invalsi. Gli insegnanti italiani sarebbero stati capaci di abiurare alla propria etica e professionalità e divenire “somministratori di test” allontanandosi gratuitamente dalla propria pratica didattica? Era possibile far loro rinunciare al principio cardine di ogni didattica relazionale, cioè indurli a interrompere la comunicazione tra loro stessi e le bambine e i bambini che esprimevano il desiderio di un chiarimento o di un incoraggiamento? Era possibile convincere maestre e maestri a rispondere come automi alle richieste di aiuto didattico di bambine e bambini di sette anni con una frase standard come “Mi dispiace ma non posso rispondere a nessuna domanda”?

    Non sembri solamente un paradosso. Se si pensa alle prove previste per la classe seconda elementare si può comprendere che la burocratica e ubbidiente esecuzione delle indicazioni del manuale assume la forma di un’odiosa imposizione incomprensibile, irrispettosa dei piccoli e delle piccole persone che vengono a scuola per apprendere in una relazione di rispetto e riconoscimento reciproco. Cos’è, per un bambino o una bambina di sette anni, il rifiuto assoluto del permesso di andare in bagno, cui viene anteposto il primato del rispetto dei parametri dell’esperimento? Cos’è l’organizzazione di una prova di velocità di lettura con cronometro alla mano fingendo che la rapidità non costituisca il parametro di giudizio? Dopo decenni nei quali l’amore della lettura viene proposto come piacere da coltivare senza fretta, perché un docente dovrebbe cronometrare i suoi bambini, trasmettendo principi didattici opposti?

    Cos’è l’allontanamento dell’insegnante di classe per rendere più anonima la somministrazione e evitare ogni intervento di aiuto, quando è evidente che la tranquillità di un bambino di quell’età è legata alla presenza dei soggetti adulti con i quali ha costruito un rapporto di fiducia? Anche nella vecchia formula dell’esame di quinta elementare i docenti della classe erano affiancati da altri docenti della scuola, perché la pratica della valutazione fosse condotta in un contesto nel quale la serenità dei bambini non fosse tradita. In questi test invece la preoccupazione per il profilo emotivo dei bambini è inesistente, come fossero quei topolini bianchi chiamati non a caso cavie, e tutta l’organizzazione sembra costruita apposta per imporre uno shock emotivo ai soggetti testati. Perché 50mila maestri e maestre ogni anno accettano di imporre quegli shock emotivi e didattici?

    Perché lo dice la scienza. Perché c’è un protocollo, perché ci sono dirigenti e docenti incaricati che premono da vicino affinché il protocollo non venga interrotto con fastidiosi dubbi etici o inopportuni principi pedagogici, come facevano i (finti) scienziati di Milgram per spronare i soggetti dell’esperimento a spingersi più avanti possibile.

    Ricordo che qualche anno fa l’Invalsi richiedeva di allontanare i bambini diversamente abili dalle classi perché i loro risultati non erano conteggiati e la presenza dei docenti di sostegno poteva disturbare lo svolgimento della prova. Un’amica docente di sostegno affermò che lei sarebbe rimasta in classe con la bambina; di rimando il dirigente la mattina della prova fece spostare tutti i banchi in un’altra classe, lasciando in quell’aula solo il banco della bambina con disabilità.

    Preferisco di no

    Cosa succederebbe se gli insegnanti decidessero di non rinunciare al loro ruolo e presentassero le prove Invalsi senza tenere conto del Manuale del somministratore? Il Grande Esperimento Invalsi si regge sull’obbedienza gratuita dei docenti, cinquantamila ogni anno nella scuola primaria. Se queste maestre e maestri decidessero di far affrontare le prove come fossero semplici pagine di sussidiario? Se decidessero di consentire ai bambini con la pipì di andare in bagno? Se concedessero il tempo di cui ogni bambino ha bisogno per provare a risolvere con calma i quesiti o per leggere con tranquillità il brano previsto, e magari di godersi la lettura? Se incoraggiassero l’aiuto reciproco di fronte alle difficoltà?

    Se così facessero, immediatamente tutto l’esperimento crollerebbe, si affloscerebbe sotto il peso di una macchina burocratica enorme ma priva di colonne atte a sorreggerla. Eppure non dovrebbe essere così difficile rivendicare il diritto di esercitare la propria capacità professionale, di essere umani nei confronti dei propri alunni, di aiutare i bambini e le bambine a comprendere e a svolgere gli esercizi, di farli sentire a proprio agio. Non sono certo azioni di cui ci si dovrebbe vergognare, bensì le basi di una presenza in classe didatticamente produttiva. A volte mi chiedo se un dirigente potrebbe punire un docente perché ha fatto andare al bagno un bambino o perché gli ha spiegato un esercizio che non aveva capito. Caro Milgram, secondo te sarebbe possibile?

    Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

    Il manifesto,



    «Un percorso di letture sul concetto di Governance e la sua evoluzione. Due volumi - molto diversi - di Alain Deneault e di Colin Crouch fanno il punto sulla questione. Il passaggio dal piano economico a quello politico è al cuore del neoliberismo e della postdemocrazia»

    Iltermine ha avuto una antica genesi e una accidentata traiettoria che lo havisto manifestarsi prima in ambito economico e poi in quello politico.Governance ha infatti origine nella teoria dell’organizzazione produttiva ed èstato usato per indicare quelle tecniche di gestione dei rapporti ågarantire la«pace sociale» interna e per contenere i «costi di transazione» delle imprese.In questo modello di gestione, il coordinamento è di competenza del consigliodi amministrazione, mentre distinti sono stati i momenti di incontro e didiscussione tra gli stakeholder, cioè portatori di interesse (i salariati, iconsumatori, i piccoli azionisti, l’indotto produttivo) che devono trovare ilmodo di armonizzare ciò che è potenzialmente conflittuale rispetto le strategieimprenditoriali.
    Lagovernance è quindi l’orizzonte dove collocare tutte le «riforme» organizzativedell’impresa che ha corso però il rischio di essere scalzato da altresuggestioni nella riorganizzazione dei processi lavorativi. A salvare lagovernance dall’oblio è stata la proposta di un modello di gestione deiburrascosi rapporti tra le multinazionali e le popolazione locali nel Sud delmondo. Di fronte la resistenza verso le strategie di espropriazione e di«cattura» – di risorse naturali e di valore economico – le multinazionalipuntavano a recuperare il consenso perduto tra le popolazioni locali,istituendo un «partenariato» con il governo «indigeno» e popolazione locale.Passaggio obbligato era l’accento sulla responsabilità sociale dell’impresa, ilrispetto dell’ambiente e della qualità delle merci prodotte: retoriche cheassumono la dimensione politica delle relazioni che ogni impresa intrattieneall’interno (i rapporti sociali di produzione) e all’esterno al fine direlegarle a un costo di transazione da contenere attraverso misure virtuose diarmonizzazione degli interessi.
    ÈSU QUESTO CRINALE cheil termine acquisisce il significato politico che ne decreterà la sua fortunanella crisi della democrazia rappresentativa, nello svuotamento della sovranitànazionale da parte degli organismi della globalizzazione economica. Lagovernance diviene cioè il modello usato nella costruzione del consenso edell’egemonia da parte del capitalismo neoliberista attraverso un feticismo delPolitico inteso come astratta e oggettiva pratica amministrativa chenaturalizza i rapporti sociali dominanti.
    Èattorno questa migrazione della governance dall’economico al politico che sisnodano due recenti saggi da poco tradotti e pubblicati in Italia. Il primolibro è del canadese Alain Deneault e ha come titolo un secco Governance (NeriPozza, pp. 192, euro 16), ma un esplicativo sottotitolo: Il managementtotalitario. Il secondo saggio è dell’inglese Colin Crouch dal titoloesortativo Salviamo il capitalismo da se stesso (Il Mulino,pp. 102, euro 12). Autori tra loro diversissimi, sia per le loro costellazioniculturali che per la forma di scrittura che prediligono, ma accomunati dallaconvinzione che la crisi della democrazia sia il framework all’interno delquale le politiche predatorie del capitalismo contemporaneo cercano – e spessotrovano – la loro legittimità.
    PERCROUCH ilcapitalismo neoliberista ha così alimentato la formazione di regimi politici«postdemocratici» nei quali i diritti civili e politici sono sì garantiti senzache il loro esercizio possa mettere in discussione il cambiamento radicalenella divisione ed equilibrio dei poteri a favore dell’esecutivo. La«postdemocrazia», costellata da molteplici sliding doors, vede esponentipolitici dismettere i panni del politico per sedere in qualche consiglio diamministrazione di una grande impresa; o, all’opposto, imprenditori accederealla carriera politica senza nessuna soluzione di continuità.
    In questo saggio, lo studioso britannico segnala che il neoliberismo e la suaforma politica – la postdemocrazia, appunto – mettono in pericolo ilcapitalismo stesso. Per questo, invita a una riforma radicale della forma statoe dell’esercizio del potere, innovando le istituzioni della democraziarappresentativa al fine di favorire la partecipazione dei cittadini, attraversouna riqualificazione del welfare state, della funzione regolativa dello Statoimprenditore e il rilancio dei diritti sociali di cittadinanza.
    Lacritica dello svuotamento della democrazia è proprio il punto di congiunzionetra l’analisi di Colin Crouch e quella di Alain Deneault. Questo filosofocanadese ha altri riferimenti teorici di Crouch; diverso è anche il contestosociale dove vive che lo porta a preferire la forma del pamphlet rispettocompassate monografie. Il suo precedente libro tradotto – La mediocrazia (ilmanifesto del 1 febbraio 2017) – è una sferzante critica alla retoricameritocratica propedeutica al consolidamento di un regime sociale e politicobasato su mediocri Yes man. Governance riprende infatti il filo della suariflessione, perché è questa la forma politica che favorisce il governo deimediocri e lo svuotamento appunto della democrazia.
    LOSTILE SINCOPATO diDeneault è propedeutico ad affermazioni apodittiche sull’imperialismo culturaleche favorisce modelli di governance in paesi come Stati Uniti, il Canada el’Europa, ma li «esporta» nella Repubblica democratica del Congo, la Nigeria,il Sud Africa. E sebbene, la governance sia propagandata come sinonimo di softpower, è un modello di governo che manifesta una violenza evidente quando vieneassunto come dispositivo politico contraddistinto dal «partenariato» tra pubblicoe privato a favore di quest’ultimo. Governance significa alloraistituzionalizzazione di meccanismi di esclusione per tutti coloro chedissentono dal punto di vista dominante – quello delle imprese e dellemultinazionali – attraverso una continua valutazione dell’operato dei singoli elo sviluppo di una vera e propria antropologia della leadership che trae la sualegittimità nell’amplificare l’imperativo della performance e della trasparenzatra tutti i partecipanti agli organismi di governance.
    DAQUESTO PUNTO divista – convergente con le tesi di Colin Crouch sulla postdemocrazia – ognitentativo di democrazia partecipativa deve essere vanificato o relegato adelementi insignificanti e marginali nella gestione della cosa pubblica. Nellagovernance, e qui Deneault rivela la sua nostalgia per la sovranità popolare ela rappresentanza politica, la buona democrazia è quella che favorisce ilpotere costituito, relegando a bizzarria ed eccentricità la pretesa che la vedecome il regime politico che esprime il «potere del popolo».
    Rilevantesono infine le pagine che contestano l’interpretazione di Michel Foucault comefilosofo del neoliberismo. Alain Deneault ricostruisce i passaggi operati daiteorici della governance neoliberista dal termine governamentalità al terminegovernance. La governamentalità di Foucault, sintetizza l’autore, non èl’apologia della governance bensì la radiografia critica, cioè sovversiva,delle forme di biopotere (la figura pastorale dello Stato o il tema dei corpidocili votati all’obbedienza ne sono alcuni degli esempi proposti). Da qui ilgiudizio della governance come «meccanica disumana di un totalitarismo senzavolto».
    ALDI LÀ DEI TONI edello stile enunciativo dei due autori, i loro saggi affrontano il nodo delleforme del Politico emerse nella grande trasformazione neoliberista. Sicollocano, cioè, su un sentiero di ricerca che dovrebbe però toccare altreesperienze di governo della società per sfuggire il rischio di unoccidentalismo seppur critico. Poco e nulla viene infatti dettagliato su comeregimi postdemocratici – per esempio quello indiano o cinese – si pongano ilproblema di come prevenire forme di conflitto presenti nella società; e di comeattuare la cooptazione delle forme di autorganizzazione della società civile.
    Lasocietà armoniosa proposta da Pechino o la dinamica modernizzatrice promossa inIndia sono modelli di governance che non assecondano né lo svuotamento dellasovranità nazionale, come accade invece in Canada o nel vecchio continente. Enon contemplano neppure le figure degli stakeholders, facendo semmai levasull’invenzione di identità e di comunità immaginarie. Sono cioè varianti delmodello di governance piegate a specificità continentali, dove il soft powermanifesta tuttavia la stessa violenza celata dietro il velo dell’interessegenerale.

    il manifesto, 27 aprile 2018. postilla

    Come ampiamente documentato sul sito online Roars , dal prossimo giugno maestri e docenti della scuola elementare e media dovranno certificare le competenze dei loro allievi, utilizzando i nuovi modelli nazionali predisposti dal Ministero dell’istruzione.

    Per i ragazzini delle medie, la scheda di certificazione conterrà una parte dedicata alle 8 competenze europee redatta dai loro insegnanti ed una parte a cura dell’Invalsi, che registrerà i risultati ottenuti ai test di Matematica, Italiano ed Inglese, diventando di fatto fonte privilegiata di informazioni pubbliche sui livelli di apprendimento del singolo allievo.

    Per i bambini delle elementari, la scheda di certificazione è riferita alle otto competenze europee, tra cui proprio quella denominata «spirito di iniziativa e imprenditorialità», che in Italia è diventata semplicemente «spirito di iniziativa», pur mantenendo in nota il riferimento originario all’entrepreneurship, l’imprenditorialità. I consigli di classe delle varie scuole del paese dovranno adoperarsi per «testare» la capacità di «realizzare progetti», essere «proattivi» e capaci di «assumersi le proprie responsabilità» fin da piccoli.

    Fin da bambini «in una logica di verticalità», spiega la recente circolare ministeriale che suggerisce «percorsi di educazione all’imprenditorialità nelle scuole superiori», è importante orientare gli studenti verso «una forma mentis imprenditoriale», l’ «assunzione del rischio» e delle «proprie responsabilità». Tutte cose utili non solo per diventare imprenditori veri e propri – si chiarisce – ma in qualsiasi contesto lavorativo e di cittadinanza attiva. Il futuro cittadino-imprenditore globale, suggerisce la letteratura economico-educativa internazionale, va costruito fin da piccolo.

    «Starting strong», scrive l’Ocse nella recente pubblicazione Early Childhood Education and Care, dove parole nobili come educazione e cura, non sono più diritti universali dell’infanzia di ciascuno, ma mezzi e strategie finalizzate e re-interpretate in funzione di un obiettivo: «gettare le fondamenta dello sviluppo di skills». Il futuro cittadino transnazionale è cittadino solo se attivo. Nei documenti scolastici la parola cittadinanza non esiste più, se non in concomitanza del termine «attiva». La qualificazione è diventata da qualche tempo necessaria, come se non potesse esistere un cittadino in-attivo, in-competente: un cittadino contemplativo, che non produce nulla. Che gioca, legge, colora, perde tempo. Almeno alle scuole elementari.

    L’approccio alla realtà, competitiva e perennemente incerta. Il report europeo da cui nasce il modello Entrecomp, quadro europeo di riferimento per l’educazione imprenditoriale richiamato dalla normativa ministeriale, si pone il problema pedagogico – come insegnare l’imprenditorialità – in un paragrafo specifico: «La componente conoscenza non rappresenta una sfida per l’educazione imprenditoriale metodi come letture o elaborazione delle informazioni non sono appropriati». Continua: «Elementi di competitività vanno introdotti gradualmente dalla primaria alla secondaria, per dare agli allievi l’opportunità di convalidare le loro idee e l’ambiente imprenditoriale/di start up [in cui operano]». Il paradigma della competitività, pilastro concettuale del manifesto La Buona Scuola fin dalle premesse – dove si afferma che «bisogna dotarsi di quel capitale umano per tornare a crescere, competere, correre» – è alla base del pensiero imprenditoriale.

    Insegnare a pensare, ragionare e progettare in maniera imprenditoriale significa in sintesi: stabilire un equilibrio ambivalente e schizofrenico tra cooperazione e competizione; sviluppare la capacità di ridefinire continuamente i propri obiettivi; gestire l’incertezza in una realtà non predicibile e non controllabile.

    Il paradigma pedagogico è ormai esclusivamente quello economicistico, in una cornice di vero e proprio darwinismo sociale. Come scrive Sarasvathy, autore di riferimento del cosiddetto effectuation approach, richiamato dal Sillabo europeo :«Un imprenditore sa che le sorprese non sono deviazioni dal cammino. Sono la norma, la flora e la fauna del paesaggio da cui ciascuno impara a forgiare il proprio percorso nella giungla».

    Siamo proprio convinti di voler introdurre, fin dalle elementari, un simile atteggiamento nei confronti della vita e del futuro? Di trasformare l’infanzia in un “paese dei mostri selvaggi” le cui cifre più profonde siano l’incertezza e la destrezza, la competitività, l’arrivismo? L’arte di vendersi imparata sui banchi di scuola?

    Dovrebbe essere noto. Alla macchina del “pensiero unico”, strumento essenziale per il dominio del neoliberisomo, l’intellettuale vero fa paura. Infatti dovrebbe essere una persona che aiuta a comprendere come va il mondo, perché va male e come si dovrebbe cambiarlo perché vivessero meglio le persone, e gli altri esseri, che lo popolano o lo popoleranno, . Quindi il suo requisito essenziale dovrebbe essere il pensiero critico. Dovrebbe saper vedere, e raccontare, non solo la verità delle cose così come esse vengono esposte dai predicatori del “pensiero unico”, ma soprattutto quelle che dietro le apparenze si nascondono.
    La realtà è complessa: è figlia di una moltitudine di culture, filosofie, condizioni storiche e sociali. Quindi il primo compito per i padroni del “pensiero unico” è semplificarle: ridurre la cognizione e il giudizio in un sistema binario. Il padrone, e per lui il sistema Invalsi, sulla base del quale si valuta (e quindi si progetta e si costruisce) il processo formativo ti presenta un insieme ricco e articolato di domande, a ciascuna delle quali puoi rispondere solo SI oppure NO.

    la Repubblica,

    Il governo non c’è, le Camere ci sono però immobili, come la Bella addormentata. E nel frattempo il potere dove sta, dove si trova? Il potere è altrove, disse Sciascia nel 1983, chiudendo la sua breve esperienza da deputato. Aveva ragione, rispetto ai potentati economici e sociali che condizionano la nostra vita pubblica. Aveva torto, rispetto al cuore pulsante delle istituzioni. Che batte pur sempre in seno alle assemblee parlamentari, anche quando l’aula è vuota. E che trae linfa da altri organi, se il circuito principale s’interrompe, come succede durante una crisi di governo.

    È il caso, innanzitutto, del Consiglio supremo di difesa. Nessuno ne conosce l’esistenza, oltre la schiera degli addetti ai lavori. Eppure, in questa crisi siriana, potrebbe dettare la parola decisiva. Perché le sue competenze vertono sulla politica militare dello Stato, come stabilisce la legge istitutiva del 1950. Perché nella prassi, dopo la presidenza Ciampi e soprattutto quella di Napolitano, il ruolo di quest’organismo è divenuto sempre più incisivo. E perché, nell’interregno fra vecchio e nuovo esecutivo, il suo spazio non può che dilatarsi, come l’acqua d’un fiume quando si rompono le dighe.
    Dopotutto l’horror vacui costituisce una legge non scritta delle istituzioni, non solo della fisica.
    Chi ne fa parte? Il capo dello Stato, che ne è pure il presidente. Una manciata di ministri. Il capo di Stato Maggiore della difesa. Ma altresì, su invito, i vertici dell’esercito, della marina, dell’aeronautica. Tutte istituzioni che incarnano la continuità della Repubblica italiana, nonostante la discontinuità della politica italiana. E presiedute, non a caso, da un’istituzione indifferente all’altalena dei governi. Anzi: quando c’è un vuoto di potere s’espande il potere del presidente della Repubblica, sicché quest’ultimo diventa il «reggitore dello Stato», come diceva Schmitt, e dopo di lui Esposito.
    Quanto alle Camere, quaranta giorni dopo le elezioni sono tuttora orfane dei loro strumenti principali: le commissioni permanenti, il cui apporto è indispensabile nel procedimento di formazione delle leggi. In base a una prassi sempre osservata nelle ultime cinque legislature, per costituirle s’attende infatti l’insediamento del nuovo esecutivo. Le ragioni sono tre: perché ciascuna commissione è il dirimpettaio parlamentare d’un ministero, ne rappresenta insomma il controllore, e allora meglio evitare che ministro e presidente di commissione appartengano al medesimo partito; perché non si sa ancora chi stia in maggioranza e chi all’opposizione, quindi è impossibile assegnare alla prima l’Ufficio di presidenza nelle varie commissioni; perché in ogni caso, senza un governo che abbia ricevuto la fiducia, l’attività parlamentare si riduce all’osso.
    Ragioni insormontabili? Dipende. L’ 11 aprile 2013, durante l’avvio della legislatura scorsa, s’accese un dibattito presso la Giunta per il regolamento della Camera; e in quella sede il deputato Toninelli sostenne l’esigenza «indifferibile» di rendere le commissioni subito operanti. Lui, adesso, è il capogruppo dei 5 Stelle al Senato, il suo partito ha guadagnato la presidenza della Camera, ma a quanto pare l’urgenza si è rivestita di pazienza. Tanto c’è sempre la Commissione speciale sugli atti urgenti del governo, che appare come la Fata Morgana al battesimo d’ogni legislatura: il Senato l’ha istituita il 28 marzo, la Camera una settimana dopo, scatenando l’ira funesta del Pd, escluso dalla tolda di comando.
    Ma che ha di speciale questa Commissione speciale? E perché i partiti s’accapigliano per prenderne il timone? È un organismo temporaneo, sempre che la crisi di governo sia davvero temporanea. E ha competenze circoscritte all’esame dei decreti varati dal Consiglio dei ministri, tuttavia si può allungare la lista della spesa. Così, Fratelli d’Italia ha chiesto che la Commissione s’occupi della nuova legge elettorale, ricevendo un niet. Però non si sa mai, magari nel prossimo futuro scatterà il verde del semaforo, se la crisi s’avvita su se stessa. Ciò che sappiamo fin da adesso è che il potere ha cambiato domicilio, e che per il momento dimora in luoghi misteriosi come la Commissione speciale o il Consiglio supremo di difesa. La vittima di questa lunga crisi si chiama trasparenza.

    Nigrizia, 10 aprile 2018.

    «Si impedisce il libero dibattito, si fomenta l’intolleranza, si attaccano i movimenti sociali. Coinvolta una parte del potere giudiziario e anche segmenti del potere militare. Occorre reagire con la nonviolenza».

    In un momento estremamente complicato della vita politica e delle relazioni sociali in Brasile, è necessario prendere una posizione. Soprattutto noi che dedichiamo la vita affinché tutte le persone e la Creazione abbiano vita piena. Non intendo entrare nell’analisi delle specifiche decisioni giuridiche, e neppure dichiararmi in maniera assoluta sulla performance politica o l’onestà di questo o quel partito. Vediamo però il susseguirsi dei fatti negli ultimi anni, la disparità di trattamento riservata agli attori della scena politica, le analisi degli osservatori indipendenti.

    Prendo decisamente le distanze dal fanatismo partigiano che in questi anni ha influenzato mente e cuore di molta gente in forma viscerale e aggressiva. Allo stesso modo non intendo difendere acriticamente le decisioni e la gestione delle coalizioni di governo. Per molti di noi però è chiaro che il susseguirsi di decisioni – dall’“impeachment” di Dilma Rousseff fino al mandato d’incarcerazione per l’ex presidente Lula – evidenzia un progetto di demolizione dei diritti collettivi acquisiti a prezzo di molte lotte e di una forte organizzazione popolare. Una parte molto influente del potere giudiziario e, più recentemente, del potere militare, mostrano di essere a servizio di questo progetto.

    Sono preoccupato dal livello di violenza e intolleranza che si sta diffondendo tra la gente tramite i mezzi di comunicazione sociale e la manipolazione della verità tramite i social. L’odio che si sta concentrando su figure storiche, istituzioni e movimenti sociali impedisce ogni forma di dibattito, di approfondimento e di sano discernimento partendo da vari e legittimi punti di vista su un progetto di società.

    È così, invece di promuovere politiche che cerchino la promozione dei diritti collettivi e la garanzia di una buona qualità della vita per tutta la popolazione, la politica è ridotta a una disputa pro o contro una sola persona. Questo clima di divisione e lotta fomenta il fanatismo e favorisce unicamente di progetto di disfacimento del paese.

    In prigione o libero, l’ex presidente Lula rappresenta un progetto storico e politico che ha il diritto di essere valutato dai brasiliani attraverso una votazione popolare. Siamo contrari a ogni forma di violenza, ma sosteniamo fermamente la posizione di chi difende questo diritto.


    «Ma la democrazia parlamentare ha bisogno di parlamentari consapevoli del loro ruolo. Per sapere come si sta e cosa si fa»

    Giovanni Sartori, Il sultanato, Laterza editori 2010, 9,00 €


    Classico è, per Italo Calvino, quel libro o quell'autore che "non ha mai finito di dire quel che ha da dire". Non è un caso che mi sia tornata alla mente questa definizione mentre pensavo alla figura intellettuale di Giovanni Sartori. Ormai è un anno che non possiamo più ascoltare dalla sua viva voce o leggere dalla sua vivace penna quello che pensa della situazione politica italiana e della nostra malandante democrazia. Ma a pensarci bene Sartori – che classico lo è già a buon diritto – ha ancora tante cose da dire e da insegnare. È sufficiente (ri)leggerlo. Così ho pensato che potrebbe essere utile, come facevano gli antichi greci con i loro oracoli, tornare a consultare le opere e i pensieri di Sartori per avere alcune illuminazioni sul presente e, perché no, sul futuro.

    La prima questione – mi perdoneranno i lettori – è di strettissima attualità e forse neppure Sartori vorrebbe essere disturbato per una piccolezza tanto piccola. Però, visto che in questi giorni si fa un gran parlare, spesso a vuoto, di accordi di governo, improbabili alleanze e possibili ri-elezioni, forse vale la pena chiedere un rapido consulto. In questo caso, la risposta del politologo fiorentino è molto secca: di fronte a un'elezione "indecisiva" (come quella che gli capitò di commentare nel 2006) evitate la "frenesia del rivotismo" (Il sultanato, 5 gennaio 2006) e tornate alle sane "regole del sistema parlamentare, o rischiamo davvero di sprofondare nel nulla" (Il sultanato, 20 aprile 2006). La medicina del rivotare si regge sulla premessa che se il popolo vota uno stallo, allora ha votato "male" e deve tornare alle urne finché non voterà "bene". Se è così, è evidente che il rivotismo è una cura che non cura, e anzi rischia di aggravare ancora di più il problema, ingessando o irrigidendo le posizioni dei partiti.
    Ma se il rivotare fa male, qual è la ricetta alternativa? Cioè: se il popolo sovrano non ha prodotto una maggioranza chiara e auto-sufficiente, che si fa? Il responso di Sartori è tutt'altro che sibillino: se quella maggioranza non c'è, "allora il sistema parlamentare rinvia la soluzione dello stallo, appunto, alla sovranità del Parlamento. Punto e finito qui. Il di più viene dal maligno" (Il sultanato, 6 marzo 2007). Bisognerebbe dirlo ora a tutti i maligni che si sono arroccati a difesa dei loro gruppi parlamentari, rifiutando il confronto o, peggio, addirittura il contagio con le altre forze politiche.

    In ogni caso, la soluzione sta nel sistema parlamentare, che è un "gioco" con le sue regole da conoscere e praticare. Ma il problema italiano non è tanto delle regole, ma dei "giocatori" che quelle regole non intendono affatto ri-conoscerle. Qui nasce l'inghippo: perché è davvero difficile far funzionare una democrazia parlamentare senza parlamentari consapevoli del loro ruolo e delle loro funzioni. Quando il Parlamento è svuotato della sua sovranità, che consiste anche nella ricerca-formazione di una maggioranza di governo, allora la democrazia parlamentare diventa un guscio vuoto o un misnomer: una definizione che mal definisce.

    Purtroppo, dopo tanti anni di malinteso bipolarismo – che, nella sua variante italica, Sartori non ha mai smesso di criticare – è difficile tornare alle buone pratiche del parlamentarismo. Il che consentirebbe, con la pazienza necessaria in queste circostanze, non solo di individuare una via di uscita allo stallo attuale, ma soprattutto di insegnare ai tanti neofiti della democrazia parlamentare come si sta e cosa si fa in Parlamento. Si tratterebbe inoltre di una soluzione pedagogica, utile per chi ancora pensa che si possa esaltare la "centralità del Parlamento" imbavagliando deputati e senatori con il vincolo di mandato. E ancora più utile se l'obiettivo è – come dovrebbe essere – di spingere alcune forze politiche ad uscire dal loro infantilismo politico per farle entrare in una sempre benvenuta maturità democratica.

    Fin qui, sull'Italia e sulla politica italiana. Ma quando ci si confronta col pensiero di Sartori è inevitabile volare un po' più alto per superare i confini della politica nazionale e del suo chiacchiericcio quotidiano. La curiosità va allora allo stato della democrazia e soprattutto al suo futuro. Stavolta però la risposta di Sartori si fa meno categorica e più dubitativa: la democrazia è sempre una "ideocrazia" (cioè, costruita sulle idee, dove le idee contano e si confrontano) e la sua qualità così come la sua sopravvivenza dipendono delle teste che dovrebbero pensarla e capirla. Che è come dire che il futuro della democrazia è nelle nostre mani/menti.

    Ma è proprio qui che cominciano i guai, che sono per di più di duplice natura. Da un lato, c'è il problema delle élite politiche, che hanno barattato la competenza (il sapere) con l'obbedienza (il potere), abdicando così al loro ruolo dirigente per rincorrere i sondaggi o gli umori del momento. Con il rischio di dar vita a democrazie irresponsabili nelle quali il presente si mangia il futuro. Dall'altro lato, si trova, invece, il problema della qualità dell'opinione pubblica e, in particolare, delle modalità attraverso le quali i cittadini ricercano o ricevono le informazioni. È il grande tema della democrazia della (nella) rete e, soprattutto, di chi controlla il flusso di informazioni su cui i cittadini formano oggi le loro opinioni. Era un tema già scottante per l'homo videns sartoriano, che sa solo quel che vede, ma che ora esplode tra le pieghe del web, dove l'homo navigans corre il rischio di sapere solo quello che i motori di ricerca gli suggeriscono di sapere.

    Di fronte a queste nuove sfide per la democrazia, non esistono soluzioni facili o scorciatoie a buon mercato. Chi le promette, promette il falso. E il miglior antidoto contro il semplicismo di queste promesse rimane la lettura, lo studio, l'analisi – anche critica, se si è capaci – delle opere di Giovanni Sartori.

    il manifesto,

    Nell’era dei paradossi accade che mai la società umana ha prodotto tanta ricchezza e mai così alto è stato il numero di chi muore di fame. Più tecnologia e conoscenze produciamo e più ci avviciniamo alla soglia della catastrofe ambientale e nucleare. Mai abbiamo avuto tanti mezzi di informazione, tanta facilità di comunicazione in tempo reale e contemporaneamente tanta ignoranza a livello di massa. Naturalmente con conseguenze enormi sul piano politico.

    La nostra visione del mondo si basa essenzialmente sulla percezione e, ad esclusione degli addetti ai lavori, su qualunque fenomeno sociale del nostro tempo la coscienza collettiva si forma solo sulla percezione. L’ultimo delitto visto in televisione, ripreso dalla stampa, dibattuto sui talk show. Stragi di donne, tragedie familiari, giovani uccisi da assassini che restano ignoti: è il piatto forte dei telegiornali Tg. Chi sa che siamo, insieme alla Grecia e Malta, il paese europeo con il più basso tasso di omicidi? Malgrado mafia, camorra e ‘ndrangheta viviamo in un paese tra i più tranquilli dell’Unione europea, che a sua volta è un’area tra le meno violente del mondo relativamente ai fatti di cronaca nera.

    Stesso discorso vale per i migranti. Quando chiedo ai miei studenti quanti sono gli immigrati in Italia, la maggior parte pensa che siano tra il 30 e il 40 per cento della popolazione italiana. Una vera e propria invasione! Quando gli comunichi che non arriva al 9 per cento, una delle percentuali più basse della Ue, rimangono perplessi e increduli. Se questo succede nelle aule universitarie, possiamo immaginare cosa accade fuori. Solo una estrema minoranza conosce la realtà, approfondisce i dati, ha un approccio scientifico alle questioni più delicate e importanti del nostro tempo.

    Anche in passato l’umanità ha convissuto con una percezione falsa della realtà. Siamo stati convinti per millenni che il sole girasse intorno alla terra, così come pensavamo che gli animali e le piante fossero stati creati con le attuali fattezze fin dalla notte dei tempi. Galileo, Darwin e altri scienziati ci hanno convinto che la nostra percezione era falsa, ma ci sono voluti molti decenni, qualche volta secoli.

    Credo che in questa fase della storia umana sia diventata una necessità di prima grandezza diffondere un approccio scientifico ai fenomeni sociali, economici e politici. Non tutti possiamo diventare scienziati, ma tutti possono avere a disposizione una cassetta degli attrezzi che faccia leggere in maniera non superficiale, istintiva la realtà sociale. Abbiamo bisogno di giornalisti, artisti, docenti, educatori – a partire dalla scuola elementare– capaci di costruire uno spirito critico, per aiutare a selezionare le informazioni, a difendersi dal bombardamento mediatico. Non a caso stanno distruggendo definitivamente il ruolo della scuola come palestra di idee e individui pensanti, per questo è ricorrente l’idea di abolire la Tv pubblica che ancora riserva qualche spazio all’approfondimento.

    E’ un’onda reazionaria che coinvolge l’Europa, e la risposta non può essere cercata nel breve periodo o in un cambio del brand politico. Si tratta piuttosto di una sfida antropologica: il profilo di essere umano costruito da questo modo di produzione capitalistico nell’era dell’iperinformazione/deformazione della realtà.Non dimentichiamo che una parte preponderante della sinistra storica aveva le sue basi nel marxismo, una visione che tentava di interpretare la storia con un metodo scientifico.

    Forse è proprio da quell’approccio che dovremmo ripartire, in maniera non meccanicistica, per contrastare il mix di razzismo-neoliberismo che ha impregnato la gran parte della società contemporanea.

    E’ il terribile e reale rischio di far trionfare il «disumano», denunciato più volte da Marco Revelli, con cui dobbiamo fare i conti prima di pensare alle alchimie dei governi e dei partiti. E’ quel «restiamo umani!», quel grido disperato di un grande testimone del nostro tempo, come Vittorio Arrigoni, che ci deve spingere a spendere le nostre migliori energie, ognuno secondo le proprie capacità, per far riemergere l’umanità dentro la nostra società.

    il Fatto quotidiano,

    Stuoli (sic) di giornalisti equamente divisi fra filo-Pd e filo-Forza Italia che si preparavano a suonare la grancassa per la Grande Coalizione Arcore-style mi hanno accusato di essere filo-5 Stelle poiché ho sostenuto che le “carte“ di Di Maio, nonostante gli sgarbi quotidiani, il Pd doveva (deve) chiedere di vederle. Soprattutto, ho twittato che l’imposizione preventiva del rifugio nell’opposizione da parte del due volte ex segretario Renzi è assimilabile all’eversione delle regole, delle procedure, del funzionamento della democrazia parlamentare. I sostenitori di Renzi, parlamentari e giornaliste amiche, sostengono che sono gli elettori ad averli mandati all’opposizione. Nel frattempo, però, qualcuno nel Pd sta ridefinendo la posizione, troppo poco, troppo lentamente.

    Naturalmente, è del tutto sbagliato sostenere che gli elettori hanno mandato il Pd all’opposizione. Gli elettori italiani non votavano sul quesito Pd al governo/Pd all’opposizione. Nessun elettore in nessuna democrazia parlamentare ha un voto di governo e/o un voto di opposizione. Comunque, gli elettori che hanno votato Pd volevano conservarlo al governo del Paese. Che adesso l’ex segretario del Pd interpreti il voto al suo partito come rigetto della sua azione di governo è confortante, ma troppo poco troppo tardi. Ed è sbagliato pensare che quegli elettori non desidererebbero, a determinate condizioni, che possono essere costruite, vedere il loro partito in posizioni di governo a temperare il programma degli alleati e a tentare di attuare parti del suo programma.

    Quando ascolto molti parlamentari del Pd ripetere senza originalità quello che ha detto Renzi, mi infastidisco. Subito dopo mi interrogo e capisco. Siamo di fronte a un’altra conseguenza nefasta della legge Rosato. Non fatta per garantire qualsivoglia variante di governabilità, la legge Rosato non è stata, ma era prevedibile, neppure in grado di dare rappresentanza all’elettorato. I parlamentari eletti non hanno dovuto andarsi a cercare i voti. La loro elezione dipendeva dal collegio uninominale nel quale erano collocati/e e dalla eventuale frequente candidatura in più circoscrizioni proporzionali. Come facciano questi/e parlamentari a interpretare le preferenze e le aspettative di elettori che non hanno mai visto, con i quali non hanno mai parlato, ai quali non torneranno a chiedere il voto, potrebbe essere uno dei classici, deprecabili misteri ingloriosi della politica italiana e di leggi elettorali, come la Rosato. Formulata e redatta con precisi intenti particolaristici: rendere la vita difficile al Movimento 5 Stelle, creare le condizioni per un’alleanza Pd-Forza Italia, soprattutto consentire a Renzi e Berlusconi di fare eleggere esclusivamente parlamentari fedeli, ossequienti, totalmente dipendenti, per questi obiettivi, ma solo per questi, la Rosato ha funzionato. Adesso sì che i conti tornano. Il Pd va all’opposizione, almeno per il momento, perché lo dice, lo intima il capo che ha fatto eleggere la grande maggioranza dei deputati e dei senatori.

    Costoro, da lui nominati, dovrebbero dichiarare candidamente che seguono le indicazioni-direttive, non degli elettori, ma di Renzi. Naturalmente, nonostante tutta la mia scienza (politica), neppure io sono in grado di dire che cosa preferiscono gli elettori del Pd.

    Sono i dirigenti del Pd, meglio se nell’Assemblea del Partito, quindi non precocemente, che debbono decidere, ma dirigenti non sono coloro che si accodano alle preferenze inespresse e che seguono opinioni e sondaggi scarsamente credibili poiché fondati su ipotesi. Dirigenti/leader sono coloro che precisano le alternative, le dibattono, le scelgono, le confrontano con le proposte degli altri. Poi, se il Pd è un partito (e non un grande gazebo come vorrebbero coloro che stanno chiedendo già adesso fantomatiche primarie che servono a scegliere le candidature, per il parlamento non le ho viste, non i programmi) sottoporrà ai suoi iscritti, come hanno fatto i socialdemocratici tedeschi, un eventuale programma di governo concordato con altre formazioni politiche. Questa è la procedura democratica attraverso la quale si giunge al governo o si va all’opposizione. Il resto è fuffa/truffa.

    la Repubblica, 28 marzo 2018. Matteo Renzi ha rottamato. Ma così piccolo, e così inconsapevole, che non provoca molte speranze

    Nello zoo delle nostre istituzioni è riapparso un animale che credevamo estinto: il Parlamento. Soffocato durante la lunga stagione bipolare dalla dittatura dei governi, con un presidenzialismo di fatto se non anche di diritto. Imbavagliato dai decreti legge, dall’abuso dei voti di fiducia (108 nei 57 mesi della legislatura scorsa), da canguri, ghigliottine e altre diavolerie procedurali inventate per bloccare il dibattito in aula. Deformato nella sua capacità di rappresentare gli italiani dai premi di maggioranza, concessi in dote a questo o a quel partito. Screditato dal trasformismo degli eletti (566 cambi di casacca nell’ultimo quinquennio: un record). Infine preso in ostaggio da leader che abitavano fuori dalle aule parlamentari (nella XVII legislatura fu il caso di Grillo, Berlusconi, Renzi).

    E adesso? Intanto il Parlamento che si è appena insediato vanta tre primati assoluti. Perché è il più giovane della storia repubblicana (con un’età media di 44 anni alla Camera, 52 al Senato). Perché ospita il maggior numero di donne (34,6%: il doppio rispetto al 2008, 4 punti percentuali in più rispetto al 2013). E per il suo tasso d’innovazione, dato che il 65% dei parlamentari sono new entry rispetto alla legislatura scorsa. Non è poco, in un tempo segnato dai furori popolari contro la “casta” dei palazzi romani; giacché questo triplice primato raccoglie quantomeno una domanda di ricambio, d’apertura. Tanto più che alla presidenza del Senato ora siede una donna, ed è un’altra prima volta. Anzi: è l’incarico più alto mai conquistato da una cittadina italiana nell’architettura dello Stato.
    E a proposito dei nuovi presidenti delle Camere. La loro rapida elezione suona come una prova d’efficienza, oltre che di disciplina nelle votazioni. Non era previsto, non era scontato.
    Del vecchio Parlamento si ricorda l’impasse durante l’elezione del capo dello Stato, con i 101 franchi tiratori che nel 2013 tradirono Prodi. Ma si ricordano altresì i veti incrociati che sulle prime impedirono la scelta dei timonieri di Montecitorio e di palazzo Madama. Fu la pensata notturna d’un capopartito (Bersani) a sbrogliare la matassa. Stavolta no, nessuna decisione solitaria. L’elezione di Fico e Casellati scaturisce da una strategia comune fra leader d’opposti schieramenti. È dunque un successo della democrazia parlamentare, giacché quest’ultima - diceva Kelsen - esige un compromesso permanente, un reciproco parlarsi ed ascoltarsi.

    C’entra qualcosa la nuova legge elettorale col vento che all’improvviso spira sulle Camere? Probabilmente sì, nonostante tutti i suoi difetti. Perché il Rosatellum ha un impianto proporzionale, dopo 25 anni di maggioritario. E perché il proporzionale genera un clima favorevole al negoziato fra i partiti, senza maggioranze artificiose, senza un sospetto di carte truccate. Del resto, con tre forze più o meno equivalenti, il negoziato è d’obbligo, non c’è altra soluzione. Specie se ciascun attore è minoranza rispetto agli altri due.
    Eccolo infatti il responso delle urne: la geografia politica disegna tre grandi minoranze. E nessuna maggioranza autonoma in nessuna assemblea legislativa (la volta scorsa, invece, il Pd controllava la Camera). Ma dov’è la casa delle minoranze? Nel Parlamento, non certo nel governo, cui l’opposizione non ha accesso. Quindi il Parlamento torna ad essere il fulcro del sistema, il suo baricentro, come nei gloriosi anni Settanta.
    Sarà per questo che il presidente Fico, nel suo primo discorso, ha evocato la « centralità » del Parlamento, ripetendo uno slogan che sembrava consegnato agli archivi della storia. Sarà inoltre la sua fresca esperienza sui banchi dell’opposizione che l’ha spinto a promettere tutela per ogni opposizione, rifiutando le scorciatoie e gli strappi del passato. E sarà forse l’esempio del Senato - che ha corretto il proprio regolamento sul volgere della legislatura scorsa - a spronare anche la Camera verso un’analoga riforma, come ha annunziato, per l’appunto, il suo nuovo presidente. In ogni caso, d’ora in poi lo spazio parlamentare si dilata, mentre l’esecutivo finirà per dimagrire. Significa che l’opposizione potrà ben esercitare un ruolo attivo, al di là della mera testimonianza. Potrà farlo il Pd, sempre che non vada all’opposizione di se stesso. Ma l’ultimo paradosso della democrazia italiana è esattamente questo: il sistema (parlamentare) salvato dai partiti antisistema.

    la Stampa,
    «Oggi manifestazioni di massa in tutto il Paese, Trump nel mirino. "Questo movimento sarà come il pacifismo mezzo secolo fa"»

    Se la marcia fosse stata convocata, con la macchina del tempo, 50 anni fa, nel mitologico 1968, l’appuntamento sarebbe stato certo al West End, il bar di fronte alla Columbia University, dove la generazione beat di Allen Ginsberg intagliava versi sui tavoli di legno, e le speranze degli attivisti per i diritti civili e la pace in Vietnam si affilavano con una birra Budweiser.

    Almeno finché Mark Rudd, lo studente di Columbia militante negli Students for a Democratic Society, Sds, che avevano approvato nel 1962 il Manifesto di Port Huron, redatto dal futuro marito di Jane Fonda Tom Hayden - giustizia e democrazia per il XX secolo - non lasciò il bar, per andare a cena pochi isolati a sud di Broadway, al Red Building.

    Là, in un’atmosfera da Soviet a Mosca 1920, vecchi intellettuali marxisti epurati al tempo della caccia alle streghe di McCarthy, col basco esistenzialista in testa, lo convertirono al comunismo, «basta con il pacifismo, serve lotta armata», un verso di Bob Dylan gli fece fondare i Weathermen Underground, finiti poi nel sangue, le bombe, il terrorismo, con Rudd latitante.
    Questo passato della New Left americana, tatuato in ogni passo nell’Upper West Side di Manhattan, dalle rivolte di Harlem e di Columbia, alla marcia del reverendo King per la pace in Vietnam al plebiscito contro Nixon, non è affatto amato dai ragazzi che oggi, dall’incrocio con la 72esima strada, partiranno per la March for our lives, la protesta di una generazione contro le armi facili in America.

    Alla testa del corteo di New York, la giornata di contestazione è nazionale con un grande comizio a Washington, marcerà Alex Clavering, che nel 2020 si laureerà in legge alla Columbia. Alla radio del campus racconta «Quando ho sentito della sparatoria a Parkland, in Florida, ho pensato ai miei ragazzi, ho fatto l’insegnante in Malesia come borsista Fulbright. E se fossero caduti loro?». Alex non è andato al bar West End a ciclostilare come ai tempi delle «migliori menti della mia generazione» cantate da Allen Ginsberg nel poema «Urlo», e del resto il quartiere è mutato, tra sushi bar e palestre di Tai Chi, West End non esiste più, come Luncheonette, il bar edicola dove si faceva politica e il padrone serviva le uova al tegamino, scoprendo sull’avambraccio il numero tatuato ad Auschwitz. Ha preferito aprire una pagina Facebook con 30 amici, invitandoli all’impegno.

    Ma - e qui Dylan suona ancora a proposito -, i tempi cambiano anche nell’America di Donald Trump e dal campus severo di Columbia, con le finestre dietro cui si decidono i premi Pulitzer, Nobel del giornalismo, e lo studio dove, da presidente dell’Università, il generale Eisenhower attese la Casa Bianca, migliaia di ragazze e ragazzi dicono basta all’apatia. «Arriviamo» scrivono, e stavolta non è un Like su Facebook o un tweet furioso, significa prendere dei tubi di cartone per bandiere e striscioni, la polizia non ammette aste di legno o metallo, megafoni - chi avrebbe detto che ancora ne esistevano! - colori per i cartelli. E niente zaini - avverte il sito degli studenti di Giurisprudenza - la minaccia terrorismo rallenterebbe i controlli, meglio tenere in tasca le poche cose utili.

    Quando Alex Clavering, con gli amici Julia Ghahramani, laureanda nel ’20, e Ankit Jain, avvocato l’anno prossimo, si fanno fotografare con la tradizionale felpa Columbia, felici sulla scalinata dell’Alma Mater, la statua di bronzo che dà le spalle alla vecchia libreria, hanno raccolto l’adesione di 25.000 newyorkesi, «saremo in strada con voi contro le armi», e la firma solidale di altri 75.000. Le radio locali ne hanno fatto degli eroi, con gli ospiti a ridere quando Alex, 26 anni, ammette candido: «Per capirci, io sono di gran lunga il più vecchio tra gli organizzatori». Per pagare le spese, assicurazioni comprese - sì, nelle proteste del XXI secolo occorre mettersi al riparo, se si rompe un vetro o ci si sbuccia un ginocchio, chi paga? - servono 100.000 euro e i ragazzi sono tornati online con un GoFundMe, sottoscrizione digitale, 22.000 già in cassa dopo una settimana, gli altri potrebbero essere coperti dal fondo dell’ex sindaco tecnocratico della metropoli, Michael Bloomberg, via la sua associazione Everytown for gun safety.

    I cartelli in preparazione non denunceranno solo le troppe armi, in mano a chiunque, killer o squilibrati, con le stragi di odio o follia che innescano. Le femministe sfileranno contro la violenza in famiglia e gli stupri, le minoranze, sottobraccio ai compagni bianchi, ricorderanno la violenza che le armi infliggono alle comunità locali, i gay marceranno con le loro bandiere.

    Alex, Julia e Ankit, futuri giuristi, sanno che l’America è divisa a metà, e che le 24 ore in cui il presidente Trump ha imposto tariffe a Pechino dichiarando guerra commerciale alla Cina, mentre le Borse cedevano e veniva cacciato il consigliere per la sicurezza nazionale, il moderato generale McMaster, sono state definite dall’esperto Ian Bremmer «il giorno peggiore in politica estera del XXI secolo». E le massime del nuovo consigliere per la sicurezza, il falco John Bolton, «Le Nazioni Unite? Mai capito a che cosa servano…», «Attaccare la Corea del Nord è ammesso dal diritto internazionale…» fanno il giro del web, spaventando.

    Nel 2011 New York si riempì con i picchetti di Occupy Wall Street. Impressionato, l’ex presidente Bill Clinton commise un errore grave, definendo i pochi militanti senza programma o leader «l’evento maggiore degli ultimi tempi». Occupy svaporò in fretta, e un lustro dopo il Paese elesse Trump. Ora è alla prova un nuovo movimento: durerà oltre il 24, saprà diventare forza politica? Eleonore, 22 anni, bionda, studentessa di Kierkegaard, non ha dubbi: «È l’effetto magico di Trump. Un ragazzino della seconda media, per protestare contro le armi, rifiuta di farsi un selfie con lo speaker della Camera Ryan. Io alla sua età a stento sapevo cosa fosse la Camera! Guarda la mappa elettorale americana degli under 30, vedrai solo blu, il colore dei democratici. Perfino negli Stati da sempre repubblicani, vinciamo noi. Il movimento contro le armi sarà come il pacifismo o i diritti civili mezzo secolo fa, unificando una generazione. Come i nostri padri e nonni cambiarono allora l’America, così oggi la cambieremo noi. Il presidente non lo sa ancora, ma saremo noi, in piazza e nelle urne 2018 e 2020, a batterlo. Voi adulti sarete i primi a stupirvi, l’ho spiegato anche a mamma e papà».

    Articolo ripreso da "la Stampa, qui raggiungibile

    Internazionale online

    Sotto la noia di quella che è stata univocamente percepita come la campagna elettorale più brutta della nostra storia, sotto la ripetitività compulsiva della giostra televisiva, sotto la comicità involontaria delle promesse impossibili, qualcosa tuttavia è avvenuto. Forse non tanto da spingerci a superare la diffidenza per una legge elettorale ostica e truffaldina, andare al seggio e infilare una scheda valida nell’urna. Né abbastanza da prevedere gli spostamenti politici che il voto certificherà. Quanto basta, però, per percepire gli spostamenti di senso e di sensibilità che eccedono la conta dei voti nonché l’affannosa corsa ai pronostici sulla formula di governo prossima ventura.

    1. Ritorni. Cominciata con l’irruzione dell’alieno pentastellato e proseguita all’insegna della rottamazione renziana, l’ultima legislatura “nuovista” della repubblica è finita in un trionfo di ritorni dal passato. Torna, com’era del tutto prevedibile, Silvio Berlusconi, replicante di se stesso accompagnato dai mutanti dei suoi partner del 1994. Ma non solo lui. Torna, dalla sua stessa epoca, la promessa di un centrosinistra ragionevolmente riformista, da parte di una lista come Liberi e uguali che era nata piuttosto come promessa di una nuova sinistra. Da un passato più lontano, quello della cosiddetta prima repubblica, torna il fascino rassicurante dello stile democristiano, depositato nello stile felpato di Paolo Gentiloni, nonché la retorica degli opposti estremismi che di quel fascino è pur sempre una garanzia. E da un passato ancora più lontano torna la rappresaglia fascista, a Macerata e altrove, tollerata nemmeno a mezza bocca più dell’antifascismo perché mossa dalla paura dello straniero, che in questa miserrima campagna elettorale è l’unico sentimento conosciuto e riconosciuto.

    Questo girotondo di ritorni rivela un paese che non riesce mai a fare i conti con il proprio passato, ma mostra anche la fragilità delle due narrative, del Pd renziano e del M5S, che più hanno cercato di accreditarsi come portatrici post-ideologiche del nuovo. Per quanto sia prevedibile che il voto di domenica penalizzi il Pd di governo e premi il M5S fin qui d’opposizione (ma ipergovernativo nell’ultima versione firmata Luigi Di Maio), né l’una né l’altra narrativa è riuscita a diventare una rappresentazione convincente ed egemonica di un futuro possibile.

    2. Replicanti. Spicca fra tutti il ritorno di Berlusconi, non più in versione imprenditore-prestato-alla politica ma in versione usato sicuro e garantito, non più anfitrione delle “cene eleganti” ma nonno con cagnolino, non più gaudente ma prudente. I giornali di mezzo mondo si sono chiesti giustamente come sia ancora possibile; ma si tratta di un ritorno prevedibile, se solo si riavvolge all’indietro il nastro degli anni e degli eventi. A decretare il tracollo di Berlusconi furono, fra il 2009 e il 2013, tre fattori a rigor di termini extrapolitici (nell’ordine, la denuncia del “regime del godimento” sottostante ai cosiddetti scandali sessuali, con il dibattito pubblico e la mobilitazione femminile che ne conseguì; la crisi economica, l’impennata dello spread, l’isolamento europeo che lo costrinsero a rassegnare le dimissioni da presidente del consiglio; la condanna giudiziaria per frode fiscale, con la conseguente decadenza da senatore e dagli incarichi pubblici che gli impedisce tuttora di ricandidarsi), che il sistema politico ha usato per detronizzare Berlusconi senza seppellirlo, anzi reintegrandolo subito nelle maggioranze di governo (Mario Monti, Enrico Letta) e nei patti per le riforme, esentandosi da un bilancio critico e autocritico del ventennio precedente. Complice il passaggio cruciale della sostituzione dall’alto del carnevale berlusconiano con la quaresima di Monti, senza il rito elettorale che nell’autunno del 2011 avrebbe potuto sancirne simbolicamente un’uscita effettiva dal basso, Berlusconi è stato rimosso e spettralizzato senza mai essere definitivamente archiviato. E gli spettri, com’è noto, ritornano.

    Il replicante, tuttavia, non morde più come l’originale: il paradosso sta precisamente qui, nella sopravvivenza spettrale di un personaggio, e di un tempo, che sono finiti. Berlusconi dà ancora le carte nel gioco politico, ma non domina più l’immaginario sociale, non è più lo specchio in cui il suo popolo si è a lungo riflesso, non detta più le regole dell’estetica e della sensibilità collettive: non fa più, neanche lui, egemonia. Il suo tempo è concluso, i suoi giochi di prestigio si sono infranti nella crisi, il suo regime del godimento non incanta più nessuno. E rischia lui stesso di restare intrappolato nelle sue ripetizioni. Prima fra tutte, la riproduzione della coalizione fra tre diverse destre con cui Berlusconi riordinò il campo politico nel 1994.

    Che oggi però non accompagna, come allora, l’introduzione del bipolarismo, bensì supporta una legge elettorale incapace di registrarne fino in fondo la fine; e dunque non fa ordine ma suona provvisoria e strumentale, e al tempo stesso rischia non di confermare la leadership di Berlusconi ma di consegnarla definitivamente al passato.

    3. Destra. Qui però non è in gioco solo un passaggio di leadership, né solo l’incerta prospettiva di un sistema che potrebbe riesumare il bipolarismo nel caso di una vittoria del centrodestra o adottare la logica proporzionale qualora non vincesse nessuno. È in gioco anche la natura della destra, il che fa la differenza sostanziale rispetto al 1994. Se è vero infatti che, com’è stato scritto, “l’alleanza di oggi, Berlusconi, Salvini, Meloni, ricalca esattamente lo stesso perimetro politico-culturale dell’alleanza del 1994, Berlusconi, Bossi, Fini” (Paolo Favilli, Le nuove forme del fascismo al governo del paese, il manifesto del 27 febbraio 2018), è vero anche che nel 1994 Gianfranco Fini fu almeno costretto a pagare il pegno di una presa di distanza formale dal fascismo storico e Umberto Bossi quello di un contenimento delle smanie secessioniste della Lega. Laddove oggi gli alleati di Berlusconi a domanda sui loro rapporti con il fascismo storico glissano dicendo che è archiviato “insieme al comunismo” o si barcamenano fra un fascismo “buono” e uno “cattivo”, e intanto attraggono i voti di CasaPound e Forza nuova, vanno a farsi i selfie con Orbán e camuffano le loro inclinazioni squisitamente razziste sotto lo slogan “prima gli italiani”.

    La legittimazione di una destra neofascista, ancor più grave dello sdoganamento di quella post-fascista del 1994, è l’unica vera novità di questa campagna elettorale, nonché la sola in cui risuoni un clima internazionale che ci allinea, per il tramite di Marine Le Pen e del Gruppo di Visegrád, agli Stati Uniti di Donald Trump. È l’ultimo regalo di Berlusconi, nonché l’effetto di una delle “guerre culturali” più ossessivamente combattute nel suo ventennio per la rivalutazione di quello di Mussolini e per l’equiparazione fra i due totalitarismi novecenteschi, che come sempre si risolve nell’assoluzione del fascismo e nella damnatio del comunismo. Ma è un regalo che dobbiamo anche alla leggerezza con cui l’informazione ha trattato questa novità, sulla base di un malinteso principio della libertà di espressione che legittima qualunque opinione, anche quando sia palesemente in contrasto con la pregiudiziale antifascista che è alla base della nostra costituzione.

    4. Sinistra. Non sono della stessa entità le novità che si registrano nel campo della sinistra. Certo, la presenza di Liberi e uguali (Leu) offre un porto sicuro agli elettori delusi o esasperati dal Pd, e va premiata per la stessa ragione per cui è stato a lungo penalizzato dai media il taglio all’interno del Pd da cui nasce e che ha rimesso in moto un’area altrimenti destinata alla stagnazione. E la presenza di Potere al popolo incanala una parte della sinistra radicale verso un percorso di pratica delle istituzioni che con ogni probabilità acquisterà più spessore in vista delle prossime elezioni europee. Due liste, tuttavia, non sono riuscite finora a fare una sinistra, o meglio, la sinistra di cui ci sarebbe bisogno per lasciarsi alle spalle non Matteo Renzi, ma l’era – ormai quasi quattro decenni – di subalternità della sinistra all’egemonia neoliberale, sulla scia già disegnata altrove da Bernie Sanders o da Jeremy Corbyn con una critica più radicale di ciò che un tempo si sarebbe chiamato sistema. L’insistenza di Leu sulla prospettiva di una riedizione del centrosinistra “ripulito” dal renzismo, da questo punto di vista, non aiuta ad andare avanti ma sposta di nuovo le lancette dell’orologio all’indietro: tornare alle politiche pubbliche a sostegno della scuola, della sanità e del lavoro è il minimo indispensabile per invertire la rotta, ma non basta a offrire quella nuova rappresentazione della società, del mondo e del futuro di cui c’è bisogno per uscire dal “destino” neoliberale.

    5. Nord e sud. Di tutte le anticipazioni possibili del voto che i sondaggi hanno fornito, la più plastica, e la più impressionante, è quella che disegna un’Italia nettamente spaccata in due, con un nord consegnato all’egemonia leghista e un sud alla protesta a cinque stelle. Se venisse confermata, si tratterebbe di un segnale inaggirabile del fallimento storico dell’unità del paese, tenuto insieme solo dalla somma di due disagi e di due rivendicazioni d’estraneità dalla politica della prima e della seconda repubblica, e dove l’unica maschera identitaria che funziona è quella, sovranista e comunitarista, dell’ostilità verso lo straniero. Un paese, letteralmente, fuori dal mondo, dove ritessere la tela della politica diventerebbe un’impresa davvero ardua, eppure, finalmente, improcrastinabile.

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    The New York Times2 marzo 2018.

    ROMA — La campagna per le elezioni nazionali che si tengono domenica in Italia, è parsa ossessionata, spesso su temi superficiali e assai poco edificanti. Ad ogni modo assai istruttiva almeno su un punto: le forze politiche contrarie a un qualunque ordine globale e all'Unione Europea sembrano essersi definitivamente affermate. I fascisti manifestavano numerosi nelle piazze italiane. Il paese ha sperimentato la peggiore violenza politica da diversi anni, mentre cose un tempo impensabili, come l'idea di deportazioni di massa dei migranti, diventavano temi di quasi routine. Questa resurrezione del fantasma politico nazionale rappresenta un segnale, per l'Unione Europea già indebolita dalla decisione della Gran Bretagna di lasciare, l'arretramento elettorale della cancelliera Angela Merkel in Germania, l'ombra lunga della Russia e l'ascesa di un blocco autoritario negli stati orientali del Continente.

    Nelle elezioni, che si tengano negli Stati Uniti o in Europa, la destra estrema è riuscita a spostare l'asse del dibattito politico. Ma in Italia, culla del fascismo, la cosa assume una gravità particolare. Populismo, disinformazione elettronica, polverizzazione della sinistra e ascesa della destra post-fascista anti-immigrati, che aleggiavano sull'Europa da anni, in questa campagna elettorale si sono cristallizzate.

    Le elezioni italiane «incarnano perfettamente questo spirito, populismo puro» afferma Stephen K. Bannon, architetto del messaggio populista di Trump, ed ex stratega della comunicazione presidenziale prima delle forzose dimissioni in agosto. Bannon sta visitando l'Italia nel corso di un suo tour europeo per costruire un ampio movimento populista continentale, tema su cui terrà un discorso martedì in Svizzera. Sostiene di aver molto da imparare, dai leader italiani. «Il popolo italiano ha fatto parecchia strada in poco tempo, più dei britannici con la Brexit o gli americani con Trump: l'Italia è una guida». Partiti populisti e della destra estrema oggi sono alla vigilia di una inedita avanzata. Populista è un crescente Movimento 5 Stelle con consensi attorno al 30%, forse il primo partito in un contesto politico molto frammentato.

    Il presidente del consiglio di centrosinistra, Paolo Gentiloni, ha provato a lanciare l'allarme dichiarando al Corriere della Sera venerdì scorso che le prossime elezioni saranno le più importanti da un quarto di secolo a questa parte, uno «scontro col populismo», in cui posso essere in gioco sia una società aperta che un sistema di liberi scambi. Gentiloni insieme ad altri lamenta la debole resistenza a queste spinte degli esponenti del mondo politico, economico, intellettuale. Le élites appaiono piuttosto passive, la capacità di indignarsi esaurita. Tutto sembra una nuova normalità, mentre molti analisti temono invece che l'Italia si trasformi nella nuova forza propulsiva di una stagione antieuropeista.

    «Bruxelles e atre capitali sono preoccupate, queste elezioni potrebbero produrre il governo meno europeista che l'Italia abbia mai avuto» osserva Stefano Stefanini, già ambasciatore alla NATO oggi consulente della Project Associates. Disoccupazione giovanile, incertezza economica, paura dei fenomeni migratori, tutto contribuisce a «fertile terreno» per una politica estremista, continua Stefanini. «E l'ultima cosa di cui c'è bisogno a Bruxelles è che Roma diventi un problema». Ma pare proprio che sarà così. Il baricentro politico si è spostato, e Silvio Berlusconi, già presidente del consiglio per tre mandati e ancora formalmente leader cel centrodestra, in campagna elettorale prometteva di rimpatriare 600.000 migranti senza permesso. E ancora lo si considera un moderato. I suoi potenziali alleati hanno fatto campagna accusando gli immigrati di qualunque problema italiano, e omaggiando addirittura il premier ungherese autoritario Viktor Orban di una visita.

    Ma tra i vari possibili risultati elettorali, si può ancora considerare positivamente una vittoria di una coalizione con a capo Berlusconi, dal punto di vista dell'Unione Europea. Molto, molto peggio, anche se certamente possibile, un risultato di instabilità che potrebbe condurre all'alleanza tra gli antisitema Movimento 5 Stelle e gli anti immigrati della Lega. Per esponenti dell'unione e degli investimenti globali, questo è un vero incubo, in grado di far deragliare l'economia italiana, già scossa dall'enorme debito pubblico, e ricacciarla proprio mentre si vedono segnali di ripresa, di nuovo dentro la crisi.

    Entrambi i due partiti si sono alimentati della xenofobia, divenuta il tema dominante della campagna elettorale, a indicare come le politiche migratorie siano ad uno stallo, nonostante tutti i tentativi di contenimento dell'Unione per interrompere le rotte dei trafficanti e rendere il continente meno accogliente. In realtà, il governo di centrosinistra ha fatto dei progressi nel ridurre i numeri degli arrivi. Ma tra gli elettori aleggiano rabbia e paura, per la metastasi di milioni di africani e altri negli ultimi anni. Con la segreteria di Matteo Salvini, la Lega Nord ha cancellato quel «Nord» dal nome per proporre meglio un proprio virulento messaggio anti-immigrazione anche agli elettori meridionali, definiti un tempo «puzzolenti».

    Fake news su immigrazione e altri temi hanno intasato Facebook e Twitter postate da sostenitori sia della Lega che dei Cinque Stelle, a volte anche col probabile coinvolgimento di siti collegati. Messaggi che spesso esprimono ammirazione per la Russia, e per il suo leader, Vladimir V. Putin, ma che ha liquidato l'idea di un coinvolgimento diretto nelle elezioni italiane, di cui del resto crede non ci sia alcun bisogno. Il Partito Democratico di Matteo Renzi, ha perduto sostegno secondo una tendenza che vale per tutta l'Europa Occidentale. Nel 2014 alle elezioni per il Parlamento Europeo aveva ottenuto il 40%, in quelle attuali che vedono in grandissima difficoltà tutto il centrosinistra, coi risultati negativi della fortissima polarizzazione su Renzi, si è deciso di non avere neppure un candidato esplicito a primo ministro.

    Berlusconi, ineleggibile a pubblici uffici sino al 2019 per la condanna definitiva in evasione fiscale, ha appena nominato per la carica un alleato di lunga data, Antonio Tajani, oggi presidente del Parlamento Europeo, per darsi una patina di credibilità ma restando comunque dentro la sua alleanza sempre più antieuropea. E poche ore prima di nominarlo, compariva sullo stesso palco romano coi suoi alleati di coalizione, Salvini e Giorgia Meloni, candidata post-fascista fresca fresca di ritorno dall'Ungheria e dalla visita a Orban. Meloni si è detta convinta che solo i voti a destra possano produrre un governo stabile, e che qualunque altra scelta porterebbe solo «caos». Salvini ha parlato di mettere l'Italia prima dell'Europa, di essere stufo di lottare per un popolo dimenticato dall'Unione. Berlusconi gli asciugava il sudore dalla fronte con un fazzoletto. Seduto in mezzo ai suoi due alleati, Berlusconi li teneva per mano promettendo che mai si sarebbero separati, dopo il voto, «assolutamente». Non è detto che restino insieme.

    «Queste non sono elezioni, ma una specie di sondaggio in cui nessuno può vincere» commenta Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes. E certamente si prevede che ci sarà molta confusione e incertezza, in cui nessun partito o coalizione raggiungerà il 40%, soglia indispensabile per la formazione di un governo, e ci saranno settimane di tira e molla. Alcuni osservatori ritengono possa trattarsi della solita trattativa all'italiana, male decisamente minore visti i tempi, ma resta il rischio di non arrivare ad alcuna coalizione di governo. In quel caso, il presidente potrebbe nominarne al solo scopo di arrivare a nuove elezioni.

    «È il collasso del sistema dei partiti» spiega Gianfranco Pasquino, professore ordinario alla Scuola di Studi Internazionali della Johns Hopkins University a Bologna. «Nessun governo stabile o leader di partito affidabile, vuol dire situazione in bilico, nessun governo per mesi è una pessima situazione per l'Europa». Roberto D’Alimonte, professore di scienze politiche all'Università Luiss Guido Carli di Roma, è della medesima opinione: «È lo scenario peggiore per l'Italia e l'Europa». Uno dei maggiori pericoli è che le forze populiste, in particolare il Movimento Cinque Stelle, possano guadagnare ulteriore impulso dalla frustrazione italiana. Secondo Bannon, se succedesse questo, o se Berlusconi si alleasse con Renzi formando una coalizione di governo, i populisti conservatori italiani potrebbero vedere «realizzarsi il sogno finale», alleandosi con la Lega. «Stavolta vinciamo» urlavano i sostenitori M5S a Roma in chiusura di campagna. Ma non tutti ne sono così convinti. «Il potere è ancora molto forte, sarà difficile», ne è convinto Tilio Figus, 55 anni, imprenditore e sostenitore del movimento: «Ma se ci tengono fuori sarà un grosso problema per il paese».

    Titolo originale: Why Italy’s Insular Election Is More Important Than It Looks, traduzione di Fabrizio Bottini

    Internazionale online, 12 febbraio 2018. Cronaca di una grande dimostrazione contro il rigurgito razzista e fascista, che ha visto a Macerata uno dei suoi momenti più truci nel tentato assassinio di innocenti di colore

    “Black lives matter”, le vite dei neri valgono. La vita diJennifer, quella di Wilson, quella di Gideon e quella di tutti gli altri. AMacerata una ragazza nera, che se ne sta in disparte dietro allo striscione deimetalmeccanici, ha scritto su un cartoncino bianco questa frase in inglese.Ricalca lo slogan del movimento antirazzista statunitense, nato nel 2013 perdenunciare le violenze sistematiche della polizia contro i neri. Come tanti, èvenuta a ribadire un principio fondamentale: lo stato moderno nasce dal ripudiodella violenza arbitraria di un essere umano su un essere umano. Vale anche perla repubblica italiana.

    A Macerata il 10 febbraio qualcuno è venuto semplicemente adare “un abbraccio collettivo a Wilson Kofi, Omar Fadera, Jennifer Odion,Gideon Azeke, Mahamadou Toure, Festus Omagbon” (come è scritto su unostriscione), cioè a dimostrare solidarietà ai feriti della sparatoriaavvenuta il 3 febbraio nella cittadina marchigiana, quando LucaTraini, un estremista di destra di 28 anni, ha impugnato una pistola e si èmesso a girare per la città in auto, sparando a caso contro i neri che haincontrato per strada.
    Molti cittadini sono scesi in piazza per criticare ladecisione delle autorità di non far visita ai feriti in ospedale, altri hannocontestato la scelta di alcuni partiti e organizzazioni di non partecipare auna manifestazione unitaria contro il razzismo, una settimana dopo lasparatoria. Altri ancora sono arrivati a Macerata per ribadire chel’antifascismo è ancora un valore fondamentale.
    Tante ragioni

    fotografia di Michele Lapini
    Il movimento spontaneo che si è materializzato a Macerata il10 febbraio ha portato in piazza diverse rivendicazioni e almeno ventimilapersone: gruppi di attivisti, centri sociali, sindacati come la Fiom, i Cobas el’Usb, alcune sezioni dell’Anpi e dell’Arci, i collettivi antifascisti e quellifemministi, la rete nazionale Non una di meno, alcune organizzazioni comeLibera ed Emergency, parlamentari e partiti come i Radicali italiani di PiùEuropa, Potere al popolo e Liberi e uguali, molti operatori sociali impegnatinel sistema dell’accoglienza come il Gus e infine organizzazioni di migranticome il Movimento di rifugiati e migranti dell’ex Canapificio di Caserta.
    “La politica non sopporta vuoti e se le istituzionidemocratiche si ritirano, lasciano il campo ad altre forze violente che sonopronte a riempire questi vuoti, come stanno facendo in questo momento i partitixenofobi e fascisti”, afferma Simona Baldanzi, scrittrice toscana arrivata aMacerata dopo tre ore e mezzo di viaggio in macchina da Barberino del Mugello.Con tre amici dell’Anpi ha portato la bandiera ricamata a mano della BrigataGaribaldi, il gruppo partigiano d’ispirazione comunista che combatté contro inazifascisti durante la resistenza. Per Baldanzi l’antifascismo non è un valoresuperato, ma significa “resistere ai soprusi, combattere le ingiustizie”.
    Almeno sessanta sezioni locali dell’Anpi, come quella RenatoBiagetti di Roma, hanno volutopartecipare alla manifestazione nonostante la decisionecontraria della segreteria nazionale, che aveva deciso di non scendere inpiazza accettando la proposta del sindaco di Macerata Romano Carantini diannullare tutte la manifestazioni. Anche Stefano Bucchioni, delegato deimetalmeccanici della Fiom di Monza, ritiene che non partecipare sia stato unerrore: “Questa timidezza delle istituzioni deve far preoccupare, perché è giàsuccesso all’inizio del novecento e il risultato è stato il ventenniofascista”.
    Per Bucchioni l’intolleranza contro gli immigrati èalimentata dalla crisi economica, “causata dalla mancanza di strategieindustriali nel nostro paese e da scelte sbagliate che hanno dato troppo poterealle multinazionali”. Così i capri espiatori diventano gli immigrati, “che sonovenuti in Italia per lavorare, come noi in passato siamo andati in altripaesi”. Un’altra voce critica con i vertici della propria organizzazione èquella di Eliana Como, rappresentante di minoranza della direzione nazionaledel più grande sindacato italiano, la Cgil, che ha definito la scelta dirinunciare a manifestare “sbagliata e in qualche modo irresponsabile”, perché èimportante “opporsi ai segnali di riorganizzazione del neofascismo”.
    “Una delle cose che mi scandalizza di più”, continua Como,“è che si sia voluto giustificare il gesto di Traini come una vendetta per ilfemminicidio di Pamela Mastropietro”. Per la sindacalista, si tratta dellastrumentalizzazione del corpo di una donna. Anche le femministe delmovimento Non una di meno sono d’accordo e chiedono di nonusare la morte di Pamela Mastropietro per giustificare la violenza di LucaTraini. Per l’omicidio della ragazza sono indagatitre nigeriani e Traini ha riferito di aver deciso di compiereuna strage dopo aver avuto notizia del ritrovamento del corpo smembrato diMastropietro.
    Stefania Dimento, di un collettivo femminista maceratese,spiega che “ancora una volta il corpo di una ragazza è usato per giustificarela violenza razziale, contro altri corpi che sono considerati inferiori perchéneri”. Per Dimento la violenza razzista, il sessismo e il fascismo hanno unamatrice comune. La donna, che vive a Macerata, spiega che la città è ancorasotto shock sia per l’omicidio di Mastropietro sia per la tentata stragecompiuta da Traini. Per questo, conclude, voler annullare le manifestazioni ” èil tentativo di far finta di niente, di riportare tutto alla normalità. Maquesto non è possibile. Si deve parlare di quello che è successo”.
    L’impressione però è che i maceratesi vogliano rapidamenteuscire dal clamore delle cronache nazionali in cui sono finiti nelle ultime duesettimane. Anche per questo hanno vissuto con ostilità il corteo pacifico chesabato ha attraversato la città. “Fino a due settimane fa i cittadini diMacerata discutevano animatamente delle conseguenze della pedonalizzazione delcentro storico, poi l’omicidio feroce di Pamela Mastropietro e la sparatoriadel 3 febbraio hanno gettato la città nella paura”, spiega una giornalistalocale.
    Una città blindata

    Quando intorno all’una del pomeriggio attivisti e cittadinida tutta Italia cominciano ad arrivare davanti ai giardini Diaz di Macerata, lacittà è blindata. I poliziotti e i carabinieri in tenuta antisommossa chiudonoil centro storico e i negozi sono sprangati. Alcuni commercianti hanno montatodelle protezioni di legno e ferro sulle vetrine. Il sindaco in una nota suFacebook aveva annunciato che tutte le scuole di ogni ordine e grado sarebberorimaste chiuse e il trasporto pubblico interrotto dalle 13.30. Anche ilcarnevale è stato rimandato al fine settimana successivo. I giornali locali hannotitoli allarmistici.
    La decisione di alcune organizzazioni e partiti di nonpartecipare al corteo per il timore di nuove violenze appesantisce il clima chesi respira in città. “Hanno disdetto una manifestazione che non hannoconvocato”, sintetizza Valentina Giuliodori dell’Ambasciata dei diritti delleMarche. Il cielo è carico di nuvole grigie e un freddo umido avvolge i bastioniausteri della città, che lentamente si colorano di striscioni e bandiere.
    “La manifestazione antirazzista e antifascista di Macerata èstata convocata già sabato sera (3 febbraio) dal centro sociale Sisma diMacerata, dal Collettivo Antifa e da molti gruppi e movimenti attivi sulterritorio, ma alcuni giochi politici nell’arco della settimana hanno tentatodi sabotarla e di dargli un altro significato”, spiega Giuliodori, primadell’inizio del corteo.
    Il raid razzista nelle Marche – avvenuto a un mese dalle elezionipolitiche del 4 marzo – ha stravolto la campagna elettorale italiana e hariportato la questione dell’immigrazione al centro del dibattito, fino a quelmomento dominato da temi come le tasse, le pensioni e il reddito di base.L’opposizione – in particolare la Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia – haaccusato il Partito democratico di aver favorito un’immigrazione incontrollata.
    All’indomani dell’attentato, il leader di Forza ItaliaSilvio Berlusconi ha annunciato di voler rimpatriare 600mila immigratiirregolari, mentre il leader della Lega Matteo Salvini ha detto che“un’immigrazione fuori controllo, voluta e finanziata in questi anni, portaallo scontro sociale”. Le posizioni della destra hanno finito per creare unatteggiamento giustificatorio intorno alla violenza razzista di Traini.
    Dal canto loro, i rappresentanti del Partito democratico,che si giocano un’importante partita elettorale nelle Marche (il ministrodell’interno Marco Minniti è candidato al collegio uninominale di Pesaro),hanno chiesto di abbassare i toni della polemica politica e di nonstrumentalizzare l’accaduto, ma non hanno riconosciuto la matrice ideologicadell’attentato e hanno deciso di non scendere in piazza, per non contrapporsi aun’opinione pubblica sempre più spaventata, secondo i sondaggi, dalla presenzadegli immigrati nel paese. Il ministro dell’interno, parlando a Pesaro duranteun comizio elettorale, pochi giorni prima della manifestazione, avevarivendicato la politica migratoria restrittiva adottata nell’ultimo annoe l’avevagiustificata dicendo che “aveva visto Traini all’orizzonte”.
    E aveva aggiunto: “Ringrazio Anpi, Cgil, Arci e Libera, chehanno accolto la richiesta del sindaco di Macerata di sospendere lemanifestazioni in questo momento così delicato per la città, che ora ha bisognodi pace e di tranquillità. Al tempo stesso mi auguro che anche altreorganizzazioni che hanno annunciato manifestazioni accolgano l’invito delsindaco di Macerata. Se questo non avverrà, ci penserà il ministro dell’internoa evitare tali manifestazioni”.
    La paura

    Minniti, insieme al leader della Lega Matteo Salvini, è stato uno dei bersaglidegli slogan della manifestazione di sabato. Il ministro è accusato dagliattivisti di aver favorito lo spostamento del corpo sociale a destra conmisure, come i decreti sull’immigrazione e quelli sulla sicurezza urbana, chehanno criminalizzato i migranti. A Minniti è contestata, da alcuni settori della sinistra,anche la chiusura della rotta del Mediterraneo centrale attraverso un accordocon il governo di Tripoli, che ha avuto come conseguenza la detenzione deimigranti nelle carceri libiche per periodi più lunghi, e infine la campagna dicriminalizzazione delle organizzazioni non governative, che nelcorso dell’estate 2017 ha avvelenato ancora di più il dibattitosull’immigrazione.
    Minniti ha giustificato spesso le sue scelte con il timore“per la tenuta democratica del paese” e la necessità di “arginare i populismi”.Ma tra i manifestanti di Macerata molti sospettano che la politica migratoriadel governo, concentrata sull’obiettivo della riduzione degli sbarchi, abbiamostrato le sue contraddizioni più evidenti proprio dopo l’attentato del 3febbraio.

    Articolo ripreso da "internazionale online" qui raggiungibile.

    globalproject, L'Huffington post, il manifesto,

    Huffington post
    «TEMPO DI RISCATTO E INSUBORDINAZIONE»
    OLTRE 30.000 aA MACERATA CONTRO OGNI
    FASCISMO, SESSISMO E RAZZISMO

    Migliaia di persone - giunte da tante città d’Italia e da ogni angolo delle Marche – hanno raggiunto i giardini Diaz a Macerata per la grande manifestazione contro ogni fascismo, sessismo e razzismo, convocata dai movimenti dopo la tentata strage fascista della scorsa settimana. Sono tantissimi anche gli abitanti di Macerata, ribaltando quella ricostruzione fatta ad hoc dai media mainstream, di una «città chiusa, blindata e ostile».

    L’unico a voler blindare, e addirittura impedire, la piazza di Macerata di oggi è stato il ministro dell’Interno Marco Minniti. Ma, nonostante il tentativo d’intimidazione e la minaccia politica, d, oggi Macerata è attraversata da una moltitudine di persone che hanno scelto di esprimere la propria indignazione, la propria indipendenza, ripristinando dal basso l’agibilità democratica.

    «Ci sono momenti in cui la storia si comprime, dove tutto sembra accadere in un lasso di tempo troppo breve perfino per rendersene conto. L’ultima settimana maceratese ci ha forse insegnato che della storia occorre esserne parte, senza tirarsene indietro, declinando la tanto sbandierata responsabilità in altri termini». Questo dicono i compagni e le compagne del centro sociale Sisma, che per primi hanno respirato l’angoscia di questi giorni, ma anche il senso di un riscatto collettivo, che da subito si è messo in moto.

    Mentre ancora dovevano arrivare decine di pullmann, i giardini Diaz già erano stracolmi di gente. «Siamo tantissimi e tantissime e stiamo aspettando ancora che arrivino numerosi. Siamo qui per dire che noi siamo la vita, loro sono la morte, loro l'odio noi la gioia. Loro sono quelli che respingono, noi quelli che accolgono». dicono dal camion d'apertura prima della partenza del corteo.

    La manifestazione di oggi è una grande vittoria almeno per due ragioni: innanzitutto perché contro tutto e conto tutti si è riusciti a strapparla a chi cavalca il clima di paura anziché dare la possibilità a chi vuole combatterlo di scendere in strada. La seconda ragione è che è stata una vittoria collettiva, costruita insieme alle tante e ai tanti insubordinati che hanno continuato ad inviare appelli e adesioni nonostante le minacce velate del ministero, ai tanti che si sono rifiutati di cedere ai diktat di chi dall’alto voleva imporre “la rinuncia” e anche grazie ai tanti maceratesi che hanno riscattato la storia della città partecipando alla costruzione di questa giornata.

    Paolo dei centri sociali delle Marche interviene alla partenza del corteo: «tantissime persone stanno invadendo le strade nonostante i tentativi istituzionali di fermare questa manifestazione, nonostante i tatticismi elettorali delle grandi organizzazioni della “sinistra”, subordinate al Pd. Quello che è accaduto, una sparatoria fascista su donne e uomini migranti e tutto quello che ne è conseguito, ci ha portato a indire questo corteo. Lo abbiamo fatto per dire che siamo tutti antirazzisti, perché siamo convinti che solo il legame sociale fra gli ultimi, fra chi subisce questo sistema economico, può rappresentare la forza per cambiare al mondo. Perché solo i movimenti sociali reali possono cambiare la realtà». E ancora: «Caro Minniti se il tentativo era imporci il silenzio, ci sembra che tu abbia fallito. L’insubordinazione che abbiamo visto in questi giorni è qualcosa di inedito e di estremamente potente».

    «Siamo migliaia, siano insubordinati, siamo semplici cittadini. Grazie a tutti, era necessario dare una risposta forte. Stiamo dimostrando insieme che Macerata è una città degna della tradizione antifascista che porta» dice Simone del centro sociale Sisma, dando il benvenuto alle tantissime persone giunte a Macerata. Mentre il corteo giunge in fondo a via Pantaleoni, avendo percorso già diverse centinaia di metri, molte persone ancora devono partire dai giardini Diaz. Dal palco viene annunciata la presenza di oltre 20.000 manifestanti; anche se i numeri sono destinati ad aumentare, visto che diversi autobus ancora devono arrivare a Macerata.

    Determinazione e insubordinazione sono concetti che emergono anche in altri interventi dal camion, che si susseguono in continuazione. «La determinazione delle tante e dei tanti che sono oggi a Macerata ha smascherato i tentativi di normalizzare il fascismo. Grazie a tutte e tutti quelli che sono qui», dice Pierpaolo dell’Ambasciata dei diritti delle Marche.

    Intervengono anche diversi iscritti ai circoli Anpi, che nei giorni scorsi hanno disobbedito al tentativo della loro organizzazione di sabotare la manifestazione di oggi. «Ringrazio i compagni delle Marche per non aver ceduto alle minacce di Minniti. Io sono iscritto all'Anpi e sono qua per mio padre, che era partigiano, e per respingere il fascismo. Un fascismo al servizio di chi vuole tutelare i privilegi e chi vuole che gli sfruttati si combattano tra di loro» sono le parole di un iscritto del Veneto.

    Nel frattempo giungono notizie di manifestazioni di solidarietà a quella di Macerata che in questo momento si stanno svolgendo in diverse città d'Italia e d'Europa. A Cosenza, proprio in questi minuti, antifascisti e antifasciste stanno contestando la presenza del leader di Forza Nuova Roberto Fiore. Nel corso del corteo tantissime persone si affacciano dalle finestre e dai balconi per salutare i manifestanti. Con la manifestazione giunta quasi a metà percorso, la coda si è appena messa in marcia: sono presenti oltre 30.000 persone, un numero impressionante per una città "di provincia".

    Continuano gli interventi. Mamadou, del movimenti migranti e rifugiati di Caserta, ricorda i 7 migranti uccisi a Castel Volturno nel 2008, vittime della criminalità organizzata e del razzismo. In piazza ci sono centri sociali provenienti da tutta Italia. Marco Baravalle, dei centri sociali del Nord-Est, ricorda Pamela «che è stata uccisa due volte e la seconda è quando hanno strumentalizzato la sua morte. Anche questo è decidere sul corpo delle donne».

    Da Napoli Eleonora del centro sociale Insurgencia: «Quello che è successo oggi è la cosa più bella e potente che poteva succedere. Vogliono farci credere che il fascismo ha conquistato la società. Oggi abbiamo dimostrato che quando i fascisti scendono in strada sono quattro gatti, quando lo facciamo noi siamo migliaia. Oggi il Ministro Minniti dovrebbe dare le dimissioni! Grazie Macerata per aver rimesso le cose apposto e per averci ricordato che l'unica lotta che ha senso è dal basso verso l'alto». Luca dei centri sociali di Roma: «Dobbiamo ribaltare il paradigma di un paese che prova ad alimentare la guerra tra poveri. A Roma nelle prossime settimane sono previste diverse iniziative antifasciste e antirazziste. Ci difenderemo dalla barbarie con ogni mezzo necessario».

    «Oggi Macerata dà una grande risposta moltitudinaria contro i fascisti e contro chi istituzionalmente fa il loro gioco. E oggi è successo l'impensabile, perchè la base di Anpi, Arci e Cgil oggi ha realmente disobbedito ai loro vertici, scendendo in piazza con noi» dice Alessandro dello spazio sociale Arvultura di Senigallia. Interviene anche Vittoria di Veneto Accoglie: «la scorsa settimana siamo andati in migliaia a Chioggia e oggi siamo a Macerata perché su diritti e accoglienza si gioca una battaglia decisiva per l'umanità. A chi ci vuole divisi rispondiamo oggi uniti. Nessuno spazio ai razzisti, ai fascisti, a Minniti, a Salvini!»

    In piazza anche le realtà di lotta per il diritto all’abitare. Per Paolo dei Blocchi Sociali Metropolitani di Roma: «non possiamo lasciare il disagio sociale nelle mani dei fascisti e dei leghisti. Italiani e migranti sono un unico fronte sociale e l'insubordinazione di chi è oggi in piazza è comune». Tutti gli interventi rimarcano la questione del sessismo e la necessità di riaprire ancora di più spazi di lotta femminista nella nostra società. Un’attivista di Non una di Meno prende la parola: «oggi le femministe di tutta Italia hanno raccolto l'invito di Macerata. Le attiviste che hanno aderito al corteo sono state minacciate e oggetto di stalking. Vogliamo spazi che siano abitabili per tutte e tutti e non solo per l'uomo bianco e ricco. Antirazzismo e antisessismo sono nel nostro DNA».mL’antirazzismo si intreccia con le pratiche solidali e di mutualismo. Per questa ragione anche le Brigate di Solidarietà Attiva hanno aderito al corteo di oggi.

    Il corteo ritorna ai giardini Diaz. Una manifestazione immensa, che potrà realmente sovvertire l'involuzione reazionaria che stiamo vivendo, in Italia e non solo. Nell'intervento finale Nicola, dei centri sociali delle Marche, ringrazia le donne e gli uomini liberi e antifascisti che, con questa piazza, mettono una pietra tombale su chi diceva che l'antifascismo era minoritario. «Noi ci siamo! Ringraziamo chi ha resistito al ministro Minniti, al Partito Democratico, ai fascismi! Ringraziamo chi è venuto qua a metterci corpo e faccia. Ringraziamo tutti quelli che sono qua. Speriamo che oggi da Macerata possa nascere qualcosa di nuovo. Oggi non abbiamo voluto un palco, perché non è una fine, ma un inizio. Dobbiamo ripartire dai territori, dalle periferie, dal lavoro e dalle scuole. Questo paese è ancora antifascista e da oggi cominciamo a riprendercelo con ogni mezzo necessario».

    Qui l'articolo di globalproject completo di immagini e filmati


    «PERCHÈ IL PD E LE ISTITUZIONI NON SONO QUI?»
    intervista di Gabriella Cerami a Gino Strada


    Gino Strada guida la delegazione di Emergency al corteo contro il razzismo e il fascismo a Macerata
    Gino Strada guida la delegazione di Emergency. Sono stati tra i primi ad arrivare ai Giardini Diaz di Macerata dove c'è il concentramento del corteo contro il razzismo e il fascismo a una settimana esatta dagli spari di Luca Traini contro gli immigrati.

    Il presidente di Emergency si chiede però come mai non ci siano in piazza anche le Istituzioni e il Pd. «Intervenire sarebbe doveroso. È il compito delle istituzioni. Invece ho sentito le istituzioni e il sindaco Pd che in questi giorni hanno invitato a non manifestare. Credo che ci sia un affievolimento dell'antifascismo e bisognerebbe chiederlo a loro perché non sono qui a Macerata. Quell'atto di terrorismo è successo qui. Quando hanno fatto saltare in aria molti ragazzi nei bar d'Europa, non hanno fatto le manifestazioni a Tunisi, le hanno fatte a Parigi o a Barcellona. Perché oggi non sono qui a Macerata? Hanno paura di qualche potenziale terrorista? Vanno isolati perché quando li si isola anche politicamente non si manifestano».


    CONTRORDINE MINNITI

    IL CORTEO DI MACERATA NON SARà VIETATO
    di Mario Di Vito
    Oggi in piazza. La prefettura revoca il divieto alla manifestazione: non sussistono ragioni di sicurezza e ordine pubblico. Il sindaco chiude le scuole e ferma il carnevale dei bambini di domani. La diocesi lo segue: oggi le chiese non apriranno

    È il giorno dell’antifascismo a Macerata. A una settimana esatta dalla sparatoria di Luca Traini, la città si appresta a ospitare il corteo organizzato dal centro sociale Sisma, al quale hanno aderito decine e decine di associazioni da tutta Italia, con quaranta pullman in arrivo da Trento a Palermo.

    Il raduno è previsto alle 14.30 ai giardini Diaz e il percorso si snoderà intorno alle mura della città per poi tornare al punto di partenza. Secondo gli organizzatori - che assicurano si tratterà di un corteo «assolutamente pacifico» - arriveranno almeno cinquemila persone. Il sindaco Romano Carancini, dopo aver invocato uno stop a tutte le iniziative, con un’ultima dichiarazione ha quasi corretto il tiro: «Condivido pienamente i valori della manifestazione antifascista. I miei dubbi erano solo sull’opportunità del momento, visto il clima che si respira in città». Il primo cittadino ha anche deciso di chiudere le scuole per oggi e di annullare il carnevale dei bambini di domani. La diocesi lo ha seguito pronta chiudendo le chiese in centro città, stop a messe e catechismo, e invitando i cittadini a rimanere chiusi in casa e pregare.

    Il segretario del Pd Matteo Renzi chiede di «non consegnare il paese agli estremisti», continuando a mettere fascisti e antifascisti sullo stesso piatto della bilancia. La risposta arriva dal leader di Leu Pietro Grasso: «La piazza si può gestire in modo ordinato e sicuro, negandola si creano più tensioni. Cavalcare la paura non fa bene al paese». Sulla tentata strage di Luca Traini ieri è intervenuto anche il premier Paolo Gentiloni: «Il dibattito politico è libero, la giustificazione del fascismo è fuori dalla Costituzione italiana», ha detto durante l’apertura della campagna elettorale della federazione Pd di Ascoli Piceno. «Non scambiamo la situazione migratoria che stiamo affrontando con quella della sicurezza», ha proseguito, contraddicendo la linea Minniti, «Chi soffia sul fuoco trova spazio. Ma noi lavoriamo dalla parte opposta».

    La questura di Macerata, a ben guardare, non ha mai vietato il corteo di oggi, e nei giorni scorsi sul centro sociale Sisma si è scatenata una incredibile tempesta di fake news istituzionali quando dopo il famigerato appello del sindaco, le segreterie nazionali di Cgil, Anpi, Arci e Libera avevano deliberatamente parlato di annullamento della manifestazione. Infine il comunicato un po’ surreale della prefettura, arrivato nella tarda serata di mercoledì, nel quale si diceva che ogni corteo sarebbe stato vietato. Tesi poi ribadita dal ministro Minniti con una dichiarazione: il risultato è stato una gran confusione sui social network, con tante persone a chiedersi se alla fine si sarebbe fatto qualcosa o no a Macerata. Poi ieri pomeriggio la prefettura ha sciolto ogni riserva, nel prendere atto «dell’impegno degli organizzatori a garantire il carattere pacifico della manifestazione» ha decretato che «non esistono ragioni di ordine e sicurezza pubblica per un provvedimento di divieto»: è il via libera definitivo.

    Già tre giorni fa il leader di Casapound Simone Di Stefano si è fatto la sua passeggiata elettorale in centro con tanto di cronisti al seguito, mentre giovedì sera è stata la volta di Roberto Fiore, accompagnato da una trentina di militanti di Forza Nuova. La nottata è stata piuttosto tesa: arrivati nella centralissima piazza della Libertà, i manifestanti di ultradestra sono entrati in contatto con gli agenti di polizia in assetto antisommossa. Risultato: sei contusi lievi e quattro fermati, mentre poco distante un pugno di antifascisti protestava gridando «assassini» e «terroristi» all’indirizzo di Fiore e dei suoi. La tensione si è sciolta nel giro di una mezz’ora.

    Il clima non è dei migliori in città, e non soltanto perché per oggi è prevista una leggera pioggerella, in aggiunta alle consuete temperature rigide. Come in uno stanco gioco delle parti, diversi militanti locali del Pd continuano ad evocare lo spettro di una piazza violenta, chiedendo un non meglio precisato «rispetto» per una Macerata sconvolta dai fatti delle ultime due settimane. Rispettare la città, però, significa anche dire no al fascismo. E rispetto, d’altra parte, meritano anche Wilson Kofi, Omar Fadera, Jennifer Otiotio, Gideon Azeke, Mahamadou Toure e Festus Ogmabon. I sei ragazzi rimasti feriti dalla follia fascista di Luca Traini.

    il manifesto e la Repubblica.



    CHI ÈSCESO IN PIAZZA
    CI HA SALVATO LA FACCIA E LA COSTITUZIONE
    di Marco Revelli

    Macerata ritorna umana. Nonostante il coprifuoco di un sindaco dal pensiero corto, che ne ha reso spettrale il centro storico. Nonostante il catechismo sospeso e le chiese chiuse da un vescovo poco cristiano. Nonostante gli allarmi, i divieti, le incertezze della vigilia. Nonostante tutto. Un’umanitá variopinta, consapevole e determinata, l’ha avvolta in una fiumana calda di vita, ritornando nei luoghi che una settimana prima erano stati teatro del primo vero atto di terrorismo in Italia in questo tormentato decennio. Un terrorismo odioso, di matrice razzista e fascista, a riesumare gli aspetti più oscuri e vergognosi della nostra storia nazionale.

    Era un atto dovuto. La condizione per tutti noi di poter andare ancora con la testa alta. Senza la vergogna di una resa incondizionata all’inumano che avanza, e rischia di farsi, a poco a poco, spirito del tempo, senso comune, ordine delle cose. Un merito enorme per questo gesto di riparazione, va a chi, fin da subito, ha capito e ha deciso che essere a Macerata, ed esserci in tanti, era una necessità assoluta, di quelle che non ammettono repliche né remore. A chi, senza aspettare permessi o comandi, nonostante gli ondeggiamenti, le retromarce, le ambiguità dei cosiddetti «responsabili» delle «grandi organizzazioni», si è messo in cammino. Ha chiamato a raccolta. Ha fatto da sé, come si fa appunto nelle emergenze.

    Il Merito va ai ragazzi del Sisma, che non ci hanno pensato un minuto per mobilitarsi, alla Fiom che per prima ha capito cosa fosse giusto fare, ai 190 circoli dell’Arci, alle tante sezioni dell’Anpi, a cominciare da quella di Macerata, agli iscritti della Cgil, che hanno considerato fin da subito una follia i tentennamenti dei rispettivi vertici.

    Alle organizzazioni politiche che pur impegnate in una campagna elettorale dura hanno anteposto la testimonianza civile alla ricerca di voti. Alle donne agli uomini ai ragazzi che d’istinto hanno pensato «se non ora quando?». Sono loro che hanno «salvato l’onore» di quello che con termine sempre più frusto continua a chiamarsi «mondo democratico» italiano impedendo che fosse definitivamente inghiottito dalla notte della memoria. Sono loro, ancora, che hanno difeso la Costituzione, riaffermandone i valori, mentre lo Stato stava altrove, e contro.

    Tutto è andato bene, dunque, e le minacce «istituzionali» della vigilia sono alla fine rientrate come era giusto che fosse. Il che non toglie nulla alle responsabilità, gravi, di quei vertici (della Cgil, dell’Arci, dell’Anpi…) solo parzialmente emendate dai successivi riaggiustamenti. Gravi perché testimoniano di un deficit prima ancora che politico, culturale. Di una debolezza «morale» avrebbe detto Piero Gobetti, che si esprime in una incomprensione del proprio tempo e in un’abdicazione ai propri compiti.

    Non aver colto che nel giorno di terrore a Macerata si era consumata un’accelerazione inedita nel degrado civile del Paese, col rischio estremo che quell’ostentazione fisica e simbolica di una violenza che del fascismo riesumava la radice razzista, si insediasse nello spazio pubblico e nell’immaginario collettivo, fino ad esserne accolta e assimilata; aver derubricato tutto ciò a questione ordinaria di buon senso, o di buone maniere istituzionali accogliendo le richieste di un sindaco incapace d’intendere ma non di volere, accettando i diktat di un ministro di polizia in versione skinhead, facendosi carico delle preoccupazioni elettorali di un Pd che ha smarrito il senno insieme alla propria storia e rischiando così di umiliare e disperdere le forze di chi aveva capito…

    Tutto questo testimonia di una preoccupante inadeguatezza proprio nel momento in cui servirebbe, forte, un’azione pedagogica ampia, convinta e convincente. Un’opera di ri-alfabetizzazione che educasse a «ritornare umani» pur nel pieno di un processo di sfarinamento e di declassamento sociale che della disumanità ha ferocemente il volto e che disumanità riproduce su scala allargata. Quell’ opera che un tempo fu svolta dai partiti politici e dal movimento operaio, i cui tardi epigoni ci danzano ora davanti, irriconoscibili e grotteschi.

    Negli inviti renziani a moderare i toni e a sopire, mentre fuori dal suo cerchio magico infuria la tempesta perfetta, o nelle esibizioni neocoloniali del suo ministro Minniti, quello che avrebbe voluto svuotare le vie di Macerata delle donne e degli uomini della solidarietà allo stesso modo in cui quest’estate aveva svuotato il mare delle navi della solidarietà, quasi con la stessa formula linguistica («o rinunciate voi o ci pensiamo noi»).

    Il successo della mobilitazione di ieri ci dice che di qui, nonostante tutto, si può ripartire. Che c’è, un «popolo» che non s’è arreso, che sa ancora vedere i pericoli che ha di fronte e non «abbassa i toni», anzi alza la testa. Ed è grazie a questo popolo che si è messo in strada, se del nostro Paese non resterà solo quell’immagine, terribile e grottesca, di un fascista con la pistola in mano avvolto nel tricolore.


    il manifesto
    «IRRIDUCIBILI DELLA DEMOCRAZIA»
    UNA SINISTRA UNITA SENZA I PARTITI
    di Luca Pakarov

    «Presenti i centri sociali da tutta Italia. Bus cancellati, allarmi assurdi dei quotidiani locali, negozi sbarrati. Ma è stata una festa di popolo»

    La risposta di Macerata, ma di quasi tutta l’Italia antifascista e antirazzista, c’è stata. I km dell’anello che circonda le mura medievali della città hanno manifestato quasi 20mila persone. Qualcosa che non si era mai visto e che ha rotto l’isolamento di una piccola provincia.

    In una mattina gelida e senza sole, già dalle 11 è cominciato l’assembramento ai giardini Diaz, con i ragazzi dei centri sociali che organizzavano il servizio d’ordine e distribuivano volantini. Visto lo spazio ristretto della piazza davanti al parco, man mano che arrivavano i pullman da ogni parte d’Italia la testa del corteoavanzava, fino a fermarsi in viale Trieste. Da lì, allle 15 è partito, in un clima finalmente disteso e gioioso. Un paio d’ore di di musica e colori, benefica decompressione, in cui tutti quelli che hanno deciso di partecipare sono riusciti a liberarsi delle tensioni accumulate nella settimana.

    Tutto il contrario di come era stato prospettato dai quotidiani locali, ancora ieri in prima pagina con titoli allarmistici, come «Barricati» o «Strade deserte e clima da coprifuoco» e le foto dei pochi che, al pari dell’arrivo di un ciclone, avevano bollato con tavole di legno l’ingresso delle loro attività. Quelli aperti sono stati sì presi d’assalto, ma dai clienti. Le forze dell’ordine con una presenza massiva ma defilata e mai invasiva, hanno serrato gli accessi al centro storico evitando ogni tipo di contatto.

    Le scuole erano state chiuse, i mezzi pubblici fermati e le arterie principali interdette al traffico, un’ordinanza vietava la somministrazione di bevande in bottiglie di vetro. Una serie di misure che a un abitante non avvezzo alle grandi manifestazioni aveva fatto pronosticare il peggio, così già da ieri sera le strade erano vuote e i parcheggi liberi. Chi individualmente o con le basi di gruppi di appartenenza come Libera, Anpi, Cgil e Arci che hanno deciso a un certo punto di partecipare, hanno spinto il motore di questa giornata rappresentato dai centri sociali, arrivati con quasi 50 pullman. Una risposta, la loro, immediata e unanime, a cui poi si sono unite tutte le sigle, a partire dalla Fiom.

    Egidio del centro sociale Insurgencia di Napoli è chiarissimo: «Questa è una chiamata per gli irriducibili della democrazia. Quello che è accaduto dopo l’attentato terroristico di Macerata è imbarazzante, le forze politiche e le organizzazioni di categoria non si sono dimostrate all’altezza rispetto al fenomeno del fascismo e del razzismo dilagante in questo paese».

    Una festa di civiltà e rispetto, dove c’è stata una scelta precisa, quella di non avere un palco finale né di annunciare chi, dai microfoni della testa del corteo, ha parlato in nome dell’antifascismo. Nessun nome, come per un po’ sono state le vittime di Traini. Da quei microfoni si sono levate tante voci di resistenza che hanno preso di mira soprattutto il ministro Marco Minniti e il sindaco. Si è trattata di una piazza multirazziale, composita e eterogenea nel rivendicare le colpe di chi la voleva far tacere.

    Ai più è sembrato uno spartiacque fra la sinistra partitica e quella che cerca di lavorare sul territorio, Jacopo del centro sociale Rivolta di Marghera ci dice: «Da noi il razzismo è il pane quotidiano. La cosa assurda è che chi governa la nostra regione ha additato prima al sud e poi ai migranti le colpe della crisi economica. Nei nostri territori la sinistra partitica ha dimostrato la sua inadeguatezza nel rispondere ai problemi dei cittadini, i centri sociali sono rimasti presenti nel territorio e siamo vicini ai cittadini nella questione della casa o studentesche».

    Un concatenarsi di storie, come quella di Mamadou Sy del Movimento dei Migranti e dei Rifugiati di Caserta e presidente dell’Associazione dei Senegalesi, da 16 anni in Italia che ci racconta le similitudini con i 6 migranti uccisi a Castel Volturno nel 2008: «Dopo 10 anni è la stessa situazione, con la difficoltà di far capire chi siamo, le nostre storie o che lavoro facciamo».

    Un segnale però sembra partito, e proprio da dove non te lo aspetti, Macerata.
    Abbiamo distrutto la dicotomia fascismo/antifascismo violento. Il messaggio oscuro di Minniti è stato letteralmente disintegrato. Nando, del centro sociale Pedro di Padova sintetizza così: «Non c’entrano la grandezza della città ma i ruoli che i centri sociali hanno assunto nelle varie fasi storiche. Oggi siamo riusciti a distruggere quella dicotomia fascismo/antifascismo violento, sorta a causa delle imposizioni di Minniti. Un messaggio oscuro che è stato letteralmente disintegrato».
    Si sono visti fra gli altri Adriano Sofri, Cecile Kyenge, Sergio Staino, Gino Strada di Emergency o Pippo Civati (Leu), ma la metafora più calzante sullo stile di fare politica forse è stata la presenza della novantenne partigiana Lidia Menapace (candidata con Potere al popolo: «Fino a quando ho voce e forza preferisco stare in mezzo alle persone che capiscono il mondo in cui stiamo»), arrivata da Bolzano, e l’assenza del primo cittadino Romano Carancini, che da casa sua a pochi metri ha dichiarato di esserci col cuore.


    PPIAZZE ANTIRAZZISTE IL PD RESTA AI MARGINI
    E DISORIENTA LA BASE
    di Alessandra Longo

    «Dopo il raid contro gli immigrati. Centri sociali e associazioni di solidarietà trainano le manifestazioni In 20mila a Macerata con slogan anti Minniti. A Milano anche Fiano»

    Macerata. È il giorno della piazza che divide e disorienta la sinistra in tutta Italia. Macerata è l’epicentro della lacerazione. Una città blindata che non partecipa fisicamente alla manifestazione contro il fascismo e il razzismo. Le finestre sono chiuse, i negozi hanno le porte protette dal compensato come per gli uragani in America. Ventimila, trentamila persone sfilano dai giardini Diaz, là dove lo spaccio si consuma vicino alle giostre per i bambini. Un fiume di militanti, centri sociali, anarchici, la Fiom, ma non la Cgil, Libera, Emergency con Gino Strada, i Cobas, Potere al Popolo con Lidia Menapace che tiene lo striscione a 94 anni, i comunisti con Marco Ferrando, i leninisti di Che fare (scatenati contro «la stampa di regime»), i deputati di Leu Civati, Fratoianni e Zoggia, segmenti di Arci, partigiani locali e l’Anpi di Roma, contraria all’assenza decisa dall’Anpi nazionale, i neri, regolari e non, l’ex ministra Kyenge, gli studenti, i vecchi di Lotta Continua che riabbracciano Adriano Sofri e a qualcuno vengono le lacrime.

    Ma il Pd non c’è. Il Pd è il grande assente. Non solo a Macerata ma anche a Milano dove altri ventimila, soprattutto giovani, occupano la piazza ed Emanuele Fiano, promotore Pd della legge sul divieto di propaganda fascista, si materializza quasi timidamente. C’è anche Pierfrancesco Majorino. Li conti sulle dita di una mano. È Laura Boldrini a tenere banco: « Non c’è posto per l’apartheid in Italia. Mi fa piacere ci siano Fiano e Majorino, ma il Pd ha sbagliato a non esserci » . E poi una frecciata ad Emma Bonino: « Come fa a stare col Pd che non ha voluto lo Ius soli?». A Palermo il sindaco Orlando sfila sotto le bandiere di Cobas, Arci e Anpi.

    Su temi come l’antifascismo, potevano essere assieme. Ecco, a Macerata, Sergio Staino: « Doveva esserci una grande manifestazione repubblicana ma il Pd, che è l’asse di riferimento, ci ha spiazzati tutti ». Nei più vecchi militanti c’è sofferenza per la scelta del vertice di lasciare vuoto il campo. Alvaro, 74 anni, iscritto all’Anpi di Cerreto Desi, si guarda intorno: «Non c’è il Pd, non ci sono i compagni dell’Anpi nazionale. Provo un sentimento, strano, confuso » . Forse lo stesso sentimento che porta all’abbraccio tra Vasco Errani, passato a Leu, e Gianni Cuperlo. Loro sono a Bologna, altro sit in in questa giornata difficile. Cuperlo è amaro: «Dividere le piazze sull’antifascismo è l’errore più grave che possiamo fare». Però ormai è andata così. E i giovani che sfilano sotto le Mura Urbiche di Macerata sfogano la loro rabbia contro Marco Minniti. Gli danno del “nazista”, della “ testa d’uovo”. Portano cartelli del tipo Minniti=Cossiga, Minniti fascisti garantiti. Molto più rari gli slogan a pennarello contro la Lega. Uno dice : “Salvini fascista”. Se la prendono più volentieri con il sindaco Pd di Macerata Romano Carancini che aveva chiesto, per la sua comunità choccata, una pausa di silenzio e riflessione. E quasi ignorano Pamela uccisa, Pamela fatta a pezzi e chiusa in due valigie. Lei è il non detto, lo sfondo macabro da cui è partito tutto.

    Macerata città non c’è, si blinda, i fiori alle finestre, la pace perduta. Non è un corteo dove ci sono le famiglie, è un corteo “politico”, che parla all’Italia e non alla città. Sofri la spiega così: «Hanno spaventato la gente con l’allarme su possibili disordini. Avrei voluto telefonare a Renzi e dirgli: “Vieni in incognito ma vieni”» . Fratoianni, la giacca d’ordinanza con su scritto “parlamentare antifascista”, mette sale sulla ferita: «Questa è una sconfitta per il Pd, la sua scelta di non esserci è stata incomprensibile» . Da un comizio a Porto Torres, il capogruppo dei senatori dem Luigi Zanda cerca una connessione con i manifestanti: «Il fascioleghismo di Salvini ha prodotto gli spari razzisti di Macerata e non possiamo sottovalutarlo».

    Certo, con il Pd sarebbe stata una manifestazione diversa, forse senza slogan isolati ma indegni come quello scandito da un centro sociale del Nord Est: “Ma che belle sono le foibe da Trieste in giu”. O come l’orrendo coro già usato dopo il delitto Mattei e risentito ieri: “I covi dei fascisti si chiudono con il fuoco; con i fascisti dentro sennò è troppo poco”.

    Le parole pesano, dice Susanna Camusso, con Matteo Orfini alla manifestazione di Roma per le foibe, a Tor Bella Monaca: «L’attentato terrorista va chiamato con il suo nome». La giornata è difficile: a Piacenza gli antagonisti vanno all’assalto di CasaPound, cinque carabinieri feriti; a Torino sassi contro la polizia. Ma a Macerata, presidiata come per un G8, fila tutto liscio. Ulderico Orazi, consigliere comunale del Pd a Macerata, e titolare del bar di fronte al monumento ai caduti dove si è consegnato il pistolero filoleghista Luca Traini, guarda scorrere il fiume in piena dei manifestanti e si sente contento di aver sparigliato: «Sono qui con orgoglio piddino». Renziano, fa finta di non sentire quello che dice un “compagno” con l’altoparlante: «Caro Renzi, stai delirando tu e il tuo partito. Altro che silenzio. Noi siamo qui a manifestare!il» . A sera, Elena, una giovane mamma di Terni, dà il biberon ad Edera, 4 mesi. Non ha avuto paura di portarla qui, così piccola? « Mi fa paura altro, la direzione che sta prendendo questo Paese».

    il manifesto,

    Male ha fatto il sindaco di Macerata Carancini a chiedere la sospensione di tutte le manifestazioni, come se fossero uguali. Non lo sono affatto. Quelle che presidiano i valori democratici, che protestano contro un vile attacco fascista alla convivenza civile, hanno un valore positivo. Un valore che manca in quelle di segno opposto, che inneggiano alla violenza come strumento risolutore del disagio e del conflitto sociale. Le prime sono a difesa della Costituzione, le seconde la attaccano. E non si può applicare alla Costituzione il concetto che certe questioni si sottraggono alla politica, e non sono - come a qualcuno piace dire - né di destra né di sinistra.

    La Costituzione non è mai indifferente. Al contrario è in servizio permanente effettivo - come direbbe il ministro Minniti - per le libertà, i diritti, l’eguaglianza, la tolleranza, la solidarietà, la pace. E a tutto questo un sindaco, tenuto per l’art. 54 a osservare la Costituzione e le leggi e ad esercitare la sua funzione con “disciplina ed onore”, è obbligato a essere sensibile, che gli piaccia o no. Diversamente, si dimetta.

    Per questo, c’è chi non condivide la decisione di Anpi, Cgil, Arci e Libera di accettare la richiesta del sindaco. Sono organizzazioni vicine al cuore di molti di noi, e non dubitiamo che la decisione sia stata sofferta. Ma è legittimo il dubbio che proprio l’eccezionalità delle circostanze, e la gravità dell’accaduto, avrebbero consigliato la scelta opposta. Essere un presidio essenziale della democrazia nel nostro paese - come indubbiamente quelle organizzazioni sono - impone un particolare carico di responsabilità. Una bocciofila o un club del golf avrebbero bene il diritto di non vedere, non sentire, non parlare, per non turbare la serenità dei soci. Non è così per loro.

    Veniamo al ministro Minniti.

    Capiamo bene che vuole costruire l’immagine di uomo forte del centrosinistra, capace di iniziative efficaci sul terreno incandescente della sicurezza. Che abbia o meno disegni futuri sulla poltrona più alta di Palazzo Chigi non interessa. Intanto, capiamo la valenza elettorale per un centrosinistra che insegue con affanno i voti perduti. Capiamo, ancora, che il tema sicurezza è comunque centrale e che anche la sinistra deve darsene carico, se non vuole ridursi in una nicchia irrilevante per il futuro del paese. Ma questo non giustifica ricostruzioni di fantasia e stravolgimento di fatti.

    Minniti ci informa di aver fermato gli sbarchi proprio per la previsione che un caso Traini potesse verificarsi. Ma è banale la constatazione che averli “fermati” non ha prevenuto o impedito il caso Traini. E se poi l’aveva previsto, perché non ha adeguatamente aumentato la vigilanza su chi era lecito sospettare avrebbe potuto causare problemi? Non aveva forse avvertito crescere nel paese un clima pericoloso, non aveva percepito i rigurgiti fascisti?

    Ci dice che l’accordo con le autorità libiche è un patrimonio del paese. Sappia che rifiutiamo un patrimonio intriso di sangue, torture e morte nei lager libici. Ci dica piuttosto qual è la sua soluzione, se la politica delle espulsioni non funziona. Essendo del tutto ovvio che non si fermano le migrazioni di masse di disperati in fuga dalla guerra, dalla fame, dalla morte schierando manipoli di soldati sulle rotte dei mercanti di carne umana.

    Infine, il ministro apprezza la cancellazione della manifestazione, e annuncia che interverrà contro chi non dovesse seguire il buon esempio. A chi si rivolge davvero? Intanto, la sua vasta esperienza politica certo gli dice che proprio le sue parole possono aumentare la tensione. Dovrebbe poi sapere che le riunioni non si vietano preventivamente, e a prescindere. La formulazione dell’art. 17 della Costituzione non è affatto casuale, e gli consigliamo una rilettura. Cosa intende fare? Mandare cingolati e forze antisommossa nelle piazze d’Italia, a tutela della pubblica tranquillità?

    Una pacifica dimostrazione di massa non è solo l’esercizio di diritti costituzionalmente protetti, fondamentali in un sistema democratico. È anche il migliore antidoto contro il veleno sparso da chi cinicamente sfrutta le paure profonde di una parte del paese per guadagnare un pugno di voti. Anche questa è una violenza contro la Costituzione. E ci aspettiamo che un ministro della Repubblica sia in trincea per fermarla.

    Comune-Info, 28 gennaio 2018.

    “Arrendetevi siamo pazzi”. In questi cinque anni di occupazione la scritta all’ingresso dell’Asilo Filangieri di Napoli non è stata un bizzarro slogan ma il grimaldello con cui ripensare la gestione di uno spazio comune, tessere percorsi inediti tra teoria e prassi (a cavallo tra filosofia, mondo dell’arte e scienze umane), costruire legami con esperienze di altre città e perfino promuovere un’incursione nel diritto. Dopo un percorso complicato c’è stato il pieno riconoscimento dell’itinerario giuridico partito dal basso. Secondo Giuseppe Micciarelli, ricercatore presso l’Università di Salerno, l’idea vincente è stata immaginare una forma di gestione per cui un bene pubblico viene amministrato direttamente dai cittadini, non con un’assegnazione, «ma attraverso una dichiarazione d’uso collettivo ispirata agli usi civici, un antico istituto tutt’ora vigente che rappresenta uno degli echi di quell’altro modo di possedere quasi dimenticato dall’ordinamento»

    Beni comuni e spazi urbani

    Com’è possibile che da un’occupazione di uno spazio pubblico nasca un nuovo istituto giuridico? Com’è possibile che il collettivo che ha intrapreso l’azione si sciolga per costruire un sistema assembleare regolamentato, aperto a tutti i lavoratori del settore culturale e agli abitanti del territorio? E ancora, com’è possibile che questo strumento si sia diffuso tra altre esperienze di occupazioni, in diverse parti di Italia, e che queste stesse realtà abbiano deciso di scrivere pubblicamente delle dichiarazioni di autonormazione civica per mostrare e garantire l’accessibilità a questi spazi? La risposta a queste domande spiega l’anomalia che la città di Napoli sta percorrendo sui beni comuni. L’uso civico e collettivo urbano, nato a partire dalla sperimentazione pratica e teorica dell’Asilo Filangieri, ha sfidato l’ordinamento giuridico per dare la possibilità a tante realtà caratterizzate da una gestione collettiva e comunitaria di essere coerentemente riconosciute anche dal mondo del diritto. Molti elementi di questo percorso sono diventati, in questi anni, oggetto di studi e hanno portato la città di Napoli alla vittoria del prestigioso premio Urbact 2017. Proverò qui a descriverne alcuni passaggi essenziali.

    Dal punto di vista teorico, anche questa battaglia nasce sulla sponda dei beni comuni. Eppure, essi sono diventati qualcosa di diverso da ciò che la Commissione Rodotà aveva ipotizzato nel 2007-2008. Quei lavori furono fondamentali perché avvicinarono le battaglie più disparate arricchendole, in senso evocativo, di una dirompente matrice comune. Si è venuta così a creare una polisemia feconda, che ha visto la proliferazione di nuovi beni pretesi come comuni. È questa la peculiarità, forse la forza e insieme la debolezza, della via italiana ai beni comuni che, diversamente dagli studi di ascendenza economica sui commons nel mondo anglosassone (Ostrom, 1990), si interroga ancora sul loro perimetro e sulla eventuale necessità di individuarne uno in forme consuete (Mattei, 2011; Marella, 2012). In parte si tratta di una debolezza perché, come Stefano Rodotà ammoniva se tutto è bene comune allora niente è un bene comune. Ma è anche un elemento di forza, perché l’incertezza ha dato la straordinaria opportunità a tanti conflitti sociali di riconoscersi reciprocamente in un significante capace di riempire di senso comune lotte solo geograficamente distanti (Negri-Hardt, 2010; Dardot-Laval, 2015). Ma c’è di più. Questa fase costituente ha dato la possibilità ai protagonisti di quelle lotte di prendere in prima persona parola sul loro significato, scavando nuovi percorsi intellettuali a cavallo tra filosofia, diritto, economia, mondo dell’arte e scienze umane. Un percorso raro dove studio e conflitto continuano ad andare di pari passo, alimentandosi reciprocamente.

    Com’è noto la prima ondata di studi e lotte sui beni comuni è culminata con la vittoria referendaria del 2011. Dopo quel successo è nata una seconda generazione di conflitti, che si sono “appoggiati” al lessico dei beni comuni. Mi riferisco in particolare al movimento dei lavoratori dell’arte, dello spettacolo e della cultura che hanno dato vita a forme di riappropriazione diretta di teatri e spazi culturali abbandonati o sottoutilizzati. Il teatro Valle a Roma, l’Asilo Filangieri a Napoli, l’ex colorificio a Pisa e Macao a Milano sono stati non a caso la sede di una seconda Commissione itinerante – la costituente dei beni comuni – presieduta dallo stesso Rodotà con la partecipazione di alcuni degli studiosi che facevano parte di quella istituzionale del 2007, insieme a tanti giovani ricercatori e attivisti impegnati in prima persona in quelle esperienze. Tali pratiche sperimentali hanno prodotto uno scarto rispetto al profilo teorico originario, quando il bene di riferimento era limitato alla sola risorsa idrica. Infatti, rivendicare spazi urbani come beni comuni ha messo per certi versi in crisi la stessa loro tassonomia, che tanto difficilmente era stata abbozzata (Mattei-Reviglio-Rodotà, 2007).

    Terminata anche questa esperienza è cresciuta una seconda generazione di pratiche e studi che hanno rimesso al centro del dibattito il tema che la prima Commissione non solo aveva ritenuto superabile, ma che anzi aveva definito un ostacolo alla protezione dei beni comuni, vale a dire il tema dei regimi di governo dei beni. Attualmente, al contrario, la rivendicazione di forme di gestione, o controllo, partecipate o dirette, di beni da parte di comunità organizzate di cittadini è diventato il cuore della questione sia politica sia teorica. In questo senso uno dei punti su cui si è poggiata l’esperienza napoletana è stata la nozione di beni comuni emergenti (Micciarelli 2014, 2017), cioè quei beni che, esprimendo utilità funzionali all’arricchimento del catalogo dei diritti fondamentali, si caratterizzano per una forma di gestione diretta e non esclusiva da parte delle comunità di riferimento individuabili, al fine di garantire, attraverso modelli di regolamentazione specifici, l’uso e il godimento collettivo del bene, indirizzandolo al soddisfacimento di tali diritti, nonché al libero sviluppo della persona e la salvaguardia per le generazioni future[1]. Un modo per materializzare, anche nel mondo del diritto, il principio secondo cui «non esistono beni comuni senza le pratiche e le consuetudini che consentono alla comunità di gestire le risorse per il bene collettivo (…) caratterizzati da partecipazione diffusa, responsabilità individuale e capacità autogestionali» (Bollier, 2015).

    L’anomalia napoletana

    Sono tanti gli spazi abbandonati che disegnano le nostre città: orfanotrofi, scuole, caserme dismesse, ospedali psichiatrici, conventi, stazioni. La brama di riempirli di nuove attività svela l’interesse trasversale per la rigenerazione urbana, che non a caso è uno dei temi più attraversati non solo dalla letteratura, ma anche da progetti europei, bandi regionali, corsi di laurea e premi. Ed è anche terreno di conquista dei soggetti economici più attrezzati. Si pensi ai grandi protagonisti della rigenerazione degli ultimi anni: i poli commerciali e le grandi multinazionali che, grazie a una forza di investimento e persuasione economica maggiore di tanti finanziamenti pubblici, hanno trasformato pezzi di città in “non luoghi”, secondo il fortunato paradigma descritto da Marc Augè, in cui gli individui si incrociano senza mai entrare in relazione, se non attraverso quelle mediate dal consumismo. Multi utilities dell’intrattenimento a gettone svolgono ora anche una funzione, in senso lato, “sociale”: arricchite oltre che di merci anche da arcipelaghi di bar, ristoranti, cinema, pub e asili nido sempre aperti e dal prezzo quasi conveniente, dove intere famiglie si rovesciano nel loro tempo libero.

    Ribaltando l’espressione di Augè, possiamo riconoscere che a diverse latitudini ci sono degli “ex-luoghi”, sulla loro riscoperta e funzionalizzazione si gioca il futuro della città. Qui la creatività gioca un ruolo fondamentale; non a caso il campo artistico è quello che viene più di tutti chiamato in causa per favorire processi di rigenerazione di questi ex-luoghi. Purtroppo però, come mostra il caso di quartieri del genere di Kreuzberg a Berlino, Covent Garden a Londra, Isola a Milano, spesso l’azione di artisti e designer diventa il preludio alla gentrificazione di intere aree popolari.

    Questo destino non è ineluttabile. Una delle ricchezze di quel movimento di artisti/attivisti che si è costituito intorno al lessico dei beni comuni è il tentativo di produrre una forma di rigenerazione consapevole e conflittuale dello spazio urbano, provando a mettere al centro tanto le vertenze dei lavoratori, la necessità di riforma dei finanziamenti e della governance del settore culturale, quanto i bisogni del tessuto sociale, degli abitanti di quartieri che normalmente vengono esclusi dalla fruizione dei prodotti artistici estranei al circuito mainstream. Un percorso quindi altamente politicizzato, legato da principio al tessuto connettivo di movimenti che sui territori lottavano per il diritto alla casa, a un ambiente salubre e contro le forme di razzismo e neofascismo che tipicamente infestano le zone socialmente più povere delle città.

    In Italia, questo movimento così peculiare - che si immaginava come quinto Stato (Ciccarelli-Allegri, 2011) e trovava linfa nell’eco delle lotte degli intermittenti in Francia (Lazzarato, 2004) - aveva cominciato, subito dopo la vittoria referendaria, a organizzare una scia di occupazioni, sviluppando un’ondata di rivendicazioni non impiantante tanto su una base vertenziale di categoria, bensì sulla pretesa gestione diretta degli spazi culturali da parte degli stessi lavoratori, organizzati attraverso la messa in comune dei mezzi di produzione. Dopo il cinema Palazzo e il teatro Valle a Roma, Macao a Milano, a Napoli la manifestazione di questo movimento occupò il 2 marzo del 2012 l’Asilo Filangieri. Un’azione simbolica, nell’idea originaria di soli tre giorni, considerato che l’immenso edificio, un ex convento di circa 5.000 mq2 nel centro storico della città, era stato da poco ristrutturato e assegnato al Forum Universale delle Culture: organismo aspramente criticato in quanto parte di un modello di finanziamento che non avrebbe accolto le esigenze del territorio, data una permeabilità già presente nei confronti del circuito di clientele e favoritismi che attanaglia buona parte del settore dello spettacolo.

    Le assemblee partecipate da centinaia di persone spinsero però gli occupanti a osare e il processo, dapprima limitato al solo terzo piano del palazzo, cominciò a estendersi in altre zone, protraendo per un paio di anni una coabitazione con altre stanze usate dagli uffici amministrativi del Forum, il quale poi si rivelò, come preconizzato, un fallimento (Cagnazzi, 2017). Parallelamente al crescente numero di attività, anche all’Asilo ci si interrogò sulla sperimentazione giuridica, che caratterizzava il movimento. Diversamente dal teatro Valle, che a Roma stava sperimentando un’innovativa idea di fondazione con l’aiuto di molti giuristi impegnati nella prima commissione Rodotà (Caleo, 2016), a Napoli si tentò di trovare una forma che potesse rispecchiare meglio il cuore teorico della pratica assembleare che si stava sperimentando, cioè quello di costruire una comunità aperta, orizzontale, porosa e non strettamente identitaria. Un modello che pretendeva di rinunciare alla direzione artistica e al contingentamento dei tempi e degli spazi finalizzati alla produttività piuttosto che alla libera ricerca. Una forma che creasse una interdipendenza - professionale e relazionale - tra soggetti diversi, disobbedendo così all’educazione alla concorrenza tra competitors imposta da bandi, festival e mercato.

    Limitandomi al punto di vista giuridico, si trattava di evadere l’illusoria conquista di una concessione, che avrebbe magari dato la rassicurante immagine di un ambito di autonomia e indipendenza, ma che staccata da un tentativo di impatto più generale sul circuito arte/rigenerazione urbana avrebbe rischiato, anche nel caso di successo, di essere schiacciata dal peso degli oneri che qualunque soggetto giuridico concessionario di un bene pubblico si deve assumere. Avrebbe inoltre rischiato di favorire la costruzione di un privilegio proprietario a vantaggio di chi era riuscito a conquistare, sebbene con la lotta e alla luce del sole, un titolo di uso esclusivo. Un discorso che piccole associazioni, realtà informali e cittadinanza attiva conoscono purtroppo molto bene. D’altronde, il minimo comun denominatore per cui si stanno diffondendo nel paese tanti regolamenti sui beni comuni urbani, pur nella loro diversità, è appunto che il patrimonio abbandonato rappresenta per un ente locale un serio problema: ogni mancata manutenzione apre la porta a rischi sia in termini di responsabilità civile sia per danno erariale, nel caso si riscontrasse la violazione degli obblighi di messa a reddito degli immobili.

    Si trattava perciò di provare a cambiare il sistema, e con esso immaginare una diversa erogazione dei fondi pubblici, che sfuggisse sia ai parametri del successo decretati solo dalle leggi del mercato sia alla subalternità clientelare con gli apparati amministrativi di turno. L’idea vincente fu quella di immaginare una forma di gestione per cui un bene pubblico fosse amministrato direttamente dai cittadini, non con un’assegnazione, ma attraverso una dichiarazione d’uso collettivo ispirata agli usi civici, un antico istituto tutt’ora vigente che rappresenta uno degli echi di quell’altro modo di possedere quasi dimenticato dall’ordinamento post unitario (Grossi, 1977).

    La scelta di dotarsi di un regolamento, per quanto scritto a partire dalle proprie pratiche, fu ovviamente il fulcro di una rivoluzione identitaria. L’esito di questo complesso confronto può essere riassunto con delle parole molto efficaci che ricordano come l’immanenza e lo spontaneismo non possano chiudere «i conti con un passaggio istituzionale ineludibile: il riconoscimento giuridico di una destinazione propria a tali beni, procedimento tecnico che in taluni momenti della storia interviene con quella forza decisoria che le lotte politiche e le nuove acquisizioni conoscitive sono in grado di suscitare e le costruzioni formali provvedono poi a tutelare. Contrariamente a un certo marxismo dal sapore tralatizio, la “forma” giuridica non spegne, ingannandola, la prassi sociale, ma ne rappresenta un’articolazione di pari livello e sovente più attrezzata» (Napoli, 2013).

    La scrittura della dichiarazione è diventata invece una straordinaria opportunità di auto-riflessività politica, in cui le pratiche vengono messe alla prova della teoria e viceversa. Una strategia anche concreta, perché la pur importante rivendicazione del diritto di uso civico, ove non regolamentato, rappresenterebbe altrimenti uno spazio indeterminato, in cui è facile prevedere l’espansione dei poteri ora dei soggetti privati più attrezzati ora della stessa Amministrazione, al primo cambio d’umore politico. Una strategia ambiziosa quella della riscoperta degli usi collettivi perché, com’è stato chiaramente messo in evidenza, può ambire a una possibile ricostruzione della nozione di proprietà pubblica, che in un clima di esasperata esaltazione della proprietà individuale è stato progressivamente rimosso dalla riflessione giuridica e politica dei diritti collettivi (Capone, 2016). Una sperimentazione originale, che si può riassumere nello slogan “arrendetevi siamo pazzi” che gli attivisti dell’Asilo affissero all’ingresso del bene, rivendicando una strategia politico-teorica che allora appariva eretica più che eterodossa, anche per il resto del movimento nazionale.

    Nel frattempo la nuova amministrazione de Magistris aveva cominciato un suo percorso che, dopo la nascita dell’azienda speciale di diritto pubblico Abc (Acqua bene comune), per la gestione della risorsa idrica, modificava lo statuto del Comune di Napoli, riconoscendo “i beni comuni in quanto funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona nel suo contesto ecologico” e garantendone “il pieno godimento nell’ambito delle competenze Comunali”. Veniva inoltre istituito, caso unico in Italia, un assessorato ai beni comuni, presieduto da uno degli studiosi più radicali che avevano partecipato ai lavori della prima commissione Rodotà. A questo punto venne lanciato un dialogo che aveva il sapore della sfida, alle volte con toni aspri, nei confronti dell’Amministrazione: capire fino a che punto il riconoscimento da parte loro dei beni comuni potesse spingersi oltre la dimensione evocativa, per sostenere progettualità conflittuali che si muovevano in un orizzonte poco compatibile con declinazioni docili della sussidiarietà orizzontale, in cui a cittadini resi carpentieri e muratori viene concesso di prendersi cura di giardini e strade periferiche, in forme del tutto a-conflittuali.

    Riconoscere l’uso civico era non facile e non era scontato, poiché si andava a definire un tipo di uso collettivo che non trovava piena collocazione giuridica tra gli strumenti tipicamente usati dagli enti locali. Di solito, infatti, la scorciatoia adottata nel caso di simili rivendicazioni è l’affidamento diretto o la sottoscrizione di patti di collaborazione tra Comune e un’associazione. Questi, però, in alcuni casi si risolvono in fictio iuris, cioè nella creazione di associazioni ad hoc, forme di affido a custodi o garanti che, però, non sono né gli animatori né i veri fruitori degli spazi; modalità che cioè non rispecchiano un uso collettivo non limitato a soci o cerchi di affinità ristretti. E invece in molti casi la scelta di non costituirsi in una singola associazione, il privilegiare la costituzione di gruppi informali o reti di realtà in continuo divenire, la garanzia del ricambio costante di utilizzatori, rappresentano una forma di uso la cui specificità è un patrimonio che l’ordinamento deve valorizzare, trovando strategie adeguate.

    L’alternativa dell’uso civico urbano è stata dunque al centro dei lavori del tavolo di autogoverno dell’Asilo, e portò all’approvazione di una prima delibera già il 24 maggio 2012. Con questa gli attivisti impegnavano il Comune a «garantire una forma democratica di gestione del bene comune monumentale denominato ex asilo Filangieri in coerenza con una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 43al fine di agevolare una prassi costituente dell’“uso civico” del bene comune, da parte della comunità di riferimento dei lavoratori dell’immateriale». L’impianto però, nella parte del deliberato, tradiva il complesso sistema assembleare e di tavoli di lavoro, assegnando loro un ruolo semplicemente consultivo, mentre i poteri decisionali formalmente restavano in capo agli assessori di volta in volta competenti nel quadro partecipativo del cosiddetto. “laboratorio Napoli”[2]. Una soluzione provvisoria, che però ha avuto il pregio di dare respiro alla sperimentazione. Ci sono voluti oltre tre anni di tavoli di lavoro, scontri, riunioni interminabili con il nuovo assessore ai beni comuni Carmine Piscopo, studi fatti a tavolino anche con funzionari e dirigenti per provare a contaminare il quadro amministrativo vigente che riconoscesse l’uso civico come una nuova forma di amministrazione diretta del patrimonio pubblico (Micciarelli, 2017).

    Un lavoro che è stato rafforzato anche da numerose realtà di movimento e associative, che stavano svolgendo altri esperimenti di autogestione nel panorama cittadino, il cui impatto sociale era enorme. Coinvolti poco a poco nel progetto di estensione dell’uso civico urbano si giunse alla importante tappa dell’approvazione in Consiglio Comunale di alcuni emendamenti, scritti dagli attivisti, per migliorare la regolamentazione quadro sulla gestione dei “cd. beni percepiti come comuni di proprietà pubblica” (delibera n. 7/2015). Così si introduceva un esplicito riferimento ai «regolamenti di uso civico o altra forma di autorganizzazione civica» da riconoscere in apposite convenzioni collettive e affiancando questo modello a quello delle concessioni e affidamenti.

    Il pieno riconoscimento c’è stato però con una successiva delibera, la n. 893 del 29 gennaio 2015: la dichiarazione di uso civico e collettivo urbano, che a quel punto era stata completata dagli “abitanti” dell’Asilo, è stata assunta «quale complesso di regole di accesso, di programmazione delle attività e di funzionamento, e innovativo modello di governo di spazi pubblici». La dichiarazione, esplicitamente richiamata anche nella parte dispositiva, così diventava non lo statuto di un’associazione assegnataria, ma il regolamento pubblico di utilizzo dello spazio. Veniva acquisito anche il calendario, che indicava come il concetto di sostenibilità andasse di pari passo con quello di “redditività civica”, cioè i vantaggi economici per tutto il territorio generati dalla capacità autonoma degli abitanti di coordinarsi per accogliere un numero impressionante di richieste da parte di altri concittadini (ex Asilo Filangieri, 2016).

    Così gli irrisori oneri di spesa per garantire l’accessibilità (come le utenze e la guardiania) potevano essere assunti dal Comune, mentre tutte le attività e la dotazione degli spazi gravavano sulla comunità generata dagli organi di autogoverno previsti dalla dichiarazione. Queste delibere hanno rappresentato la base per un’ulteriore estensione del modello. Un nuovo atto amministrativo, delibera n. 446 del 2016, ha riconosciuto «quali beni comuni emergenti e percepiti dalla cittadinanza quali ambienti di sviluppo civico e come tali strategici» altri sette ex-luoghi della città, occupati negli ultimi anni: ex Carcere minorile Filangieri (ora Scugnizzo Liberato); Ex Scuola Schipa; Villa Medusa; ex Lido Pola; ex Opg (ora Opg Je so’ pazzo); ex convento delle Teresiane (ora Giardino Liberato di Materdei); ex convento di Santa Maria della Fede (ora Santa Fede Liberata).

    Nello specifico, aderendo alla “seconda via” aperta con gli emendamenti alla delibera n.7 sopra citata, è stata attivata “una procedura di ricognizione degli spazi di rilevanza civica ascrivibili nel novero di beni comuni” che si è tradotta nell’acquisizione da parte degli uffici competenti di sette dossier, contenenti le attività generate fino ad allora e le forme di gestione sviluppate dagli occupanti. Una spinta dal basso che oggi ha portato il comune di Napoli a riconoscere un percorso che, allo stato attuale, coinvolge un patrimonio immobiliare di circa 40 mila mq2 ed è rivendicato da una rete di altre esperienze da Torino a Palermo, da Firenze a Reggio Emilia. Una strategia che crea nuove istituzioni, sia come una piattaforma polemica di quelle esistenti, sia come banco di prova per la realizzazione concreta di comunità capaci di organizzarsi in una eterogeneità, che non significhi neutralità, nei confronti dei modelli di produzione esistenti.

    NOTE
    [1] Una differenziazione questa che segue quella che l’art. 822 c.c. opera per il demanio: i beni comuni necessari e quelli in senso eventuale o emergenti si distinguono per le forme di governance. Al primo caso appartengono beni necessariamente in comuni, come l’acqua, la cui governance dovrebbe essere connessa a forme tradizionali di democrazia partecipativa; i beni comuni emergenti sono invece da forme di gestione diretta da parte delle comunità di riferimento, e emergono si possono generare queste forme di partecipazione.
    [2] Un modello di democrazia partecipativa su cui aveva alacremente lavorato l’allora assessore Alberto Lucarelli.

    Pagina tratta da Comune-Info. L'articolo completo di immagini, riferimenti e bibliografia è qui raggiungibile

    «Il parlamento si è fatto beffa del referendum del 2011. E la privatizzazione va avanti. È necessario perciò portare il tema dell’acqua nell’attuale campagna elettorale, chiedendo a ogni candidato e a ogni partito di esprimersi su questo tema vitale».

    Il processo di privatizzazione dell’acqua, in atto in Italia, è una minaccia al diritto alla vita. Nonostante il Referendum del 2011 – quando il popolo italiano aveva deciso che l’acqua doveva uscire dal mercato e che non si poteva fare profitto su questo bene così sacro – i governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni hanno fatto a gara per favorire il processo di privatizzazione dell’oro blu.

    Non migliore fortuna abbiamo avuto in parlamento, che aveva il dovere di tradurre in legge quello che il popolo italiano aveva deciso con il referendum, ma non l’ha fatto. A questo scopo il parlamento aveva a disposizione anche la legge di iniziativa popolare che aveva ottenuto oltre 500.000 firme. Ci sono voluti anni di pressione perché quella legge fosse presa in considerazione dalla Commissione ambiente della camera presieduta da Ermete Realacci (Pd). E quando l’ha finalmente accolta, la Commissione l’ha radicalmente snaturata e poi non l’ha mai fatta discutere in parlamento. È grave che due presidenti della Repubblica, Napolitano e Mattarella, non abbiano richiamato i parlamentari al loro dovere di legiferare secondo i dettami del referendum.

    Invece il parlament, nella Finanziaria ,ha incoraggiato gli Enti Locali a privatizzare il servizio idrico, permettendo loro di utilizzare i proventi delle alienazioni dei beni comuni come i servizi idrici per coprire mutui e prestiti e così ripianare i loro debiti. È questa ormai la via maestra per forzare i Comuni indebitati a privatizzare l’acqua.

    Inoltre, pochi giorni prima della chiusura del parlamento, è stato introdotto un emendamento nella Finanziaria per creare l’Acquedotto del Mezzogiorno, una multiutility, per gestire l’acqua del Centro-Sud dell’Italia! Un emendamento bipartisan proposto dal deputato pugliese Ginefra in nome del governatore della Puglia, Emiliano: «Nell’interesse dell’intero Mezzogiorno - aveva infatti detto Emiliano nel 2016 al Congresso nazionale ANCI, tenutosi a Bari - intendiamo dare avvio e realizzare un percorso nel quale l’Acquedotto Pugliese si trasformi in una holding industriale partecipata da quelle Regioni che intendono partecipare al progetto attraverso il conferimento delle rispettive partecipazioni azionarie nelle aziende regionali attive nell’acqua».

    Per le proteste di varie regioni del Sud, questo emendamento non è passato, ma è stato sostituito con un altro più generico, ma che resta sempre molto pericoloso. Infatti Emiliano sta già lavorando per includere nell’Acquedotto Pugliese la Gesesa Spa di Benevento e l’Alto Calore di Avellino, per farne una piccola multiutility. Ma il suo sogno è sicuramente l’Acquedotto del Mezzogiorno. Un bel bocconcino per l’Acea di Roma , ma soprattutto per le due più potenti e onnipresenti multinazionali dell’acqua: Suez e Veolia.

    Il popolo del referendum
    È il tradimento del Referendum da parte di tutti i partiti. È in particolare il tradimento del Pd che ha continuato con la sua politica di privatizzazione dell’acqua, ma anche dei Cinque Stelle, nati dalla lotta contro la privatizzazione dell’acqua, incapaci a Roma come a Torino a ripubblicizzarla. Così, in Italia, nonostante la vittoria referendaria, rischiamo di perdere il bene più prezioso che abbiamo.

    Per questo mi appello al popolo dell’acqua, a quel grande movimento popolare che ha portato alla straordinaria vittoria referendaria, perché ritorni ad obbligare una politica riottosa a conformarsi al volere popolare. Questo avverrà solo se sarà il popolo a muoversi. La prima cosa che tutti dobbiamo fare è quella di riportare il tema dell’acqua nell’attuale campagna elettorale, chiedendo a ogni politico e ogni partito di esprimersi su questo tema vitale.

    Per questo chiedo che i comitati cittadini, provinciali, regionali insieme al Forum scendano in campo per rimettere l’acqua al centro del dibattito politico. Mi appello anche al Coordinamento Centro-Sud perché si impegni contro la costituzione dell’Acquedotto del Mezzogiorno.

    Dobbiamo lavorare insieme, in rete. Le multinazionali dell’acqua infatti stanno unitariamente montando una campagna durissima. «L’acqua non è un diritto pubblico - ha detto recentemente il presidente della potentissima Nestlé, Peter Brabek-Letmahe. La Nestlé dovrebbe avere il controllo della fornitura idrica mondiale in modo che possa rivenderla alle persone con profitto». Ecco il loro piano! E contro questo enorme potere che dobbiamo batterci. Dobbiamo farcela. Si tratta di vita o di morte per miliardi di uomini e donne.

    Si tratta – come afferma papa Francesco – del diritto alla vita.

    .

    Gennaio 2018 Gli effetti sono noti -perdita di introiti per lo Stato, di efficienza economica e di giustiziasociale per il Paese – ma i numeri lo sono meno. L’evasione fiscale è, per suastessa natura, un fenomeno difficile da misurare: per provare a calcolarla glistudiosi si affidano perciò, oltre che a poco veritiere dichiarazioni deiredditi, ai più affidabili micro-dati provenienti dalle indagini campionarie.

    Qui, però, devono fare i conti con un altro tipo di evasione, stavolta diinformazioni. È il cosiddetto under reporting: i soggetti intervistati mentonosui propri redditi anche nelle rilevazioni, sottostimandoli nel timore che sipossano stabilire collegamenti con quanto hanno dichiarato al fisco. Quali sonole categorie di contribuenti più propense all’under reporting? E quantaevasione fiscale si nasconde dietro alle loro omissioni?

    Il dipartimento di Economiadell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha integrato i due principali approccidi stima dell’evasione - il discrepancymethod e il consumption-based method– con risultati sorprendenti: sui redditi da lavoro autonomo e impresa, unintervistato su 4 non dice la verità, e addirittura il 44% mente sugli affitti.

    Il punto dipartenza
    La ricerca indaga l’underreporting, cioè la tendenza adichiarare un reddito inferiore al reale nelle indagini campionarie, tra gliintervistati per la IT-SILC, la parte italiana della European Survey of Incomeand Living Conditions.
    Analisi

    Le precedenti stime dell'evasione fiscale ottenute in Italiacon il discrepancy method e basate sumicro-dati hanno spesso riportato tassi di evasione più bassi rispetto allestime ottenute con analisi macroeconomiche. La correzione per tenere contodell'under reporting del reddito ha consentito di allineare meglio le stimealle analisi macroeconomiche: il tasso complessivo di evasione per l'Irpef(stimato come rapporto tra redditi evasi e redditi lordi dichiarati) è quasidoppio rispetto a precedenti stime, passando da circa il 7,5% a circa il 14,4%della base imponibile potenziale. L'analisi econometrica ha confermato che l'under reporting riguarda soprattutto i contribuenti soggetti adautotassazione. Per i redditi da lavoro autonomo e impresa il tasso stimato di under reporting (dato dal rapporto tra redditi non indicati nelleindagini campionarie e redditi spendibili veri) è infatti del 23%, per salireintorno al 44% per i redditi da locazione. Grazie al nuovo approccio integrato,la stima del tasso di evasione totale sale a circa il 37% per i redditi dalavoro autonomo e impresa. L’evasione sulle rendite è intorno al 65%.

    Non sono invece stati individuati significativi tassi di under reporting tra i lavoratoridipendenti, che comunque hanno fatto registrare un tasso di evasione - stimatosulla base del solo discrepancy method - pari a circa il 3,5%. Lecorrezioni per l’under reporting alzano le stime del valore assoluto deiredditi complessivi evasi a 124,5 miliardi di euro (simulazione B) e a 132,1miliardi (simulazione C).
    La ricerca supporta l’ipotesi che la propensione degliindividui a sottostimare il proprio reddito nelle rilevazioni sia coerente –sia pure in misura minore – con la loro inclinazione a occultare gli introitialle autorità fiscali.

    La tabella 1 mostra le perdite di gettito (tax gaps) dovuteall’evasione fiscale. La perdita di gettito ammonta a 16,5 miliardi di euronella simulazione A, a 37,5 miliardi nella simulazione B e a 36,8 miliardinella simulazione C. La parte maggiore del tax gap è causata dall’evasione dalavoro autonomo e da impresa, che in entrambe le simulazioni B e C, checorreggono l’under reporting, è vicina ai 21 miliardi di euro. La perdita digettito dovuta all’evasione sugli affitti è invece un po’ più alta nellasimulazione C che nella B (14,7 miliardi contro 12,6) e decisamente più bassanella simulazione A, che non corregge l’under reporting (circa 3,3 miliardi). Itax gaps stimati per il lavoro autonomo nelle simulazioni B e C sono coerenticon quelli presentati – per lo stesso anno e per la stessa tipologia di reddito- nel rapporto ufficiale Mef 2016. In particolare, la perdita di gettito per illavoro autonomo è stimata nel rapporto, con un approccio macroeconomico, pari a20,1 miliardi di euro.
    Conclusioni

    L'under reporting dei redditi nelle indagini campionariecattura solo una parte dell'evasione fiscale. Lo studio ha evidenziato chel’under reporting interessa principalmente i redditi da lavoro autonomo e lerendite da capitale e da affitto. Non è stato riscontrato under reporting suiredditi da lavoro dipendente. Attraverso il discrepancy method è stataindividuata una relazione sostanziale tra l’evasione fiscale e l’underreporting. In particolare, correggendo i micro-dati sui redditi dell'indaginecampionaria EU-SILC per l'under reporting, il discrepancy method ha consentitouna più precisa quantificazione dell'evasione fiscale ed ha reso possibilestimarne gli effetti redistributivi, con simulazioni distinte per profili medie individuali. Crediti Lo studio è stato realizzato d
    Il dossier Stima l’evasione della principale impostaitaliana, l’Irpef, e ne analizza l’effetto sulla distribuzione del redditodelle persone fisiche. Si basa su un’innovazione metodologica, che integra duemetodi di stima precedentemente usati in modo separato, il discrepancy method e il consumption-basedmethod. Utilizza i micro-dati ricavabili dalla banca dati IT-SILCdisponibile dall’Istat e il modello di microsimulazione fiscale Betamod sviluppatopresso il Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari.
    Osservazioni

    La ricerca ha confermato la complessità del fenomenodell’evasione fiscale e la necessità di sviluppare approcci conoscitivi basatisu una pluralità di metodi di stima e confronto, oltre che su banche dati diqualità che integrino i dati amministrativi con informazioni da indaginicampionarie. Il dossier Stima l’evasione della principale imposta italiana,l’Irpef, e ne analizza l’effetto sulla distribuzione del reddito delle personefisiche. Si basa su un’innovazione metodologica, che integra due metodi distima precedentemente usati in modo separato, il discrepancy method e ilconsumption-based method. Utilizza i micro-dati ricavabili dalla banca dati IT-SILCdisponibile dall’Istat e il modello di microsimulazione fiscale Betamod sviluppatopresso il Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari.
    Crediti
    Lo studio è stato realizzato da Andrea AlbareaMichele Bernasconi Anna Marenzi Dino RizzI Università Ca’ Foscari di VeneziaFocus a cura di Uvi - Ufficio Valutazione Impatto Senato della Repubblicauvi@senato.it Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons

    l'articolo è la sintesi dello studio promosso e pubblicato dal Senato delle Repubblica. Il testo integrale è scaricabile qui.

    il manifesto

    Professor Focardi, nel nostro paese gli episodi di apologia di fascismo si stanno effettivamente moltiplicando o c’è solo maggiore attenzione da parte della stampa e dei partiti in campagna elettorale?
    «Direi l’una e l’altra cosa. Registro una ripresa di attenzione dei media non solo italiani, recentemente sono stato intervistato da quotidiani spagnoli, olandesi e inglesi che sono interessati e preoccupati dalla ripresa del fascismo in Italia. Magari la stampa enfatizza e crea allarmismo, magari c’è un uso strumentale di questi allarmi, ma è innegabile che ci sia un salto di qualità nelle azioni delle formazioni neofasciste italiane».

    Quali sono le caratteristiche di questo salto di qualità?

    «Innanzitutto va ricordato che l’Italia ha avuto il maggiore partito neofascista dell’Europa occidentale, il Movimento sociale. Negli anni Novanta abbiamo assistito a un ritorno di protagonismo dell’estrema destra, con il primo Berlusconi e il suo anticomunismo vintage. Oggi invece è la paura dell’immigrazione a sostenere i neofascisti. Non a caso prevalgono i richiami al nazismo, più che al fascismo, che pure aveva una componente razzista, ma su questo terreno il neonazismo funziona meglio. Si parla di “sostituzione etnica” e vengono recuperati slogan e simboli hitleriani, compresa la bandiera nella stazione dei Carabinieri qui a Firenze».

    Che giudizio dà della legge Fiano?
    «Mantengo delle perplessità, come tutti gli storici, sulle leggi che corrono il rischio di colpire la libertà di opinione. D’altra parte non ho dubbi che la democrazia vada difesa dalla minaccia concreta di queste formazioni neofasciste. Il loro obiettivo dichiarato è arrivare in parlamento, il loro recente protagonismo può essere letto come un’azione preventiva di fronte al rischio di scioglimento ed esclusione dalla competizione elettorale».

    L’antifascismo da campagna elettorale non è controproducente? Non è rischioso che possa essere rivendicato e identificato come il valore di una sola parte?
    «C’è questo rischio e va evitato. Ci dovrebbe essere un’attenzione costante per la minaccia neofascista, non solo in campagna elettorale. Non è sufficiente organizzare un corteo a Come, che pure va benissimo ed è da elogiare. Bisogna lavorare sul piano culturale, ormai è prevalso un paradigma valutativo del fascismo che lo ridimensiona, privandolo delle sue caratteristiche repressive, oppressive e criminali che invece ha storicamente avuto. Gli italiani trascurano completamente la dimensione criminale del fascismo e ne hanno un’immagine banale e riduttiva, come di una dittatura all’acqua di rose».

    Per questo può servire un museo storico sul fascismo? A Predappio?
    «Io penso sia necessario un museo importante sul fascismo, ma a Roma che è la città dov’è andato al potere o a Milano dove è nato. A Predappio il museo si presta più alla nostalgia che alla memoria. Fare di Predappio il luogo della visione critica del fascismo è una sfida che può essere persa e non possiamo permettercelo».

    Questo articolo è raggiungibile liberamente qui, nella pagina originale
    postilla
    Prima ancora di «un’attenzione costante per la minaccia neofascista» dovrebbe esserci una formazione volta nel suo insieme (dalla famiglia alla scuola alla società) a promuovere valori e principi negati dalle ideologie nazifasciste: il rispetto, il valore e le curiosità per la ricchezza costituita delle diversità, la solidarietà per i deboli e gli oppressi, l'accoglienza per i fuggitivi, e via enumerando i sentimenti e i gesti di civiltà.

    AG Altro Giornale.org,

    1) La strategia della distrazione.
    L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione, che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico da problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazione di continue distrazioni e informazioni insignificanti.
    La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico di interessarsi alle conoscenze essenziali nell’area della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica.

    Mantenere l’attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali imprigionata da temi senza vera importanza.
    Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare di ritorno alla fattoria come gli altri animali.

    2) Creare problemi e poi offrire le soluzioni.

    Questo metodo è anche chiamato: Problema > Reazione > Soluzione.

    Si crea un problema, una situazione prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare.
    Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi una violenza urbana, organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia che richieda le leggi di sicurezza e le politiche a discapito della libertà.

    3) La strategia della gradualità.

    Per far accettare una misura inaccettabile basta applicarla gradualmente, al contagocce, per anni consecutivi.

    E’ in questo modo che condizioni socio-economiche radicalmente nuove, neo-liberalismo, furono imposte durante il decennio degli anni ’80 e ’90.

    4) La strategia del differire.

    Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come dolorosa e necessaria, ottenendo l’applicazione pubblica nel momento, per un’applicazione futura.

    E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato: primo, perchè lo sforzo non è quello impiegato immediatamente, secondo, perchè il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza di sperare ingenuamente che tutto domani andrà meglio e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato.
    Questo da più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.
    5) Rivolgersi al pubblico come ai bambini.

    La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e un’intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale.

    Quando più si cerca di ingannare lo spettatore, più si tenta ad usare un tono infantile.
    Perchè?
    Se qualcuno si rivolge a una persona come se avesse dodici anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà con una certa probabilità ad una risposta o reazione come quella di una persona di dodici anni o meno.

    6) Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione.

    Sfruttare l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale.
    Inoltre, l’uso del registro emotivo, permette di aprire la porta di accesso all’inconscio, per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori.

    7) Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità.

    Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù.
    La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile.

    8) Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità.

    Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.

    9) Rafforzare l’auto-colpevolezza.

    Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia.
    Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto-svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione.
    E senza azione non c’è rivoluzione.

    10) Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscano.

    Negli anni ’50 i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti.
    Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il sistema ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia della sua forma fisica che psichica.
    Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.

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