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CONTRO LE ESTRAZIONI PETROLIFERE
PER LA CONVERSIONE ECOLOGICA DELL’ECONOMIA
IL CASO BASILICATA
Convegno Nazionale di Potere al Popolo
Potenza Salone del Cestrim Via Sinni

La Basilicata è un caso emblematico di come la politica economica centrata sull’estrazione di petrolio e l’uso dei combustibili fossili sia devastante non solo in termini di emissioni di carbonio o gas serra ma anche in termini di salute, pace, diritti ambientali e umani. Uscire dal fossile significa mettere in discussione un modello di sviluppo basato su un sistema di produzione e consumo che sfrutta e degrada risorse, territori e lavoro, e che moltiplica i conflitti al fine di accaparrarsi pozzi, trivelle e raffinerie.

Ci troviamo così di fronte a una dura scelta: continuare ad alimentare un sistema di produzione energetica che sconvolge il clima e ogni aspetto della nostra vita, oppure avviare una profonda transizione non solo verso un nuovo modo di produrre energia, ma anche di utilizzare risorse, produrre, consumare, abitare il pianeta. In questo convegno, a cura dei Tavoli Ambiente e Lavoro di Potere al Popolo, a partire dagli impatti dell’estrattivismo in Basilicata proveremo a delineare questa scelta. Vogliamo intraprendere un percorso che, partendo dal gigantesco patrimonio di storia, cultura e civiltà ignorato e tendenzialmente cancellato dal modello in atto, metta in campo un’economia che privilegi i bisogni sociali e la protezione dell'ambiente.

 

PROGRAMMA

Sabato 28 Settembre 2019 ore 11.00 - Piazza Zara, Potenza
Visita guidata ai Centri Oli di Viggiano e Tempa Rossa, lago del Pertusillo, Pozzo di Villa d’Agri. Prenotazioni dovranno arrivare agli organizzatori entro e non oltre il 15 Settembre.Sabato 28 Settembre ore 18.00 - Salone del Cestrim, Potenza
Proiezione dei documentari Mal d’Agri 1 e Mal d’Agri 2019. Dibattito con gli autori Mimmo Nardozza e Salvatore Laurenzana. Relazione introduttiva di Lidia Ronzano Referente del Coordinamento Regionale Acqua Pubblica Basilicata.

Domenica 29 Settembre 2019 ore 10.00 – Salone del Cestrim, Potenza
Incontro dibattito “ Contro le estrazioni petrolifere per la conversione ecologica dell’economia: il caso Basilicata”

Introduzione

di Antonella Rubino

Liberiamoci dal fossile per realizzare una giustizia ambientale e sociale
di Ilaria Boniburini

V.I.S. – Valutazione Impatto Sanitario: Uno strumento di sanità pubblica
del Dott. Giambattista Mele

Petrolio e inchieste giudiziarie in Basilicata: ipotesi di disastro ambientale
Avvocato Giovanna Bellizzi.

Dalle Vigne di Viggiano a C.da La Rossa di Montemurro a Tempa Rossa di Corleto Perticara: l’industria petrolifera occupa le campagne lucane
di Vincenzo Ritunnano

Seguiranno gli interventi di associazioni, movimenti e singoli cittadini.

Conclusioni

di Giorgio Cremaschi

 

BASILICATA E PETROLIO
Brevi note sull’attività estrattiva in Basilicata
aggiornate a luglio 2019

di Lidia Ronzano - Coordinamento Regionale Acqua Pubblica di Basilicata

Premessa

Gli scienziati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), la struttura scientifica dell’ONU che si occupa di Cambiamenti Climatici, hanno recentemente lanciato un forte allarme: entro il 2030 bisogna ridurre la CO2 almeno del 45% perché, in caso contrario, le temperature potrebbero innalzarsi di più di 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali provocando conseguenze catastrofiche, incontrollabili ed irreversibili. Insomma, non è più procrastinabile la TRANSIZIONE verso un sistema produttivo e di consumo non più basato su sprechi e fonti fossili e non più energivoro come l’attuale, ma orientato verso principi di sobrietà e di equa distribuzione delle risorse.
In Basilicata, però, si va in tutt’altra direzione con l’aggravante che ciò che accade è totalmente ignoto al di fuori dei confini regionali per via del patto di assoluto silenzio che sembra essere stato concordato fra tutti i media nazionali. Solo i gruppi attivi nella difesa dell’ambiente e dei diritti dell’uomo ne sono - in parte - a conoscenza grazie ai canali del web ed alle informazioni provenienti da associazioni, movimenti e cittadini locali che da decenni si battono contro i danni ambientali provocati dall’attività estrattiva.

In questa piccola regione, di soli 9.995 Kmq e con una popolazione di circa 560.000 abitanti al 2018 ed in continuo decremento, si trova il più grande giacimento on-shore (in terra ferma) d’Europa e si estrae più dell’80% del petrolio italiano, con conseguenze drammatiche sulla salute dei cittadini, sull’ambiente in generale ed, in particolare, sulla qualità dell’acqua, bene comune che qui è presente in abbondanza e la cui tutela dovrebbe essere assolutamente prioritaria, considerata la prospettiva di progressiva desertificazione dell’intero pianeta.

Ed invece la Basilicata è priva di un Piano Regionale di Tutela delle Acque e di un Piano Paesistico Regionale e continua a puntare sulle fonti fossili e sullo sfruttamento dei grandi giacimenti che, purtroppo, sono diffusi ovunque sul suo territorio.

Un po’ di storia del petrolio in Basilicata

Fin dal XV secolo le popolazioni lucane assistevano al manifestarsi di lingue di fuoco che segnalavano il bruciare del metano ed è del 1902 la notizia di fuoriuscite superficiali spontanee di petrolio e gas.

Già agli inizi della sua attività l’Agip -Azienda Generale Italiana Petroli, nata con Regio Decreto del 1926- si accorse della presenza di idrocarburi nella zona di Tramutola, in alta Val d’Agri e fra il 1939 ed il 1947 perforò, in quella zona, ben 47 pozzi.

Durante la seconda guerra mondiale sono proprio i prodotti petroliferi della Val d’Agri a permettere all’Italia di sopperire al blocco delle importazioni. Nel 1945 Enrico Mattei, su pressione degli americani interessati ad appropriarsi del petrolio italiano, riceve l’incarico di liquidare l’Agip ma, disattendendo il mandato, la trasforma in un colosso italiano del petrolio che, nel 1953, si dota del logo con il cane a sei zampe e diventa ente pubblico -Ente Nazionale Idrocarburi – sotto la presidenza dello stesso Mattei che durerà fino alla sua morte (1962). L’ENI verrà convertita in spa nel 1992.

All’inizio degli anni Sessanta Mattei punta fortemente sulla Basilicata scoprendo che anche la Valle del Basento è una miniera d’oro, ricca com’è di metano e petrolio. I lucani, da sempre poveri, vengono irretiti e gasati fino al punto da farli scendere in cortei che reclamano lo sfruttamento del sottosuolo.

Le ricerche, con la scoperta di molte altre sacche di idrocarburi, continuano nei decenni successivi, ma l’attività intensiva inizia negli anni ’80 e continua, senza interruzioni, fino ai giorni nostri.

La situazione attuale

Dai dati UNMIG (Ufficio Nazionale Minerario Idrocarburi e Georisorse – MISE) del 31.12.2018, la Basilicata risulta interessata da 19 concessioni di coltivazione (estrazione), 6 permessi di ricerca già accordati ed 1 concessione di stoccaggio, oltre a 17 nuove istanze di permesso di ricerca di petrolio e gas in terraferma, già presentate ed in attesa di autorizzazione.

Se tutte queste nuove istanze venissero concesse, più del 60% del territorio lucano sarebbe interessato da attività estrattive.

Sempre secondo i dati dell’UNMIG, in Basilicata ci sono 487 pozzi petroliferi perforati in terra ferma, di cui 271 sono in provincia di Matera e 216 in provincia di Potenza. Ad oggi i pozzi in produzione sono circa 40.

I comuni interessati da iniziative di ricerca ed estrazione petrolifera sono 81 sui 131 esistenti.

Carta titoli idrocarburi 30.6.2018

Va detto che attualmente dovrebbe essere in atto una sospensione delle nuove istanze e delle attività di prospezione e ricerca, per effetto della legge n.12 dell’11 febbraio 2019; il condizionale è d’obbligo, visto che dopo l’approvazione della legge non sono stati emanati gli atti amministrativi necessari a decretare concretamente la sospensione. La legge, molto avversata dai movimenti No Triv, prevede la redazione, a cura del MISE e del Minambiente, del PiTESAI - Piano per la Transizione Sostenibile delle Aree Idonee - che dovrebbe individuare le aree – in terraferma ed in mare - in cui sarà possibile estrarre idrocarburi. La legge prescrive, però, che il Piano per la terraferma venga adottato d’intesa con tutte le Regioni entro il 13 agosto 2020 e stabilisce –stranamente- che nel caso che non si raggiunga un accordo (come è molto probabile) entro il termine ultimo del 12 febbraio 2020, entri in vigore solo il Piano per le aree marine; in questo caso il Piano per la terraferma decadrebbe e per le estrazioni on-shore tutto tornerebbe alla situazione ante legem, ossia all’attuale possibilità di estrarre dovunque. I lavori sul PITESAI, però, a ben 6 mesi dall’entrata in vigore della legge sembrano essere ancora in fase di stallo ed intanto la Lega, il cui leader nazionale è nettamente schierato a favore delle estrazioni, è riuscita ad ottenere - in modo imprevedibile - ottimi risultati nelle recenti elezioni regionali lucane grazie ad una campagna elettorale fortemente sostenuta dai vertici nazionali; sicchè oggi c’è il considerevole rischio che il centro destra, che governa la regione, possa decidere di sfruttare l’eventuale assenza di Piano per la terraferma incrementando l’attività estrattiva. L’elenco di tutti i titoli minerari, sia esistenti che nuovi, è riportato nelle ultime pagine di questo documento.

Va evidenziato che fra le nuove istanze di prospezione e ricerca ce ne sono tre - “La Cerasa”, “Monte Cavallo” e “Pignola” (che ricade anche nel Comune di Potenza) – che hanno già ricevuto il parere positivo della Commissione V.I.A. (Valutazione di Impatto Ambientale) del Ministero dell’Ambiente e che in queste aree l’avvio della ricerca potrebbe essere rapidamente autorizzato in caso di non adozione del “PiTESAI on-shore”.

La Basilicata ospita inoltre sul suo territorio le infrastrutture di supporto all’attività estrattiva, ossia:

  • un oleodotto lungo circa 136 Km e costituito da cinque linee di tubazioni in acciaio, che oggi trasporta fino a Taranto il greggio estratto da ENI in Val d’Agri e fra non molto, quando l’attività a Tempa Rossa andrà a regime, trasporterà anche il greggio estratto lì dalla Total;
  • ben tre “centri oli”, ossia centri di primo trattamento degli idrocarburi.

Quello di più antica realizzazione ed ancora funzionante ha sede a Pisticci, in Val Basento. Si tratta di un’area SIN (Sito di Interesse Nazionale), ossia di una delle 57 aree più contaminate della penisola, classificate come pericolose per la quantità e le caratteristiche degli inquinanti presenti. E’ proprio in Val Basento che vengono smaltite ogni giorno enormi quantità di reflui presso l’impianto Tecnoparco Valbasento S.p.A, attualmente al centro di un processo ribattezzato “Petrolgate” per reati, tra l’altro, di contraffazione dei codici CER (Codice Europeo del Rifiuto)

Il secondo è il Centro Olio Val d’Agri (COVA) - la più grande piattaforma estrattiva in terraferma d’Europa - che funziona dal 1996 ed in cui vengono lavorati quotidianamente 80.000 barili di petrolio, che potrebbero diventare 104.00 in base ad un accordo del 1998 (un barile equivale a circa 159 litri di greggio).

Il terzo, quello di Tempa Rossa nell’alta Valle del Sauro, sta per entrare in funzione e lavorerà altri 50.000 barili al giorno.

Oltre a milioni di metri cubi di gas, la produzione quotidiana di idrocarburi potrebbe quindi ammontare, per le sole concessioni attualmente in essere, ad un totale ipotizzabile di 154.000 barili al giorno.

Va detto che ad ottobre del 2019 scadrà la concessione “Val d’Agri” e che il suo rinnovo potrebbe comportare una rinegoziazione – e forse anche un incremento - dei quantitativi di idrocarburi estraibili.

Centro Oli Tempa Rossa, Corleto Perticara - TOTAL
COVA - Centro Oli Val D'Agri, Viggiano - ENI

Danni connessi alle fasi del processo estrattivo

Per comprendere meglio quanto sia impattante l’attività estrattiva, è opportuno disporre di qualche breve cenno sulla conformazione di un giacimento di idrocarburi e sulle fasi dell’attività estrattiva.

Conformazione di un giacimento di idrocarburi
“Gli idrocarburi esistenti nel sottosuolo si raccolgono in giacimenti chiamati serbatoi. Ogni giacimento possiede due elementi essenziali: la roccia serbatoio (o reservoir) e la trappola di idrocarburi. La roccia serbatoio, porosa e permeabile, contiene gli idrocarburi; la trappola di idrocarburi è costituita da una particolare distribuzione delle rocce nel sottosuolo, che rende possibile trattenere gli idrocarburi nella roccia serbatoio. Essa è limitata superiormente da una roccia impermeabile (la roccia di copertura) che impedisce agli idrocarburi, più leggeri, di migrare verso l’alto.
Il limite inferiore del serbatoio è la superficie, generalmente piana e orizzontale, di separazione dal fluido sottostante, di norma rappresentato da acqua salata“. (Enciclopedia Treccani - caratteristiche geologiche dei giacimenti di idrocarburi)

Lo strato di olio, dunque, è poggiato su uno strato di acqua ed è sovrastato dal gas. Durante l’attività estrattiva tutti e tre gli elementi vengono portati in superficie, con la conseguente produzione di una grande quantità di acqua – l’acqua di produzione – caratterizzata da una importante radioattività e dalla presenza, al suo interno, di sostanze fortemente inquinanti (metalli pesanti e solidi sospesi) estremamente dannose per la salute dell’uomo.

Inoltre, per spingere il petrolio verso il punto di estrazione occorre iniettare una grande quantità di acqua che, per una parte, è la stessa acqua di produzione filtrata e, per la parte rimanente, è acqua prelevata in zona da falde, sorgenti o acquedotto.

Fasi del processo estrattivo
Ricerca ed estrazione
Per la ricerca e l’estrazione degli idrocarburi vengono realizzate trivellazioni verticali profonde migliaia di metri che attraversano terreni e falde acquifere superficiali e profonde in cui spesso si riversano i materiali fortemente inquinanti che entrano in gioco durante questa fase della lavorazione: lubrificanti con composizione spesso ignota in quanto protetta da segreto industriale che vengono utilizzati per facilitare la penetrazione della trivella e greggio disperso lungo la perforazione a causa delle frequenti disconnessioni nella camicia in acciaio di protezione del foro. Attualmente possono essere realizzate anche perforazioni orizzontali, che sono ancor meno controllabili delle verticali perché il loro andamento è spesso noto solo alle compagnie petrolifere.
A causa di queste contaminazioni, negli ultimi anni è stato più volte vietato l’uso di pozzi e sorgenti in molti comuni lucani. Inoltre numerose analisi di acque e sedimenti della diga del Pertusillo –che fornisce acqua anche alla Puglia - hanno evidenziato la presenza di idrocarburi e metalli pesanti e nei pesci sono stati rilevati contaminanti industriali e cianotossine. Va infine sottolineato che l’estrazione spreca enormi quantità di acqua spesso sorgiva (circa 8 litri per ogni litro di greggio) che si contamina e diventa rifiuto da smaltire.

Preraffinazione
Gli idrocarburi, una volta estratti, vengono trasferiti mediante condotte in acciaio negli impianti di prima raffinazione –i centri oli- e qui sono sottoposti ad un trattamento di preraffinazione, ossia di separazione dell’olio grezzo dal gas metano, dalle acque di strato e dalle scorie. L’olio grezzo viene poi trasportato alla raffineria di Taranto, dove avviene la raffinazione definitiva, mentre il gas metano viene immesso nella rete nazionale SNAM e le scorie e le acque di produzione vengono smaltite con varie modalità.
Uno dei problemi principali di questa fase è la produzione di ACIDO SOLFIDRICO H2S,un gas incolore che, bruciando, crea le fiaccole che sovrastano i camini dei Centri Oli.
Si tratta di un veleno assolutamente infido: il suo aroma di uova marce è avvertibile solo a basse concentrazioni; a più di 1 ppm (particella per milione)non è più percepibile perché determina paralisi del nervo olfattivo e può causare incoscienza in pochi minuti. Da 50 ppm (rischi oculari e respiratori) in poi diventa pericoloso, dannoso ed a 500 ppm mortale. A più di 1.000 ppm provoca l'immediato collasso con soffocamento anche dopo un singolo respiro.
Nel COVA sono lavorate e stivate in cisterne alcune tonnellate di questo micidiale veleno ed a Tempa Rossa è previsto il medesimo processo di lavorazione.
Inoltre, le sostanze inquinanti immesse in atmosfera dai camini dei Centri Oli si depositano sul terreno e sulle acque superficiali anche a distanze elevate.

Stoccaggio e trasporto
Il petrolio lucano, corrosivo perché ricco di zolfo, causa forature in serbatoi di stoccaggio e tubature dell’oleodotto che collega il COVA con Taranto.
Sono innumerevoli i casi di perdite diffuse nell’oleodotto ed a gennaio del 2017 un’enorme quantità di greggio fuoriuscì dai serbatoi del COVA inquinando terreni e falde. L’episodio è stato classificato come “disastro ambientale” ed ENI parlò di 400 tonnellate di greggio sversato ma oggi, dopo ben due anni, le idrovore stanno ancora lavorando a pieno ritmo e questo lascia ipotizzare uno sversamento di entità ben maggiore. A questo danno si rischia poi di aggiungerne un altro in quanto si prevede di riversare la miscela acqua-petrolio recuperata, dopo una “depurazione” chimica, nel fiume Agri, affluente del Pertusillo.
E’ elevatissimo il rischio per le popolazioni.

Smaltimento delle scorie
Il trattamento e lo smaltimento delle scorie è un problema molto rilevante del processo di lavorazione, a causa sia dell’enorme quantità che del tipo di scorie prodotte, costituite da materiali fortemente tossici ed anche radioattivi.
Nel COVA di Viggiano le scorie vengono smaltite in parte (2.500/2.800 mc. al giorno) mediante reimmissione ad elevatissima pressione nel pozzo “Costa Molina 2” (Montemurro), non distante dalla diga del Pertusillo: qui le scorie vengono “sparate” nelle cavità precedentemente occupate dai materiali estratti, con l’elevatissima probabilità di finire nelle falde idriche e di reimmettersi nella circolazione dei fluidi di profondità, le cui dinamiche sono ancora ben poco note.

Fiamma su un camino del COVA a Viggiano

E’ già accaduto che i fluidi reiniettati, una volta “proiettati” in profondità, siano risaliti in superficie a chilometri di distanza dal pozzo, riemergendo dal terreno nel bel mezzo di campi coltivati.
Fra ottobre e dicembre del 2017 l’attività di reiniezione venne sospesa per la presenza di sostanze fortemente inquinanti (ammine) nei fanghi da reiniettare.

Un’altra parte delle scorie viene trasportata con autocisterne in Centri di trattamento con varia localizzazione che dovrebbero essere (ma che spesso non lo sono) adeguatamente attrezzati sia per il tipo che per la quantità di rifiuti da trattare. I problemi di questa fase riguardano sia i rischi connessi al trasporto (possibili sversamenti , per incidente o per altra causa, delle sostanze pericolose trasportate), sia gli illeciti spesso compiuti dai Centri di trattamento, come nel caso dell’impianto Tecnoparco, di Pisticci, coinvolto in una vicenda giudiziaria tuttora in corso.

Per ridurre i costi connessi alla grande quantità di scorie da trasportare e da far trattare in Centri esterni, ENI ha programmato la realizzazione, ad opera della sua società ambientale Syndial, di un impianto –da posizionare accanto al COVA- che dovrebbe trattare direttamente le scorie (anche quelle radioattive) e poi sversare nei corsi d’acqua adiacenti –affluenti del Pertusillo- le acque residue che, a suo dire, risulterebbero perfettamente “depurate” e quindi innocue. Sono state, ovviamente, presentate numerose opposizioni a questo progetto da parte delle associazioni ambientaliste.
Una procedura simile è prevista a Tempa Rossa (Total); anche qui le “acque di produzione” –inquinate chimicamente e radioattive- dovrebbero essere “depurate” e poi sversate nel torrente Sauro, un corso d’acqua che si collega alla diga di Monte Cotugno (482 milioni di metri cubi) la quale fornisce acqua a Basilicata, Puglia e Calabria settentrionale. Parafrasando Marquez, si potrebbe quasi parlare di “cronaca di un disastro annunciato”.

Raffinazione
Non va dimenticato, infine, il danno ambientale provocato alla città di Taranto dalla raffinazione di tutto il greggio proveniente sia dal COVA che da Tempa Rossa.

Incremento del rischio sismico

La Basilicata, come la maggior parte del territorio italiano, è una zona ad altissimo rischio sismico. Nonostante ciò, le perforazioni vengono effettuate senza una preventiva ed accurata indagine geologica, con il rischio di inserire la trivella all’interno di una faglia e di provocare movimenti sismici.

In alcuni comuni della Val d’Agri (Moliterno, Montemurro etc.) è stata rilevata un’attività microsismica estremamente frequente causata proprio dalle attività estrattive, come evidenziato dal compianto Enzo Boschi, presidente dell’INGV -Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia- fino al 2011.

Le norme vigenti, inoltre, prescrivono soltanto la valutazione dell’impatto ambientale del singolo pozzo, ignorando completamente ciò che accade sul territorio a seguito dell’interazione fra perforazioni differenti ma non molto distanziate fra loro.

Estremamente problematica è anche la situazione del COVA, realizzato –per ragioni puramente economiche - proprio a ridosso dell'epicentro del terremoto del 1857, che provocò oltre diecimila morti. E’ facile ipotizzare che, in caso di sisma, i danni -in perdita di vite umane, in disastri ambientali ed in distruzione di manufatti- causati da possibili esplosioni, da dispersioni di petrolio e da fuoriuscite di acido solfidrico sarebbero immani.

Nonostante ciò, oggi si prevede addirittura di realizzare, nello stesso sito, anche l’impianto Syndial di trattamento delle scorie.

Incidenti e “non-incidenti”

E’ lunghissimo l’elenco degli incidenti connessi all’attività estrattiva; ne riportiamo, per brevità, solo qualcuno.

Sversamento COVA
Il più rilevante degli incidenti, classificato dalla magistratura come “disastro ambientale”, è sent’altro lo sversamento di 400 tonnellate di greggio da uno dei serbatoi di stoccaggio del COVA (secondo le dichiarazioni di ENI) che fu scoperto casualmente nel febbraio del 2017 e che provocò l’inquinamento di acque e sottosuolo – come si disse all’epoca - su almeno 26.000 mq. di territorio. Dalle inchieste successive è poi emerso che non si è trattato affatto di uno sversamento isolato, ma di un vero e proprio stillicidio da tutti e 4 i serbatoi del COVA, iniziato almeno nel 2012 ed ignorato volutamente dalla compagnia, con inevitabili danni per il Pertusillo con le cui acque vengono irrigati 35.000 ettari di terreno agricolo a cavallo fra Puglia e Basilicata.

Pozzi incidentati
Molti sono i pozzi ufficialmente classificati dall’UNMIG come incidentati. Fra questi anche quello di Monte Grosso, sito alla periferia di Potenza, e quelli di Brindisi di Montagna su cui, oltre ai notevoli danni ambientali, si intrecciano smottamenti, implosioni, misteri legati a tecniche e a strumentazioni usate, inchieste della Magistratura ed, addirittura, attenzioni particolari di servizi segreti stranieri. Nessuno di questi pozzi è stato bonificato.

“Non-incidenti” al COVA
Il monitoraggio in continuo dell’aria intorno al COVA è stato effettuato, fino al 2006, soltanto da ENI. Nel 2006 è stata installata la prima centralina mobile pubblica e solo nel 2014 ENI ha regalato ad ARPAB altre 4 centraline, peraltro già obsolete.

Paradossalmente, la storia dell’inquinamento dell’aria intorno al COVA può essere seguita solo attraverso una serie di “nonincidenti”, cioè incidenti mai ufficializzati come tali ma definiti “eventi” da ENI e dalle Istituzioni e riportati solo dalla cronaca e da benemerite associazioni attive già nei primi anni di attività del COVA e di ignoranza completa dei cittadini..

Nei dieci anni prima del 2018 solo i “nonincidenti” con sfiammate sono stati oltre 50, concentrati soprattutto negli ultimi quattro anni.

Nel 2016, nell’audizione di fronte alla commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, il Procuratore Francesco Basentini (Potenza) afferma: “tra metà 2014 e metà 2015 si sono verificati 15 episodi di gas flaring; da ottobre 2014 al primo aprile 2016, 7 episodi”. “Presumo che qualora succeda una volta all’anno ci stia, ma se succede con una certa frequenza, è un impianto che ha qualche problemino”.

Tra i maggiori inquinanti ce ne sono alcuni che, nonostante siano tipici dell’industria petrolifera, non sono normati ne’ a livello nazionale ne’ regionale e che nell’area raggiungono livelli molto più alti che in altre aree industriali italiane ed europee: si tratta degli idrocarburi non metano e dell’idrogeno solforato. Sospensione della reiniezione a Costa Molina 2 per presenza di ammine (ottobre/dicembre 2017) Innumerevoli divieti temporanei di uso di sorgenti a causa della presenza di idrocarburi

Rilevamenti di inquinanti nei sedimenti e nei pesci del Pertusillo i si augura almeno che in futuro i controlli diventino più stringenti, visto che il 3 luglio 2019 è stato firmato il protocollo - scaduto ad agosto 2018 - fra Regione Basilicata, ISPRA (Istituto Superiore Protezione e Ricerca Ambientale) e ARPAB (Agenzia Regionale Tutela Ambientale Basilicata) che impegna ISPRA ad una collaborazione tecnico-scientifica per il monitoraggio e la salvaguardia dell’ambiente e del territorio.

Da notare, però, che la Regione Puglia ha interessato, per le indagini sull’inquinamento di Taranto e sulla salute dei suoi abitanti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Perché non fare altrettanto in Basilicata dove i problemi ambientali e sanitari interessano un’intera regione?

Conseguenze dell’attività estrattiva sulla salute

Nonostante la presenza di molte attività fortemente impattanti oltre a quella estrattiva, la Regione Basilicata non si è mai preoccupata di effettuare studi sistematici per analizzare lo stato di salute dei lucani ed addirittura non si attiva neanche per aggiornare i registri regionali dei tumori.

L’unico vero studio epidemiologico – e non soltanto descrittivo – realizzato è stata la VIS (Valutazione di Impatto Sanitario) presentata nel settembre del 2017 per i comuni di Grumento Nova e Viggiano – in cui è situato il COVA- e redatta dal CNR di Pisa e dall’Università di Bari su commissione dei due comuni, che hanno utilizzato in questo modo una parte delle royalties del petrolio spinti a ciò dai comitati locali ed in particolare dall’Osservatorio Popolare Val d’Agri. L’obiettivo era quello di valutare l’impatto dell’attività del COVA sulla salute dei cittadini, con particolare riferimento alle malattie cardiocircolatorie e respiratorie. Lo studio, a carattere multidisciplinare, analizzò aria, acqua e suolo dell’area interessata, indagò sulla diffusione per via aerea delle emissioni provenienti dai camini del COVA e svolse, quindi, un’approfondita indagine epidemiologica sul piano sanitario. I risultati ottenuti hanno evidenziato, purtroppo, un eccesso di mortalità e di ricoveri ospedalieri nella popolazione dei due comuni rispetto sia alla media regionale che a quella dei 20 Comuni rientranti nella concessione Val d’Agri.

In particolare si è dimostrato un eccesso di mortalità del 63% nel sesso femminile e del 41% nei due sessi per malattie cardiovascolari, ed un eccesso di ricoveri nel sesso femminile del 41% per malattie circolatorie (con un aumento fino all’80% per malattie ischemiche) e del 48% per quelle respiratorie, con un eccesso di ricoveri per malattie respiratorie croniche nei due sessi addirittura del 118%!

Risultati così preoccupanti avrebbero dovuto indurre la Regione a dare inizio ad un sistema di sorveglianza continua ed a commissionare agli stessi redattori della VIS uno studio analogo, esteso a tutte le zone interessate dall’attività estrattiva sia in Val d’Agri che a Tempa Rossa. Invece si è scelto di avviare nuove indagini puramente descrittive - molto lontane dall’affidabilità scientifica della VIS - affidandole a fondazioni gestite sulla base di equilibri partitici.

Ricadute economiche ed occupazionali dell’attività estrattiva

L’occupazione
Il settore petrolifero è tradizionalmente un settore che genera poca occupazione in rapporto ai notevoli investimenti che lo caratterizzano e decenni di attività estrattive in Basilicata hanno ormai dimostrato quanto tale attività sia stata perniciosa per i livelli occupazionali locali:

  • pochissime maestranze locali a bassa specializzazione occupate nei luoghi delle estrazioni e poche Ditte (a fronte di innumerevoli agitazioni e lotte sindacali) del settore edilizio che operano nelle attività connesse, come movimenti di terra, perforazioni per palificazione, realizzazione di piattaforme e opere in cemento armato, abbattimento di alberi ed arbusti

a fronte di:

  • un elevatissimo numero di attività agricole e turistiche chiuse perché travolte dalla “prevalente” e del tutto incompatibile – attività estrattiva;
  • il blocco di ogni nuova iniziativa imprenditoriale nei settori a cui la Lucania è vocata, ossia agricoltura, turismo ed artigianato;
  • la conseguente emigrazione di massa dei giovani (3.000 ogni anno) e, negli ultimi anni, anche dei loro anziani genitori;
  • la chiusura di moltissime attività artigianali a causa dello spopolamento dei borghi, con danni antropologici ed economici incalcolabili dovuti alla conseguente perdita dei saperi (“know-how”) storicamente radicati nella gente lucana;
  • la progressiva perdita di valore commerciale di fabbricati e terreni dell’intera regione, a causa del progressivo spopolamento e del netto calo della domanda immobiliare;
  • la totale svalutazione degli immobili siti nelle aree circostanti le perforazioni, con conseguenti enormi danni economici per commercianti e cittadini che avevano “investito nel mattone” o che, semplicemente, avevano finalmente realizzato una casa per sé e per la propria famiglia accanto agli orti ed alle vigne poi invasi dall’attività estrattiva.

Un reale aumento dell’occupazione - e di un’occupazione di qualità – si avrebbe invece se si puntasse finalmente sulla produzione di energia da fonti rinnovabili realizzata non dalle multinazionali dell’energia ma mediante piccoli interventi diffusi e gestiti dai cittadini produttori/consumatori.

Questa attività – e non quella estrattiva – genererebbe realmente tantissimi nuovi posti di lavoro distribuiti su tutto il territorio, caratterizzati da differenti livelli di specializzazione e con addetti occupati nelle diverse fasi produttive (ricerca e sperimentazione di tecnologie, produzione, posa in opera, rinnovo, manutenzione, rimozione, smaltimento, recupero etc.)

Le maestranze “disimpegnate” dall’attività estrattiva, potrebbero inoltre trovare occupazione nella bonifica dei numerosi siti inquinati, nel recupero del sistema viario degradato per l’incremento del traffico di mezzi pesanti dovuto all’attività estrattiva, nella riqualificazione energetica degli edifici etc..

Va aggiunto a tutto questo il fatto che il 16 luglio del 2019 ENI e Coldiretti Basilicata hanno firmato un memorandum d’intesa a livello locale –il primo di un progetto esteso all’intera Italia– il cui fine è quello di supportare il marchio lanciato all’inizio del 2019 da Coldiretti e che si chiama “IO SONO LUCANO”.

Fra le azioni rientranti nel supporto c’è anche l’intento di ENI di dimostrare – grazie all’uso di strumenti digitali - che anche i prodotti provenienti dalle aree estrattive sono sicuri e sostenibili sotto il profilo ambientale. Se ne deduce che fra i prodotti commercializzati sotto il marchio “IO SONO LUCANO” ce ne saranno anche alcuni a fortissimo rischio di inquinamento in quanto provenienti da aree inquinate. E’ evidente che se domani qualcuno starà male per aver mangiato prodotti agli idrocarburi provenienti dalla Basilicata, questo provocherà un incalcolabile danno di immagine all’intera regione, distruggendo la sua tradizionale e storica fama di terra in cui “si mangia bene” e privandola di una delle sue ricchezze reali.

Royalties e canoni ENI

Dati desunti dal sito “Eni in Basilicata” https://www.eni.com/eni-basilicata/territorio/royalty-fiscalita.page

Percentuali Royalties in Basilicata
10% della produzione on-shore di gas e petrolio così ripartiti:

  • 7% a Regione (85% del 7%) e Comuni (15% del 7%)
  • 3% fondo per riduzione costo carburante (card carburante), misure di sviluppo economico (social card) etc.

Royalties versate da ENI e Shell in joint-venture
Periodo 1996/2018, Regione Basilicata e Comuni interessati dall’attività estrattiva: 1,8 miliardi di euro (media sui 22 anni: circa 81 milioni l’anno).
2018: 72,5 milioni di euro, di cui 21 allo Stato, 44,2 alla Regione Basilicata e 7,3 ai sei Comuni interessati dalle attività petrolifere (produzione anno 2017).

Canoni di esplorazione e produzione, concessioni e altra fiscalità

2014-2016: canoni di esplorazione e produzione e concessioni 92.000 euro.

2014-2016: 12,3 milioni di euro, di cui 4,6 milioni di euro nel 2016 per tributi locali, tassazione specifica ed imposte sul reddito della Società.

Versamenti IRAP alla Regione Basilicata: circa 7.500 euro.

Versamenti IMU ai Comuni: circa 1,7 milioni di euro di cui 313 mila euro nel 2016.

A tutto ciò andrebbero aggiunti 39 milioni di euro chiesti ad ENI per sanare il disastro ambientale per lo sversamento al COVA.

Il grave paradosso è quello che, nonostante queste cifre vengano sbandierate in ogni dove, la Basilicata è una delle regioni più povere d’Italia, con un forte incremento delle patologie, un forte tasso di emigrazione ed una popolazione in progressivo invecchiamento.

Estrazioni petrolifere ed inchieste giudiziarie
Molte inchieste giudiziarie si sono intrecciate nel tempo con l’attività estrattiva concentrandosi soprattutto sull’oleodotto per Taranto e sulle due principali aree regionali di estrazione: la Val d’Agri con il COVA, di ENI, e la Valle del Sauro con il centro oli di Tempa Rossa, di TOTAL.

Inchiesta “Tangentopoli lucana”, capitolo ENI-AGIP: inizia nel 2002 e fa emergere una fitta rete di corruzioni e favoritismi che girano intorno al pagamento di tangenti a politici, militari e pubblici funzionari per la costruzione dell’oleodotto tra la Val d’Agri e Taranto.

Inchiesta “Totalgate”: riguarda la costruzione del centro oli Total di Tempa Rossa ed inizia a dicembre del 2008 con accuse di corruzione, turbativa d’asta, condizionamento negli appalti e taglieggiamenti dei proprietari dei terreni interessati. Il senatore lucano Margiotta è fra gli indagati e vengono eseguite ordinanze di custodia cautelare in carcere per l’a.d. di Total Italia Lionel Lehva e per alcuni dirigenti locali della compagnia. Il processo si è concluso con l’assoluzione o con la prescrizione per tutti gli imputati.

Più ampio e complesso è l’iter dell’inchiesta “Petrolgate” che interessa 57 soggetti -47 persone e 10 società fra cui ENI – e risale al 2016. Essa si articola su tre filoni d’indagine:

  1. stoccaggio nel porto di Augusta (Siracusa) del greggio prodotto in Basilicata: questo filone è stato trasferito a Roma e poi archiviato;
  2. espropri ed autorizzazioni nella costruzione del Centro Oli di Tempa Rossa, con accuse di condotte illecite ad amministratori, imprenditori e dirigenti Total. Nell’aggiudicazione dei lavori per la realizzazione del Centro Oli venne coinvolto anche l’imprenditore Gianluca Gemelli, accusato a marzo 2016 di aver approfittato della posizione della compagna Federica Guidi, allora Ministro dello Sviluppo Economico, per ottenere lo sblocco dei lavori di costruzione dell’impianto, a cui era personalmente interessato. L’incriminazione di Gemelli costrinse la Guidi a dimettersi. Il processo, che ha finora portato alla condanna a tre anni per un imprenditore, è ancora in corso;
  3. attività del COVA. In questo filone le indagini si sono sviluppate lungo tre direttrici:
    • la presunta attività di traffico illecito di rifiuti liquidi (anche mediante contraffazione dei codici CER) prodotti dal COVA e smaltiti in parte mediante reiniezione nel pozzo Costa Molina 2 ed in parte presso l’Impianto TECNOPARCO di Pisticci. A proposito del trattamento dei rifiuti ENI a TECNOPARCO, si legge nella relazione della DNA del 2017: “Gli approfondimenti investigativi consentivano di acclarare un vero e proprio traffico illecito di rifiuti (ex art. 260 DL 152/2006) consumato dai manager e dai funzionari di entrambe le strutture aziendali”.
    • la natura delle sostanze gassose immesse in atmosfera attraverso i camini situati all’interno dell’impianto;
    • gli eventuali danni prodotti all’ambiente e/o alla salute umana dall’attività industriale del COVA.

In queste due ultime direttrici si inserisce quanto accaduto a febbraio del 2017, con la scoperta dello sversamento di 400 tonnellate di greggio dai serbatoi del COVA che ha portato ad un ampliamento e ad un approfondimento delle indagini con una modifica dei capi d’accusa nei confronti di ENI.

Nella relazione finanziaria sul bilancio 2017, infatti, ENI è costretta ad ammettere che, come emerso nell’ottobre del 2017, l’indagine epidemiologica dei pm di Potenza sui lavoratori del COVA è diventata un’inchiesta per omicidio e lesioni colpose, oltre che per disastro ambientale.

Si intrecciano con queste indagini i misteri legati a due suicidi, su cui non è stata fatta ancora chiarezza. Suicidio Conti: il 17 novembre 2017 nelle campagne di Pacentro (L’Aquila) viene trovato senza vita il corpo dell’ex gen. dei carabinieri forestali Guido Conti, che aveva accettato l’incarico della Total come responsabile per l’ambiente e la sicurezza di Tempa Rossa a partire dal 1 novembre. Il generale, dopo soli 10 giorni dalla firma del contratto di consulenza trascorsi – secondo il racconto della moglie - con un umore molto cupo, aveva inspiegabilmente deciso di dimettersi dall’incarico e poi, allontanatosi dalla sua abitazione, si sarebbe ucciso sparandosi un colpo di pistola alla testa. L’inchiesta per chiarire la dinamica di questa morte e verificare se si è trattato effettivamente di suicidio, è stata recentemente riaperta dal Gip del Tribunale di Sulmona ed è attualmente in corso.

Suicidio Griffa
A luglio del 2013 il trentottenne ing. Gianluca Griffa, ex responsabile della produzione del COVA, venne trovato impiccato ad un albero in un bosco fra Cuneo e Torino. Dopo varie vicende vennero ritrovati una sua lettera indirizzata ai carabinieri di Viggiano ed all’UNMIG “in caso capiti o mi capiti qualcosa” ed un memoriale in cui l’ingegnere parlava di perdite di greggio “dai numerosi fori nei serbatoi del COVA” che sarebbero iniziate già nel 2012 (e non nel 2017 quando sono state scoperte) e di livelli di produzione di una delle linee di trattamento di gas portati oltre il limite autorizzato, con il rischio di incidenti. Griffa raccontava inoltre che i responsabili della compagnia, alle sue rimostranze, gli dissero “di smettere di rompere” e lo rimossero dall’incarico. E’ inoltre noto che essi lo convocarono a Milano 4 giorni prima che egli facesse perdere le sue tracce e venisse poi ritrovato morto. Attualmente sulla base di questo memoriale si è avviata la nuova indagine “Petrolgate 2” condotta dal Procuratore di Potenza Francesco Curcio il quale, nell’aprile del 2019, ha asserito tramite comunicato stampa: che gli sversamenti di petrolio a Viggiano sono iniziati fin dal 2012 e sono stati sin da subito ben noti alla compagnia, la quale ha colpevolmente assunto un atteggiamento di sostanziale inerzia; che il CTR - Comitato Tecnico Regionale che avrebbe dovuto svolgere un compito di vigilanza sull’attività di ENI – ha assunto anch’esso un atteggiamento di colpevole inerzia. L’inchiesta, con 13 indagati, ha finora portato alla sospensione per 8 mesi di cinque membri del Comitato Tecnico Regionale Grandi Rischi ed agli arresti domiciliari dei dirigenti ENI Enrico Trovato, Ruggero Gheller ed Andrea Palma.

Il futuro

Il futuro non sembra andare affatto verso una virtuosa transizione energetica della regione Basilicata, visto che, oltre alle compagnie, anche le forze politiche e sindacali locali lavorano alacremente per rimanere ancorate al fossile, ancora abbagliate da miraggi di sviluppo finora dimostratisi del tutto vani.

Il 29.8.2017 Giancarlo Vainieri, presidente del Centro Studi Sociali e del Lavoro della Uil di Basilicata, in occasione di un dibattito aperto dal “La Nuova del Sud”, avanzò l’idea di un Fondo Sovrano Regionale -sul modello norvegese e dell’Alberta Heritage Savings Trust Fund- da finanziare con le royalties del petrolio e con i proventi derivanti dalla “valorizzazione”- ossia dalla vendita - dell’acqua (in aperto contrasto con quanto deciso da 27 milioni di cittadini italiani nel referendum sull’acqua pubblica del 2011). Secondo la sua ipotesi il fondo sarebbe rimasto investito per 50 anni ed avrebbe fruttato, a scadenza, circa 40-50 miliardi. Il Sole 24 ore del 7.8.2018 ribadì la proposta parlando anche di un supporto del Censis, Centro Studi Investimenti Sociali (https://www.ilsole24ore.com/art/basilicata-petrolio-royalties-il-record-e-si-pensa-un-fondo-sovrano-AE471vXF?refresh_ce=1).

Anche la pubblicazione “Affari e Finanza” (Salerno) di lunedi 8 luglio 2019 ha dato notizia della proposta avanzata dalla Fondazione Mattei affinchè la Basilicata, in quanto “mini-potenza petrolifera”, si doti di un fondo sovrano (i fondi sovrani sono finalizzati ad investire denaro pubblico in strumenti finanziari come azioni, obbligazioni, immobili etc.).

E’ evidente che il pensiero sotteso a simili propositi non va affatto nel senso auspicabile, ed ormai indispensabile al pianeta, di un rapido abbandono delle attività estrattive.

Intanto, nonostante tutte le devastazioni di cui abbiamo parlato finora, le compagnie cercano di ricostruirsi un’immagine “green” ed accattivante che consenta loro di accaparrarsi anche il mercato delle rinnovabili e continuano a circuire i cittadini lucani per carpirne il consenso, sponsorizzando attività di ogni tipo (sportive, artistiche, culturali, religiose, sociali, informative etc.).

“Orizzonti: idee dalla Val d’Agri” è la rivista creata da ENI in Val d’Agri. Una pubblicazione mensile diretta da Mario Sechi per parlare della presenza storica di ENI in Basilicata e raccontare le bellezze lucane.

“CuoreBasilicata” è il progetto artistico e culturale di Jacopo Fo finanziato da ENI, che il 17.9.2018 è stato presentato a Villa d’Agri (dove c’è un “pozzo urbano” di ENI, situato a poche centinaia di metri dalla piazza centrale, dal municipio e dall’ospedale) e che coinvolge 11 comuni della valle oltre a scuole, associazioni e media. Esso durerà fino alla fine del 2020 e servirà “al (ri)lancio dell’area a livello nazionale e internazionale, attraverso lo sviluppo e la valorizzazione delle sue grandissime potenzialità culturali, storiche, paesaggistiche, agricole, artigianali”.

Villa d'Agri con il pozzo Alli2

Ed ancora, a maggio del 2019, nel corso dell’assemblea annuale degli azionisti, l’ad di ENI Claudio Descalzi ha presentato il progetto “Energy Valley”, che prevede un investimento di circa 80 milioni di euro in quattro anni (ben pochi se rapportati ai miliardi da investire in Italia, tenuto conto del ruolo centrale della Basilicata nelle estrazioni e nell’arricchimento della compagnia) per creare “un distretto produttivo basato sulla diversificazione economica, sulla sostenibilità ambientale e sull'economia circolare”: installazione di impianti fotovoltaici e altre iniziative “ad alta sostenibilità ambientale” con 300 nuovi posti di lavoro di cui 200 per la realizzazione e 100 per la gestione!

Tutta questa incessante opera di “captatio benevolentiae” sembra aver prodotto risultati positivi per le compagnie dell’oil&gas, visto che le ultime consultazioni elettorali hanno consegnato l’Amministrazione Regionale e quella del Capoluogo di Regione a coalizioni di centro destra capeggiate dalla Lega, anche grazie al forte sostegno del vicepremier Salvini che in più occasioni si è palesemente e platealmente schierato a favore delle compagnie e delle estrazioni.

Queste sono, attualmente, le posizioni ufficiali espresse dai nuovi rappresentanti istituzionali: il Governatore Bardi (Lega) ha affermato “di non voler andare oltre quanto stabilito” e “di non voler rilasciare altri permessi per nuove trivellazioni”; il presidente del Consiglio Regionale Cicala (Lega) ha definito il petrolio “fonte di grandi problematiche ma anche di grandi potenzialità occupazionali e di crescita”; il sindaco di Potenza Guarente (Lega) ha promesso battaglie ambientali contro il petrolio e l’eolico selvaggio. Le azioni concrete sembrano, però, andare in tutt’altra direzione.

Il prossimo 26 ottobre scade la concessione di coltivazione ENI “Val d’Agri” che, secondo una norma del governo Monti mai modificata o abrogata neanche dall’attuale “governo del cambiamento”, sarà rinnovata automaticamente. Occorre, però, decidere se la nuova concessione manterrà l’attuale limite estrattivo di 80.000 barili al giorno, consentirà di raggiungere i 104.000 barili autorizzati con il memorandum del 1998 o, addirittura, incrementerà ulteriormente le quantità massime consentite.

Su questo rinnovo sarebbero in corso trattative segrete. Intorno al 20 giugno scorso la stampa ha dato notizia di un incontro fra il ministro Salvini e l’ad di ENI Claudio Descalzi durante il quale Salvini avrebbe chiesto ad ENI ulteriori investimenti in Basilicata e la compagnia petrolifera si sarebbe dichiarata disponibile a destinare altri 4 miliardi alla Val d’Agri. L’idea di Salvini sarebbe quella che, in un’ottica di autonomia differenziata delle regioni, il petrolio possa costituire per la Basilicata lo strumento per garantire la propria autonomia.

Sembra quindi – purtroppo - ipotizzabile che le amministrazioni principali della regione finiranno con l’adeguarsi alla linea del segretario della Lega (ex Lega Nord!) prolungando sine die l’era del fossile.

Conclusioni

Come per tutte le attività impattanti sull’ambiente, anche coloro che sono critici nei confronti dell’attività estrattiva si dividono fra possibilisti e nettamente contrari, ossia fra chi ritiene che esistano soluzioni tecniche e tecnologiche che, se applicate, neutralizzerebbero gli effetti negativi e chi, invece, ritiene che il petrolio – come dice Padre Alex Zanotelli – debba essere lasciato sottoterra.

Noi apparteniamo a questa seconda categoria.

Il pianeta è sull’orlo di una catastrofe climatica di cui avvertiamo già da tempo i sintomi. I vertici mondiali sul clima si susseguono ed in quello di Parigi del 2015 si parlò dell’urgente necessità di contenere entro 2 gradi – meglio se entro 1,5 gradi - l’incremento della temperatura del pianeta; gli allarmi del mondo scientifico si moltiplicano; Papa Francesco ha scritto la “Laudato Si”; Greta Thumberg è diventata un simbolo mondiale. Eppure, nessuno dei governi del pianeta sembra prendere sul serio la situazione e neanche nel vertice mondiale 2018 di Katowice sono state fissate regole stringenti che obblighino i Paesi a ridurre la produzione di CO2 in tempi compatibili con le condizioni planetarie, ossia immediatamente. Proseguire su questa strada ormai non è più possibile, pena l’estinzione del genere umano e delle altre specie viventi che popolano la nostra casa comune.

Qualcuno, quando la terra non sarà più abitabile, potrà salvarsi andando su Marte o su qualche altro pianeta? Sembra che alcuni ci credano davvero, visto il recente affannoso incremento della ricerca di altri mondi vivibili.

Se anche ciò fosse possibile però, sarebbe riservato a pochi ed è un’ipotesi che non ci interessa.

Ecco perché è indispensabile che l’attenzione di tutte le parti sane della società si concentri su questa piccola regione: la Basilicata deve diventare un simbolo ed un’occasione di riscossa per chi non vuole arrendersi alla distruzione del pianeta ed occorre una chiara, ferma e palese presa di posizione a favore della Basilicata affinché tutti conoscano i misfatti che vi accadono e si attivino per sostenere e condividere l’azione di comitati e cittadini locali nel loro quotidiano confronto con i colossi dell’energia e con le istituzioni.
Potere al Popolo non può che essere in prima linea in questa battaglia.

Qui il PDF della relazione di Lidia Ronzano.

Gli incendi nella foresta amazzonica, baluardo vitale della biodiversità, contro i cambiamenti climatici e per la sopravvivenza di 30 milioni di persone, quest'anno sono aumentati dell'83% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Bolsonaro ha ripetutamente affermato che il suo paese dovrebbe aprire l'Amazzonia agli interessi commerciali, per consentire alle aziende minerarie, agricole di sfruttare le sue risorse naturali. La distruzione della parte brasiliana della foresta è notevolmente incrementata sotto il nuovo presidente. Nei primi 11 mesi, la deforestazione aveva già raggiunto i 4.565 km quadrati, con un aumento del 15% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.

La terra è sotto pressione, i terreni e le fonti d’acqua del pianeta sono sottoposti a uno sfruttamento “senza precedenti” nella storia umana, avverte un nuovo rapporto delle Nazioni Unite. E lo sfruttamento di queste risorse fondamentali, combinato con l’impatto del cambiamento del clima, minaccia la capacità del pianeta di nutrire la specie umana.

Siamo abituati ad associare la questione del cambiamento climatico alla produzione di energia, ed è giusto: è bruciare petrolio, carbone o gas che genera i gas “di serra” che si concentrano in modo abnorme dell’atmosfera terrestre e riscaldano il pianeta.

Anche la relazione tra noi umani e la terra però ha dirette conseguenze sul clima. Come produciamo cibo, se proteggiamo le foreste o continuiamo a disboscare. Non solo: se le popolazioni rurali hanno accesso alla terra, o ne vengono cacciate; che tipo di agricoltura pratichiamo e quali consumi alimentari prevalgono; se la sicurezza alimentare è garantita a tutti o solo a pochi: tutto questo è legato al riscaldamento terrestre. Tra la crisi del clima e molte crisi sociali c’è una relazione diretta.

Di questo tratta il rapporto su “Terra e cambiamento del clima” (Climate Change and Land, Summary for Policymakers) diffuso giovedì 8 agosto dal Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), il comitato scientifico istituito dalle Nazioni Unite per fornire ai governi valutazioni scientifiche condivise sui cambiamenti climatici.

Il rapporto, redatto da un centinaio di ricercatori di 52 paesi, conferma ciò che molti scienziati e attivisti sostengono da tempo: se non cominciamo da subito ad abbandonare i combustibili fossili, le conseguenze della crisi del clima sulla terra e sul sistema alimentare globale saranno catastrofiche – anche se non equamente distribuite, perché colpiranno soprattutto le popolazioni più povere e vulnerabili.

Riassumiamo. Sappiamo che ogni cambiamento nelle condizioni del territorio influisce (e molto in fretta) sul clima circostante e su quello globale, perché può modificare il regime delle piogge e le temperature nel raggio di centinaia di chilometri.

La terra colonizzata dagli umani

Oggi la specie umana usa circa il 70 per cento della superficie terrestre libera da ghiacci, ci ricorda il Ipcc. Tra un quarto e un terzo delle terre disponibili sono usate per produrre cibo, mangimi, fibre tessili, legname, energia. L’agricoltura usa circa il 70 per cento dell’acqua dolce disponibile.

Nell’ultimo mezzo secolo, l’effetto combinato della crescita della popolazione umana e del cambiamento dei consumi alimentari ha prodotto una pressione senza precedenti sulla terra e le fonti d’acqua. Dal 1961 a oggi ad esempio la produzione pro capite di carne e oli vegetali è raddoppiata.

Un uso così intenso della terra ha esacerbato il degrado dei suoli, la perdita di nutrienti, erosione, desertificazione e così via. Il cambiamento climatico aggrava tutto: con eventi estremi più frequenti e più intensi, siccità, alluvioni, ondate di caldo, l’erosione delle coste, il livello dei mari che sale e il permafrost (le terre perennemente ghiacciate) che si scioglie. E tutto questo minaccia direttamente proprio la produzione di cibo.

Il cambiamento climatico ha già messo a repentaglio la sicurezza alimentare in molte regioni del pianeta, afferma il Ipcc. I rendimenti agricoli sono ormai declinati in molte regioni tropicali e subtropicali, e così anche la produttività dei sistemi pastorali in Africa. Abbiamo più regioni esposte alla desertificazione (in Asia e Africa, e nel Mediterraneo), agli incendi (nelle Americhe, Africa meridionale e Asia centrale), ai cicloni (le zone costiere tropicali e subtropicali). Avremo verosimilmente più persone costrette a spostarsi per cercare sopravvivenza, all’interno delle regioni e all’esterno. Vedremo sempre più conflitti per la terra e risorse sempre più scarse. Questi allarmi sono già circolati, ma qui abbiamo una conferma autorevole.

Ancora un dato: agricoltura, attività forestali e altri usi della terra rappresentano circa il 23 per cento della quantità totale di gas di serra di origine antropogenica (cioè generati dalle attività umane), calcola il Ipcc (il 13 per cento dell’anidride carbonica, 44 per cento del metano e 82% degli ossidi di azoto). Se si sommano le attività pre e post produzione, arriviamo a oltre un terzo delle emissioni.

Dunque, come usiamo la terra può fare una differenza fondamentale, per mitigare l’impatto del cambiamento del clima.

Il punto è come. Il documento del Ipcc parla di organizzare la produzione alimentare e gestire le foreste in modo sostenibile, per conservare gli ecosistemi e i nutrienti nei suoli. Raccomanda di eliminare gli sprechi (oggi circa un terzo del cibo prodotto viene scartato per vari motivi, spiega lo studio), e di rivedere la struttura dei consumi alimentari: nel mondo ci sono circa 2 miliardi di adulti in sovrappeso o obesi, mentre 821 milioni di persone sono denutrite.

(Molti si aspettavano dal Ipcc un appello a diventare vegetariani o vegani: ma sarebbe stato riduttivo. Il documento parla di diversificare il sistema alimentare, di diete bilanciate con più vegetali e legumi e proteine animali prodotte in modo non distruttivo – e meno carne, sì, perché l’allevamento intensivo è insostenibile).

Alcune misure evocate dal documento hanno impatto immediato: ad esempio preservare le foreste di torba, le mangrovie e le zone umide, perché intrappolano tonnellate di carbonio. Altre sono indispensabili ma daranno frutti più a lungo termine, come ripiantare alberi e rigenerare suoli degradati. In ogni caso sono tutte possibili, urgenti, e spesso già praticate.

Il Ipcc però sottolinea due cose importanti. La prima è che c’è un limite al possibile uso della terra per “mitigare” il cambiamento climatico. Se ad esempio volessimo puntare tutto sugli agro-carburanti dovremmo usare almeno 7 milioni di chilometri quadrati di territorio, avverte: più dell’intero Brasile. Territorio che sarebbe tolto alla produzione alimentare, magari spingendo coltivatori e allevatori su zone naturali ancora protette. Il risultato sarebbe accelerare il degrado, invece di fermarlo, mettendo agrocarburanti contro la sicurezza alimentare. Il Ipcc raccomanda opzioni che non competano per la terra.

(E questo significa che non si sfugge: resta indispensabile cominciare subito la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili – sole, vento).

La giustizia della terra

L’altra cosa importante è che un uso sostenibile della terra ha benefici immediati e a lungo termine per chi ci vive. Ovvero, conservare la produttività della terra e la biodiversità, aumentare la concimazione organica, preferire le varietà autoctone, proteggere i bacini idrici e le foreste, invertire il degrado degli ecosistemi e così via, sono una strategia che contribuisce allo sviluppo umano, alla sicurezza alimentare e alla lotta alla povertà.

Per questo il documento parla anche di garantire l’accesso alla terra, per esempio riconoscere i diritti consuetudinari delle popolazioni native, e valorizzare i saperi locali, garantire più potere alle donne, promuovere la partecipazione. Un po’ di giustizia sociale fa bene al clima, e viceversa.

Ripreso dal sito terraterraonline.org
Riprendiamo un articolo di Mary Annaïse Heglar, saggista e direttore delle pubblicazioni dell'organizzazione Natural Resources Defense Council nata dal movimento ambientalista degli anni '70. L'articolo è stato pubblicato su Vox in inglese e ripreso in italiano dal sito di Fridays for Future Italia. (a.b.)

Mi trovo alla cena di compleanno di un amico, quando inizia una conversazione fin troppo familiare. Mi presento al tipo alla mia destra e quando gli dico che lavoro nel campo ambientale, subito sbianca in volto e la stretta di mano si affloscia."Mi odierai…" borbotta imbarazzato, la sua voce è un sussurro nel tintinnìo delle posate.

Sapevo già cosa avrebbe detto. Mi ha intrattenuto con il lungo elenco degli errori che aveva commesso contro l'ambiente solo quel giorno: aveva ordinato il pranzo e gli era stato portato in contenitori di plastica; aveva mangiato della carne e stava per ordinarne ancora; e aveva pure preso il taxi per venire a questa festa.

Sentivo la vergogna nel tono della sua voce. Gli ho assicurato che non lo odiavo, ma che odiavo le industrie che avevano indotto lui - e così tutti noi - in questo inganno. A quel punto ho visto le sue spalle rilassarsi e il suo sguardo ha incontrato il mio. "Sì, perché tanto, non ha neanche più senso provare ancora a salvare il pianeta, vero?"

Ho sentito una stretta allo stomaco.

Purtroppo mi capita molto spesso. Basta un accenno ai miei cinque anni nel Consiglio per la Difesa delle Risorse Naturali o al mio lavoro nel movimento per la giustizia climatica e vengo bombardata da contrite confessioni di trasgressioni contro l'ambiente, oppure da espressioni di rassegnazione nichilista. Da un estremo all’altro.

E capisco il perché. Gli scienziati ci stanno avvertendo da decenni: noi umani stiamo causando alterazioni gravi e potenzialmente irreversibili al clima, stiamo sostanzialmente arrostendo il nostro pianeta e noi stessi, con il biossido di carbonio. Il report del 2018 dell’Intergovernmental Panel on Climate Change ci ha avvertito: abbiamo all'incirca 12 (ora 11) anni per attuare massicci cambiamenti che potrebbero mettere un freno alle conseguenze peggiori dei cambiamenti climatici.

Un tempo, forse, ci sarebbero servite grandi conoscenze scientifiche per capire i cambiamenti climatici, ma ora basta leggere i titoli dei quotidiani - o semplicemente guardare fuori dalla finestra. Dal Camp Fire, un incendio che ha devastato i boschi della California, peggiorato dalle alte temperature e dalla siccità, all’uragano Michael, una tempesta che si è rapidamente intensificata a causa dell’innalzamento delle temperature degli oceani: i cambiamenti climatici sono già qui.

Non incolpo chi è in cerca di un'assoluzione. Posso persino capire chi abdica dalle sue responsabilità, che è anch'essa una forma di assoluzione. Ma dietro tutto questo c’è una forza molto più insidiosa. È la narrazione che ha guidato - e allo stesso tempo ostacolato - la discussione sui cambiamenti climatici per decenni. Quella che ci dice che avremmo potuto risolvere i cambiamenti climatici se solo tutti noi avessimo ordinato meno cibo da asporto, usato meno buste di plastica, spento più luci, piantato qualche albero o guidato una macchina elettrica. E che arriva alla conclusione che se tutte queste cose non bastano, allora a che serve lottare?

La convinzione che avremmo potuto risolvere questo enorme problema esistenziale se solo tutti noi avessimo modificato le nostre abitudini consumistiche non è solo ridicola; è pericolosa. Questa convinzione trasforma l’ambientalismo in una scelta individuale che viene giudicata peccaminosa o virtuosa e diventa una condanna per coloro che non adottano, o che non possono adottare, un comportamento etico. Se si considera che lo stesso report dell’IPCC ha evidenziato che la maggior parte delle emissioni globali di gas serra derivano solo da un numero esiguo di aziende - sovvenzionate e appoggiate dai governi più potenti del mondo, inclusi gli Stati Uniti - siamo di fronte a un'evidente colpevolizzazione della vittima.

Quando le persone che incontro mi confessano i loro peccati contro l'ambiente come se io fossi una specie di eco-suora, vorrei dire loro che si stanno facendo carico delle colpe di crimini perpetrati dall’industria dei combustibili fossili. Vorrei dire loro che il peso del nostro pianeta malato è troppo grande perché siano i singoli individui ad assumersene la colpa. E che quella colpa conduce a un’apatia che può davvero sancire la nostra definitiva condanna.

Ma questo non significa che non ci sia nulla da fare. Il cambiamento climatico è un problema vasto e complicato e ciò implica che anche la risposta non può essere semplice. Dobbiamo lasciar perdere l'idea che dipenda tutto dagli errori dei singoli individui e dobbiamo assumerci l'impegno collettivo di mettere i veri responsabili davanti ai crimini che hanno commesso. In altre parole, dobbiamo diventare tanti piccoli David contro un unico gigante e nefasto Golia.

Più "green" di te

Quando pensiamo ai cambiamenti climatici, non vediamo quasi mai il quadro completo. In generale si parla di conseguenze su una scala talmente macroscopica che è quasi impossibile immaginarle: innalzamento dei livelli dei mari, scioglimento dei ghiacciai, acidificazione degli oceani. Come per un perverso incantesimo, i cambiamenti climatici diventano qualcosa che aleggia nell'aria, ma che rimane anche lontanissima da noi. È ovunque e in nessun luogo.

Ma se poi vogliamo prenderne in considerazione le cause, i discorsi si riducono a guardare il nostro ombelico. Dopo l'uscita del report dell'IPCC del 2018, internet è stato inondato da decine e decine di articoli su "cosa puoi fare tu contro i cambiamenti climatici". Cambia le lampadine. Usa sacchetti riutilizzabili. Riduci il consumo di carne.

Se le risposte sono tutte alla nostra portata, allora la colpa può essere trovata solo dentro le nostre case. E tutto ciò a cosa porta?

A una popolazione assalita da un senso di colpa talmente forte che già solo pensare ai cambiamenti climatici è un peso enorme, figurarsi concepire l'idea di combatterli.

Ed ecco come si afferma la colpevolizzazione della vittima. Troppo spesso la nostra cultura identifica l'ambientalismo con il consumismo individuale. Per essere "buoni" dobbiamo passare all'energia al 100% solare, spostarci solo con biciclette riciclate, non prendere più l'aereo, mangiare vegano. Dobbiamo assumere uno stile di vita a rifiuti zero, non usare mai Amazon Prime, ecc. ecc. Sento questi messaggi ovunque: nei media di destra come in quelli di sinistra e anche all'interno del movimento ambientalista. Questi argomenti sono stati usati anche dai tribunali e dalle industrie di combustibili fossili per difendersi da azioni legali. Infatti, le industrie hanno manipolato la narrazione ambientalista in modo da incolpare i consumatori a partire dalla campagna pubblicitaria "Crying Indian" degli anni '70. E ora lo sento dai miei amici e dalla mia famiglia, da sconosciuti incontrati per la strada o da persone conosciute casualmente al corso di yoga.

Tutto ciò rende molto più onerosa l'adesione al movimento per il clima, che spesso rischia di escludere le persone di colore o le categorie più emarginate.

Così, mentre siamo impegnati a confrontarci su quanto siamo puri, permettiamo che i governi e le industrie - artefici della devastazione di cui stiamo parlando - si autoassolvano e restino impunite. Questa enfasi esagerata sulle azioni individuali fa in modo che le persone si vergognino dei loro comportamenti quotidiani – che sono praticamente inevitabili, dato che sono nate in un sistema completamente dipendente dai combustibili fossili. Infatti, i combustibili fossili costituiscono più del 75% della produzione energetica degli Stati Uniti.

Se vogliamo far parte della società non avremo altra scelta se non quella di essere coinvolti in questo sistema. Incolparci di ciò significa farci vergognare per il solo fatto di esistere.

La famosa ricercatrice e psicologa Brené Brown, che ha studiato il senso di vergogna nella nostra cultura, descrive la vergogna come "sensazione o esperienza molto dolorosa derivata dalla convinzione di essere imperfetti e perciò non degni di amore o di appartenenza". Ciò non deve essere confuso con il senso di colpa, che in realtà è utile perché ci permette di confrontare quanto i nostri comportamenti corrispondano ai nostri valori, e ci spinge a sentirci a disagio. La vergogna, al contrario, ci dice che siamo cattive persone, che non c'è redenzione possibile - e questo ci paralizza.

Come scrive Yessenia Funes, reporter per Earther: "È inammissibile che le persone si debbano vergognare di vivere nel mondo che abbiamo costruito."


Le azioni dei singoli consumatori non bastano

​Quindi cosa possiamo davvero fare per contrastare i cambiamenti climatici? Ebbene, mettiamo subito in chiaro una cosa: non dirò mai che si debba gettare la spugna. Scegliere di non fare nulla di fronte ai cambiamenti climatici sarebbe la cosa peggiore. I cambiamenti climatici sono un enorme problema e, per affrontarli, dovremo essere disposti a fare sacrifici personali incisivi. È una nostra responsabilità non solo verso le generazioni future ma anche tra tutti noi, qui e ora.

Inoltre, dato che gli Stati Uniti contribuiscono enormemente al riscaldamento globale, abbiamo l'obbligo morale di ridurre le nostre emissioni di anidride carbonica. Gli Stati Uniti sono al secondo posto nel mondo per questo tipo di emissioni, ma poco fa eravamo al primo. E nel corso della storia, il nostro contributo è stato ancora più devastante. Gli Stati Uniti sono responsabili per più di un terzo dell'inquinamento da anidride carbonica che oggi surriscalda il nostro pianeta - molto più di qualunque altra singola nazione.

Dato che il nostro impatto ambientale è enorme, le scelte di consumo dei singoli americani hanno un peso più rilevante rispetto a quelle del resto del mondo. Quindi, per noi americani dire che le nostre azioni individuali sono troppo marginali per fare la differenza quando ci sono persone che muoiono a causa del ciclone tropicale Idai in Mozambico, paese che ha un impatto ambientale minimo rispetto al nostro, è un vero e proprio fallimento morale.

Allo stesso tempo però, più ci concentriamo sulle azioni individuali e trascuriamo il cambio di sistema, più stiamo solo spazzando le foglie in un giorno di vento. Quindi le azioni individuali possono essere importanti come punto di partenza, ma possono anche diventare un pericoloso punto di arresto.

Dobbiamo ampliare la nostra definizione di azione individuale: non limitandoci a ciò che compriamo e usiamo. Iniziamo a cambiare le lampadine, ma non fermiamoci qui. Partecipare a uno sciopero per il clima o a una manifestazione sono azioni individuali. Anche organizzarsi con i vicini per fare causa a una centrale elettrica che sta avvelenando la comunità è un'azione individuale.

Votare è un'azione individuale. Quando scegli il tuo candidato, informati sulle sue politiche ambientali. Se non sono abbastanza incisive, fai pressione affinché le migliori. Una volta che questa persona ottiene un incarico, ritienila responsabile. E se non funziona, candidati tu - anche questa è un'altra azione individuale.

Fai in modo che le tue azioni individuali diventino qualcosa di più della scelta del tipo di sporta in cui mettere la spesa.

Non mi importa.

Eccovi la mia confessione: non mi importa quanto tu sia "green". Voglio che tu ti unisca al movimento per la giustizia climatica.

Non mi interessa da quanto tempo prendi parte al dibattito sui cambiamenti climatici, 10 anni o 10 secondi. Non mi interessa quante statistiche riesci a snocciolare. Non mi serve che tu sia integralista del solare per considerati un ambientalista. Non mi serve neanche che tu sia il più vegano di tutti. Non mi importa se in questo preciso istante stai addentando un hamburger.

Nemmeno mi importa se lavori su una piattaforma petrolifera. In alcune parti del paese, questi sono gli unici lavori che ti fanno guadagnare abbastanza per mantenere la tua famiglia. E non incolpo i lavoratori per questo. Incolpo i loro datori di lavoro. Incolpo l'industria che ci sta soffocando tutti, e i governi che glielo consentono.

Una sola cosa è importante da parte vostra: che desideriate un futuro vivibile. Questo è il vostro pianeta e nessuno può difenderlo come voi. Nessuno può proteggerlo come voi.

Abbiamo 11 anni - non per iniziare a salvare il pianeta ma per finire di salvarlo.

Io non sono qui per assolvervi e non sono qui per sollevarvi dalle vostre responsabilità. Sono qui per lottare insieme a voi.

Mary Annaïse Heglar è saggista di tematiche di giustizia climatica e dirige le pubblicazioni del Natural Resources Defense Council di New York. La trovate su Twitter e Medium.
Articolo per gentile concessione dell'autrice; traduzione a cura di FFF Italia; illustrazione per gentile concessione di mvp.ist


Mentre le forze di maggioranza hanno scelto proprio la Giornata Mondiale dell’Ambiente (5 giugno) per bocciare la mozione sull’emergenza climatica, che avrebbe dato accesso a quasi 50 miliardi tra contributi europei e fondi nazionali per fronteggiare sia le misure di adattamento che quelle di mitigazione del caos climatico nel nostro Paese, la UE stimava il costo di un mancato adattamento tra i 100 miliardi di Euro all’anno nel 2020 e 250 miliardi nel 2050, senza tenere in conto i costi sociali derivanti dagli eventi estremi. Pertanto, esigeva risposte urgenti ed adeguate da approvare nei piani nazionali da adottare. Il governo dei “litiganti per finta, ma negazionista per davvero”, non tiene in nessun conto l’emergenza climatica, dato che lucra già abbastanza voti e consensi dalle paure che una criminalità efferata e una invasione inarrestabile dei migranti stillano quotidianamente nelle “pance” degli italiani. Ma sul clima e sui fossili è difficile glissare.

Così capita che a Civitavecchia, nella città del carbone, la Lega si metta il vestito ambientalista e alle amministrative batta un Pd piuttosto ambiguo sul destino della centrale Enel. Senonchè, appena eletto, il neosindaco del Carroccio, Ernesto Tedesco, si sente dire dal suo capo Salvini che “è finito il tempo dei ‘no’ a tutto” e che “con i soli ‘no’ non si campa”, ponendosi così in linea con i piani di phase-out dell’Enel che, nei siti di La Spezia, Fusina, Brindisi e Civitavecchia, vuole sostituire il carbone con il metano.

Con questi presupposti, il “polo delle rinnovabili dal 2025” di cui la nuova maggioranza ha parlato in campagna elettorale non si farà, a meno che la nascita e l’ottimo lavoro svolto da un Comitato locale che da No Carbone si è trasformato in “No al metano Si alle rinnovabili” mobiliti i cittadini e raccolga suggerimenti e conoscenze per dar vita ad un piano energetico territoriale sostitutivo del carbone.

Trovo di grande interesse, anche per il possibile coinvolgimento degli “studenti di Greta”, che laddove si aprano spazi per la riconversione ecologica, le forze che democraticamente vogliono riappropriarsi del territorio e stabilire attraverso la sua cura l’occasione per un miglioramento della vita, entrino in gioco per proporre una piena e stabile occupazione, una salubrità dell’aria, la vivibilità dei territori. Altro che patti Salvini-Blair per agganciare tubi di gasdotti come il TAP sulle nostre coste!

A questo proposito si è aperta, in rete una discussione sul ricorso all’idrogeno per una alternativa alla combustione del carbone sulla costa tirrenica. (v. tra gli altri www.medicinademocraticalivorno.it ). Mi sono occupato a lungo di ricerca sulle celle a combustibile e sul ricorso all’idrogeno nel campo della mobilità e ne ho scritto nel mio primo blog sul fattoquotidiano.

Non avrebbe senso produrre energia con elettrolisi dell’acqua dal mare, nonostante i progressi avvenuti anche in questo campo. L'idrogeno, come vettore energetico ha senso solo se prodotto con energie rinnovabili e assolutamente pulite (fotovoltaico e eolico), nella funzione di serbatoio dell’eccesso di energia accumulata cui ricorrere quando non c'è nè sole nè vento. Un serbatoio da trasformare in energia con buon rendimento attraverso celle a combustibile, molto interessanti per abitazioni o veicoli. Le reti intelligenti da porre in atto sul territorio dove insisteva la centrale fossile, potrebbero essere integrate con “accumuli di idrogeno” ottenuto quando c’è sovrapproduzione, per fare da compensatori negli scambi in rete di energia elettrica prodotta e consumata con fonti rinnovabili e in modalità cooperative. Ovviamente il sistema di fonti rinnovabili dovrebbe essere interamente dedicato e interamente integrato al sistema di consumi elettrici che “si appoggia” all’idrogeno da utilizzare come vettore.

Vanno certamente superati una serie di problemi di sicurezza e si potrebbe, nella fase di transizione, anche ricorrere all'idrometano, ovvero una miscela di idrogeno e metano fossile o bio che sia, che utilizza le linee già esistenti del metano per trasportarlo fino agli utenti finali.

L’idrogeno ottenuto da rinnovabili che alimenta celle a combustibile è una buona soluzione già oggi per abitazioni e veicoli, se non fosse che il mercato vuole mantenere la prevalenza di un controllo centralizzato di tutto il settore energetico.

In Germania, con la carica di idrogeno pronto dall'esterno, sono in fase di sperimentazione alcuni treni su alcune tratte locali e l’industria dell’auto, oltre all’elettrico a pile, pensa seriamente all’idrogeno per motori elettrici e non termici.
In Svezia stanno entrando in funzione stazioni di rifornimento di idrogeno solare per autoveicoli elettrici a idrogeno.

La partita è aperta e tocca enormi interessi. La mia esperienza dice che il cambiamento non viene dai cartelli dei produttori di veicoli o dalle corporationi dei fossili, ma dall’attenzione delle popolazioni al loro futuro e alla salute dei loro figli.

Ben venga quindi la discussione sulla eliminazione del carbone a Civitavecchia e non ci si fidi di amministratori pronti a rispondere ai richiami dall’alto anziché ai loro elettori. E benvenuto agli studenti di Fridays for Future, che in questa partita avranno molto da giocare.

Mentre il rapporto IPCC ci intima di limitare il riscaldamento globale di 1.5° e quindi abbattere le emissioni antropogeniche nette globali di CO2 del 45% entro il 2030 e del 100% entro il 2050, rispetto ai livelli registrati nel 2010 e l'Europa al Cop 24 di Katowice si è assunta l’impegno di rivedere entro il 2020 gli attuali obiettivi, il governo italiano con il Piano nazionale integrato per l'energia e il clima, si pone l’infame obiettivo di diminuire le emissioni solo del 39% al 2030 e del 63% al 2050! D'altronde se vuole sostituire le centrali a carbone con quelle a gas e continuare a dirigere il 60% degli investimenti per la produzione elettrica verso carbone, petrolio e gas non possiamo ambire ad obiettivi più dignitosi e efficaci. Non è solo l'Italia che continua a sostenere i sussidi alle fonti fossili, nonostante tutti parlino di chiuderle; secondo l'Agenzia internazionale dell'energia nel 2017 sono stati spesi circa 300 miliardi di dollari, 30 milioni in più rispetto all'anno precedente. Al carbone, fanalino di coda tra i beneficiari, son andati comunque 2 miliardi di euro.
Ma per affrontare la crisi climatica e contenere il riscaldamento globale a 1.5° queste sono misure insufficienti e quando ce ne renderemo conto sarà troppo tardi. Non c'è un altra alternativa per consentire un futuro alle prossime generazioni se non interrompere la dipendenza dal fossile nel più breve tempo possibile, e non gradualmente come i Verdi dicono.
Ricordiamo l'articolo per eddyburg La favola dell'energia pulita e gli affari sporchi del gasdotto tap per ribadire che il gas non è un'alternativa al fossile. (i.b)

Qui riportiamo l'articolo "Se non è zuppa, è pan gasato" di Antonio Tricarico scritto e tratto dal sito Re:common.

Negli ultimi mesi si è acceso il dibattito su come arrivare alla chiusura delle centrali a carbone italiane, principalmente targate Enel. A fine 2018 il ministero dell’ambiente ha emesso un decreto per la revisione di tutte le autorizzazioni integrate ambientali degli impianti per includere la data di chiusura del 2025. A febbraio Enel lo ha impugnato, visti alcuni errori burocratici e legali con cui il decreto è stato emesso e lamentandosi che il governo non voleva discutere di come rendere la chiusura delle centrali una realtà affrontando anche il problema della sicurezza della rete elettrica italiana e degli investimenti da prevedere in proposito – che ovviamente non avrebbe dovuto fare Enel.

Incalzato da noi di Re:Common, da altre associazioni ambientaliste e commentatori vari, a metà maggio l’ad Francesco Starace ha dichiarato agli azionisti riuniti nell’assemblea annuale della società che finalmente il governo ha avviato un tavolo di lavoro sul tema e quindi Enel ha ritirato il ricorso. Ma soprattutto Starace ha annunciato il piano di Enel di chiudere il carbone costruendo negli stessi siti (tranne che nel Sulcis in Sardegna) delle centrali a gas, ciascuna da 500 MW, che entrerebbero in servizio solo se necessario a garantire la sicurezza della rete elettrica. Tra le righe Enel aggiunge che vede con favore il precedente tedesco di un meccanismo di compensazione per le società che chiudono centrali e miniere di carbone dietro un lauto pagamento di 600 milioni di euro per GW installato. Facendo due conti nel caso di Enel si parlerebbe di circa quattro miliardi di euro (molto più di quanto necessario per costruire i quattro gruppi a gas).

Le affermazioni di Starace sono state accolte con giubilo dai quattro governatori delle regioni interessate, in primis quello pugliese, Michele Emiliano, da sempre fautore della conversione a gas della centrale di Cerano, a sud di Brindisi. Starace ha detto che è una possibilità che poi le nuove centrali a gas a ciclo aperto si convertano in ciclo combinato, qualora servissero in pianta stabile dopo il 2025 per garantire approvvigionamenti elettrici sufficienti alla rete. Ma per Emiliano la conversione definitiva per andare a tutto gas sembra già un dato assodato.
Il passaggio dal carbone al gas di Enel – un po’ inaspettato visto che Starace aveva sempre osteggiato l’ossessione per il gas dei competitor energetici italiani, a partire dell’Eni – eccita non solo le amministrazioni regionali. A2A già parla di trasformare anche la centrale di Brindisi Nord, chiusa da tempo, ed ha già presentato il progetto – per inciso l’opera dovrebbe considerarsi nuova ab fundamentis visto che la centrale precedente era stata chiusa da anni e in parte smantellata.

D’altronde lo stesso governo italiano ha benedetto da tempo il gas quale combustibile “di transizione” dal carbone alle rinnovabili, a sentire le parole del vice-premier Luigi Di Maio lo scorso aprile”. Parole un po’ lontane dal verbo a cinque stelle di qualche anno fa per le rinnovabili senza sé e senza ma. Ma si sa, tempo e potere cambiano menti e persone. Anche laddove non te lo aspetti.

Questo è proprio il caso del sindaco di Brindisi, Riccardo Rossi, ex militante dei No al Carbone, che dopo pochi giorni si è aggiunto ai brindisi – è il caso di dirlo – per la conversione a gas della centrale di Cerano, insieme alla Confindustria locale ed altre istituzioni. La cosa ha irritato parecchio gli ex compagni e le associazioni locali che hanno subito messo i puntini sulle i. E Rossi, sempre a mezzo social network ha incalzato, rivendicando da sempre la sua posizione a favore della conversione a gas, ma soprattuto affermando che questo combustibile sarà necessario nella transizione energetica italiana per almeno i prossimi trent’anni.

Insomma sembra che ci sia il consenso di tutti ad ogni livello: l’Italia è una Repubblica fondata sul gas, punto. Con buona pace di una vera transizione oltre ogni combustibile fossile, come ce lo chiede la protezione del clima. Senza parlare delle bonifiche dei siti sacrificati per decenni alla produzione di energia elettrica su grande scala da fonti inquinanti: mettendo delle centrali a gas, la bonifica di questi siti molto probabilmente slitterebbe e le solite comunità continueranno a sacrificarsi per garantire la sicurezza della rete nazionale ed lo sviluppo (presunto) dell’intero paese.

Insomma, una transizione a tutto gas, ma in stile Gattopardo, in cui “tutto cambi perché nulla cambi”.

Una riflessione sulla Rockfeller Foundation, che finanzia la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici: affidarsi ai soldi che provengono da gruppi che devono la loro ricchezza alla produzione e vendita di combustibili fossili, è una buona mossa? Tra volontà di aiuto e pubbliche relazione la linea è labile e il flusso instabile nonostante quanto devoluto in beneficenza è niente rispetto ai ricavi. (i.b)

L'articolo in inglese «The Folly of Climate Change Philanthropy» è qui raggiungibile.
Nilo Bianco - Uganda
Un meccanismo che consente alle società di ‘compensare’ i danni alla biodiversità che si stanno facendo in un’area (o si sono già fatti) con la messa in protezione di un’altra area a rischio o presentata come tale. Siccome spesso le popolazioni indigene sono considerate un rischio alla biodiversità, per via del sostentamento che traggono dalle risorse naturali, esse vengono espulse. Si perpetua così un doppio spossessamento: uno in nome dello 'sviluppo' (estrazione di minerali, costruzione di una diga o un hotel, la coltivazione di monoculture industriali, etc.) l’altro per effetto della compensazione, in nome della biodiversità.
Questi strumenti sono particolarmente interessanti per le multinazionali, consentendo a loro di accedere a terre (e capitali) per realizzare opere ambientalmente e socialmente distruttive, che finiscono con l’esurpare terre alle popolazioni autoctone privandole di mezzi di sussistenza.
Si legga l’ultima inchiesta di Recommon «Turning forests into hotels. The true costs of biodiversity offset in Uganda». Il caso studiato riguarda la compensazione per la diga Bujagali sul fiume Nilo Bianco, costruita con il finanziamento del World Bank Group e altri istituti finanziari internazionali. La diga ha portato all'alluvione e alla perdita di Bujagali Falls, in passato una nota attrazione turistica dell’Uganda, colpendo più di 3000 famiglie, per lo più agricoltori di sussistenza e pescatori.
Per compensare questo danno non è stata istituita una zona di conservazione, ma viceversa si è facilitato l'ingresso delle aziende turistiche nell’area perchè oltre all’elemento di conservazione, il contratto include una componente speculativa attraverso lo sviluppo turistico. (i.b.)

Una sintesi degli impegni presi dai Ministri delle Finanze di 26 paesi per affrontare i rischi dei cambiamenti climatici. Non sono misure radicali, e pertanto non mettono in discussione il modo di produzione capitalistico. Ma l'Italia segue l'esempio di Trump e boicotta. Ci vorranno ancora molti «Fridays for Future» per scuotere questo governo sordo e irresponsabile. Il prossimo, a livello nazionale, sarà il 24 maggio a Roma. (i.b.)

Qui l'articolo dal Fatto Quotidiano del 2 maggio 2019.

Uscire dal fossile interrompendo immediatamente le estrazioni di petrolio e gas. Una rivoluzione per il sistema economico, ma é fondamentale che la riconversione non vada a gravare indistintamente su individui con capacità di reddito profondamente diversa. Qui l'articolo. (i.b.)


De-carbonizzare e fermare immediatamente le estrazioni di gas e petrolio significa riconvertire l'economia a partire dall'interrompere la dipendenza dai fossili. Cessare le concessioni di estrazioni e ricerca é un azione rivoluzionaria perchè obbliga fin d'ora a trovare soluzioni alternative alla produzioni di energia, ma anche a ridurre consumo energetico. Ma questa riconversione non può tradursi a un ritorno ai cavalli o alla schiavitù, come forze motrici, e non può essere pagata indistintamente da tutti.
In questo articolo dell' Altraeconomia si spiega che strumenti come “Carbon pricing”, "Emissions Trading System", “Cap and trade”, “Carbon tax”, seppur tra loro molto diversi, sono misure regressive, perché se applicate senza ulteriori misure gravano indistintamente su individui con capacità di reddito profondamente diverse, rischiando di scaricare la transizione sulle fasce della popolazione con i redditi più bassi.
Sulla portata rivoluzionaria dell'appello alla decarbonizzazione e stop a tutte le attività estrattive si legga l'articolo «Fermiamo l’estrattivismo ora» e si veda il sito del movimento “Extinction Rebellion”. (i.b.)

Un ulteriore aspetto della natura perversa del sistema capitalistico: anche gli sconvolgimenti climatici diventano incentivi per il suo mortifero sviluppo, fornendo profitti a coloro che si preparano a speculare sui disastri che il sistema stesso ha prodotto. (e.s)

L'articolo «Betting on a crash – confronting those speculating on our future» di Nick Buxton, pubblicato su Tni il 6 febbraio 2019, ci ricorda della capacità del capitalismo di cercare profitti nella più disperata delle situazioni e di una crescente industria globale che si prepara a trarre profitto dai cambiamenti climatici. Già il giornalista Mckenzie Funk nel suo libro «Windfall», uscito nel 2015 e non ancora tradotto in italiano, racconta di come banche, aziende energetiche, ingegneri e imprenditori stanno trasformato una crisi globale, dall'aumento del livello del mare, alle inondazioni, agli incendi e alla scarsità di cibo e acqua, in un'opportunità d'oro, raccogliendo profitti a breve termine.

In California ci sono i vigili del fuoco privati che si occupano di incendi sempre più intensi, speculatori che scommettono su dove le colture saranno costrette a muoversi mentre le temperature cambiano, società ag-tech che offrono colture geneticamente modificate in grado di far fronte a temperature estreme, società energetiche che pensano che gli estremi del cambiamento climatico porteranno effettivamente a un maggiore uso di energia, poiché le persone, per esempio, accenderanno più spesso i loro condizionatori d'aria.

L'autore dell'articolo spiega che dietro queste imprese, che speculano sul disastroso futuro che ci aspetta, ci sono moltissime società finanziarie e compagnie assicurative che ne sostengono gli investimenti, in quanto le previsioni indicano che i cambiamenti climatici genereranno profitti, ovviamente per pochi, pochissimi.

Barney Schauble, della società di investimento Nephila Advisors, ha dichiarato alla rivista Bloomberg: «Se riesci a vedere qualcosa che le altre persone semplicemente rifiutano di vedere, e puoi prendere decisioni su tale base, nel lungo periodo questo ti porterà buoni profitti». D'altronde il Wall Street Journal nel 2011 aveva pubblicato una guida apposita, scritta dall'imprenditore, investitore e scrittore James Altucher e il giornalista Douglas R. Sease proprio su come fare soldi vedendo opportunità laddove altri vedono pericoli (The Wall Street Journal Guide to Investing in the Apocalypse: Make Money by Seeing Opportunity Where Others See Peril). Non ci si può stupire quindi se sono in forte crescita industrie e mercati assicurativi che puntano su un futuro ancora più catastrofico del presente. Ovvio che questo nuovo mercato che specula sulle future disastri prospera anche grazie a un contesto politico globale nel quali i governi, anzichè mettere in atto azioni concrete per mitigare il cambiamento climatico come esortato dall'ultimo rapporto del IPPC, operano per promuovere azioni finanziarie che lucrano sui futuri disastri. Ci sono per esempio i 'cat bond' che vengono propagandati dall'OCSE, dalla Banca Mondiale e anche dall'ONU, come modi per proteggersi dalla catastrofe climatica. Ma come molti altri prodotti finanziari, oggi i 'cat bond' sono più utili a creare un nuovo flusso di profitti per i banchieri piuttosto che fornire sicurezza ai più vulnerabili.

Nick Buxton paragona questa situazione, di pericolosa speculazione da parte di queste corporazioni, potentissime in quanto sorrette dal potere politico ed economico, a un autista che si è impossessato delle chiavi della nostra macchina e che si sta dirigendo dritto dritto verso una scogliera, e che molto probabilmente non ci pensa nemmeno o al massimo sta riflettendo su come fare soldi dall'inevitabile incidente.

Conclude l'articolo citando un altro gruppo di scommettitori e speculatori: l'industria militare e delle produzioni di armi. Spiega come i militari sono le organizzazioni più attive quando si tratta di anticipare catastrofi, e si stanno ben preparando agli impatti dei cambiamenti climatici. E' confermato che l'attività di ricerca relativa a come affrontare i cambiamenti climatici e le conseguenze che questi porterebbero risale al 1990. Nel 2008, sia gli Stati Uniti che l'Unione Europea all'interno delle loro strategie di sicurezza hanno identificato il cambiamento climatico come un "moltiplicatore di minacce" segnalando che i cambiamenti climatici avrebbero intensificato i conflitti esistenti.

Non è difficile immaginare come il nostro futuro provocherà ulteriori diseguaglianze assicurando sicurezza e profitti solo a pochi. Diventa sempre più urgente non solo combattere i poteri politici, governi ciechi ed inetti, ma contrastare i grandi poteri economici e finanziari.

Dall'8 al 10 a Roma una tre giorni di incontri e discussioni sui conflitti ambientali, cambiamenti climatici, salute e ambiente, economia circolare a cui parteciperanno attivisti delle lotte territoriali, scienziati e ricercatori. Organizzata da A Sud e CDCA. Qui il programma completo.

In anteprima per eddyburg, la sintesi del tavolo sul «Degrado ambientale e profughi, transizione energetica, rinnovabili, decarbonizzazione» al Forum Associazione Laudato Si’: Un alleanza per il clima, la terra e la giustizia sociale del 19 gennaio 2019. (i.b.)

19 gennaio 2019 - Milano
FORUM ASSOCIAZIONE LAUDATO SI’
UN’ALLEANZA PER IL CLIMA, LA TERRA E LA GIUSTIZIA SOCIALE

Un’iniziativa promossa dal gruppo consiliare Milano in Comune con Casa della carità, Osservatorio Solidarietà - Carta di Milano, Associazione Diritti e Frontiere (ADIF), CostituzioneBeniComuni, Associazione Energia Felice, Ecoistituto della Valle del Ticino. Qui il programma completo.

Sintesi del Tavolo Clima
a cura di Mario Agostinelli (coordinatore)

Intervengono:

Massimo Scalia - docente Fisica matematica Università La Sapienza, già presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle ecomafie
Karl Ludwig Schibel - coordinatore italiano dell’Alleanza per il Clima delle città europee
Angelo Consoli - direttore dell’Ufficio Europeo di Jeremy Rifkin
Andrea Donegà - segretario Fim Cisl Lombardia

La protezione dell'ambiente o, detta altrimenti, la salvaguardia del creato, deve diventare sempre di più un compito prioritario, vitale, perché non ci impegna soltanto a difendere i beni ricevuti gratuitamente quanto a consegnarli alle generazioni future. Ma finora non c’è stata una diffusione capillare del grido della terra nelle coscienze e nemmeno la politica sembra essersi risvegliata. Forse è prevalsa la preoccupazione di sentirsi continuamente sul banco degli imputati.

L’Enciclica “Laudato Sì’” ricorda che il 20 percento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da togliere alle nazioni povere e alle nuove generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere. In un pianeta grande ma di dimensioni limitate la produzione e il consumo di oggetti, utili e superflui avviene soltanto sottraendo risorse naturali (acqua, prodotti agricoli e forestali, minerali, fonti di energia) dal pianeta e con l’inevitabile formazione di scorie e rifiuti che rendono meno utilizzabili l’aria e le acque, rendono meno fertile il suolo e, soprattutto sconvolgono irreversibilmente il clima. Più difficile continuare ad abitare.

La falsa narrazione delle destre reazionarie, xenofobe e razziste opera quotidianamente con l’indice puntato contro i migranti. Agita i pericoli e le paure derivanti dal rischio presunto dell’invasione di orde che minaccerebbero l’ordine e il benessere acquisito. Spesso si tratta del benessere di quanti, nel loro orizzonte consumistico, pretendono che le risorse siano messe esclusivamente a loro disposizione.

Viviamo in un sistema ignaro delle persone e dei corpi ed in cui il pensiero dominante, che presuppone che non ci sia spazio per tutti su questo Pianeta e che addirittura non basti una Terra sola, non mette in conto il degrado ambientale né gli effetti di un aumento della temperatura sulle possibilità di sopravvivenza, innanzitutto di chi abita - frequentemente in condizioni di povertà - i territori più vulnerabili. Nel corso di poche decine d’anni sono peggiorate le opportunità di sostentamento e di esistenza che - in maggiore o minor misura a seconda della collocazione geografica - sono esposte all’intensità di eventi climatici. Anziché risalire all’origine - cioè alla responsabilità antropica - di uno dei cambiamenti più rapidi registrati nella storia recente dell’atmosfera terrestre, si applica la forza e si nega il diritto, scaricando non soltanto le conseguenze ma anche i costi della crisi ecologica su chi sta in basso. Il respingimento di quanti cercano di rifugiarsi nei territori meno colpiti, si rivela così brutale da concorrere consapevolmente al rilancio di quelle categorie di esclusione e di identità che sono state all’origine di autentiche tragedie nella storia. Ma non si tratta solo di avversare decisioni perfide: bisogna cambiare registro. Se il clima non diventa un’emergenza per l’umanità tutta, prima o poi tutti saremo migranti. E’ il capitalismo neoliberista e insieme negazionista che ha bisogno di aggiungere la xenofobia alla rapina delle risorse naturali e allo sfruttamento del lavoro, creando così un ulteriore strumento di sfrangiamento sociale. Bisogna prendere atto di una capacità inesauribile di adattamento alla contingenza, che passa dall’individualismo competitivo ad una sorta di “individualismo della paura” (forse questo distingue Berlusconi da Salvini…) contro, ovviamente, l’ecologia integrale e in opposizione così incomponibile da prevedere l’esclusione dai diritti di cittadinanza - e perciò di esistenza politica - per gli stranieri costretti a migrare. Lo scopo è quello di lucrare consenso in sovranità “protette” per perpetuare l’ingiustizia sociale più generale, intrinseca ad un modello di crescita innaturale. Si conferma per antitesi quanto giustizia climatica e sociale procedano necessariamente in parallelo. In definitiva, ci troviamo per la prima volta di fronte ad uno schema economico e tecnocratico che, mentre cancella la cura della casa comune e la piena occupazione, promuove un’umanità frantumata. Un sistema che caldeggia il superamento dell’umano, da duplicare asessuato e sostituire magari con braccia e intelligenza artificiali.

Non bastano più le chiavi interpretative che ci fornisce la “cassetta degli attrezzi” ereditata da una cultura e da un’idea dello sviluppo continuo, spiazzate dalla velocità dei flussi della globalizzazione e dalla concentrazione della ricchezza. Non siamo affatto - bisogna riconoscerlo - padroni già di un’autentica rivoluzione culturale. Ci proviamo con tutta la memoria ed andando oltre le ricette del passato. Quando il nuovo quadro sarà reso più organico, vista la portata della posta, ci troveremmo – come dice Riccardo Petrella, esagerando, ma non troppo «nelle condizioni dei copernicani segnati a dito dai tolemaici».

Ascoltandoci e scambiando esperienze, ci proponiamo già dalla riunione odierna di cogliere e praticare una direzione diversa da quella della globalizzazione univoca. A questo proposito, una consapevolezza di massa del significato del cambiamento climatico non è rinviabile. L’impresa sta in una torsione che potremmo definire verso il “terrestre”: l’unica prospettiva che risponda ad un’evoluzione dell’umanità con le sue differenze, ma non divisa e in sintonia con la biosfera e il limite della natura. Emergono infatti con sempre maggior evidenza e discontinuità fattori che mettono in relazione il futuro della società umana con la cura per l’ambiente nella sua interezza. La scienza moderna, che ricostruisce quasi per intero la storia e l’evoluzione dell’Universo dalle sue origini, fa emergere la singolarità della vita sul nostro pianeta; spiazza altresì la visione antropocentrica e fornisce l’interpretazione della biosfera come un insieme di processi, di rigenerazioni e di riparazioni che combattono e dilazionano nel tempo il disordine e il degrado. Aver cura coscientemente della Terra diventa l’orizzonte da condividere; negare le implicazioni sociali di questo obbligo e erigere muri per delimitare inclusi e scarti equivale a perdersi irrimediabilmente, oltre a precludere il diritto della pace e l’universalità dei diritti civili e sociali conquistati.

Sia l'economia capitalista che il clima mondiale rappresentano sistemi complessi e dinamici. L'incertezza rispetto al cambiamento climatico e ai suoi effetti economici ha a che fare con l'interazione di questi due sistemi complessi. A peggiorare le cose, sia il sistema climatico che l'economia umana sono sottoinsiemi della biosfera e sono inseparabilmente interconnessi in modi estremamente complessi con innumerevoli altri processi biogeochimici. Molti di questi vengono trasformati dall'azione umana. Secondo l’IPCC siamo molto vicini alla rottura dell’equilibrio, al di là del quale lo stato energetico complessivo del pianeta raggiungerà un punto di non ritorno. E non sarà semplicemente un cambiamento graduale, un aumento del disagio cui adattarsi con mezzi economici e tecnologici. Le previsioni più aggiornate (dall’IPCC al Pentagono) indicano come probabile un cambiamento brusco, con un massiccio sconvolgimento sociale, una ridislocazione incontrollabile di nativi costretti a spostarsi fuori dai loro paesi. Inaspettatamente, le stesse previsioni segnalano un’eterogeneità molto significativa nel peggioramento delle performance economiche e nel tenore di vita medio, proporzionalmente più a sfavore dei paesi ricchi (USA e Brasile) e di quelli con maggior popolazione (India e Cina). In ogni caso, l’instabilità climatica sarà lo scenario delle prossime decadi.

600 milioni di schiavi sono stati deportati nelle Americhe; 250 milioni di nativi sono stati uccisi nel Nuovo Continente; si calcola che 2 milioni di fanciulli lavorino in condizioni massacranti nelle miniere africane e del Brasile. Le strategie economiche delle multinazionali in Asia ed Africa sono tutt’ora la causa per cui una parte consistente di emigranti parte per evitare regimi di schiavitù. Ma sempre più saranno la siccità, le inondazioni e l’innalzamento del livello dei mari ad obbligare a trasferirsi a qualunque costo dalla terra d’origine. Ogni minuto 60 persone sono costrette ad abbandonare le proprie case a causa di conflitti, persecuzioni e mutamenti ambientali. A metà 2018 sono registrati come migranti in tutto il mondo 65.6 milioni di persone, un numero senza precedenti costretto a fuggire dal proprio Paese. Di queste persone circa 22.5 milioni sono registrate come rifugiati, più della metà con età inferiore ai 18 anni. Ci sono inoltre 10 milioni di apolidi cui vengono negati una nazionalità e l’accesso a diritti fondamentali quali istruzione, salute, lavoro e libertà di movimento.

La transizione energetica richiede profondi tagli delle emissioni di CO2 (dall'80- al 95% entro il 2050) in presenza di un marcato sviluppo delle fonti rinnovabili, chiare vincitrici anche nella competizione per il costo del KWora prodotto. In questa prospettiva, la maggior parte delle riserve di combustibili fossili deve rimanere sottoterra incombusta, mentre va riconvertito un apparato industriale ed un sistema di distribuzione e mobilità ancora per la maggior parte dipendenti dal sistema fossile centralizzato. La chiave non è tanto tecnologica quanto logistica e organizzativa: la rivoluzione industriale aveva disconnesso completamente i territori dalle fonti, ma ora è possibile rimettere a fuoco città e territori, che vanno ridisegnati come sistemi in cui l'energia è distribuita più vicino alla domanda; la fonte è diffusa e di provenienza solare diretta; le perdite di rete sono minimizzate; l’efficienza e il risparmio vengono incentivati; gli edifici possono diventare passivi e mettere in rete essi stessi il surplus accumulato, con l’obiettivo di fondo di una rapida decarbonizzazione dell’economia. Le comunità dell’energia si stanno diffondendo: su di esse sarebbe opportuno spostare le risorse destinate ai fossili, che in Europa gravano oggi per 600 €/anno a cittadino.

I cambiamenti climatici avvengono a dimensione globale, ma una governance globale è solo sulla carta. Se teniamo conto che è in pericolo la base naturale della specie umana e che i meeting mondiali indicano solo vagamente limiti che dovrebbero essere cogenti, la salvezza viene dal locale. Non basta mobilitarsi per le generazioni future: in gioco c’è la dignità di noi stessi, ora, e, perciò, va sviluppata una narrativa che penetri nel mondo vitale delle persone da raggiungere in carne ed ossa. L’idea di una buona vita rende condivisibile la preoccupazione per il clima. Pur nel rigore dei contenuti, l’educazione e la narrativa sul clima deve saper coinvolgere diverse appartenenze e ispirazioni nonché responsabilizzare tutte le forze politiche e le istituzioni (es. in Lombardia 160 Comuni sono governati dalla Lega).

Una Proposta di Legge di iniziativa popolare, lanciata a Roma in Gennaio, fissa l’inversione di tendenza all’aumento di emissioni di climalteranti in Italia a partire dal 2020, per azzerarle entro il 2050. Si basa su 100% rinnovabili e sull’uso dell’idrogeno come vettore e serbatoio di energia, da usarsi sia per fini industriali, sia di mobilità che per celle a combustibile per gli edifici. Una legge analoga è stata proposta in Francia e approvata nel 2015, ma una sua estensione veicolata dalla direttiva RED II dell’Unione Europea trova profondi contrasti nei governi del “gruppo di Visegrad.”

A titolo di esempio di cooperazione nel campo energetico da parte di ONG, in Senegal, nel cuore della savana ad una decina di km dal fiume Gambia, è in corso di realizzazione un orto di 25 Km quadrati, sostenibile al 100% con energia solare, dotato di un impianto di irrigazione a pioggia, in grado di approvvigionare sei villaggi e impiegare 17 contadini locali.

La programmazione di lavoro dignitoso e di crescita dell’occupazione trova nel passaggio dalle fossili alle rinnovabili concrete opportunità di successo. Nel campo delle “energie verdi” l’innovazione porta lavoro qualificato e, al contrario dell’automazione nel manifatturiero tradizionale (la famosa 4.0…), non è “labour saving”. La manifattura per eccellenza, che sforna da decenni auto individuali e l’intero comparto petrolifero sono giustamente accusati di concorrere all’insostenibilità, sia per gli effetti inquinanti prodotti dal binomio, sia per le conseguenze redistributive della tassazione dei veicoli e dei carburanti. Nel convegno è stata suggerita la versione della “carbon tax” alternativa alle “ecotasse”, per cui, alle compagnie che operano nel campo dei combustibili fossili, verrebbe addebitata una “tassa sul carbonio” (per tonnellata di CO2 emessa) imposta alla sorgente, al pozzo minerario o al punto d’ingresso del processo attivato dal carburante. L’ammontare del prelievo risulterebbe neutrale rispetto al bilancio statale perché, una volta incassato, sarebbe ridistribuito per intero come dividendo su base pro capite alla popolazione che paga le tasse (potremmo definirlo un reddito di cittadinanza ecologica).

Aggiunte finali del curatore
Non si può ignorare l’enorme rischio che l’Amazzonia, il polmone del mondo, sta vivendo dopo l’elezione del nuovo presidente brasiliano. Si prospetta uno scenario di attacco ai popoli della foresta e alla foresta stessa, a favore dell’interesse dei grandi proprietari terrieri e delle grandi società dei minerali, del petrolio, della soia, del legname. Va ricordato che il Consiglio Comunale di Milano, 30 anni fa, quando fu dedicato a Chico Mendes in piazza Fontana un cippo ed un albero in ricordo del suo sacrificio, prese l’impegno di proseguire la sua lotta in difesa della foresta. Nella regione dell’Acre, della cui Camera del Lavoro Chico fu segretario, sono state assunte misure e progetti cooperativi e comunitari che hanno rivoluzionato il rapporto tra cittadini brasiliani, campesinos, indigeni, siringueros, togliendo l’egemonia dei cocaleros lungo il confine con la Bolivia. Occorre dar seguito ad un percorso che è risultato esemplare per tutta l’Amazzonia.

Reinventare le nostre infrastrutture ad alta intensità di carbonio è fondamentale e pregiudiziale se si vogliono raggiungere realmente e non lasciare sulla carta gli obiettivi dell'UE e dei documenti su cui si svolgono le Cop sui cambiamenti climatici globali. Il raggiungimento di riduzioni delle emissioni dell'80-95% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050, deciso in ambito UE con scarsa convinzione, richiede un processo di "decarbonizzazione" dell’economia a tutti i livelli. L’Italia e l’Europa continuano a usare come paravento il minor impatto in climalteranti del gas rispetto agli altri fossili. Si tratta di un autentico escamotage per mantenere inalterate le strutture centralizzate del vecchio sistema. E’ fuor di dubbio che la realizzazione della TAP, in una fase in cui la questione climatica assume una valenza discriminante, assumerebbe davvero tutto l’effetto simbolico di una sottomissione a “quell’Ancien Regime” di cui le lobby sono sostenitrici.

La decarbonizzazione avrebbe implicazioni di grande valenza sull’area mediterranea oggi al centro della tragedia dei migranti e sottomessa in una pluralità di Paesi a regimi autoritari e a forme di sfruttamento intensivo delle risorse naturali. La forma territoriale dell’approvvigionamento energetico distribuito e la cultura cooperativa che lo ispira, avrebbero grande influenza sulla convivenza dei popoli che si affacciano alle rive del Mare Nostrum, favorirebbero legami culturali più aperti ed una autentica integrazione dall’una all’altra sponda sia per le comunicazioni che per la mobilità. Si renderebbero automatici e oltremodo utili scambi di esperienze, integrazioni di standard ed un trasferimento di tecnologie e ricerca applicate all’industria e all’agricoltura, rendendo più labile la linea di demarcazione tra Nord e Sud Europa. L’Europa per prima ne trarrebbe beneficio, optando per una autonomia energetica fondata su sole, vento e acqua anziché su petrolio gas e carbone. (C’è una alternativa alle trivelle in mare…)

Contrariamente a quanto viene sostenuto dalla Commissione Europea, vanno promosse aziende energetiche municipali pubbliche, incaricate non solo di fornire energia elettrica rinnovabile per le proprie strutture, ma anche per cittadini e aziende. L’Utility pubblica dovrebbe avere per missione una particolare attenzione ed una diffusione della democrazia energetica. In particolare, dovrebbe facilitare la produzione autonoma di energia rinnovabile da parte dei cittadini e di altri attori locali da mettere in rete, promuovendo il networking tra nuovi produttori e incoraggiando la creazione di cooperative di piccoli produttori sotto gli auspici della municipalità. Per condomini ed edifici, un ruolo di ESCO dell’azienda municipale assicurerebbe garanzie finanziarie ai cittadini e un rendimento degli investimenti. Risolverebbe infine un ruolo decisivo e democraticamente validato per la pianificazione urbanistica in chiave energetica.

Va impresso un forte impegno politico per combattere la povertà energetica: la questione della povertà di carburante è dilagante: colpisce un europeo su sei.

Il fatto quotidiano, 7 gennaio 2019. L'abbandono dei fossili per affrontare la crisi climatica, uscire dal modello di sviluppo basato sulla crescita, e quindi dare un futuro al nostro pianeta non possono essere disgiunti dalla lotta per i diritti umani e sociali e la lotta contro le diseguaglianze. (i.b.)
I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l'incarico di sostenere l'accordo di Parigi 2015 (v. https://www.energiafelice.it/). Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni orsono, l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili, ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.

Preso atto di ciò, si deve constatare che l'incombente crisi climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo: vale allora la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in un arco temporale breve, che, secondo l’IPCC, non può andare oltre i prossimi quindici anni. Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti, per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle fasi di profonda trasformazione.

Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili fossili. Negli ultimi anni - senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Trump - Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e quanto i governi difendano i loro interessi nazionali ad essi associati, accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema economico-finanziario così rigida, da richiedere che tutte le componenti sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella “Laudato Sì” e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.

Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma, mi auguro, già capace di segnali al prossimo congresso CGIL. L'accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani, parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere, partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare strada delle corporation e della grande finanza? Al punto in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente, come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (TAV) o lungo un litorale marino (TAP) quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi organizzati.

I crescenti conflitti sociali legati all'eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine "giusta transizione", che non può che basarsi su un'attuazione completa della giustizia climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del riscaldamento globale a un massimo di 1,5 gradi °C, altrimenti il ​​cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile, anche se ciò minaccia posti di lavoro. E’ d’obbligo che i lavoratori dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma affidati ad una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.

Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i tempi della fuoriuscita da carbone petrolio e gas e usando come grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato. Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide, ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la veste di un interesse di pochi.

I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice una ambigua dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia) per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione UE è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e alla siderurgia nei paesi dell'Europa centrale e orientale che hanno chiesto di aderire all'UE. In entrambi i casi non c’è ombra di organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Valle Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più indigenti.

attuarelacostituzione.it, 30 ottobre 2018. Le ragioni per cui niente vieta al governo attuale di fermare la costruzione dell'oleodotto e dichiarare "nulli" i contratti per l'attuazione TAP. (i.b.)

In ordine alla cosiddetta questione TAP è da dire, innanzitutto, che il costo dei danni ambientali, alla salute, nonché alla sicurezza pubblica che produrrà l’attuazione di detto progetto superano di gran lunga l’eventuale somma di circa 35 miliardi prevista da una stima governativa sulle eventuali richieste di risarcimento.

Inoltre è da tener presente, come giustamente ha rilevato l’attuale governo, che la responsabilità della firma dell’accordo intergovernativo tra Grecia, Albania e Italia ricade tutta sul governo che all’epoca firmò l’accordo stesso e che, di conseguenza, la legge di ratifica che ha esposto l’Italia a subire i danni scaturenti da quell’accordo è sicuramente incostituzionale.

Ne consegue che l’attuale governo non può porsi nel solco della illegittimità costituzionale tracciata dai governi precedenti ed è quindi nell’impossibilità giuridica di adempiere alle obbligazioni da quei governi assunte, si tratta del classico caso della impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile all’attuale debitore (articolo 1218 del Codice Civile). Il Governo, dunque, ha un solo dovere da adempiere: vietare l’esecuzione di questo scellerato progetto.

D’altro canto si ricordi che esistono rimedi sul piano giurisdizionale. Infatti i Comitati legittimati ad agire in giudizio possono chiedere al Giudice ordinario di dichiarare “nulli”, ai sensi dell’articolo 1418 del codice civile, i contratti relativi all’attuazione del TAP, in quanto contrari alle norme imperative di cui all’art. 41 della Costituzione, secondo il quale “iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, e di cui all’art. 32 della Costituzione che, come è noto, tutela il diritto fondamentale alla salute e all’ambiente salubre.

I Comitati dovrebbero altresì chiedere al Giudice la rimessione della legge di ratifica alla Corte costituzionale per il suo annullamento, nonché un provvedimento urgente per la sospensione dei lavori.

Concludiamo chiedendo all’attuale governo di porsi dalla parte della Costituzione e non dei nostri governanti che hanno distrutto l’Italia uniformandosi al sistema economico predatorio del neoliberismo imperante. Se cinque stelle e lega hanno avuto uno strepitoso risultato elettorale è perché i cittadini vogliono un governo che faccia gli interessi del Popolo e non dei cosiddetti poteri forti.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

linkiesta.it. 2 Novembre 2018. Nella Legge di Bilancio non c'è nulla a sostegno della qualità dell'ambiente e cura dei territori, ancora una volta si trascura il pianeta su cui viviamo e in questi giorni abbiamo visto quanto questo sia importante.

Zero assoluto. Non c’è nulla nella Legge di Bilancio, che riguarda provvedimenti, investimenti, scelte di carattere ambientali, nemmeno il proverbiale contentino. Non un sostegno all’economia circolare, non un incentivo all’uso di energie rinnovabili, non un piano per la riqualificazione energetica degli edifici pubblici e privati che sprecano energia, non un cambio di fiscalità che premi, almeno un po’, chi inquina meno e punisca chi inquina di più (vedi il pacchetto di proposte di Legambiente) , non un investimento contro il dissesto idrogeologico e in favore dell’adeguamento di città e territori al cambiamento climatico, minaccia reale molto più del terrorismo islamico o degli eurocrati cattivi.

E possiamo fare pure finta che sia un caso il maltempo che ha fatto quattordici morti nel giro di poche settimane, devastando l’Italia dalla Sardegna alle Alpi, passando per Roma e Milano. Che non c’entri nulla con quelli che ormai i climatologi come il francese Wolfgang Cramer chiamano “eventi mediterranei”, dalle violentissime canicole estive che distruggono i raccolti e ammazzano le persone fisicamente più vulnerabili, alle tempeste di vento e pioggia che abbiamo imparato a conoscere. Possiamo fare pure finta di non sapere che il 2018 è stato il quarto anno più caldo mai misurato, che agosto è stato il mese più caldo mai registrato in Europa, e che i mesi seguenti, tempeste tropicali a parte, non hanno fatto eccezione. E già che ci siamo, facciamo finta non sia uscito il rapporto Ipcc - 91 autori, 6000 referenze scientifiche - che ci ha detto che abbiamo dodici anni al massimo per fare qualcosa. Facciamo finta finché vogliamo, fino a che non ci siamo noi sui ponti che crollano, sulle montagne che smottano, sotto gli alberi che cadono, costretti a bollire l’acqua per berla, come sta accadendo sulle Alpi tra Trento e Belluno, nel 2018.

Possiamo far finta pure che non ci fossero aspettative diverse, già che ci siamo. Che Luigi Di Maio, ad esempio, non avesse parlato in campagna elettorale di investimenti ambientali ad alto moltiplicatore per far ripartire l’economia. Che lo stesso Movimento Cinque Stelle non fosse porta bandiera, giuste o sbagliate che fossero, di tutta una serie di istanze ambientaliste NoTav, NoTap, NoIlva puntualmente sconfitte - o in procinto di esserlo: vediamo che succederà con la Tav - una volta al governo. Che lo stesso governo non abbia sanato trent’anni di abusi edilizi a Ischia, nel decreto relativo al crollo del ponte Morandi, a Genova, su proposta del Movimento stesso.

E dire che la domanda c’è, eccome. Che come racconta il rapporto Green Italy curato ogni anno da fondazione Symbola e della quale è stata recentemente presentata l’edizione 2018, in Italia ci sono 345mila imprese italiane che negli ultimi cinque anni hanno investo in prodotti e tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, risparmiare energia e contenere le emissioni. In pratica un’azienda italiana su quattro, il 24,9% dell’intera imprenditoria extra-agricola. Forse esagera, Ermete Realacci, quando dice che siamo «una superpotenza dell’economia circolare», ma forse ci farebbe anche comodo che qualcuno tra quelli che ci governano cominciasse, almeno in potenza, a considerarci davvero come tali.

Male non gli farebbe, peraltro, visto il boom che stanno avendo i partiti ambientalisti in Europa, coi verdi tedeschi ormai stabilmente seconda forza della politica tedesca, tanto quanto quelli olandesi, coi verdi austriaci che hanno eletto il presidente della repubblica, coi verdi francesi anch’essi in crescita, sopra il 10% secondo alcuni tra gli ultimi sondaggi.

E magari farebbe bene pure a un’opposizione in cerca di identità, che ben si è guardata dal porre qualsivoglia tematica ambientale nelle proprie critiche alla manovra. E che magari, in una piattaforma politica prossima ventura, potrebbe fare dell’ambiente, della lotta al cambiamento climatico, degli investimenti per l’efficienza energetica e della promozione di un’economia davvero circolare le proprie bandiere per il prossimo futuro. Del resto, tasse, immigrati e sussidi se li sono già presi gli altri, no?

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Rinnovabili.it, 16 ottobre 2018. Solo fermando lo sfruttamento delle risorse fossili si potrà limitare le emissioni di CO2 e avere ancora qualche possibilità di evitare le preannunciate catastrofi ambientali. Qui una proposta concreta per l'Italia. (i.b.)

Il Coordinamento Nazionale No Triv ha inviato al Ministero dello Sviluppo Economico il Pacchetto Volontà, un documento che racchiude nove proposte di interventi normativi finalizzati alla decarbonizzazione del sistema Italia.

Un pacchetto di misure finalizzate all’accelerazione di quel processo di decarbonizzazione del sistema Italia, che si impone tra le priorità dell’azione di governo. Il Coordinamento Nazionale No Triv riparte alla riscossa e mette a disposizione del Governo e di tutte le forze parlamentari il Pacchetto Volontà, un documento contenente 9 misure di carattere normativo proposte da No Triv per accelerare il processo di decarbonizzazione dell’Italia. Un processo che secondo il Coordinamento dovrebbe essere “tempestivo e risoluto”, considerate anche le conclusioni cui è pervenuto l’IPCC nel rapporto diffuso pochi giorni fa, per difendere i territori e i diritti dei cittadini. In una lettera inviata al Ministero dello Sviluppo Economico, il Presidente del Coordinamento Nazionale No Triv, Francesco Masi, parla di “un fare virtuoso, fattivo e stringente” che dovrebbe essere messo in atto e ricorda le devastazioni ambientali che hanno subito negli anni i territori e le popolazioni: “Il pensiero – scrive Masi nella lettera – corre ai territori e alle popolazioni da decenni vittime di sistematiche campagne di saccheggio e di devastazione ambientale; si pensi, ad esempio, alla Basilicata”.

Nello specifico, le nove misure propongono: l’approvazione di una moratoria riguardante attività di ricerca, coltivazione e stoccaggio ulteriori rispetto a quelle oggetto di titoli già concessi, sia in mare sia sulla terraferma; il ripristino della Previsione del Piano delle Aree, abolito dal Governo Renzi con la Legge di Stabilità 2016 (“Il Piano delle Aree – si legge nel Pacchetto – avrebbe dovuto funzionare da strumento di regolazione, programmazione, razionalizzazione delle attività estrattive nel nostro Paese, ma non ha mai visto la luce. La sua stessa previsione è stata infatti abrogata dal Parlamento in base a un emendamento alla Legge di Stabilità 2016”); il ripristino dello strumento dell’intesa in senso forte tra Stato e Regioni (“Sul piano normativo – si riporta dal documento – si è generata una situazione di dubbia legittimità costituzionale, che sottrae di fatto agli Enti Locali un fondamentale strumento di esercizio e tutela delle prerogative democratiche a garanzia delle ragioni dei territori. Oggi l’Esecutivo dispone infatti del potere di superare l’opposizione delle Regioni, concedendo a suo piacimento la relativa “autorizzazione unica”); l’abrogazione della norma che consente di prorogare i termini temporali delle concessioni petrolifere giunte a scadenza; il rispetto della volontà della maggioranza dei votanti in occasione del referendum No Triv; l’approvazione di un nuovo disciplinare-tipo rispettoso delle prerogative delle Regioni; una revisione delle norme sulla VIA(Valutazione di Impatto Ambientale); nuovi criteri di valutazione per la nomina dei componenti della Commissione Nazionale VIA, allo scopo di prevenire e stroncare il sistema che favorisce il transito nelle varie commissioni ministeriali (Mise e Minambiente) di figure provenienti da società direttamente e indirettamente interessate allo sviluppo delle attività Oil&Gas in Italia, e non solo; infine il varo di un piano di decommissioning degli impianti estrattivi non più produttivi/non eroganti, comprensivo di bonifiche ambientali, che, secondo il Coordinamento No Triv “avrebbe anche una positiva ricaduta sul piano degli investimenti e del mantenimento degli attuali livelli nazionali in un settore in cui il nostro Paese è in grado far valere know-how esclusivo ed eccellenti capacità operative”.

Le misure contenute nel Pacchetto Volontà sono state in parte anticipate in un dossier che è già stato inviato al Ministero dell’Ambiente e che sarà oggetto di discussione in un incontro che ci sarà il prossimo 21 ottobre a Brindisi Montagna (Potenza), con una delegazione di parlamentari eletti in Basilicata.
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

the submarine, 8 ottobre 2018. Il M5s ha sostenuto in campagna elettorale molte lotte ambientaliste e si è detto contrario alla devastazione dei territori e agli interessi mafiosi. Dopo sei mesi di governo, si può confermare che si trattava di mera propaganda. (i.b.)



Da quando è al governo, il Movimento 5 Stelle — fino a poco tempo fa schierato in prima linea per la difesa dell’ambiente — ha smesso progressivamente di parlare di tematiche ambientali.

Questo sarebbe il governo del cambiamento, secondo chi è al governo. Il cambiamento che in tutto il mondo è più percettibile da chiunque, però, è quello climatico. Ieri l’IPCC ha pubblicato uno studio da cui emerge che la situazione del clima è più grave di quanto previsto: anche se tutti i partecipanti agli accordi di Parigi rispettassero gli impegni presi, probabilmente non si riuscirebbe a limitare in modo decisivo fenomeni catastrofici. Se prima si pensava che esondazioni, aumento del livello del mare e strage di coralli e pesci si sarebbero verificati col raggiungimento di due gradi centigradi di riscaldamento rispetto all’era preindustriale, il nuovo studio certifica che si verificheranno anche con un aumento di un grado e mezzo. Che è molto difficile da evitare.

Nel nostro paese dovrebbe esserci qualcosa di diverso, però, che dovrebbe far vedere un minimo di speranza in fondo al tunnel: per la prima volta un partito che tra i suoi primi punti identificativi ha sempre avuto la tutela dell’ambiente, il Movimento 5 stelle. Addirittura, le cinque stelle nel simbolo del partito dovrebbero rappresentare la tutela dell’acqua pubblica, della mobilità sostenibile, dello sviluppo, della connettività e dell’ambiente. Ma questa è archeologia politica: la simbologia risale agli albori del partito.
Cosa sta facendo per la tutela dell’ambiente il Movimento 5 stelle, ora che è alla guida del paese?

Poco più di niente: non quanto ci si aspetterebbe da un partito che si era mostrato così schierato sui temi ambientali. Ha fatto di più durante la scorsa legislatura, quando ad esempio ha firmato con LeU una legge per la sostituzione dell’amianto e incentivo al fotovoltaico, o una legge sugli ecoreati firmata con il Pd. Ci sono una serie di cose che dovrebbero essere all’ordine del giorno ora che il partito è al governo, e che invece stanno venendo ignorate, rimandate, o affrontate in modo incompleto, in molti casi in aperto spregio di cose dette o scritte dagli esponenti del movimento negli scorsi anni. Vediamone qualcuna.

No carbon tax
In un post del blog di Beppe Grillo del 4 luglio del 2017, si proponeva una “revisione organica delle imposte sussidi procedendo alle eliminazioni di quelle risultate non efficaci per la tutela ambientale e conseguente introduzione di misure che, attualmente, ancora mancano nel nostro ordinamento. Ad esempio la carbon tax.” [la pagina del blog è stata rimossa. ndr]

La carbon tax è uno dei metodi più efficaci per agire sul consumo di energie non rinnovabili, e come avevamo spiegato questo giugno, sarebbe il momento di implementarla anche in Italia. Al momento però il governo non sembra avere la minima intenzione di implementarla, essendo a quanto pare più orientato sulla flat tax del suo alleato Salvini.

No chiusura trivelle
In una recente visita a Potenza, Di Maio è stato contradditorio. Prima ha dichiarato di non essere favorevole a un’eccessiva espansione di “sterminati” campi dedicati all’energia eolica e fotovoltaica. Poi di non volere dare priorità al petrolio che “minaccia la salute dei lucani.” Però poi ha anche sostenuto di essere “pragmatico” e che non firmerà concessioni per trivelle a meno che non ci sia un ritorno anche per i cittadini della Basilicata. Insomma, darà le concessioni per nuove trivelle. Tutto questo dopo che il Movimento è stato in prima linea per il referendum antitrivelle sulla riviera adriatica, e anche nella stessa Basilicata.

No eliminazione sussidi combustibili fossili
L’Italia spende ogni anno 16 miliardi in sussidi diretti e indiretti ai combustibili fossili. La loro eliminazione è tra gli obiettivi degli accordi di Parigi. Al momento non sembra essere però tra le priorità del governo. Nel dicembre del 2017, era apparso in proposito un articolo sul blog di Beppe Grillo.

Questi tre sono forse gli argomenti più macroscopici sui quali il governo si è mostrato reticente. Ma ce ne sono altri, che pur essendo meno importanti o gravi, meritano comunque una citazione, e che dovrebbero essere all’ordine del giorno di un partito che vorrebbe garantire in modo così cristallino la difesa dell’ambiente.
Cose di cui il Movimento 5 Stelle non parla nemmeno più:
No inizio procedure partecipate per decidere localizzazione costruzione impianti rinnovabili — manca un piano dell’energia rinnovabile nazionale.
No sussidi a industrie rinnovabili.
No finanziamento su tecnologie di accumulo energia.
No incentivi a impianti rinnovabili domestici.
No piano installazione impianti rinnovabili in piccole isole.
No incentivi edifici basso impatto energetico e geotermia a bassa entalpia.
No piano per la transizione del Sud Italia a fotovoltaico.
No dibattito sul building integrated fotovoltaico.
No stretta elettrificazione su industrie, ad esempio sull’ILVA.
No piano di protezione degli habitat della biodiversità marina.
No piano sostituzione distribuzione combustibili fossili automobili con infrastruttura elettrica.
No piano eliminazione automobili a combustibili fossili.
No piano trasformazione ambiente urbano da auto a trasporti pubbico+bici.
No piano mobilità ciclabile nazionale.
No piano potenziamento ed estensione ferrovie.
No piano trasmigrazione trasporto merci da gomma a ferrovie.
No piano sostituzione grandi navi con elettriche.
No piano utilizzo biocombustibili negli aerei che partono da aeroporti italiani.
No stretta contro deforestazione, anzi.
No normativa per la tutela del suolo.
No regolamentazione contro overfishing.
No stretta su inquinamento climalterante.
No stretta su inquinamento climalterante marino.
No normativa regolamentazione e virtuosismo ambientale della filiera del cibo biologico .
No legge contro cementificazione.
No ricerca per studiare effetti cambiamento climatico sul paese – anzi, chiusura di Italiasicura.
No incentivo al dibattito pubblico in tv sul cambiamento climatico.

A questo articolo ha collaborato Tommaso Sansone.

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Nena-news, 13 settembre 2018. Il gasdotto East Med, che correrà sotto il mediterraneo e che approderà in Italia, potrebbe avere un nuovo protagonista, Israele, che si giocherà questa carta per avere un ruolo ancor più centrale nella politica internazionale. (i.b.)

«In questi giorni si sta svolgendo a Salonicco l’83esimo International Trade Fair. Il 9 settembre si è svolto un incontro tra i Ministri ‎dell’Energia di Grecia, Israele, Bulgaria, Serbia e Stati Uniti per discutere della possibile ‎espansione nei Balcani del gasdotto sottomarino East Med»

La scoperta di enormi giacimenti di gas vicino le coste di Haifa ha trasformato Israele in uno dei principali produttori di gas di tutto il Mediterraneo, aumentando ulteriormente il suo peso politico nella regione. La strategia israeliana sembra essere quella di rendere l’Europa più ‎dipendente nel settore energetico e di creare nuove alleanze con i, possibili, futuri membri ‎balcanici.‎

In questi giorni si sta svolgendo a Salonicco l’83esimo International Trade Fair (8-16 Settembre), ‎considerato tra i più importanti eventi fieristici di tutto il Sud-Est Europa. Il tema principale di ‎quest’anno è quello dell’energia, con la partecipazione degli Stati Uniti in veste di “Paese ospite ‎d’onore”. Tra gli eventi in programma si è svolto, il 9 settembre, un incontro tra i Ministri ‎dell’Energia di Grecia, Israele, Bulgaria, Serbia e Stati Uniti per discutere della possibile ‎espansione nei Balcani del gasdotto sottomarino East Med. Sia il Ministro bulgaro Temenuzhka ‎Petkova che quello serbo Aleksandar Antić hanno sottolineato l’importanza del progetto che ‎garantirebbe loro un ruolo centrale nel mercato dell’energia nella regione balcanica. ‎

Nello specifico, Antić ha messo in risalto come la Serbia manchi di infrastrutture energetiche e come ‎l’attuale offerta di gas proveniente dal Mar Caspio non riesca a soddisfare pienamente la domanda ‎interna, accogliendo con grande entusiasmo il nuovo progetto East Med. La Bulgaria punta ad ‎allentare la sua dipendenza, pressoché totale, dal gas russo prodotto da Gazprom che fornisce circa il ‎‎90% del fabbisogno annuale del paese. Dal canto suo il Ministro israeliano Yuval Steinitz ha ‎garantito che lo sviluppo dei giacimenti di gas offshore israeliani renderanno Israele un ‎fornitore affidabile. L’incontro è avvenuto alla presenza del Sottosegretario all’Energia degli Stati ‎Uniti Mark Menezes a dimostrazione dell’importanza strategica del nuovo gasdotto per il ‎protagonismo statunitense nell’area.‎

Nel dicembre dello scorso anno Italia, Cipro, Grecia e Israele avevano firmato un Memorandum ‎d’intesa per la creazione di una joint venture, Ig Poseidon, tra Edison e la società greca Depa per la ‎costruzione dell’Eastern Mediterranean pipeline (EastMed), un gasdotto sottomarino che ‎trasporterà verso l’Italia il gas prodotto dalle enormi riserve recentemente scoperte a Cipro e in ‎Israele, nel cosiddetto “Leviathan field” a circa 130 chilometri dalla costa di Haifa. In occasione del ‎summit di dicembre, il Ministro Steinitz ha voluto tranquillizzare i partner mettendo in risalto come ‎la costruzione sottomarina del gasdotto riduca al minimo la possibilità di atti di sabotaggio. Il valore ‎complessivo dell’investimento è stimato in oltre 6 miliardi di euro e una volta concluso, nel 2025, ‎sarà in grado di trasportare fino a 16 miliardi di metri cubi di gas all’anno su una rete di circa 2 mila ‎km.‎

Dal punto di vista politico questo progetto persegue almeno tre obiettivi principali. Il primo è ‎quello di espandere il mercato energetico dell’Unione Europea riducendo così la sua dipendenza ‎dalla Russia. L’allargamento di East Med verso Serbia e Bulgaria, i due principali importatori di gas ‎russo nella regione, serve proprio a questo. Non a caso l’UE ha incluso il progetto nella lista dei ‎progetti di interesse comune in quanto incrementa la sicurezza e la diversificazione delle forniture.‎

Il secondo obiettivo è quello di accrescere il peso di Israele nel sempre più importante settore ‎dell’approvvigionamento energetico considerato tra i più profittevoli nel prossimo futuro. In questo ‎modo Israele si garantirebbe, contemporaneamente, un notevole vantaggio rispetto ai competitors ‎mediorientali e una sempre maggiore dipendenza energetica dei palestinesi. Infine, l’inclusione di ‎Serbia e Bulgaria servirà a evitare l’isolamento di Tel Aviv attraverso la creazione di nuovi ‎partenariati commerciali, in un momento delicato per i rapporti tra Israele e la comunità ‎internazionale.‎

Non è la prima volta che Israele stringe accordi nel settore energetico con i paesi dei Balcani. ‎Ne è dimostrazione l’avvio dei lavori per la costruzione di un impianto eolico a Kovačica, città a 60 ‎km a Nord di Belgrado. Il progetto, dal valore di 190 milioni, è stato finanziato dalla società ‎israeliana Enlight Renewable Energies, dall’agenzia di credito tedesca Erste Group Bank AG, ‎dall’Erste Bank Serbia e dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. La stessa società ‎israeliana ha inoltre acquisito, nel 2016, il 90% del progetto di costruzione dell’impianto eolico di ‎Lukovac, nelle vicinanze di Spalato, per un totale di circa 7,5 milioni di euro. Infine, nel marzo di ‎quest’anno, ha annunciato l’acquisto dei diritti per la costruzione di un impianto eolico in Kosovo. ‎

Nei prossimi anni Tel Aviv giocherà un ruolo centrale nella fornitura di energia per l’Europa e ‎questo potrebbe portare a ulteriori consistenti investimenti anche nella regione balcanica che in ‎futuro non troppo lontano, secondo le intenzioni dell’UE, dovrebbe essere integrata nel mercato ‎unico. I paesi dei Balcani sono alla continua ricerca di investimenti esteri per migliorare le proprie ‎performance economiche e sopperire alla mancanza di capitali. Israele, in questo campo, potrebbe ‎essere quindi un importante alleato.

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Internazionale, 6 agosto 2018. Si continua a sottovalutare il cambiamento climatico e le ripercussioni che questo avrà su risorse fondamentali come acqua e cibo. Dovremmo mirare a una riduzione drastica delle emissioni, ma andiamo avanti come se nulla fosse. Aspettiamo un miracolo o contiamo sul poterci comprare acqua, cibo ed energia a qualsiasi prezzo? (i.b.)

Nell’emisfero nord è un’estate apocalittica: incendi fuori controllo in tutto il circolo polare artico (per non parlare di California e Grecia), ondate di calore di varie settimane con temperature record, acquazzoni torrenziali e inondazioni bibliche. Eh già, si tratta di proprio di cambiamenti climatici.

Non è assurdo essere spaventati, poiché le estati saranno sempre peggiori nei prossimi dieci anni, e molto peggiori nei dieci anni successivi. Dei tagli drastici e immediati alle emissioni di gas serra oggi potrebbero evitare che le estati degli anni quaranta del duemila siano anche peggiori, ma non potrebbero comunque fare molto per alleviare la crescente sofferenza dei prossimi vent’anni. Buona parte di queste emissioni si trova già nell’atmosfera.

E la verità è che non assisteremo ad alcun “taglio drastico e immediato delle emissioni di gas serra” nel prossimo futuro. Le cose peggioreranno, e di molto, prima di migliorare, se mai miglioreranno. Ed è quindi probabilmente venuto il momento di porsi l’ovvia domanda: come andranno a finire le cose?

Sistematica sottovalutazione
La peggiore delle ipotesi non è l’unica ipotesi, e neppure la più probabile, ma potrebbe essere utile capire a che punto la situazione potrebbe diventare grave se ci lasceremo sfuggire tutte le scappatoie possibili nel nostro cammino verso l’inferno. Vorrei a questo punto citare un’intervista che ho realizzato dieci anni fa con il dottor Dennis Bushnell, scienziato capo del centro studi Langley della Nasa. Quel che ha detto vale ancora oggi.

Bushnell parlava degli “effetti di retroazione” (lo scioglimento del permafrost, il riscaldamento degli oceani, le grandi emissioni di diossido di carbone e di metano). Dal momento che non possono essere pienamente inclusi nei modelli informatici del clima, simili fenomeni portano a una sistematica sottovalutazione dei riscaldamenti futuri, diceva. Prima di venire al dunque.

“Se prendiamo in considerazione tutti questi effetti di retroazione, le stime prevedono che entro il 2100, invece di un aumento tra i due e i sei gradi (nella temperatura media globale), è possibile un aumento compreso tra i sei e i 12 gradi. Un simile cambiamento delle temperature modificherebbe l’andamento di circolazione degli oceani e li renderebbe in buona parte anossici, molto poveri d’ossigeno, il che poi farebbe proliferare i batteri che producono solfati d’idrogeno. Il loro aumento provocherebbe l’assottigliamento dello strato di ozono, rendendo difficile la respirazione. Questo avverrebbe entro il 2100”.

Un mondo senza ossigeno
Dennis Bushnell si riferiva al “modello oceanico di Canfield”, che oggi è seriamente sospettato di essere la causa di quattro delle cinque grandi estinzioni di massa. Tutti sono al corrente dell’enorme asteroide che ha colpito il golfo del Messico 65 milioni di anni fa, portando all’estinzione dei dinosauri. Meno persone sanno che non c’è alcuna traccia d’impatto con un asteroide nelle altre quattro “grandi morie”, avvenute rispettivamente 444, 360, 251 e 200 milioni di anni fa. Cosa è accaduto in questi casi?

Uno degli elementi comuni è che il pianeta era all’epoca insolitamente caldo, ma il vero motivo era l’anossia degli oceani profondi. Non c’era ossigeno e quindi nessuna forma vivente che utilizza ossigeno. Quando gli oceani sono molto caldi, si interrompe il capovolgimento meridionale della circolazione atlantica (come la corrente del Golfo), che porta negli abissi grandi quantità di acqua di superficie ricca di ossigeno, e gli oceani si si dividono in uno strato di superficie con ossigeno e in uno strato anossico nelle profondità.

Ma lì esistevano già forme viventi: solfobatteri che solitamente si nascondono nelle fessure, lontano dall’ossigeno che li distruggerebbe. In un oceano anossico, escono fuori e si moltiplicano per poi, con le giuste condizioni, risalire in superficie e uccidere tutta le forme di vita marine che vivono d’ossigeno.

Ma non solo: l’acido solfidrico, un prodotto di scarto del loro metabolismo, sale nell’atmosfera, distrugge lo strato d’ozono, e si diffonde sulla Terra dove distrugge a sua volta buona parte delle forme di vita. Questo è accaduto non una bensì almeno quattro volte in passato.

In teoria, riscaldando il pianeta stiamo creando le giuste condizioni perché questo accada di nuovo, ma in pratica le probabilità non sono così alte. Non ci sono stati eventi di “Canfield” negli ultimi duecento milioni di anni e, tanto per cominciare, quando sulla Terra si sono verificate in passato estinzioni di massa la temperatura era molto più alta.

Anche se eviteremo questo destino, potremmo essere comunque ben avviati verso una nuova strage, anche di essere umani. Il cibo è l’elemento chiave: mano a mano che il caldo rallenterà la produttività e trasformerà in deserti intere regioni, è ipotizzabile che ci saranno carestie di massa, anche se una vera e propria estinzione appare improbabile. C’è ancora una possibilità che reagiamo abbastanza velocemente da arrestare tutto questo molto prima che si verifichi una vera e propria carneficina. Quando ci si occupa del futuro, si può fare affidamento solo sulle probabilità, e anche queste sono molto scivolose.

La situazione è già abbastanza fosca. Le notizie sono cattive, naturalmente, ma quando il gioco si fa molto serio, è bene sapere qual è la posta in gioco.

(Traduzione di Federico Ferrone)


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La terra trema, 20 luglio 2018. Le riflessioni di un pescatore-urbanista a proposito delle nefaste conseguenze dell'attuale modello di sviluppo, predatorio e estrattivista, sul Mediterraneo.

Il Mediterraneo odierno è un mare geologicamente molto giovane, figlio della “crisi di salinità” del Messiniano, quando si chiuse il collegamento con l’Atlantico tramite lo Stretto di Gibilterra, che si riaprì definitivamente cinque milioni di anni fa a seguito di eventi sismici. Esso bagna ventitrè Stati con circa 450 milioni di abitanti.

Il significato etimologico del nome deriva dalla parola latina Mediterraneus, che significa in mezzo alle terre.
L’antichità del Mediterraneo è datata seimila anni, quando nei territori costieri si diffusero agricoltura e allevamento e cominciarono a fiorire le prime civiltà. Da quella Cretese Minoica ai Fenici fondatori di Cartagine. Dai Greci, con le loro propaggini siciliane e nel Sud Italia (la Magna Grecia), all’Impero Romano e poi Bisanzio sede di intensi scambi commerciali con l’oriente. Dagli Arabi musulmani che raggiunsero le coste spagnole alle Repubbliche marinare italiane di Venezia, Pisa, Amalfi e Genova che rinvigorirono la presenza cristiana nel vicino Oriente fino al XII secolo. E poi ancora, gli Aragonesi, i Turchi Ottomani e il declino derivante dalla scoperta dell’America e dalla perdita di peso da parte sia di Venezia che della Spagna a scapito, sempre in oriente, degli Ottomani. La Sicilia in oltre seimila anni ha avuto oltre quindici dominazioni e il mare Mediterraneo era l’autostrada su cui viaggiavano, si scontravano e poi si incontravano popoli, culture, storie, economie, abitudini alimentari ed alimenti stessi, dapprima diversi, poi patrimonio comune e di interscambio.

Nel lungo periodo del Medioevo, per più di mille anni, il Mediterraneo, luogo di conflitti ma anche di scambi e di incontro è stato sede del fiorire della lingua Sabir, altrimenti detta lingua franca-mediterranea, un peculiare linguaggio parlato in tutti i porti del Mediterraneo, un misto di italiano, francese, spagnolo ed arabo diventato indispensabile per chi lavorava sul mare o con il mare, che fossero pescatori o naviganti, commercianti o soldati. E nel 1830 viene pubblicato un dizionario di questa lingua del mare.

Da noi, in tempi recenti e contemporanei, i pescatori del Golfo vivevano e vivono in maggioranza nei borghi marinari delle lave etnee: Ognina, Acitrezza, Santa Maria La Scala, Pozzillo, Stazzo, Riposto. Gli altri, i rimanenti, erano e sono gli abitanti della Civita e della Sciara, i due quartieri catanesi che cingendolo come una cintura custodiscono il grande porto di Catania, divisi l’uno dall’altro dalla Piscaria, il mercato storico di Catania.

Nelle marinerie del Golfo di Catania e delle Lave Etnee, le varie comunità di pescatori praticavano da sempre alcuni mestieri e si specializzavano in altri.
Ognina e Catania, nel dopoguerra, si specializzavano nella pesca con il cianciolo a lampara e mantenevano a fatica quella della menaide (per la masculina da magghia).
Acitrezza si concentrava nella pesca del pesce spada. Santa Maria La Scala, Pozzillo, Stazzo e Riposto nella pesca dell’alalunga e del pesce spada.
In tutte le marinerie il resto della piccola pesca artigianale praticava anche la pesca con il tremaglio, il palangaro, le nasse e stagionalmente con altri sistemi di pesca storicamente praticate per pescare singole specie ittiche.

La genesi dell’attuale pesca prende avvio con la fine della Seconda Guerra Mondiale quando, con l’avvento del motore diesel, si passò dalla pesca removelica e quella meccanica. Da questo processo di “industrializzazione” nasce un rapido e, successivamente, feroce sviluppo. Si passa dalla pesca del territorio costiero e dei grandi saperi marinari a quello degli orizzonti marini illimitati e del sopravvento della tecnologia sempre più invasiva ed eticamente insostenibile. Il paesaggio costiero Etneo, dagli anni Ottanta, passa da una variopinta biodiversità “marinara” e biologica ad una specializzazione sempre più monotematica del mestiere del pescatore. Dalla stagionalità polivalente del piccolo pescatore costiero a quella sempre più unica e lunga del pescatore “mediterraneo”. Dalle barche in legno di piccolo tonnellaggio, ai grandi pescherecci di venti, trenta metri, a quelli grandissimi in ferro. E i grandi e grandissimi pescherecci sono quelli che, più di tutti, hanno distrutto e stanno continuando a distruggere importanti risorse ittiche quali il pescespada, il tonno, parte del pesce azzurro (alici, sarde e sgombro) e tutte le specie ittiche demersali vittime della pesca a strascico, specie nei fondali entro i cinquanta metri ed entro le tre miglia.

I grandi predatori dei nostri mari, negli ultimi quarant’anni hanno nomi precisi: lo strascico, specie quello sottocosta come avviene nel Golfo di Catania. Questa tipologia di pesca produce oltre l’80% del pescato in rigetti a mare perché sottotaglia e invendibile; rete a ciancioli con lampare, che avviene soprattutto in autunno e inverno quando il pesce azzurro è ancora piccolo e sottotaglia; le spadare, anche se ormai sono state abolite; a reti volanti, costituite da grandi reti a strascico trainate da due pescherecci che pescano il pesce azzurro; tonnare volanti a circuizione, un tempo libere da limiti di pesca oggi con quote molto più limitate di cattura, restano in attività tredici nobili lobby, salernitane (con dieci natanti) e siciliane (con tre natanti) al servizio di multinazionali per il mercato giapponese del tonno rosso. Forse il Ministero sta pensando di aumentarle di altre quattro unità, dopo averne fatte dismettere una trentina con un bel corrispettivo economico, pagato dalla collettività, appena dieci anni fa. Cancellate, invece, le poche storiche tonnare fisse esistenti.

A tutto questo dobbiamo aggiungere un’insensata gestione delle risorse giovanili di sarde e alici, il cosiddetto “bianchetto” o “neonato”, che fino a quattro anni fa è stato permesso di pescare, sia a natanti con autorizzazione che a moltissimi non autorizzati e perciò illegali. Questa volta sono piccole imbarcazioni, anch’esse dotate di potenti ecoscandagli, tutte localizzate nella regioni costiere del Sud Italia. Quella che potremmo indicare come “la strage degli innocenti”.

Tutta questa è storia dei pregi e dei difetti della pesca catanese e siciliana, ma anche di molte altre marinerie italiane, dove spesso le stesse istituzioni locali e nazionali preposte al governo e alla sicurezza del settore, hanno strizzato l’occhio ad interessi corporativi e settoriali, mancando nel loro ruolo istituzionale super partes ed omettendo i necessari controlli dovuti.

Insomma, il modello che si è affermato e che sostanzialmente continua ad essere perpetrato è tutto improntato alla soddisfazione immediata ed egoistica del bisogno individuale e/o di piccolo gruppo con la cancellazione assoluta di una prospettiva di equa distribuzione delle risorse e a una loro gestione che guarda al mantenimento futuro della risorsa ittica. E la risorsa ittica, specie quella pelagica e migratoria è un “bene comune universale” patrimonio dell’umanità.

In tal senso sono state decisive le politiche di implementazione che i fondi, inizialmente nazionali e poi quelli europei, hanno dato al sostegno del settore, dove l’idea di uno sviluppo illimitato durerà fino alla fine degli anni Novanta. Non c’è stata la consapevolezza, spesso in malafede, che le risorse ittiche, come tutte le risorse naturali, fossero limitate e quindi suscettibili di politiche di salvaguardia. E questo non solo in alcune fasce di pescatori, ma anche e direi soprattutto nelle istituzioni di governo del settore. è mancata la volontà di gestire il settore in maniera integrata, dando gli indirizzi e le regole giuste per governare un mondo complesso quale è quello dell’interazione tra l’uomo e il mare, nel senso più ampio che questa interazione può significare.

Sembrerò un nostalgico del mondo che fu, ma l’unica via che oggi ci può fare ritornare ad una pesca compatibile e rispettosa dei cicli biologici del pesce è il modello della piccola pesca costiera che i nostri padri praticavano ancora negli anni Sessanta. Lì per millenni, attraverso la trasmissione orale e quotidiana dei saperi, attraverso l’esperienza di ogni notte e di ogni giorno, il piccolo pescatore costiero diventava architetto del mare, costruendosi un atlante della memoria diveniva al tempo stesso meteorologo, biologo, astronomo, geografo ed economo del suo stesso destino. E qui “le mani e l’acqua salata”, diventano simbolo ed emblema di un mestiere limpido, trasparente e dolcemente pesante. Ma estremamente “Bello”. Le mani sono il mezzo che guida l’azione quando si cala e si tira la rete, quando si smaglia l’alice, una ad una e poi quando si salano le stesse alici che diventano acciughe. L’acqua salata è quella che, nel freddo inverno marino, ti sbuffa in faccia dall’impatto della barca con le onde agitate e ti gela le dita quando tiri la rete e smagli il pesce. Ma le mani sono dell’uomo e l’acqua salata dell’universo mondo, in un incontro ancestrale.

E di questo mondo fu degno interprete mio padre Carmelo. A ottantasei anni, lui che da quando aveva undici anni andava per mare, diceva così: «il nostro mestiere è ancora il più bello e affascinante fra quelli che si praticano nel Golfo di Catania. Perchè è un mestiere dove veramente le nostre conoscenze, quello che abbiamo imparato e che ci hanno trasmesso le generazioni di pescatori prima di noi, restano punti di riferimento di cui non si può fare a meno. Per chi usa la menaide (piccola rete per pescare le alici, “le masculine” come le chiamiamo nel catanese – n.d.a.) sono i cicli naturali di vita del pesce, in questo caso della masculina, a guidare il tempo delle attività di pesca. E più che l’ecoscandaglio contano e bisogna conoscere i venti, le correnti marine, i diversi fondali. Per fare una grande pescata di masculina è importante sapersi regolare con l’apparizione di alcune stelle nell’orizzonte durante le notti di primavera e d’estate, interpretare i movimenti della luna, cogliere i momenti giusti all’alba o al tramonto. Tutte queste cose non s’imparano sui manuali ma ogni giorno o notte che sia, di anno in anno. Così noi, piccoli pescatori costieri, ci costruiamo un libro della memoria che poi ci serve per il lavoro quotidiano e nel corso della vita».

Gaetano, detto Tano, Urzì, pescatore da generazioni, racconta di una scelta di vita drastica e faticosa, ma colma di felice poesia in una degustazione dei prodotti della tradizione marinara, con sott’oli e salati lavorati artigianalmente.

La Cooperativa del Golfo, porta avanti una lunga tradizione marinara che si svolge prevalentemente nel Golfo di Catania che va da Capo Mulini, sotto Acireale, a Capo Santa Croce in Provincia di Siracusa, con Pescherecci operanti nel pieno rispetto delle norme di tutela ambientale e con l’obiettivo di valorizzare il pescato locale, eseguono una rigorosa selezione del pesce fresco di volta in volta disponibile nelle diverse stagioni.


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Acquabenecomune.org, 17 luglio 2018. Altro attacco alla acqua come bene comune. Nonostante le promesse di escludere dall'accordo i servizi idrosanitari e il trattamento delle acque reflue, nel CETA è inclusa l'acqua, aprendo questa risorsa alle multinazionali (i.b.)

In questi giorni vengono riportate diverse mistificazioni da alcuni organi di stampa in merito al CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), il trattato di liberalizzazione del commercio tra Canada e Europa, già entrato a settembre scorso in applicazione provvisoria, per cui ci sembra opportuno ribadire che questo mette a rischio le risorse di acqua dolce e i servizi idrici su ambedue le sponde dell'Atlantico.

Infatti, alcune disposizioni di questo trattato pongono serie minacce all'acqua come risorsa naturale e ne favoriscono la definitiva mercificazione.

Innanzitutto, intendiamo ribadire che l'acqua è inclusa nel CETA a dispetto di tutte le promesse che questa sarebbe stata esclusa dalle trattative e nonostante il parere del Parlamento Europeo espresso nella risoluzione dell'8 settembre 2015 a seguito dell'Iniziativa dei Cittadini Europei Right2Water (2014/2239 (INI), no. 22), in cui il Parlamento “richiede alla Commissione di escludere in via permanente i servizi idrosanitari e il trattamento/smaltimento delle acque reflue dalle regole del mercato interno e da qualsiasi trattato commerciale”.

Le clausole dell'Art. 1.9 del CETA potrebbero portare ad una ulteriore mercificazione dell'acqua e ad un accaparramento da parte delle multinazionali. L'articolo afferma: “Se una delle parti permette l'utilizzo commerciale di una specifica risorsa idrica, ciò verrà fatto in conformità al presente accordo”, senza definire cosa si intende per “utilizzo commerciale” o “risorsa idrica”. Nel caso di “utilizzo commerciale” i diritti sull'acqua sono soggetti alle regole del CETA sul commercio e gli investimenti.

Le riserve all'Accesso al Mercato ed al Trattamento Nazionale adottate per i servizi di “raccolta, trattamento e distribuzione dell'acqua” non sono sufficienti a garantire una completa protezione. Sarebbe stato necessario introdurre le riserve sulla Nazione Maggiormente Favorita e sui Requisiti sui Livelli di Prestazione.

La cooperazione regolatoria e la protezione degli investimenti blinderebbero la privatizzazione dei servizi idrici e renderebbero impossibile ai governi di richiedere di ricondurre i servizi idrici sotto gestione pubblica, tendenza che sta crescendo in Europa.

Il CETA potrebbe limitare la capacità operativa delle aziende pubbliche in quanto i diritti sull'acqua sono trattati come investimenti e le riserve non coprono tutte le attuali e future attività che gli operatori pubblici devono espletare in accordo alla legislazione nazionale

Nel CETA è assente un approccio basato sul principio di precauzione, che è un componente inerente alla legislazione UE. La cooperazione regolatoria potrebbe potenzialmente restringere lo spazio politico degli stati membri della UE. Ciò potrebbe avere grosse ripercussioni sulla salute, l'ambiente e la tutela delle risorse idriche.

Il CETA ignora la natura unitaria del ciclo dell'acqua, la limitatezza delle risorse idriche del pianeta e la natura multifunzionale dell'acqua negli ecosistemi.

L'Unione Europea e lo Stato Italiano devono considerare l'acqua come un bene comune, e l'accesso all'acqua ed ai servizi idrosanitari come un diritto umano.

Per queste ragioni chiediamo al Governo Italiano e al Parlamento di non ratificare il CETA e di approvare subito la legge per l'acqua pubblica nella versione aggiornata e depositata nella scorsa legislatura dall'intergruppo parlamentare per “l'acqua bene comune”.

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Re:common, 18 luglio 2018. Il gasdotto è strumentale per il mantenimento dello status quo, impedendo di transitare non solo verso un approvvigionamento energetico ambientalmente più sostenibile, ma anche verso un futuro più democratico. Con riferimenti (i.b.)

Il 3 e il 4 luglio 2018 scorsi sono successi due fatti forse non direttamente collegati tra loro, che però meritano una riflessione. Il 3 luglio il quotidiano danese Berlingske pubblica un’inchiesta che fa luce sulle dimensioni assunte dallo scandalo di riciclaggio internazionale nato dall’Azerbaijani Laundromat, e al centro dell’indagine delle autorità danesi (ne abbiamo parlato qui: “Azerbaijani Laundromat, lo scandalo si allarga“). Il 4 luglio, il nuovo governo italiano, “il governo del cambiamento”, approva tramite il suo rappresentante presso la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo un prestito di 500 milioni di euro al gasdotto TAP (a questo link la notizia della Reuters).

Quando nel marzo del 2017 abbiamo ribadito le ragioni per cui il gasdotto TAP non andava costruito (vedi l’articolo: “Perché no tap né qui né altrove“), forse ce ne siamo dimenticata una. O meglio, non l’abbiamo scritta perché ci sembrava banale farlo, ma alla luce dei fatti ci siamo detti che forse non è così, ed è bene esplicitarlo. La ragione è che il gasdotto TAP – e il resto del Corridoio Sud del gas – è sistemico, ovvero funzionale alla continuazione dell’ordine delle cose attuale, e come tale non solo non è parte della transizione verso qualsiasi futuro più democratico o climaticamente più sostenibile, ma è un blocco a questo cambiamento.

Che cosa intendiamo dire? Che il gasdotto TAP è un problema che va ben oltre la lettura superficiale che se ne riesce a dare nel non-dibattito attuale. Chi fino ad oggi ha cercato di ridurre lo spazio della discussione sul TAP provando a guardare “solo” agli impatti ambientali, o al rischio industriale collegato al progetto, lo ha fatto con l’intenzione di limitare la discussione all’estetico miglioramento del progetto, evitando di mettere in discussione il progetto stesso. Parliamo ad esempio di chi pensava che spostando il punto di approdo del gasdotto, o cambiandone il tracciato, se ne sarebbe ridotto l’impatto. In questo ambito limitato giocano le istituzioni finanziarie pubbliche, come la Banca europea degli investimenti e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, che fallimento dopo fallimento ancora non sono riuscite a trovare uno spazio di ascolto e confronto con le persone e le istituzioni locali – come la commissione tecnica del Comune di Melendugno, e il Movimento No TAP in Italia, o altri soggetti in Albania e in Grecia – che hanno denunciato già da anni i danni (e l’assenza di benefici) collegati al progetto. In questo stesso spazio, che comprende anche la possibilità che siano avvenuti falsi e abusi d’ufficio collegati al processo di autorizzazione del gasdotto – oggetto di svariate denunce nel corso degli ultimi anni – gioca anche l’indagine della Procura di Lecce, che ha riaperto il fascicolo sul gasdotto in seguito alla denuncia dei sindaci presentata a gennaio di quest’anno.

Ma alzandoci in punta di piedi e guardando oltre la cortina di fumo della discussione delimitata dalla politica e dalle istituzioni, vedremo la valenza sistemica del TAP. Oltre quel fumo fitto si trovano alcuni dei motivi per cui nessuno dei partiti politici che finora hanno espresso delle perplessità su alcuni aspetti del progetto, sono riusciti a trasformare quelle perplessità in una posizione chiara e definita, e soprattutto a traslare le perplessità in azione pratica, concreta, efficace per fermare la costruzione del progetto. Un’azione non ideologica e urlata, bensì politica. Ragioni che per altro sono difficili da vedere anche da molte delle persone che guardano “in alto” in attesa di un’azione salvifica che finalmente blocchi la costruzione del progetto.

Vedremo così che il TAP è sistemico perché risponde a un quadro di interessi che non è pubblico, o di interesse pubblico o collettivo, e che va molto al di la della “sicurezza energetica” o della “diversificazione delle fonti” o della dichiarata “strategicità europea” dell’opera. Gli interessi a cui risponde sono piuttosto privatistici, ovvero ricadono nell’ambito in cui il pubblico e il privato si mescolano, e l’azione che ne deriva va a beneficio di alcuni attori privati che però sono ben lontani dal rappresentare l’interesse pubblico, e di alcuni soggetti che rivestono funzioni pubbliche, senza per questo rappresentare l’interesse pubblico. E’ questo il quadro di interessi che sta a monte degli schemi societari del Corridoio Sud del Gas in Turchia, emersi dalle inchieste de L’Espresso dello scorso anno, e esplicitati nella mappa di interessi pubblicata qui: https://graphcommons.com/graphs/bce3e757-6529-4148-a3f9-3c83167c109d

E’ anche il quadro di interessi che emerge dallo scandalo di riciclaggio internazionale investigato in Danimarca, in cui sono coinvolti due dei paesi con cui l’Europa (e l’Italia) intrattengono relazioni commerciali centrali, soprattutto in ambito energetico. Due paesi governati dalle stesse elites dagli anni Novanta a oggi, che hanno costruito la propria ricchezza in buona parte sulla vendita di petrolio e gas, e da cui dipende in buona parte la “sicurezza energetica” italiana e europea.

I due prestiti pubblici concessi al gasdotto TAP dalla Banca europea degli Investimenti, e dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo sono anche loro funzionali a questo quadro di interessi, e ugualmente sistemici. In questo senso non c’è stata differenza tra il governo Gentiloni e il governo Conte: entrambi hanno risposto allo stesso schema di interessi, nessuno ha messo in discussione niente dello status quo, nessuno ha dato un segnale di “cambiamento”.

Eppure la storia recente ha visto diversi casi in cui l’Italia si è astenuta dal voto relativo alla concessione di prestiti molto controversi attraverso le istituzioni finanziarie multilaterali a cui partecipa. Ad esempio nel caso dell’oleodotto Ciad-Camerun (come riportato nella relazione dal Tesoro che potete trovare a questo link) dove uno degli aspetti critici era proprio quello della corruzione, o nel caso della centrale a carbone di Medupi in Sud Africa, di cui parlò anche il The Guardian.

I governi che avevano deciso di astenersi allora erano “governi del cambiamento”? Certamente no. Astenendosi questi governi non hanno fatto niente di rivoluzionario, avevano scelto una delle opzioni previste dai protocolli interni alle banche multilaterali, basando la decisione su motivazioni tecniche, sulla base di una valutazione assolutamente politica. Tanto politica quanto la decisione di votare a favore di altri progetti, tra cui il gasdotto TAP.

Tra febbraio e luglio, la continuità nella posizione a favore di entrambi i finanziamenti presa dal governo uscente e da quello appena insediato confermano che il progetto nel settore energetico più controverso in Italia e in Europa, il TAP appunto, rimane sistemico.

Entrambi questi governi ci ricordano che se vogliamo costruire il cambiamento dovremo per forza alzarci in punta di piedi, guardare oltre, e ripartire da lì.

Riferimenti
In eddyburg trovate diversi articoli sulla vicenda TAP, ne segnaliamo alcuni: un' intervista a Tomaso Montanri di Giacomo Russo Spena, sulle contestazioni del cantiere Tap ilReportage dalla Puglia. Disfida del gas: sul fronte del Tap, gasdotto che divide di Diego Motta, sull' incongruenza tra uso di combustibili fossili e l' agenda climatica Ipocrisia e affari i pilastri del nuovo gasdotto di Jo Ram e Pascoe Sabido e a proposito delle azioni di persuasione non sempre lecite per convincere, con successo, i nostri governanti e la Commissione Europea a continuare una politica energetica basata sul gasLa favola dell'energia pulita e gli affari sporchi del gasdotto TAP di Ilaria Boniburini.

Resoconto di un rapporto sullo sfruttamento della foresta pluviale ad opera di una rete complessa di aziende europee con la complicità sia del governo congolese che di due agenzie europee per l'aiuto allo sviluppo. (i.b.)

Il 26 giugno 2018 è stato pubblicato un rapporto del Global Witness (1) sullo sfruttamento della foresta pluviale del bacino del fiume Congo ad opera di una rete complessa di aziende europee con la complicità sia del governo congolese che di due agenzie per lo sviluppo europee. Ci è sembrato importante riportarne una sintesi; non solo perchè questa foresta è un bene comune di carattere planetario per il ruolo che svolge nella salute del pianeta, ma anche per mettere in evidenza come il continente africano continua ad essere sfruttato da capitalisti occidentali, che spesso operano con il supporto delle cosiddette agenzie di cooperazione allo sviluppo, ovvero quelle agenzie che dovrebbero "aiutarli a casa loro".

La foresta pluviale del bacino del fiume Congo, che ricade prevalentemente nel territorio della Repubblica Democratica del Congo (RDC) è un fondamentale regolatore del clima e ha un importantissimo ruolo nell'assorbimento delle emissioni di CO2. E' anche uno dei più importanti ecosistemi del pianeta per la sua biodiversità, ospita più di 600 specie di alberi e 10.000 specie animali. Non solo, la ricchezza naturale di questa foresta fornisce riparo, cibo, acqua e mezzi di sussistenza a decine di milioni di persone ogni giorno.

A differenza della foresta Amazzonica, la foresta della RDC, sino alla fine del secolo scorso, era una delle foreste a più basso tasso di deforestazione, ma una serie di studi recenti hanno messo in evidenza come la situazione sia cambiata. Un studio di Global Forest Watch, Blue Raster, Esri e l'Università del Maryland completato nel 2017, ha rivelato che la RDC era una delle tre foreste dove la deforestazione stava peggiorando, soprattutto a causa della scarsa applicazione da parte del paese delle sue normative ambientali. Dal 2000 al 2014, la RDC ha perso una media di 0,57 milioni di ettari di foresta all'anno, e il tasso di perdita di foresta tra il 2011 e il 2014 è aumentato di 2,5 volte.

La Global Witness ha invece condotto un indagine (2) per comprendere chi sono i responsabili della deforestazione. La principale responsabile di questa colossale ed estremamente lucrativa operazione è la società europea Norsudtimber - il più grande proprietario unico di concessioni di disboscamento - che attualmente detiene venti concessioni di disboscamento per un totale di 40.000 km2 di foresta pluviale. Sono tre le società che controllano la Norsudtimber:

Complici sono innanzitutto le consociate di Norsudtimber, che scambiano il legname in tutto il mondo attraverso transazioni segrete in giurisdizioni segrete, generalmente paradisi fiscali. Queste aziende servono anche per incanalare il denare che serve per corrompere i funzionari e politici congolesi. A seguire le aziende che comprano il legname, Global Witness ha individuato compratori in tutto il mondo. Indispensabili complici sono i politici congolesi, facilitati alla corruzione dalla perenne instabilità politica del paese. Il ministro dell'Ambiente Amy Ambatobe Nyongolo è stato già accusato di assegnare illegalmente concessioni di disboscamento, ma non accenna a interromperle.

Nonostante sia risaputo che il disboscamento non solo sta avvenendo a discapito delle popolazioni e della salute del pianeta, ma anche attraverso concessioni illegali, sia il governo francese che quello norvegese usano i loro fondi per dare supporto ad aziende come la Norsudtimber per espandersi in DRC. Queste azioni sono guidate dalla Central African Forest Initiative (CAFI), un ente finanziato a maggioranza dall'International Climate and Forest Initiative (NICFI) che appartiene alla Norad, l'agenzia governativa norvegese per la cooperazione allo sviluppo. L'Agenzia governativa francese per lo sviluppo (AFD) è anch'essa membro della CAFI.

La Norsudtimber sta operando illegalmente sul 90% dei suoi siti. Per esempio la maggioranza delle concessioni non hanno implementato il richiesto piano di gestione di 25 anni entro i termini imposti dalla legge nonchè evidenti segni di attività di disboscamento al di fuori dei perimetri autorizzati. Secondo la legge della RDC, ciò dovrebbe comportare la cancellazione dei contratti di concessione, ma la legge viene ignorata, con la complicità del governo della RDC. Ovviamente gli introiti re-investiti o destinati allo "sviluppo delle comunità locali" sono bassissimi, tra 1,49 e 4,79 dollari per abitante all'anno.

Tra i danni ambientali planetari dovuti alla riduzione della superficie forestale sono ingenti. Per esempio, l'espansione del disboscamento industriale sostenuta dall'Agenzia di sviluppo francese (AFD), potrebbe comportare quasi 35 milioni tonnellate di emissioni di CO2 in più rilasciate all'anno, o l'equivalente di altre 8 centrali a carbone. Questo è equivalente alle emissioni di carbonio della Danimarca per il 2014.

Note


(1) Global Witness è una ONG internazionale fondata nel 1993 che ha l'obiettivo di svelare e incidere sui legami tra sfruttamento delle risorse naturali, conflitti, povertà, corruzione e violazioni dei diritti umani in tutto il mondo. Qui il sito.

(2) Il rapporto "Total System Failure" della Global Witness è qui scaricabile integralmente.

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