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Nella presentazione grafica – nel programma a stampa – di questo nostro contributo al festival è caduto per comprensibili ragioni di semplificazione il sottotitolo che meglio lo avrebbe spiegato e a cui teniamo molto anche perché credo che si sia rimasti in pochi a condividerne la proposizione o almeno ad avere la imprudenza di enunciarla. Voglio dire della “attualità della Carta di Gubbio”, dettata ormai sono cinquant’anni e ripudiata perfino dall’ANCSA, l’associazione che proprio su quelle dichiarazioni si era costituita. Una dottrina, si dice, misurata nei secondi anni 50 del secolo scorso sulle dimensioni e i problemi delle piccole città dell’Umbria che allora avevano conservato pressoché intatta la forma e non erano strette dalla pressione di slabbrate periferie e dunque su tipi non rappresentativi della varietà e complessità di condizioni urbane tra loro incomparabili. E son passati cinquant’anni, si insiste, l’elaborazione della cultura della città è giunta a nuovi approdi (i tempi del rinnovo della cultura degli architetti sono, facile constatazione, rapidissimi) e i processi di trasformazione urbana registrano oggi situazioni e problemi che allora neppure erano immaginabili. Come è oggi possibile, si conclude, parlare di “unitario bene culturale” dove il centro storico, e specie nelle maggiori città, ha smarrito i suoi confini, registra vaste porzioni di tessuto edilizio profondamente alterato, e pure nelle sue tipiche funzioni, per il quale dunque è improponibile la dottrina del restauro urbano?

E anche il codice dei beni culturali e del paesaggio non ha inteso ricomprendere nella sua disciplina il centro storico (ma meglio si direbbe l’insediamento urbano storico, la città storica insomma, che se è divenuta geometricamente centro lo deve alla smisurata e recente espansione, che la stringe da ogni lato, come periferia assai spesso priva di qualità urbana: solo Ferrara ha saputo preservare sul lato a nord il rapporto diretto con la campagna, per la sua addizione verde), neppure, dicevo, il “codice” ha voluto riconoscerlo come autonomo – tipico e specialissimo - bene culturale nel suo complesso unitario, secondo il suggerimento di Italia Nostra disatteso dalla commissione preposta alla recente e conclusiva revisione.

E’ certamente vero che le regole dettate dalla Carta di Gubbio sono di per sé insufficienti ad assicurare una efficace tutela di quella realtà composita e assai complessa che era, è ancora, vogliamo che sia, il centro storico. Perché, si dice, anche del risanamento conservativo si è impossessata la speculazione edilizia e alla preservazione del tessuto edile fisico può non corrispondere quella altrettanto e forse più decisiva del tessuto sociale. Ma è all’urbanistica allora e alla politica della città che spetta di apprestare i più adeguati strumenti di intervento perché i principi cui la Carta si ispira non ne risultino travolti.

E se alla città storica come organismo urbano unitario si deve riconoscere la qualità di bene culturale, ad essa sono appropriati i modi del restauro, adeguati, si intende, alla specialissima natura di un oggetto che è sede, in senso proprio, della vita delle persone e che alla persistenza delle condizioni della loro vita vede legata la preservazione dei suoi complessi valori.

Di risanamento conservativo si era dunque parlato (e ancora vogliamo parlare) come la risposta moderna, e innovativa nel metodo, alla esigenza (da nessuno messa in discussione) di tramandare la città “storica” quale connotato essenziale e sicuramente il più incisivo, della identità del nostro paese.

Si era creduto che gli argomenti opposti dai Brandi e dai Cederna a chi continuava a rivendicare l’incomprimibile diritto dei moderni ad esprimersi con il proprio autentico linguaggio entro i contesti antichi (come sempre, perbacco, era avvenuto nel passato e antistorico sarebbe stato quindi negarlo agli architetti di oggi!) avessero definitivamente convinto. Negare all’architettura “moderna” la legittimità ad intervenire nei contesti storici non implica affatto un pregiudizio nei suoi confronti, ma al contrario quella negazione si fonda sul riconoscimento dei suoi più autentici valori che sono di rottura della tradizione e che la rendono perciò incompatibile (per questi stessi caratteri intrinseci che hanno saputo raggiungere esiti di alta qualità formale) con il principio di spazialità prospettica al quale obbediva l’architettura del passato. Tra il Palazzo Massimo alle Colonne di Corso Vittorio con le sue finestre balconate e la Casa sulla cascata con i suoi sporti, ogni continuità è spezzata, osservava Brandi. E’ la coscienza storica del passato, rifletteva Cederna, acquisizione della cultura dei “moderni”, che ci impone di rispettare la spazialità dei centri storici e di rifiutare la contaminazione reciproca tra i modi tradizionali di costruire la città del passato e gli stilemi dell’architettura contemporanea. Il rapporto tra antico e moderno, aggiungeva, si pone non già al livello edilizio per impossibili accostamenti, ma a quello più ampio, urbanistico, perché il risanamento dei centri storici e la costruzione della moderna città sono operazioni diverse nei metodi ma complementari, essendo agli architetti di oggi affidato il compito arduo, che ancora attende di essere adempiuto, di riscattare i più recenti insediamenti urbani dalla mortificante condizione di periferia della città storica, per restituirli alla dignità di autentica città moderna. Insomma la conservazione dei centri storici è la vera innovazione, siamo moderni perché rifiutiamo di comportarci come era legittimo (perché la cultura di quei tempi lo consentiva) nel passato, ma oggi non possiamo più mettere con il Bernini i torricini sul frontone del Pantheon (e fu un errore rimuoverli nell’ottocento). Ed è tutta moderna la concezione stessa del centro storico come organismo complesso che non è fatto soltanto (mi rendo conto di dire banalità) della successione delle singole architetture e deve la sua unità alla integrazione degli elementi compositivi di diversa epoca e natura, valendo gli spazi inedificati (siano strade, piazze, orti e giardini) quanto le strutture costruite (e dunque l’ inserto di un nuovo edificio vale come la demolizione di quello antico). Ed è moderna, nuova, complessa, la scienza della conservazione, del risanamento conservativo (non solo del singolo edificio ma del complessivo organismo urbano), che ancora non ha dato soddisfacenti risposte ai molti ed ardui problemi che ad essa si pongono (per indicarne uno soltanto, il rifiuto in ogni caso del ripristino sembra espressione di un pregiudizio ideologico) ed esige impegnativi approfondimenti. Certo è che il restauro urbano non è attitudine rinunciataria ed esprime una tensione di elaborazione progettuale che è pari alla creazione del nuovo e se certi interventi nei propositi ricondotti al metodo del risanamento conservativo non possono essere condivisi, il fenomeno non mette in crisi la praticabilità del metodo stesso, ma pone l’esigenza di un suo affinamento, specie con riguardo alla fase della esecuzione dell’opera e dei relativi controlli.

Il discorso che si è fatto fin qui, si sarà ben capito, implica il netto, ma Italia Nostra crede motivato, rifiuto a considerare il centro storico come il campo aperto agli esercizi di stile della nuova architettura impegnata a testimoniare (ma così, affermandosi, si nega) in un velleitario confronto con l’antico il linguaggio autenticamente moderno, nel proposito di accrescere con il proprio contributo la qualità sedimentata nell’ambiente urbano storico. E francamente preoccupa il cedimento delle istituzioni della tutela di fronte alla restaurazione di quella cultura del passato che non sa riconoscere i valori autentici della città storica e rifiuta le regole consolidate di un rigoroso restauro, accreditandosi con l’autorevolezza intimidatrice delle stars dell’architettura internazionale (la moltiplicazione vertiginosa dei volumi per il Teatro del Piermarini alla Scala; la magniloquente cortina che musealizza l’ ara pacis e chiude il quadrilatero del grande sventramento di piazza Augusto Imperatore, completando idealmente il grandioso progetto littorio degli anni trenta del novecento). Lo stesso ministero per i beni culturali attraverso la sua direzione per l’architettura e l’arte contemporanee accetta e anzi espressamente promuove “la sfida della qualità”, dove la garanzia della qualità sarebbe assicurata dall’istituto del concorso naturalmente entro l’orizzonte internazionale. E non ha fatto scandalo che, contro le finalità istituzionali di tutela, a un simile strumento di selezione si sia ricorsi per trovar soluzione a un tema che correttamente doveva intendersi come tema di rigoroso restauro: il prospetto posteriore “non finito” della fabbrica del Vasari sarà completato con la realizzazione dell’idea vincente di una monumentale via di uscita dagli Uffizi, moderna versione della Loggia dei Lanzi, come assicura il progettista.

Credo che Italia Nostra debba rifiutare “la sfida della qualità”, sorprendentemente presentata come il promesso esonero, alla condizione di una sfuggente “qualità”, dalle regole del restauro delle strutture urbane storiche e perfino del singolo monumento; e allarmata esprimere un fermo richiamo alla responsabilità delle istituzioni della tutela.

1. C’è sempre più bisogno di paesaggio

La percezione, drammaticamente nitida, degli effetti generati dalla frenetica trasformazione che interessa, oramai da trent’anni, gran parte del territorio italiano (e non solo) chiede a noi tutti, urbanisti o amministratori, esperti o semplici cittadini quanto meno una pausa di riflessione.

Una riflessione che dal punto di vista degli addetti ai lavori dovrebbe essere dedicata, in prima istanza, alla ricerca di un effettivo punto di incontro tra approccio analitico e capacità di dare risposte concrete alla crescente domanda di paesaggio posto dalla nostra società. L’assunzione di impegno a spendersi per una comprensione non solo teorica, ma anche propositiva, dei fenomeni della dispersione nell’intento di arginare, e se possibile correggere, quanto avvenuto (e sta avvenendo) nei nostri territori in termini di consumo di suolo e di risorse vitali, di produzione di caos funzionale e di malessere dell’abitare[1].

All’interno del dibattito avviatosi già da qualche anno e centrato sulla necessità di una riforma culturale e operativa dell’urbanistica, finalizzata a ricucire i fili di un discorso slabbrato e sempre più autoreferenziale, sembra riaffacciarsi sulla scena dell’immaginario disciplinare, a distanza di quasi cinquant’anni dalle prime formulazioni, quel concetto che a cavallo degli anni ’50 e ’60 andava sotto il nome di «progettazione integrale»[2].

Non saprei dire se la definizione possa essere ritenuta ancora appropriata, almeno sul piano del linguaggio specialistico. Comunque sia, al di là di ogni interpretazione o sfumatura terminologica (verso le quali nutro, soprattutto in questa sede, scarso interesse), ciò che mi sembra importante sottolineare è che tale concetto, nella sua formulazione originaria, esprimeva fiducia nella continuità tra pianificazione socio-economica, piano urbanistico, intervento architettonico. Il tutto si sintetizzava in un nuovo modello di sviluppo, quello della pianificazione regionale teorizzata tanto dai geografi quanto dagli urbanisti[3], e nell’immagine della cosiddetta «città-regione», definita dai protagonisti del dibattito di quegli anni come “esperienza insieme architettonica e urbanistica che supera le limitazioni insite nei concetti di edificio, di quartiere e di città, per interessare tutto, alla sua vera grandezza, l’ambiente per la vita dell’uomo”[4].

Ma la bontà di un’idea, sappiamo, non la rende, necessariamente, vincente. Così di lì a poco, nelle diverse posizioni accademiche, che vedranno l’opporsi dell’«architettura» all’«urbanistica», si farà strada un’interpretazione totalmente diversa di questo che inizialmente sembrava essere, invece, un obiettivo condiviso: saperi e relativi percorsi esperienziali tenderanno a radicalizzarsi nel tentativo di avere il primato sugli studi della città e del territorio.

Non è questa la sede dove ripercorrere, anche solo i tratti più salienti, della storia dell’urbanistica italiana dal dopoguerra ad oggi. Mi interessa invece sottolineare come, nel cercare tracce di paesaggio, è possibile riconoscere al dibattito della fine degli anni ’50, e di quello poco successivo, un’attualità davvero straordinaria ed anche un’originalità poi rapidamente obliterata a favore di una diversa preoccupazione: quella di mettere a punto strumenti di analisi finalizzati principalmente a fondare scientificamente il piano, relegando ad un ruolo del tutto subalterno la conoscenza e il rispetto per la «materialità del territorio», il suo essere palinsesto fisico, economico e sociale, considerando ininfluente il suo futuro assetto formale e fisico.

Tutto ciò non desta alcuna meraviglia. Del resto, com’è stato scritto, le tracce di paesaggio rimandano ad “un paradigma debole e multiforme, nato su un termine anfibio, capace di connotazioni molteplici, resistente ad ogni esclusiva connotazione, in cui conoscenza e modificazione si intrecciano, scambiandosi volentieri i ruoli”[5]. Le stesse ragioni che portano al centro della discussione disciplinare anche il tema del paesaggio vanno cercate in dominanti molto variegate: dalla maggiore attenzione e preoccupazione verso le questioni ambientali[6] alla riscoperta dell’arte e del valore olistico dei luoghi[7], dal crescere dell’approccio patrimonialista che inserisce il paesaggio nel catalogo dei beni e delle risorse storico-culturali all’azione riformatrice della Convenzione Europea del Paesaggio.

Guardando all’oggi, quello che appare fecondo è il dilatarsi, sempre più fiducioso, dei confini disciplinari, espressione di un’attitudine intellettualmente e scientificamente più generosa che lascia spazio a questo comune sentireper il paesaggio che aggrega, in modo sempre più ampio e convinto, esperti tecnici e opinionisti di vari settori, ma anche associazioni di cittadini e perché no? persone comuni.

2. “Who owns the paradise?”: il paesaggio tra interessi particolari e visione di bene comune

Il paesaggio, come abbiamo visto, rappresenta un campo di interesse che più facilmente di altri riesce a mettere insieme approcci disciplinari e culturali diversi, uniti dalla comune volontà di riconoscere allo stesso una straordinaria qualità maieutica.

Il paesaggio si presenta come fucina di idee, come grande laboratorio,sempre più affollato e variegato, dove si incontrano saperi diversi e dove si sperimentano non solo e non tanto nuove teorie o nuovi filoni di ricerca[8]. Un contesto in cui – quando parliamo di progetto di luoghi – si mettono a punto, nel confronto con gli abitanti, nuove prassi e nuove, ed originali, forme di progettualità.

Forse per questa ragione, nella disciplina urbanistica, così come nella pianificazione, il paesaggio costituisce, al di là di qualunque ragione strumentale, un tema sempre più ineludibile, un discorso obbligato (sarebbe troppo ottimistico definirlo centrale) anche nella gran parte dei dibattiti pubblici.

C’è allora da domandarsi quale sia la vera causa di questo progressivo irrompere del paesaggio nel discorso della cultura urbanistica. Ma poi ancora: se e come il paradigma del paesaggio possa far emergere una nuova cultura capace di innovare i saperi e le loro forme di espressione.

Indubbiamente la Convenzione Europea sul Paesaggio (CEP) ha giocato un ruolo fondamentale nel dinamizzare gli interessi e le azioni sul terreno del paesaggio facendolo diventare un tema importante – non più subordinato – del dibattito urbanistico. La CEP ha contribuito anche a dare vigore alle riflessioni teoriche riproponendo il quesito relativo su come interpretare e valutare il rapporto tra trasformazione del territorio e produzione di paesaggio, facendo emergere la grande disponibilità di conoscenze, competenze e interessi trasversali che consentono al paesaggio, appunto, di diventare un terreno di sperimentazione culturale, politica e tecnica.

C’è poi da chiedersi quanto questo parlare paesaggio corrisponde effettivamente al diffondersi di una lingua franca, di un codice comune,che scaturisce, prendendo a prestito le parole di Danilo Dolci,da “un concepire affine, disponibile ad ampliarsi nel confrontarsi”[9].

La ricerca di un linguaggio comune sembrerebbe soddisfare il bisogno di comunicare in modo sempre più ampio la convergenza di interessi e di obiettivi che, come dicevo all’inizio, accomuna molte e differenti discipline. Il paesaggio ci appare allora come risorsa anche in quanto struttura comunicativa, che come tale non si limita al solo dialogo, ma si spinge all’interazione comunicativa, si propone cioè come “alternativa ai tradizionali rapporti unidirezionali” [10].

Malgrado i molti segnali positivi, la battaglia contro la diffidenza nei confronti di questo «paradigma debole e multiforme» non è del tutto vinta. Per questo è utile affermare che ragionare sul paesaggio non significa, come ancora qualcuno pensa, attardarsi a discutere di questioni astratte. Riformare l’approccio alla comprensione e alla gestione delle trasformazioni territoriali, proprio a partire dal paesaggio, può significare, al contrario, riuscire a dare una chance a quella che potremmo definire, prendendo a prestito un felice ossimoro di Ernst Bloch, un’ “utopia concreta”[11].

Non mancano neppure voci critiche, o fortemente dubbiose, sulla correttezza e sull’efficacia del messaggio espresso dalla Convenzione Europea sul Paesaggio. Queste posizioni di dissenso, espresse da figure molto impegnate proprio nella difesa dell’integrità del paesaggio, fanno leva sull’interpretazione di alcuni dei passaggi chiave del testo della Convenzione.

Uno di questi è quello che associa (i detrattori dicono: vincola) il paesaggio alle sorti dello sviluppo locale.

La critica mossa alla coppia paesaggio-sviluppo locale deriva dal fatto che secondo questa lettura interpretativa il paesaggio, per essere considerato risorsa, dovrebbe sottostare alle regole del mercato, della competizione, delle performance produttive, ….

C’è in effetti il rischio, è inutile negarlo, di una pericolosa banalizzazione, se non addirittura di mistificazione, dell’idea stessa di paesaggio, quando tendiamo ad associarlo allo sviluppo. Ed é un rischio non esclusivo solo dell’esperienza italiana. Guardando però all’Italia possiamo dire che, a dispetto dell’articolo 9 della Costituzione, il nostro Paese, purtroppo, s’è distinto per un comportamento tutt’altro che virtuoso.

Proprio per scongiurare questo pericolo credo sia molto utile provare a guardare con maggiore attenzione al di fuori dei nostri confini, ai molti esempi positivi che con la loro presenza ci rassicurano sulla praticabilità di scelte alternative da cui trarre alcuni utili insegnamenti.

Penso innanzitutto al caso della Francia, e alla grande campagna fotografica associata alla rivisitazione dei valori del paesaggio messa in campo già da alcuni decenni prima dal DATAR e poi dal Ministero dell’Ambiente con lo scopo di documentare il territorio nazionale e di stabilire un punto di partenza da cui far emergere politiche di tutela e di valorizzazione nuove affinché il “prodotto territoriale”, scaturito da queste eventuali trasformazioni, possa considerasi compatibile con le politiche di tutela ma anche di costruzione di nuovi paesaggi di valore[12].

Poi penso alla Spagna, più in particolare alla Catalogna, al grande e capillare lavoro messo in campo sin dal novembre 2004 dall’Observatori del Paisatge, struttura tecnico-politica che potremo considerare una sorta di cabina di regia da cui deriva il coordinamento di tutte le attività di pianificazione, di messa in atto – attraverso le Carte del Paesaggio – di innovativi strumenti di governo del territorio che obbligano a considerare il paesaggio come punto di partenza di una nuova organizzazione spaziale, attribuendo alla sua tutela e alla sua corretta valorizzazione (non alla sua mercificazione) il ruolo di volano dello sviluppo[13].

Altrettanto positivamente potremo parlare, com’è noto, dell’Inghilterra, così come di molti altri paesi europei che da tempo hanno messo in conto la necessità e l’utilità di un censimento e della catalogazione dei paesaggi tradizionali, di quei milieu in cui si riconoscono interrelazioni ancora molto forti tra dimensione culturale, sociale, economica[14]. Contesti contraddistinti da valori simbolici e associativi assai complessi di cui il paesaggio è forse la più efficace forma di espressione/rappresentazione.

Le esperienze citate, le volontà istituzionali che le hanno prodotte, ma anche le comunità che le hanno faticosamente fatte proprie, e il cambiamento di valori che questa nuova consapevolezza comporta, fanno immaginare il paesaggio (soprattutto quello tradizionale) come laboratorio di cittadinanza costruita attraverso la riaffermazione del suo mandato più nobile: quello educativo, inteso in termini di riscoperta delle radici e dei processi evolutividelle identità locali e tradotto, laddove l’osmosi tra generazioni è ancora forte, nella “ricerca di un inserimento armonioso” dell’opera dell’uomo nel mondo naturale, sostituendo “l’atteggiamento del predatore” come lo definisce Serge Latouche, “con quello del giardiniere”[15].

Non c’è spazio, né tempo per poter approfondire adeguatamente l’argomentazione. Credo valga la pena ritornare su queste riflessioni perché trovo che vi siano moltissime analogie tra l’idea di una nuova concezione di paesaggio, scaturita da un importante cambiamento di valori culturali e sociali, e il “circolo virtuoso della decrescita serena” di cui parla largamente Latouche[16].

3. Paesaggio: territorio abitabile, ma con cura.

Rosario Assunto afferma che il paesaggio può essere assimilato al concetto di “realtà in cui l’uomo abita”. Una realtà che “egli esperisce direttamente, può produrre, modificare (secondo l’inglese landscaping) in meglio o in peggio; o anche distruggerla, cancellandola dal proprio orizzonte”[17].

Seguiamo ancora per un attimo il pensiero di Assunto.

Egli ci dice che il paesaggio è uno spazio (o una rappresentazione dello spazio). Dunque il paesaggio non occupa uno spazio, né è oggetto nello spazio. In altre parole, secondo Assunto, la nozione di spazio è costitutiva (ma non esaustiva) del concetto di paesaggio.

Nella valutazione dell’esperienza pratica, ci viene anche fatto osservare, però, l’identificazione del concetto di paesaggio con quello di spazio è stata portata all’estremo. L’ «idea del paesaggio come spazio», in altri termini, non sembra soltanto esprimere un punto di arrivo, ma addirittura si può dire che esso incarni l’epilogo stesso della storia del paesaggio, che si traduce, appunto, nel trattare il «paesaggio come puro spazio».

Sul piano concreto Assunto suggerisce di guardarsi attorno, facendo un semplicissimo esercizio che è quello di “percorrere una delle tante autostrade costruite negli ultimi decenni, oppure ispezionare uno qualsiasi degli insediamenti d’abitazione, degli impianti industriali, dei complessi turistici che sono stati costruiti negli ultimi dieci e quindici anni”[18]. In Italia, continua Assunto, il fenomeno di banalizzazione è stato forse più vistoso che altrove, raggiungendo proporzioni macroscopiche. Le ragioni di questo drammatico “primato” vanno ricercate in una sorta di “voluttà sostitutiva, derivata dal sentirsi artefici di una vera e propria rivoluzione culturale, al negativo, che si avventava contro il paesaggio della memoria e della fantasia per ridurlo a semplice spazio della geometria”[19].

La rivoluzione culturale di cui parla Assunto vede moltissimi attori principali, purtroppo, anche tra gli architetti e gli urbanisti. Ad essi, ma non solo ad loro, Assunto attribuisce molte delle responsabilità nell’aver retrocesso il paesaggio a «semplice spazio».Tutto il nostro territorio, ci rammenta, “è segnato dai residui della produzione e del consumo: frammenti morti di materiali in gran parte, com’è noto, indistruttibili”[20].

A questo proposito, é utile ricordare che la crescente attenzione versi i temi del paesaggio nulla ha potuto, però, contro il dannosissimo depositarsi sul suolo italiano di detriti edilizi, residenziali o produttivi, così come di discutibili opere infrastrutturali. Come non riflettere, anche qui, sulla colonizzazione arrogante e indifferente, cifra indelebile di moltissime aree del nostro territorio, su quella territorializzazione scellerata che ha portato con sé l’inevitabile male di vivere (e di lavorare), delineando con drammatica precisione i tratti di quel «paese spaesato» di cui parlano sempre più spesso molti cittadini e che gli addetti ai lavori e gli analisti costantemente registrano[21].

I dati, messi a disposizione da Legambiente e dal CRESME in una relazione del giugno 2007 e ripresi da Francesco Erbani in una cronaca che utilizzo come fonte, ci parlano di 3 milioni 231 mila appartamenti realizzati nell’ultimo decennio. 331 mila costruiti solo nel 2006 dei quali 30 mila abusivi. E poi ancora 7 mila capannoni sorti soltanto nel 2005. Non si contano quelli già precedentemente realizzati e inutilizzati. Ma ci sono anche 6 mila cave attive e circa 10 mila dimesse. Un patrimonio, dice Lorenzo Bellicini, direttore del CRESME, stimato attorno ai 53 metri cubi di cemento per ogni cittadino italiano. Ma questo, si intuisce dall’articolo di Erbani, rappresenta solo un piccolo assaggio de “l’assalto al paesaggio” di cui parla Erbani nel suo articolo. Alle considerazioni sulla quantità vanno affiancate quelle sulla qualità del prodotto urbano e post-urbano esprimendo un giudizio non meramente estetico della materia sciatta che dà forma e sostanza alla città occasionale e diffusa [22].

L’esperienza empirica consigliata da Assunto, ci aiuta sotto diversi punti di vista.

In particolare esorta ad indagare a fondo, e in modo più specifico, anche se ancora per difetto, sulla coppia paesaggio-risorsa ricavandone, indirettamente, il monito ad addentrarsi con grande cautela nel terreno incerto della cosiddetta valorizzazione del paesaggio, che troppo facilmente è stata assimilata, pensiamo ad esempio alle politiche per il turismo, ai concetti di “produzione” e di “consumo”[23], declinazioni assolutamente compatibili con i principali attributi dell’essere in sé risorsa: la soggettività, la relatività e la funzionalità.

Ma quali dunque allora le alternative? Arturo Lanzani, in uno scritto del 2002, propone sette strategie per il paesaggio[24]. Non trovo esplicitata, forse perché già compresa nelle diverse formulazioni, l’idea di paesaggio come milieu[25]. Personalmente credo che la complessità dei temi del paesaggio possa essere ricondotta ed interpretata in modo ancora più corretto se letta in chiave di milieu. Anzi, proprio questa dimensione, composta tanto di oggetti che di valori[26], consente di rendere evidente il ruolo da attribuirgli anche nel campo dell’agire urbanistico.

Utilizzare il concetto di milieu significa interpretare in modo ampio il paradigma del paesaggio come risorsa e di stabilire le regole attraverso cui costruire il progetto locale non come esperienza assoluta ma di progetto latente (o il progetto implicito di cui parla Dematteis) dove il paesaggio si manifesta come luogo di rappresentazione delle necessità e degli interessi collettivi[27].

4. Paesaggio passato. Paesaggi futuri.

In chiusura vorrei provare a fare un rapido salto indietro nel tempo ricordando un altro capitolo della storia dell’urbanistica italiana.

Cinquant’anni fa, più o meno di questi tempi, si davano alle stampe gli atti del VI Convegno Nazionale di Urbanistica, tenutosi a Lucca l’anno precedente (novembre del 1957). Titolo del convegno e del volume: Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale. La seduta inaugurale si apriva con la presentazione di Adriano Olivetti, presidente dell’INU, seguita dalla relazione di apertura di Giuseppe Samonà e dalla presentazione della proposta di legge quadro sulla tutela delle bellezze naturali e del patrimonio artistico e culturale, relatore Gianfilippo Delli Santi[28].

Si tratta, a mio parere, di un documento importante, uno dei tanti, che può essere utilizzato a testimonianza dello svolgersi di un dibattito (animato anche al di fuori dell’INU, si pensi solo agli interventi di Italia Nostra nata nell’ottobre del 1955) che già al tempo assumeva toni molto appassionati e decisi.

In questa raccolta di interventi, tra i diversi resoconti e prese di posizione, vi sono moltissime analogie con la discussione, tutt’oggi molto attuale, relativa al tema della concettualizzazione del paesaggio in relazione alle pratiche di gestione del territorio.

Tra gli interventi più interessanti sembra emergere quello di Edoardo Vittoria, singolare figura di intellettuale e di progettista fortemente segnato dall’esperienza olivettiana. All’inizio del suo contributo egli si sofferma sulla definizione di paesaggio per rendere più chiari quali debbano essere gli obiettivi di una difesa seria ma anche propositiva e creativa del paesaggio. Vittoria afferma che “il paesaggio può essere inteso unicamente come integrazione dello spazio fisico nel quale vive e lavora l’uomo contemporaneo” e prosegue dicendo che “l’ambizione di un nuovo paesaggio nasce da una riflessione su tutto il paesaggio esistente che non può essere scisso nelle sue parti buone e nelle sue parti cattive, secondo una schematica suddivisione dei periodi storici. […] Questa concezione del paesaggio – continua Vittoria – non più limitata ai soli elementi tradizionali, nasce in conseguenza di fatti edilizi, se si vuole anche negativi […] che hanno determinato problemi originali, espressioni di nuovi modi di vita, e che hanno condizionato la trasformazione del paesaggio verso un più razionale impiego delle opere naturali e delle opere costruite […]”[29].

Ho letto nelle parole di Vittoria, ma in realtà anche di molti altri protagonisti di quell’incontro e del più ampio dibattito di quegli anni, una grande vicinanza con quanto scritto, quasi cinquant’anni più tardi, ma forse in modo più opaco, nella Convenzione Europea del Paesaggio.

Questo mi fa dire, con ancora maggiore convinzione, che non è soltanto opportuno, ma addirittura necessario, certamente improcrastinabile, un slancio d’orgoglio rinnovato e di presenza costruttiva nella scena europea per la messa in campo di politiche territoriali profondamente riformate e basate sul ruolo strategico del paesaggio, nel rispetto anche di quest’ultima testimonianza storica che ci parla del grande impegno culturale e civile espresso dai molti intellettuali italiani nella difesa del patrimonio paesaggistico,

Gli esempi che citavo prima, in particolare quello della Catalogna, così ammirata dagli architetti e dagli urbanisti di casa nostra, devono significare che il cambiamento è possibile: un cambiamento che sia in grado di aprire una nuova stagione di impegno dove al dibattito seguono i fatti; alle strategie e ai programmi se si vuole, se si ha coraggio, i progetti.

[1] Come sappiamo la bibliografia attraverso cui studiare la genesi, l’evoluzione e il declino della cosiddetta «città diffusa» è straordinariamente ampia. Cito, per sintesi, il volume di F. Vallerani – M. Varotto (a cura di), Il grigio oltre le siepi. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto, Nuova Dimensione, Portogruaro, 2005, dove, alle analisi di carattere strettamente fisico e funzionale, si affiancano acute riflessioni “sullo spazio vissuto, sulla qualità della vita, sulla quotidianità esistenziale, sul crescente disagio nei confronti del vistoso declino del bel paesaggio veneto, prestigiosa eredità millenaria di cui sembra essersi perso non solo il valore memoriale, ma anche le più elementari competenze per salvaguardarne l’integrità idrogeologica ed ecologica”, p.13.

[2] Il contesto in cui si formalizza questa nuova visione di «urbanistica continua e continuamente variata» è quello del VII Congresso INU del 1959 nell’ambito del quale si tenne una famosa «tavola rotonda» i cui temi furono riproposti da L. Quaroni, G. De Carlo e E. Vittoria in Urbanistica, n. 32, dicembre 1960 cit. anche in Durbiano G. – Robiglio M., Paesaggio e architettura nell’Italia contemporanea, Donzelli, Roma 2003, p. 37. I medesimi concetti vengono poi ripresi in De Carlo G., La nuova dimensione della città. La città regione, Relazione di sintesi al Seminario, ILSES, Milano 1962.

[3] Sui temi del regionalismo, agli albori della pianificazione regionale, vedasi tra gli altri Bonora P., I geografi nel dibattito sulla questione regionale (1944-1948), Pitagora Editrice, Bologna 1980; Corna-Pellegrini G., “La dimensione regionale della politica economica”, Civiltà degli scambi, settembre 1960 ora anche in Bonora P. (a cura di), Giacomo Corna-Pellegrini. Italia paese nuovo. Saggi geografici ed economici, Edizioni Unicopli, Milano 1989, pp. 103-116; AA. VV., La pianificazione regionale, Atti del IV Congresso Nazionale di Urbanistica (Venezia 18-21 Ottobre 1952), Istituto Nazionale di Urbanistica, Roma 1953.

[4] VII Congresso INU, cit.

[5] Durbiano G. – Robiglio M., cit., p. 79.

[6] L’approvazione, avvenuta nel 1985, della legge 431 (la cosiddetta legge Galasso) che impone alle regioni la redazione di piani paesistici e la messa a punto di strumenti specifici per le aree di tutela speciale serve, in qualche modo, a rilanciare l’interesse per il paesaggio attraverso però l’espressione di un approccio più generale ai temi dell’ambiente e della qualità del territorio. Per una ricostruzione, non convenzionale, della genesi della legge 431 cfr. F. Erbani, Uno strano italiano. Antonio Iannello e lo scempio dell’ambiente, Laterza, Bari 2002.

[7] Cfr. P. Castelnovi (a cura di), Il senso comune del paesaggio, Ires, Torino 2000.

[8] “Un modo per convergere nello studio intorno [al paesaggio] – sostiene Lucio Gambi – è quello di accoglierlo come problema: problema che manda a carte al vento i nostri tradizionali, gelosi ritagli disciplinari”, Gambi L., Riflessione sui concetti di paesaggio nella cultura italiana degli ultimi trent’anni, in Martinelli R. – Nuti L. Fonti per lo studio del paesaggio agrario, Atti del III Convegno di Storia Urbanistica, Ciscu, Lucca 1999, p. 9 ripreso anche in Durbiano G. – Robiglio M., cit., p. 79.

[9] Citato in Mazzoleni C., La relazione società e ambiente in una prospettiva maieutica: incontro con Danilo Dolci, http://danilo1970.interfree.it/prop.html.

[10] Ibidem.

[11] E. Bloch, Il principio della speranza, Garzanti, Milano 1994. Sull’interpretazione del pensiero di Bloch vedasi anche Pozzoli C., L’utopia possibile. Per una critica della follia politica, Rusconi, Milano 1992.

[12] Sull’esperienza dell’Observatoire photographique du paysage e del Bureau des paysages del Ministére de l’Amenagement du territoire et de l’Environment si veda Seguin J.-F., Séquence paysages-revue de l ‘Observatoire Photographique du Paysage - 2000, Arp Éditions, Bruxelles 2000.

[13] Cfr. Observatori del Paisatge, http://www.catpaisatge.net. Per un inquadramento sulle politiche territoriale e il paesaggio in Catalogna e in Spagna cfr. Nogué J., El tratamiento de la temática paisajística en Cataluña y en Espagna, in Mata R. – Tarroja A., El paisaje y la gestión del territorio. Criterios paisajísticos en la ordenación del territorio y el urbanismo, Deputació Barcelona – Xarxa de municipis, 2006, pp. 53-60.

[14] Per uno rapido sguardo alla recente esperineza inglese vedasi Selman P., “Community Partecipation in the Planning and Management of Cultural Landscape”, Journal of Environmental Planning and Management, Vol. 47, No. 3, May 2004, pp. 365-392; Id., “The ‘Landscape Scale’ in Planning: Recent Experience of Bio-geographic Planning Units in Britain”, Landscape Research, Vol. 30, No. 4, October 2005, pp. 549-558; Id, Planning at the Landscape Scale, Routledge, London, 2006.

[15] Latouche S., Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 43; Id., La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano, 2006. Sul tema dell’agire della “società paesaggistica” si veda tra gli altri Donadieu P., “Può l’agricoltura diventare paesistica?”, in Lotus, n. 101, 1999, pp. 60-71; Id., La société pajsagiste, Actes Sud-Ensp, Arles 2001; e Clement G., Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005.

[16] Ivi, p. 44.

[17] Assunto R., Il paesaggio e l’estetica, Edizioni Novecento, Palermo 1994, p. 22.

[18] Ivi, p. 24

[19] Ibidem.

[20] Ibidem.

[21] Comitato per la Bellezza – Centro Studi TCI, Un Paese spaesato. Rapporto sullo stato del paesaggio italiano, I Libri Bianchi del Touring Club Italiano, n. 12, 2001

[22] Erbani F. “L’assalto al paesaggio”, La Repubblica, 20 giugno 2007, p. 59.

[23] Cfr. Urry J., Consuming Places, Routledge, London 1995

[24] Lanzani A., Qualificare/Regolare le trasformazioni, in Clementi A. (a cura di), Interpretazioni di paesaggio, Meltemi, Roma 2002, pp. 262-291 anche in Lanzani A., I paesaggi italiani, Meltemi, Roma 2002, pp. 206-255.

[25] Sul tema cfr. anzitutto Berque A., Mediance. De milieu en paisage, Gip Reclus, Montpellier 1990. Per un inquadramento più generale sul tema del milieu in rapporto ai temi urbani e territoriali cfr. Governa F., Il milieu urbano. L’identità territoriale nei processi di sviluppo, Franco Angeli, Milano 1997.

[26] Entriking N., The betweeness of the place, Towards a Geography of Modernity, Macmillan, London1991, p. 7.

[27] Sul tema cfr. Magnaghi A., Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Bonora P., Sistemi locali territoriali, trascalarità e nuove regole della democrazia dal basso, in Marson A. (a cura di), Il progetto di territorio nella città metropolitana, Alinea, Firenze 2006, pp. 113-120.

[28] AA.VV., Difesa e valorizzazione del paesaggio urbano e rurale, Istituto nazionale di Urbanistica, Roma 1958.

[29] Vittoria E., Una nuova concezione del paesaggio, ivi, p. 146-147.

L'ultimo intervento del Cittaterritorio Festival, affidato al grande storico dell'architettura Joseph Rykwert dal titolo "La città ideale: che cosa resta di un'utopia", ha ripreso l'esigenza di una progettualità urbanistica espressa dal primo intervento di Bernardo Secchi e l'ha coniugata con la necessità di un'architettura della socialità avanzata sabato da Saskia Sassen. Anche per questa sintesi, la sua dissertazione sulla città utopica è stata la migliore conclusione possibile dell'evento, salutato da un tendone gremito in Piazza del Municipio.

Secondo Rykwert, il futuro è inaspettato, e la statistica non può aiutarci a prevederlo. A questa indeterminatezza, noi possiamo reagire con la passività, o con il progetto: "il progetto in architettura, è un proiettile lanciato verso il futuro, che richiede terreno solido sotto i piedi, inteso come conoscenza della propria situazione". Costruire una casa è anche costruire una città, cioè il contesto dell'edificio, così "ogni progetto non può essere fine a sé stesso, passando dal disegno, al cantiere all'edificio in modo meccanico, ma ci deve essere un'elaborazione concettuale". Il progetto può avere due obiettivi: uno ovvio e raggiungibile ed uno che rimarrà irraggiungibile ed irraggiunto. Questo è il senso del pensiero utopico. "Noi cerchiamo sempre di fare meglio sapendo che non sarà fatto, nonostante possa sembrare un paradosso".

E per dimostrare come il progetto formale privo di una visione sociale, sia un concetto superato, Rykwert ha portato l'esempio di Le Corbusier che negli anni '20 aveva progettato un modello di città tecnocratica per tre milioni di abitanti con al centro otto palazzi di 60 metri e un aeroporto, poi, nel dopoguerra, intervenendo nella ricostruzione di Marsiglia, aveva invece progettato un sistema di palazzi a stecca con al centro uno spazio collettivo, fatto di caffé, alberghi e uffici, che prima era negato. Successivamente, attorno agli edifici del grande architetto, ne sono stati costruiti altri, che li imitavano, ma senza un progetto, con il solo effetto di interrompere la prospettiva fino al mare. "Molti miei contemporanei - ha detto Rykwert - sembrano sedotti dagli insegnamenti di certi professori i quali cercavano di liberare l'impresa formale dei grandi architetti del ‘900 da qualsiasi impegno sociale. Io invece ho cercato di tener libera la ricerca formale che rispetta un legame tra forma costruita e un pensiero sociale. Dall'altra parte mi sembra che questa ricerca sia minacciata dall'insegnamento forse più raffinato che l'architetto operante nella società tardo-post capitalistica, nella società dove manca qualsiasi occasione sociale, quella società del populismo mercantile di cui parlava Gregotti, non può nutrire speranze di elaborare un ordine architettonico. La ricerca formale può solo mirare presentare forme vuote di qualsiasi pretesa significativa ed è contro questi due formalismi che ho cercato di proporre un impegno con la ricerca di un modo di incarnare la speranza sociale in un ordine formale. Ed è appunto questo impegno che voglio proporre come la ricerca più attuale in quanto mira a una cosa irraggiungibile, occulta che offre il pensiero utopico: non chiedo che si costruiscano città ideali, sarebbe ridicolo, ma chiedo invece che nel pensare la città non si renda all'immensità delle forze laceranti, il tessuto urbano, ma si proceda al progetto tenendo sempre presente la ricchezza e l'efficacia del pensiero utopico".

Con un'ovazione degna di una star, i presenti hanno salutato questo grande pensatore dimostrando che anche tematiche così astratte e complesse possono catturare un vasto pubblico, non solo di addetti ai lavori.

E invece proprio agli architetti, agli urbanisti e ai costruttori, si è rivolto il Sindaco Gaetano Sateriale in chiusura: "Non esagerate, non vogliate lasciare per forza un segno nella città e considerate sempre il contesto in cui lavorate".

Poi ha aggiunto: "Per quanto riguarda me, l'ideatore del Festival Giuseppe Laterza e l'organizzazione di Ferrara Fiere, siamo già al lavoro per la prossima edizione del Festival, arrivederci!".

Che cos’è che fa di un luogo «un luogo seducente». E che cosa, al contrario, fa sì che un luogo emani disagio, alienazione.

Da molti anni Joseph Rykwert, storico dell’architettura, origini polacche, a lungo professore negli Stati Uniti, adesso londinese, uno dei grandi studiosi della città e delle sue forme - dal mondo classico alle moderne megalopoli - indaga sul senso profondo di una costruzione urbana, al di là degli aspetti architettonici, economici e persino razionali fino a sondare un limite che sembrerebbe del tutto improprio, trattando di questi argomenti, quello che distingue il conscio dall’inconscio. La seduzione del luogo si intitola uno dei suoi libri più celebri, un libro che torna in questi giorni dopo molti anni (Einaudi, pagg. 366, euro 26).

Il tema della seduzione coglie la città nel momento in cui essa attraversa, sostengono tanti urbanisti, un passaggio di stato.

Cosa sia città è difficile a dirsi con la stessa sicurezza di quando essa era un aggregato piuttosto denso di edifici e di strade, di centro e di periferia, sufficientemente distinto da ciò che città non era. La città ora si disperde, secondo alcuni esplode, secondo altri rimette insieme i suoi pezzi sparsi in quella che un tempo era campagna. Si trasforma, seguendo logiche riconoscibili, oppure soddisfacendo interessi speculativi. Questo accade in maniera molto diversa, spiega Rykwert, da un capo all’altro del pianeta. Ma accade un po’ ovunque. Una delle frasi che Rykwert predilige è di Italo Calvino, da Le città invisibili:

«Le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altra bastano a tener su le loro mura».

Partiamo da qui, professor Rykwert, che cos’è la seduzione di un luogo?

«Per qualsiasi insediamento occorre risalire a una serie di fattori conoscitivi che lo governano, a fattori simbolici. Prenda la città di epoca romana».

Com’è nata quella città?

«Si era sempre detto che fosse l’esempio di un ordine razionale, perché si ispirava al modello dell’accampamento militare. E invece è vero il contrario. Sia l’accampamento che la città potevano essere abitate solo dopo cerimonie che ne spiegavano il senso.

Quella pianta rettangolare rispecchiava credenze, oltre all’idea che gli uomini avevano del mondo e al posto che occupavano in esso».

Prima la seduzione e poi altri fattori più razionali.

«Nel mondo antico la pianta di una città corrisponde a certe idee sull’ordine del cosmo, per esempio. Successivamente intervengono questioni economiche e politiche, la divisione dei suoli, delle proprietà. Poi, quando quelle concezioni cosmologiche si sono logorate, si è passati a costruire le città cercando un altro ordine dentro sé stessi e modellando in questo modo l’ambiente».

Di ciò lei parla a lungo in un altro suo libro, L’idea di città. La seduzione è dunque una forza intrinseca al tessuto urbano.

«A Città del Messico, nonostante l’immensa estensione delle sue baraccopoli, esiste un centro raccolto intorno allo Zòcalo, la piazza tracciata da Cortés all’indomani della Conquista, la cui potenza attrattiva non è cancellata da una crescita urbana incontrollata. Persino Manhattan, il luogo al mondo più conformato dalla globalizzazione, ha uno status di città che non è solo economico. La seduzione dipende in gran parte anche dalla nostra capacità inventiva nel manipolare concetti e forme».

Si spieghi meglio.

«In generale la città moderna appare piena di contraddizioni. Ospita culture diverse, gruppi etnici diversi, religioni diverse. Questa sua frammentazione, questa sua disponibilità, persino i suoi conflitti sono attraenti».

Lei ha studiato il Rinascimento italiano, Leon Battista Alberti, «la città ideale», descrivendo come l’architettura si proponesse il rinnovamento sociale. Ora questa pretesa pare messa in forte discussione. Perché?

«Perché si contestano quei sistemi politici dirigisti, sia di destra che di sinistra, e l’architettura razionalista che nel Novecento hanno costruito quartieri più o meno sperimentali, che nonostante fossero molto costrittivi, lasciavano intuire un’idea di riorganizzazione sociale».

Lei si riferisce ai grandi insediamenti popolari, anche molto diversi fra loro, sorti in tante città europee.

«A Francoforte o ad Amsterdam gli abitanti di questi insediamenti sono spesso contenti della loro sorte. Ma preponderante è il luogo comune che un esperimento sociale, frutto di un pensiero utopico, sia solo un’avventura fallimentare. Ora siamo approdati a uno stadio della società tardo-capitalista nel quale l’idea che un’impresa edilizia produca un miglioramento sociale sia fasulla e controproducente. E’ l’ideologia del mercato imperante più che il fallimento di un progetto legato a un’idea di società».

Secondo le Nazioni unite, più di metà della popolazione mondiale vive oggi in un contesto urbano. Che impressione le fa?

«E’ un’impressione paurosa. Perché lo svuotamento del mondo rurale non può che portare a carenza di cibo, di grano e di riso, in particolare, che grava soprattutto sui paesi poveri».

E in effetti è nei paesi poveri che si concentra questo nuovo urbanesimo. Ma che cosa c’è di urbano in città come Kinshasa, Nairobi, Lagos o Città del Messico? Che cosa seduce di questi luoghi?

«Ogni luogo ha la sua storia e modi diversi di seduzione. Non bisogna fermarsi ai dati che indicano solo le quantità di crescita. Città del Messico, come le dicevo, ha poco a che fare con le altre metropoli che lei cita. Ha una storia millenaria. E la relazione difficilissima tra il suo centro e le favellas ci rimanda alla crescita delle prime città industriali e ai modi in cui si attirava popolazione rurale, una storia complessa, tragica. Il Congo e il Kenya sono invece società costruite sulle rovine di stati semi-nomadi, con forti divisioni tra loro. E la Nigeria ha un’altra storia ancora, legata al passato del grande impero africano».

Non generalizziamo, lei insiste, anche di fronte a fenomeni che appaiono simili come la spaventosa crescita delle megalopoli africane. A costo di sbagliare, le chiedo: come giudica il fenomeno della dispersione abitativa?

«Mi pare già in fase di trasformazione. Il tessuto sociale sta producendo nuove aggregazioni e credo che ancora non siano perfettamente compresi gli effetti delle comunicazioni elettroniche».

E dal punto di vista della qualità ambientale? Questo modo di occupare il territorio non è sempre più dipendente dalle automobili, costose e inquinanti?

«Questo è un problema, sicuramente. Ma va esaminato caso per caso. E poi non credo che i gas di scarico siano l’effetto peggiore, quanto il fatto che la rete stradale è sommersa da una marea di automobili che saturano lo spazio. A San Paolo del Brasile i ricchi preferiscono l’elicottero per muoversi in città».

Molte grandi città si trasformano con le Olimpiadi. Milano ospiterà l’Expo del 2015. E si sono subito aperte polemiche. Come giudica queste occasioni? Si può evitare che si trasformino in pure operazioni immobiliari?

«Le Olimpiadi hanno avuto effetti positivi solo nelle città che hanno assorbito il loro impatto, come Barcellona. In altri luoghi lo sforzo finanziario ha lasciato una scia di debiti. Dopo il fiasco pubblicitario della fiaccola di Pechino e le delusioni degli ultimi Expo mi sembra legittimo chiedersi il perché di tante attenzioni. Sono comunque esperienze che si collocano ai bordi della vita urbana».

Si apre oggi a Ferrara, e si chiude domenica, la prima edizione di «Cittàterritorio Festival»: quattro giorni d’incontri in cui architetti, storici, urbanisti, economisti, sociologi, studiosi d’estetica si confrontano sulla realtà urbana del terzo millennio. Il festival è promosso dal Comune e dall’Università di Ferrara, dalla Regione Emilia-Romagna e dallo Iuav di Venezia. L’organizzazione è di Laterza Agorà e Ferrara Fiere. Sponsorizza l’Eni. Sul tema Centro e periferia, intorno al quale ruota questa prima edizione del festival, pubblichiamo una riflessione di Stefano Boeri, direttore della rivista Abitare.

Per secoli, studiosi di ogni disciplina hanno provato a definire la città ricorrendo a metafore (la città come una macchina, come il corpo umano, come una rete, come un testo..). Hanno anche utilizzato categorie astratte di misurazione: la dimensione, l'estensione, l'altezza, la demografia, l'infrastrutturazione, l'attrattività. Niente da fare. «Città» è un termine che - forse perché comprende noi stessi che cerchiamo di definirlo - è sempre sfuggito ad una definizione apodittica.

Eppure tutti noi, vivendo e attraversando quotidianamente i suoi spazi e i suoi paesaggi, sappiamo bene cosa sia, oggi, una città. Ad esempio sappiamo che a distinguerla dal resto del territorio è soprattutto una densità fisica determinata dalla compressione di costruzioni (edifici, volumi, architetture) in un unico territorio. Ma è anche una densità di infrastrutture. Una città significa migliaia di metri di rotoli e griglie di strade, piazze, tunnel sotterranei, viadotti, tubature in cui scorrono i flussi dell'urbanità contemporanea: le folle dei cittadini, la moltitudine dei veicoli, le infinite varianti delle merci che ci vestono, alimentano, divertono, aiutano; e poi le acque, le correnti energetiche, i gas; i flussi finanziari che scorrono nelle reti immateriali; e infine le immagini verbo-visive: migliaia di parole e figure che volano nei cablaggi, nelle reti digitali, nei coni d'ombra dei satelliti. Tutto questo significa anche densità di nodi: areoporti, stazioni, fiere, ortomercati, banche, scuole, centri commerciali, headquarter, cattedrali, interporti, monumenti… punti, emergenze, coaguli verso cui i flussi vengono convogliati, orientati, rilanciati nel gioco infinito degli scambi.

I nodi di una città rappresentano il punto di coagulo - negli spazi fisici - delle infrastrutture e dei flussi. Ma non solo: i nodi ci aiutano anche a cogliere l'altra fondamentale dimensione dell'urbanità: quella simbolica. Per esistere, oggi più che mai, una città deve costituirsi come un'entità riconoscibile e condivisa per le moltitudini sempre più variegate dei suoi cittadini. Non esiste città senza quella misteriosa alchimia di luoghi, di ricordi intimi, di memorie condivise capace di volare nell'immaginario collettivo e di saldare in una parola o in una sensazione - magari sfuggente - tutte queste cose insieme.

Da Milano a Dubai, da Roma a Città del Messico, da Napoli a Los Angeles le città si stanno espandendo nel territorio; crescono i loro reticoli, si addensano i flussi e i nodi, aumenta la loro dimensione geografica e demografica, svaniscono i confini con la campagna e con le città contigue, sfuma il loro perimetro. Eppure, in questa vertiginosa estensione spaziale - dura, fisica, minerale - l'unica densità che permette a questi agglomerati di essere percepibili come entità singolari per noi che le abitiamo è legata a qualcosa di immateriale e aleatorio: un'idea condivisa, l'immagine di un luogo e di un'atmosfera… Oggi più che mai le città sono simboli oppure, semplicemente, non sono.

Siamo nel vivo di una formidabile trasformazione delle logiche di evoluzione delle città europee. Nel vivo di una transizione che (per usare una metafora che associa la città ad una lingua) riguarda sia la sintassi che la grammatica dei nostri spazi di vita.

Io credo che il modo più efficace per descrivere questa transizione (che ci sta portando verso una nuova condizione urbana, dai confini ancora incerti) sia di usare i concetti di «differenza» e «variazione». La città moderna, nata con la rivoluzione industriale e con le sue infrastrutture, si basa su una sintassi chiarissima che opera per «differenze» tra le parti del grande organismo urbano. Il centro storico medievale è un insieme distinto dall'insieme delle zone costruite durante il Rinascimento. Le aree degli isolati regolari costruiti nel corso dell'800 sono diverse dalle frange della periferia costruita dallo Stato nel dopoguerra; che sono a loro volta diverse dai quartieri di villette che cingono la campagna urbanizzata.

Fino a qualche anno fa, uscendo dal centro verso l'esterno delle nostre città, noi percorrevamo un viaggio nello spazio e nel tempo; dal passato verso il presente. Attraversavamo in sequenza pezzi distinti di città e ogni zona aveva un perimetro chiaro. Ogni parte era omogenea e distinta nettamente dalle altre. E dentro il perimetro di ogni parte omogenea di città, agiva il principio di «variazione»: gli edifici, simili per storia e funzione, variavano tra di loro secondo elementi secondari (altezza, finiture, materiali, arredi esterni…) che però non smentivano il carattere distintivo complessivo della parte urbana.

Differenza tra parti omogenee, variazione tra edifici simili all'interno della stessa parte. Ecco la sintassi della città moderna, che ha assorbito e regolato secoli di evoluzione urbana.

Oggi, ma sarebbe meglio dire da qualche decennio, tutto questo è cambiato. La «città per parti» è intaccata, sommersa, contraddetta, da un modo del tutto diverso di crescere della nuova città. La città contemporanea non cresce più per parti omogenee, ma piuttosto per singoli edifici. Migliaia di costruzioni singole, una diversa dall'altra, che occupano nuovi territori e scompigliano le parti consolidate della città moderna.

Se viaggiamo in una porzione nuova di città vediamo scorrere una serie di oggetti eterogenei: la palazzina residenziale, l'autolavaggio, il capannone industriale, il quartiere di villette a schiera, lo svincolo, il centro commerciale, il borgo storico, il call center… monadi solitarie anche se sono accostate e ammassate nello stesso fazzoletto di territorio. E se cerchiamo le somiglianze tra queste edifici, non riusciamo a costruire degli insiemi geograficamente continui (delle parti omogenee) bensì delle costellazioni di edifici sparsi, accumunati dalla stessa radice tipologica (le villette con le villette, i capannoni con i capannoni).

Il punto è che questi due modelli evolutivi - quello della città moderna e quello della città contemporanea - oggi si sovrappongono, confliggono negli stessi spazi. Perché in fondo rappresentano le società urbane che le determinano e coabitano negli stessi spazi.

La città contemporanea riflette - anche nelle sue parti più centrali e storiche - la nuova grande energia molecolare che alimenta le società urbane: una moltitudine di soggetti e istituzioni che hanno le risorse giuridiche, economiche e politiche per cambiare piccole porzioni di spazio. E che lo fanno.

Qui sta il senso primo della transizione epocale che stiamo vivendo. Le città italiane, le città europee non sono più la scena di un gioco tra pochi grandi soggetti (i latifondisti, le amministrazioni pubbliche, i potentati politici, le banche, le grandi famiglie industriali…) che governano grandi porzioni omogenee di territorio. Sono diventate il campo di azione di una moltitudine di attori spesso attenti solo al loro piccolo spicchio di spazio, spesso spregiudicati e a volte arroganti, disposti a tutto.

Qui sta uno dei grandi paradossi della contemporaneità: che la democratizzazione delle società urbane sta frammentandolo in tanti sottosistemi lo spazio collettivo delle nostre città. Una società abitata da una moltitudine di minoranze sta costruendosi un territorio a sua immagine e somiglianza. Da qui, inutile dirlo, i grandi problemi di governo e orientamento che assillano tante amministrazioni pubbliche, tanti urbanisti, tanti pianificatori.

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