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Molte anime belle, comprendenti gran parte delle persone con cui condivido pensieri, analisi, critiche e moventi, continuano a rivolgere le loro attese, le loro speranze e i loro appelli a soggetti le cui storie e le cui posizioni li rendono assolutamente improponibili come promotori e attivisti di una fase di reale e radicale cambiamento.

Continuano così a rivolgersi a questo o a quel governo, a questa o quella formazione politica presente sul teatrino della politica politicante. Compiendo così un duplice errore: trasmettere la fiducia nella possibilità di quei soggetti a promuovere un cambiamento del mondo che essi stessi hanno contribuito a determinare, e impedire così alla cittadina e al cittadino lontani da quel teatrino incapaci di comprendere ciò che realmente accade e quindi a rendersi disponibili a un reale mutamento.

Parlare oggi di un parlamento democratico significa evocare un mito di cui si sono perse le tracce negli anni recenti. Significa evocare un tempo nel quale i diversi progetti di società espressi in funzione dei differenti interessi di parti della società trovavano insieme il luogo del confronto dialettico e quello della composizione del conflitto fra le parti. Ogni parte aveva dignità, la sua storia, la sua cultura e i suoi esponenti potevano testimoniare la coerenza con la storia personale e di gruppo.

Il parlamento era il luogo dello Stato, rappresentante degli interessi di ogni nazione entro il quale si svolgeva la dialettica. In questo quadro si svolgeva il momento delle elezioni. Queste erano lo strumento mediante cui si verifica quale fosse il consenso ottenuto da ciascuna delle parti e il Parlamento era il luogo istituzionale nel quale si definivano le alleanze necessarie per assicurare il governo dello stato.

Oggi tutto è cambiato. Al posto dei partiti sono nati raggruppamenti elettorali costituenti meri serbatoi di voti raccolti in nome di slogan superficiali, da leader che si sono resi accattivanti mediante tecniche analoghe a quelle che fanno la fortuna dei capipopolo o dei guitti dell’avanspettacolo o, nel migliore dei casi, di una popolarità acquisita attraverso la sapiente modulazione di campagne mediatiche.

Ecco perché oggi ciascuna formazione politica conta in misura dell’ampiezza dei voti di cui essa può contenere, spostandola a seconda della convenienza del momento da una sigla a un’altra, dal rosso al verde, dal bianco al nero, o per dar luogo ai più bizzarri intrecci di colori.
In tal modo la politica quale l’abbiamo conosciuta in tempi ormai lontani è scomparsa del tutto dall’insieme degli interessi quotidiani della più gran parte delle persone. Ecco perché l’astensionismo è endemico così come il richiudersi degli interessi dei potenziali elettori nei microcosmi più legati alla loro quotidianità.

Che fare per uscire da questo stallo? È un problema che si pone in modo particolarmente drammatico negli anni in cui eventi catastrofici minacciano il pianeta, in cui gli interventi e la riduzione del consumo energetico e l’uso parsimonioso delle risorse disponibili sono vitali.
Si pensi solo all’immane spreco di risorse che viene effettuato ogni giorno in misura crescente per alimentare il complesso militare e incrementare la spesa diretta e indiretta per futuri sforzi bellici, dove addirittura le guerre sono inventate, fomentate e usate per sostenere una crescita economica volta ormai solo alla distruzione.

Le bandiere arcobaleno sono ormai archiviate nei musei, ma nessuno dei raggruppamenti politici che usano e abusano della loro presenza nei parlamenti, in cui dovrebbero assumersi impegni, sembra accorgersene.

La risposta non può essere cercata nei blandi richiami del Presidente della Repubblica, che dovrebbe essere il tutelatore della corrispondenza fra le scelte politiche e i principi di fondo della Costituzione repubblicana, ma solo da un movimento di fondo delle speranze deluse, delle attese frustrate, dei tradimenti patiti, aprendo la strada a una nuova fase costituente basata sulla disponibilità a guardare con occhi nuovi la storia.

La Laguna di Venezia è un ecosistema vasto e complesso che appartiene oggi a 9 comuni, le cui vicende sono correlate all’evoluzione di un bacino che ne comprende 110. Per dieci secoli, sino al xviii, il governo unitario della Laguna è stato garantito dalla Serenissima Repubblica. È un ambiente unico al mondo: è l’ultima laguna rimasta tale per secoli. Infatti la laguna è per definizione, un sistema in equilibrio instabile, tra due forze contrastanti: le acque dei fiumi che portano verso il mare gli apporti solidi e le onde marine che erodono le coste. Ghiaie, sabbia, limo, residui vegetali che i fiumi portano verso la foce si depositano assumendo la forma di lunghe “barre” semi sommerse che, poco a poco generano i più stabili lidi. Tra i lidi e i margini della terraferma si forma uno specchio d’acqua salmastra irrorato dalle acque dolci dei fiumi e da quelle salate del mare, che penetrano dalle bocche rimaste aperte tra i lidi. Il fondale è formato dagli innumerevoli letti dei meati fluviali che nei secoli lo hanno percorso, scavando dove più dove meno, depositando detriti in misura più o meno vistosa. Si creano terre che per qualche ora al giorno o qualche settimana all’anno emergono dalle acque e ospitano variabili vegetazioni e specie animali. Su questi isolotti, formati dalle foci dei numerosi corsi d’acqua, le prime famiglie di pescatori e poi i popoli fuggitivi dall’entroterra sospinti dalle ondate dei “barbari”, consolidarono il terreno, costruendovi dapprima abitazioni e villaggi, poi la loro città, Venezia.

La laguna è per sua natura condannata da due diversi e opposti destini. Se vince la forza dei fiumi terragni, se prevale l’accumulo dei depositi solidi ecco allora che la laguna da instabile e multiforme specchio d’acqua si trasforma in uno stagno, poi in una palude, e finalmente, magari bonificata dalle umane opere, in un campo. Se vince la forza delle onde marine, l’erosione asporta terra trasformando la laguna in un braccio di mare, baia o golfo.

Contro questi due destini la Serenissima ha combattuto vittoriosamente per mille anni perché ha impegnato in questo obiettivo tutte le intelligenze presenti, le tecnologie adeguate, le risorse mobilitabili, l’autorità disponibile, le capacità di amministrazione saggiamente costruite. La scommessa era mantenere un sistema permanente. Sistema: un organismo costituito da un complesso di elementi, ciascuno dei quali essenziale e vitale, e ciascuno legato agli altri da precise relazioni, non modificabili a piacere senza condurre il sistema al collasso. Permanente: capace di rimanere tale nel tempo, governato dalle medesime leggi mutevoli della natura, benché soggetto agli ulteriori cambiamenti che gli eventi esterni e l’azione dell’uomo producevano. Soprattutto, significava adoperare le leggi della natura con un’accortezza ancora maggiore di quelle che la natura stessa avrebbe impiegato, poiché si trattava di rendere permanente un sistema che essa avrebbe cancellato, in un modo o nell’altro.

La caduta della Repubblica di Venezia (1797) fu senza dubbio la causa più appariscente del cambiamento: la fine di un governo unitario della Laguna. Eventi più vasti erano accaduti e il mondo era cambiato. Il trionfo del sistema economico-sociale capitalistico aveva introdotto modi nuovi di governare i rapporti tra gli uomini e quelli degli uomini con la natura e il mondo circostante. Ogni frutto prodotto dall’uomo o dalla natura, da bene (oggetto dotato d’una sua individualità e di un suo valore d’uso) era stato trasformato in merce (mero deposito di valore di scambio, oggetto fungibile con qualsiasi altro). L’individualismo, molla potente del progresso quantitativo, aveva via via cancellato le regole della comunità, soprattutto là dove queste minacciavano il “diritto” all’appropriazione privata dei beni disponibili. L’ambiente naturale, fino ad allora rispettato e temuto compartecipe dell’essere umano nel suo progetto di trasformazione e utilizzazione del mondo, era diventato semplice materia prima dello sfruttamento capitalistico. Lo Stato era diventato strumento per l’affermazione d’ogni borghesia capitalistica, nella concorrenza feroce per l’impossessamento di “ambienti” diversi, di “nature” diverse da sfruttare, trasformare, alienare.

Questi grandi mutamenti si riflettono sulla Laguna di Venezia. Dissolto l’ombrello protettivo delle regole che tutelavano i regimi proprietari, e la stessa consapevolezza della laguna come bene comune, parti estese del territorio lagunare sono privatizzate (bonificate o trasformate in bacini chiusi da argini) e usate in vista di tornaconti immediati. Ridotto così (di circa un terzo in mezzo secolo) l’ambito dove potevano estendersi le maggiori alte maree e le piene dei fiumi sversanti in Laguna, sono aumentate le frequenze e le intensità delle inondazioni dei centri abitati. Analogo effetto ha avuto l’approfondirsi dei maggiori canali d’accesso e delle stesse bocche di porto per i dragaggi effettuati onde consentire l’ingresso alle zone industriali di navi di grande pescaggio. Masse imponenti d’acqua si sono riversate dal mare in Laguna ogni volta che la fase lunare, il vento e la depressione atmosferica aumentavano il dislivello tra l’acqua esterna e quella interna. Questi effetti sono stati aggravati da due ulteriori eventi. Da un lato, il venir meno dell’attività di manutenzione continua della rete canalicola nelle zone più lontane dalle bocche di porto ha reso le parti marginali della laguna più difficilmente raggiungibili dall’onda di marea, e quindi ha ridotto ancora il bacino d’espansione efficace. Dall’altro lato, le esigenze della produzione industriale hanno provocato, nella terraferma, l’attivazione di numerosi pozzi di prelievo dell’acqua di falda, causando l’abbassamento del livello di quest’ultima e, con essa, di quel soprastante strato solido di argilla compattata da millenni (il caranto) che sorregge i limi e le sabbie su cui sorgono Venezia e gli altri centri lagunari.

L’equilibrio della Laguna viene progressivamente compromesso. L’acqua del 1966, per l’effetto congiunto della tracimazione dei fiumi e di un’eccezionale alta marea marina, minaccia di distruggere Venezia e gli altri insediamenti lagunari. Si apre un vasto dibattito per comprendere come si può salvare Venezia. Emerge la verità: le logiche di trasformazione otto-novecentesche, incuranti delle caratteristiche peculiari dei territori, producevano danni irreversibili, occorreva cambiare radicalmente indirizzo e trattare la Laguna come un sistema. Un primo risultato di quel dibattito fu la legge 171 del 1973. In realtà la legge apparve il frutto del compromesso tra due logiche. Così le descrive Luigi Scano nel libro Venezia: terra e acqua: la logica che «concepisce la laguna veneziana come un comune bacino d'acqua regolato da leggi essenzialmente meccaniche», e quella che «intende invece la laguna come un delicato ecosistema complesso, regolato da leggi che, con qualche forzatura, sono piuttosto apparentabili alla cibernetica, e rivolge i propri interessi alla conservazione e al ripristino globale delle sue essenziali caratteristiche di zona di transizione tra mare e terraferma attraverso un complesso coordinato di interventi diffusi». Si procedette anche alla redazione di un Piano comprensoriale dei comuni della Laguna di Venezia e Chioggia avente il compito di delineare l’insieme delle soluzioni territoriali da adottare per l’intera area. Il piano non giunse mai all’approvazione finale. All’unità di governo e alla lungimiranza della Serenissima, la pasticciata Repubblica italiana aveva sostituito un farraginoso meccanismo, espressione delle volontà contrastanti (e quindi paralizzanti) di poteri dei Comuni e della Regione, nonché di uno Stato, che attraverso il Ministero dei lavori pubblici (e il suo braccio operativo locale, quale era divenuto l’antico e glorioso Magistrato alle acque), agiva secondo le sue logiche. Infatti, mentre il Comune di Venezia elaborava, attraverso un gruppo di studiosi (con la direzione scientifica di Andreina Zitelli e il coordinamento politico-amministrativo di Luigi Scano) una proposta fortemente guidata dalla visione ecosistemica del problema, il ministro Franco Nicolazzi (PSDI) affidava la salvaguardia di Venezia al Consorzio Venezia Nuova (CVN), un consorzio privato di imprese vocate e interessate alla scelte di soluzioni finalizzate alle opere edilizie anziché alla tutela dell’ambiente. La proposta del Comune, contenuta nel documento Ripristino, conservazione ed uso dell'ecosistema lagunare veneziano, descriveva come il processo degenerativo della Laguna tendesse a farne scomparire i connotati specifici e forniva un quadro organico e coordinato di azioni e interventi necessari, iscritti in una predefinizione globale ma costantemente ricalibrabile e collocati in sequenze temporali che ne garantissero ed esaltassero le sinergie positive.

La proposta sistemica del Comune fu sopraffatta dalla logica speculativa e meccanicista rappresentata dal Mose e dall’affidamento dei poteri di progettazione, realizzazione e gestione a un consorzio privato di imprese afferenti al settore delle costruzioni. Il MoSE si presentava come un grosso affare, e così è stato. L’opinione pubblica è stata persuasa che la salvezza di Venezia fosse garantita da quel progetto, nel quale erano riposte tutte le speranze. Speranze fallaci, come è stato facile dimostrare.

Tre sono i danni principali che il Mose ha prodotto. Il primo è la devastazione ambientale e la rottura del legame ecologico tra l’habitat del mare e quello della Laguna, dovuto all’inserimento delle gigantesche strutture di calcestruzzo nelle quali sono innestate le paratìe mobile. Il secondo è la spesa addossata al contribuente. La spesa per il MoSe è attualmente valutata in 5.500 milioni di euro e l’opera non è ancora finite. A questi si aggiungono i costi di esercizio e di manutenzione stimati in 100-130 milioni all’anno. L’onere é ulteriormente aggravato dal fatto che non è per nulla sicuro che il sistema progettato sia realmente attivabile senza rischi ancora maggiori di quelli dell’alta marea eccezionale. Esistono infatti notevoli dubbi mai fugati, sulla tenuta delle cerniere che legano i portelloni mobili al basamento e sulla capacità del sistema di far fronte alle maggiori altezze marine dovute ai cambiamenti climatici. Il terzo danno è costituito dalla gigantesca azione di corruzione esercitabile e in gran parte già esercitata, sulle istituzioni e su importanti settori della società veneziana. Il CVN non è concessionario dello Stato per il solo MoSE, il complesso degli interventi che gli sono stati attribuiti (senza alcuna gara d’appalto o altra forma di pubblico confronto) è di circa 8.333 milioni di euro. A fronte di questi soldi, meccanismi non trasparenti, interessi enormi e racconti di favori. Sono molti i dipartimenti universitari e le altre istituzioni culturali, gli istituti di ricerca, gli studi professionali, le testate giornalistiche e altri organi d’informazione che hanno goduto di benefici e contributi, diretti o indiretti, dal CVN.

Ad opera dei suoi stessi governanti, divenuti complici, il governo della città e della Laguna sono stati interamente affidati a operatori interessati unicamente alla massima estrazione di valore dal prodotto di una storia millenaria. Al progressivo degrado della laguna dovuto al sistema MoSE, che ha anche precluso lo studio e l’implementazione di interventi più efficaci, adatti e lungimiranti, si è aggiunto l’effetto devastante di forme del turismo dominate dagli interessi strutturalmente legati al profitto da esso ricavabile. C’è quello di massa, il turismo “mordi e fuggi”, quello che invade Venezia senza conoscerla, che l’ammira come una raccolta di cartoline, senza comprenderla. E c’è il turismo d’élite, quello dei ricchi, che ambisce a un palazzo sul Canal Grande, o almeno a un pied-à-terre modernamente attrezzato. Tutti ugualmente concorrono a cancellare una delle caratteristiche che fanno della città un unicum e un modello per qualunque città che voglia essere davvero vivibile: l’equilibrio tra pietre e corpi, tra spazi e abitanti, tra città e comunità; quell’equilibrio che si può ancora vivere in qualcuno dei campi lasciato alla sua vita quotidiana. Un equilibrio minacciato anche dalla pressione sul mercato immobiliare. Le grandi navi cariche di turisti, dal canto loro, inquinano l’aria e le acque, distruggono la morfologia dei fondali, la biodiversità e l’equilibrio ecologico della Laguna; ma rimangono poiché dietro di esse prosperano interessi locali e globali, tutti solidali nello sfruttamento turistico.

Ancora una volta, il destino della città e il destino della sua laguna sono strettamente intrecciati. La ricchezza effimera portata dal turismo, come degrada la città, così compromette la Laguna. Se vi fosse una classe dirigente degna di questo nome, essa assumerebbe come punto di partenza il rapporto equilibrato e dinamico che si manifestato per secoli (e forse ancora sopravvive), tra gli elementi fisici della città e dell'ambiente e il concreto e complesso tessuto sociale ed economico (la popolazione, le attività produttive, i commerci, l'insieme insomma della vita quotidiana).

Un futuro realmente moderno dovrebbe fondarsi sulla consapevolezza che le qualità accumulate in un lungo, sistematico e intelligente lavoro di padroneggiamento della natura e della storia sono un patrimonio da amministrare con saggezza e lungimiranza. Ma chi oggi gestisce il potere non lo comprende e perciò lo distrugge.

Articolo scritto per il Semestrale dell'ANPI «Resistenza e Futuro» che quest'anno compie vent'anni. In corso di pubblicazione e presto consultabile sul sito dell'ANPI Venezia.

Questo proverbio dovrebbe essere ricordato da chi commenta i fatti dell'autobus guidato da un autista senegalese che trasportava bambini della scuola Vailati di Crema. L'autista ha incendiato il mezzo per vendicare gli africani lasciati morire in mare da Salvini. Salvini è stato giustamente criticato e imputato dai magistrati italiani per aver provocato la morte di immigrati che cercavano rifugio in Europa. Salvini è noto per essere un fanatico propagandista della tesi della necessità assoluta di ricacciare ai loro destini di sofferenza e morte quanti tentano di sfuggire all'inferno di molte realtà africane, inferno che il colonialismo - ha contribuito a creare e che il neocolonialismo dello sfruttamento delle risorse continua a perpetuare, spesso celato sotto la cooperazione allo sviluppo.

La rabbia scatenata dal ministro italiano contro i fuggiaschi è il vento che ha prodotto la tempesta della vendetta dell'autista senegalese. L'autista senegalese pagherà il suo atto violento e sarà incriminato. Salvini invece è già stato esonerato dal Senato ad essere processato. La proposta poi di attribuire a Rami, uno dei ragazzini dell'autobus di origini egiziane, la "cittadinanza per meriti speciali" per il suo atto di coraggio che gli ha permesso di portare in salvo i compagni, trasforma la rivendicazione di diritto, quello di cittadinanza, in "premio". Cittadinanza che viene negata a migliaia di persone in nome di un concetto asfittico, quello dello iure sanguinis, (cioè si è italiani se si nasce o si è adottati da cittadini italiani). Infatti sono residuali le possibilità di acquisire cittadinanza in altri modi, per esempio per iure soli o per residenza. Il principio dello ius cultura continua ad essere ignorato.



Oggi 21 marzo 2019, 237 senatori hanno negato alla Magistratura l’autorizzazione a procedure contro Matteo Salvini accusato di sequestro di persona aggravato, per non aver concesso lo sbarco ai 137 migranti della Diciotti. (segue)

La maggioranza dei senatori ha votato contro la richiesta della Magistratura di perseguire il primo Ministro a norma della disposizione che chiede al parlamento l’autorizzazione a procedure contro suoi esponenti.

La disposizione era stata introdotta nel sistema legislativo italiano per evitare che una magistratura di un particolare colore politico potesse perseguitare membri del parlamento ingiustamente. Si tratta di una disposizione fedele al principio della separazione dei tre poteri (legislative, esecutivo, giurisdizionale) introdotta dalla rivoluzione borghese nel 1789 in opposizione al principio monarchico dell’unità in un unico soggetto dei tre poteri.

I 237 senatori che hanno negato l’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini hanno dunque palesemente dimostrato di anteporre gli interessi di casta e di appartenenza politica a quella dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.


La laguna è un ecosistema complesso, governato dall'equilibrio dinamico tra le acque dolci dei fiumi che vi affluiscono e le acque salate del mare. La laguna è un'ambiente mutevole in bilico tra due destini: diventare una palude e poi un pezzo di terra o trasformarsi in un braccio di mare. La Laguna di Venezia è l'unica rimasta tale per oltre un millennio; ciò grazie al lavoro costante di manutenzione e guida alle trasformazioni naturali realizzate durante i secoli della Repubblica Serenissima. Questo equilibrio ha cominciato ad essere compromesso dall'inizio dell'ottocento e ha raggiunto uno dei suoi momenti di massimo degrado alla metà del IXX secolo. Dopo la catastrofica acqua alta del 1966 si affrontò finalmente il problema della sua salvaguardia. Si individuò una delle principali cause del degrado nella realizzazione del cosiddetto Canale dei Petroli collegato alle attività della zona industriale di Porto Marghera. Questo intervento infatti distruggeva l'unitarietà del sistema naturale considerata come un elemento vitale per la sopravvivenza della laguna stessa. Tra le decisioni più importanti assunte dal Parlamento italiano in attuazione della Legge speciale per Venezia del 1973 era indicata l'eliminazione del nefasto Canale dei Petroli. Questo intervento non venne mai effettuato, ma oggi si propone addirittura di consolidare, rafforzare e prolungare la criminosa infrastruttura rafforzando il Canale dei Petroli e proseguendolo con una serie di elementi metallici.

Quello che non riuscirono a concludere i barbari del XX secolo lo fanno oggi i poteri dominanti a Venezia.

Nell'articolo di Italia Nostra "Salvaguardia, da noi ai giornali e dal Nazionale alla Commissione" vengono dettagliate le ragioni per cui le opere per il marginamento del Canale dei Petroli sono il modo sbagliato per intervenire nella laguna, ricordando inoltre che l'intervento a cui si vuole dare immediata esecuzione viene spacciato per «stralcio attuativo» quando il progetto generale di cui fa parte non è stato approvato e neanche sottoposto Via e Vas, cioè a valutazione di impatto ambiente, come un'opera di tale impatto dovrebbe essere assoggettata. Seguono due articoli dalla stampa locale
(e.s.)

la Nuova Venezia, 12 dicembre 2018

SI' ALLE PALANCOLE NEL CANALE DEI PETROLI
SCHIAFFO DELLA SALVAGUARDIA AL MINISTERO
di Alberto Vitucci

Lo «stop» inviato dal ministero per l'Ambiente non è bastato. Ieri mattina, dopo una lunga discussione, la commissione di Salvaguardia ha approvato a maggioranza il progetto per lo scavo del canale Vittorio Emanuele. Quindici i voti a favore, tre gli astenuti (il rappresentante dell'Ambiente Francesco Baruffi e le due soprintendenze), uno contrario (il rappresentante della Regione Antonio Rusconi). Respinte anche le proposte di sostituire il palancolato metallico con palificazioni in legno.Cantano vittoria gli Industriali e l'Autorità portuale, che avevano definito «urgente» l'avvio dei lavori per garantire l'accessibilità al porto veneziano da parte delle grandi navi.

Annunciano ricorsi gli ambientalisti.Una battaglia che dura da 50 anni, quella sul canale dei Petroli. Che molti studiosi reputano il principale imputato dello sconvolgimento idraulico della laguna, responsabile della sua continua erosione. Erosione che provoca anche interramento del Canale Malamocco-Marghera, più noto come canale dei Petroli. Scavato alla fine degli anni Sessanta proprio per far entrare in laguna le grandi petroliere.

Nello «stralcio progettuale» firmato dall'architetto Daniele Rinaldo è previsto lo scavo del primo tratto del canale. Per riportarlo alla quota di progetto prevista dal Piano regolatore, si legge nella relazione. Previsto anche un chilometro e mezzo di barriera con palancole metalliche per sostenere i marginamenti del canale minacciati dall'erosione. E una discarica di fanghi in cassa di colmata B, delimitata da pietrame. Interventi che in questo caso non erano ritenuti dal ministero di «ordinaria amministrazione». Dunque bisognosi della Valutazione di Impatto ambientale preventiva. Così, dopo numerose segnalazioni inviate dai comitati e dall'associazione Italia Nostra, è arrivata la risposta ufficiale firmata dal direttore generale del ministero Giuseppe Lo Presti. «La scrivente Direzione», scrive alla commissione l'alto dirigente dello Stato, «non è mai stata coinvolta nella valutazione ambientale del suddetto progetto, e pertanto non è possibile ad oggi fornire alcuna valutazione delle implicazioni di natura tecnico-ambientale che lo stesso comporta». «Sono state già avviate delle attività di verifica», continua la lettera, «si chiede pertanto a codesta Commissione di sospendere i lavori di esame del progetto, nelle more della conclusione delle suddette attività di verifica».

Un invito formale. Quasi una diffida, secondo le associazioni. Di cui però la commissione non ha tenuto conto. È prevalsa la tesi di chi sosteneva l'urgenza di avviare quei lavori per non provocare la paralisi dei traffici portuali. Sconfitta invece la linea ambientalista di chi invoca «interventi compatibili». «Non siamo contrari», avevano scritto i comitati al ministero, «ma la cassa di colmata non è una discarica. È un grave errore trattare quella parte di laguna come un canale di navigazione». Soddisfatti i progettisti, a cominciare dall'architetto Daniele Rinaldo. «Le protezioni saranno tutte sott'acqua, a parte l'angolo del canale», spiega, «perché abbiamo visto che quelle naturali, con le burghe e le tamerici, messe negli anni Novanta, non durano». Rinaldo ribadisce come il progetto abbia solo lo scopo di «consolidare il canale per la navigazione». Dragaggi per riportare la profondità alla quota di qualche anno fa. E protezioni per impedire «il crollo delle sponde e l'interramento, provocato dall'erosione».

Non è dunque il canale dei Petroli il primo responsabile di quell'erosione? No, secondo Rinaldo. Che ricorda: «Dei quattro milioni di fanghi scavati negli ultimi anni, solo un milione viene dal canale dei Petroli, il resto dalla laguna. Il canale ha aumentato la velocità dell'acqua ma l'erosione è colpa dei moli foranei e delle dinamiche della laguna». Tesi che non tutti gli ingegneri idraulici condividono. Adesso c'è chi teme che questo sia il primo passo verso un allargamento del canale, mirato a far passare in un prossimo futuro anche le navi da crociera dirette al nuovo terminal di Marghera. Ma dopo numerosi rinvii il progetto è stato approvato. Era già stato bocciato nel 2013, alla vigilia dello scandalo Mose. Adesso è stato ripresentato come «stralcio» per la parte verso San Leonardo. E approvato dalla Salvaguardia anche senza il parere di Valutazione di Impatto ambientale del ministero. Se non ci saranno ricorsi, eventualità possibile, i lavori potrebbero partire a breve.

la Nuova Venezia, 12 dicembre 2018
IL PORTO ESPRIME SODDISFAZIONE
ITALIA NOSTRA PREPARA IL RICORSO

di Alberto Vitucci

«Faremo ricorso. Il canale dei Petroli è la battaglia di Italia Nostra da cinquant'anni. Questo progetto non tiene conto della laguna. E soprattutto non è stata decretata l'urgenza che starebbe alla base di quei lavori». Così la presidente della sezione veneziana di Italia Nostra, Lidia Fersuoch, «accoglie la notizia dell'approvazione da parte della commissione di Salvaguardia, del progetto per lo scavo del canale Malamocco-Marghera. «Ci sono gli estremi per l'accesso agli atti e per un ricorso», dice, «si usano materiali estranei alla laguna come il pietrame. Adesso decideremo». Si punta il dito contro la mancata risposta alla lettera del ministero per l'Ambiente. Che avvisava della procedura in corso, chiedendo di «sospendere i lavori di esame del progetto in attesa delle verifiche di legge».

Grande soddisfazione invece dall'Autorità portuale. «L'intera comunità portuale accoglie con soddisfazione la decisione della Commissione», commenta il presidente Pino Musolino, «la scelta riconosce l'efficacia tecnica di un progetto sviluppato sfruttando modalità d'intervento sostenibili, in linea con quanto previsto dalla legislazione. Un progetto che, mantenendo adeguati livelli di salvaguardia dell'ecosistema lagunare, raggiunge anche l'obiettivo della salvaguardia della portualità. Poter finalmente garantire l'accessibilità nautica del porto, così come previsto dal Piano Regolatore Portuale, consente al nostro scalo di mantenere standard competitivi adeguati alle sfide imposte dal mercato, a beneficio di tutte le attività insediate, e di interpretare al meglio il ruolo che gli è proprio di motore economico della nostra regione, e di porta d'accesso ai mercati internazionali per i distretti produttivi veneti. Sarà ovviamente cura dell'Autorità di Sistema Portuale», conclude, «dare seguito alle prescrizioni emerse dalla Commissione di Salvaguardia». Prescrizioni che parlano della misura del pietrame e della riduzione della velocità delle navi nel canale durante le fasi dei lavori. Soddisfazione espressa anche dal Comune. «La praticabilità dei canali», ribadisce il sindaco Luigi Brugnaro, «è necessaria per il rilancio del Porto». E soddisfatti anche gli Industriali veneziani, che avevano sollecitato negli ultimi giorni l'approvazione del contestato progetto.

Ma gli ambientalisti rilanciano. «Non abbiamo mai detto che non si devono fare gli interventi di dragaggio, e nemmeno quelli di protezione del canale», hanno scritto al ministero le associazioni, «ma chiediamo che vengano fatti con modalità compatibili con il delicato ambiente lagunare. Dunque, palificate in legno e barene». Invece è passata la versione «hard», con le palancolate e il pietrame.


la Nuova Venezia, 13 dicembre 2018
CANALE DEI PETROLI,
PRONTO IL RICORSO AL TAR

di Alberto Vitucci

Un chilometro di palancole in ferro. Scogliere e pietrame in cassa di colmata B per contenere i fanghi scavati. E dragaggio del grande canale Malamocco Marghera, detto dei Petroli, per riportarlo alla «quota di progetto» e far passare le navi di nuova generazione. La commissione di Salvaguardia ha approvato non senza dibattito il progetto proposto dall'Autorità portuale. Ma adesso la partita si sposta a Roma. Italia Nostra ha subito annunciato un ricorso al Tar e sta raccogliendo documentazione da inviare al governo. «Non ci sono le motivazioni dell'urgenza», dice in una nota l'associazione per la tutela del territorio, «pietrame e palancole non sono materiali consentiti in laguna. E la Cassa B non è una discarica. Inoltre l'infissione di un chilometro e mezzo di sbarre di ferro taglierebbe la falda freatica. Con la possibilità di provocare in futuro un abbassamento del suolo come già successo negli anni Sessanta».

I comitati hanno anche sollecitato il ministero per l'Ambiente a intervenire. Poche ore prima del voto, era arrivata alla commissione una lettera firmata dal direttore generale del ministero Giuseppe Lo Presti. Un «invito» a sospendere l'iter in attesa delle verifiche del ministero. Secondo i tecnici dell'Ambiente è insomma necessaria una Valutazione di Impatto ambientale per quel tipo di interventi. Ma nella stessa seduta il presidente della commissione Maurizio De Gennaro ha dato lettura di una lettera di segno opposto, inviata dall'Autorità portuale e dal suo presidente, Pino Musolino. «La commissione è la sola titolata a decidere», in sostanza il contenuto della lettera. Alla fine la maggioranza dei componenti l'ha presa per buona. Votando il via libera al progetto - uno stralcio urgente del progetto originario del 2013 - per consentire i via ai lavori. Tre gli astenuti, un solo voto contrario. Ma Italia Nostra conferma l'intenzione di far ricorso al Tar. «Non è un interventi come gli altri, è la nostra battaglia che combattiamo da mezzo secolo», ribadisce la presidente della sezione veneziana Lidia Fersuoch, «in questo caso si continua a perseguire interventi sbagliati per la laguna. Il canale dei Petroli è il responsabile dell'erosione e dei guai della laguna centrale». Il Porto canta vittoria. «Finalmente si ripristina l'agibilità del Porto», dice il presidente Pino Musolino. dello stesso tenore i commenti degli Industriali, che avevano sollecitato nei giorni scorsi una soluzione della vicenda. E anche del Comune. «Ma l'urgenza di scavare doveva essere dimostrata e certificata», ribatte Italia Nostra.

La battaglia dunque si sposta in sede legale. Potrà essere il Tar del Veneto a decidere se l'intervento di scavo del canale Malamocco Marghera sia legittimo oppure no nella forma proposta. «Non siamo mai stati contrari al porto», dicono i comitati, «ma ci sono altri sistemi per proteggere il canale dagli interramenti». Pali in legno e barene artificiali per intercettare le correnti e il vento che insieme al moto ondoso provocano l'interramento del canale. Il Canale dei Petroli, costruito alla fine degli anni Sessanta per far entrare le grandi petroliere in laguna, è ritenuto una delle principali cause del dissesto lagunare. Una grande autostrada d'acqua dove prima era il canale Fisolo.

D - Perchè nei piani urbanistici, al di là delle virtuose raccomandazioni, il paesaggio urbano - sia quello del futuro da costruire sia quello ereditato dalla storia - non sembra da tempo precisamente al primo posto, tanto che la città contemporanea fa fatica a trovare un dialogo costruttivo (nelle funzioni come nelle forme) per es. con fiumi, boschi, giardini privati ed aree di aggregazione ?

R - La ragione è, al tempo stesso, semplice e complessa. Essa sta nel fatto che la visione del territorio oggi egemonica è quella che vede e usa il territorio come qualcosa che diventa ricchezza (soldi e potere) mediante la sua “urbanizzazione”, dove con questo termine si intende la costruzione di strade e stradoni, case e casette, capannoni e piazzali – e così via. Se accanto alle forme si sapesse guardare anche alla sostanza delle cose, e ai meccanismi che governano le trasformazioni del territorio, ci si rederebbe facilmente conto che l’uso del territorio è finalizzato alla realizzazione di maggior ricchezza per chi lo possiede (o se ne può appropriare) mediante la sua trasformazione in quella “repellente crosta di cemento e asfalto” che indignava Antonio Cederna.

Il territorio dovrebbe essere visto, e usato, come un elemento essenziale della vita presente e futura della società perché è, come dice Piero Bevilacqua, l’habitat dell’uomo (e di altre specie animali e vegetali). Esso oggi è visto e usato unicamente come produttore di valore di scambio. Quindi i processi reali di trasformazione del territorio sono del tutto indifferenti sia al rispetto delle qualità (naturali, paesaggistiche, culturali) e degli elementi di rischio (terreni franosi, esondabili, falde inquinabili ecc.) esistenti, sia alla creazione di nuovi paesaggi dotati di qualità nuove.

A questo proposito devo aggiungere che a mio parere non siamo capaci di imprimere qualità nel territorio se non interpretiamo l’azione che compiamo oggi come lo sviluppo e la prosecuzione delle azioni che la natura e la storia hanno svolto nei secoli passati. Oggi, invece, l’interesse personale che sollecita i più (a partire dagli architetti e dai sindaci) è costituito dall’affermare la propria personalità, individualità, creatività, eccezionalità.

D - Nell'ipotesi che le città più virtuose nei prossimi 10 anni decidano di non costruire neanche un mattone, quali azioni potremmo intraprendere per recuperare il degrado e lo squallore crescente delle periferie e delle macro-infrastrutture già presenti ?

R – Suggerisco tre passaggi, e ritengo necessaria una condizione.

Primo passaggio: decidere che non si sottrae un solo metro quadrato al terreno libero (naturale o agricolo che sia) se non si tratta di un’indifferibile esigenza sociale non soddisfacibile riusando suoli già sottratti al ciclo nella natura, che si tratti di aree esterne o interne alla città costruita.

Secondo passaggio: abbandonare la logica, oggi dominante, di progettare ogni nuovo elemento (casa, strada, canale, piazzale ecc.) come elemento isolato dal contesto, e vedere invece ogni trasformazione come qualcosa che nasce da una visione, e da un progetto, relativi all’intero contesto cui l‘oggetto appartiene. Poiché il paesaggio altro non è che l’immagine, la forma, di un contesto ampio, identificabile nelle sue connessioni interne e colto nelle sue differenze da ogni altro contesto.

Terzo, conseguentemente applicare il metodo della pianificazione urbanistica e territoriale, colpevolmente abbandonati dei decenni passati per effetto delle stesse logiche, ideologie e interessi che hanno fatto prevalere la “città della rendita” sulla “città dei cittadini”.

Naturalmente non basta qualsiasi pianificazione: occorre una pianificazione orientata secondo principi e di obiettivi coerenti con quello della difesa della bellezza, della salute e del benessere dei cittadini di oggi e di domani. La pianificazione che si pratica oggi è volta invece alla crescita della ricchezza economica di chi adopera il territorio per accrescere il suo potere finanziario. Quindi, la condizione preliminare è che si modifichi il punto di vista dal quale si vede la città, e le esigenze che devono essere soddisfatte prioritariamente nel governo delle trasformazioni del territorio.

D - Partendo dalla tua esperienza di urbanista, puoi proporci degli esempi positivi di paesaggi contemporanei ?

R. Purtroppo nella mia memoria si sono accumulate immagini nelle quali le espansioni recenti hanno lasciato sopravvivere solo brandelli dei paesaggi del Belpaese di anni lontani. E mi riferisco sia alle espansioni nelle forme compatte delle periferie delle grandi città governate dalla speculazione degli anni del dopoguerra, sia nella sbriciolatura miserabile dell’abusivismo delle coste e delle periferie di gran parte dell’Italia centrale e meridionale, sia nello sprawl (lo sguaiato sdraiarsi della città sul territorio) delle opulente città dell’Italia dello “sviluppo”. I tentativi compiuti negli anni migliori della nostra storia recente (mi riferisco agli anni 60-70 del secolo scorso) sono stati per lo più stravolti dai decenni successivi.

E’ dalla difesa di quei residui brandelli (nella quale per fortuna un numero sempre più vasto di cittadine e cittadini sono impegnati), da una concezione della bellezza come un valore che nasce dall’umiltà (humilitas significa “adesione alla terra”) e dal rispetto della storia e della natura che potranno nascere esempi positivi di paesaggi contemporanei. La scommessa è riuscire a proiettare la storia sul futuro, evitando i due scogli del mimetismo e del nuovissimo.

Edoardo Salzano, 16 aprile 2012

In calce l'articolo di Arturo Lanzani e le repliche alle sue 9 proposte

E’ certamente positivo che, come Arturo Lanzani ci segnala, negli ultimi mesi molti studiosi abbiano «sottolineato l’urgenza di fermare o almeno rallentare la trasformazione di suolo agricolo e naturale in suolo urbanizzato». C’è indubbiamente da compiacersene soprattutto da parte di chi, almeno dalla seconda metà degli anni 90, e compiutamente nel 2005 con la prima edizione della “scuola di eddyburg” (voglio ricordare tra gli altri Maria Cristina Gibelli, Mauro Baioni, Fabrizio Bottini, Vezio De Lucia, Georg Frisch, Antonio di Gennaro), evidenziava questo come un tema di rilevanza fondamentale, ma si sentiva allora circondato da un silenzio assordante (Gibelli e Salzano, NO SPRAWL, Alinea, 2006). Sentiva cioè di studiare e di proporre in un contesto culturale (e politico, e amministrativo), nel quale la “diffusione urbana”, o la “città diffusa”, o la “città infinita” sembravano fenomeni da analizzare non per contrastarli, ma per scoprire in essi una nuova occasione di sperimentazione di pratiche “innovative” di disegno urbano: non per contrastare il fenomeno dunque, ma per accompagnarlo, riprogettane le forme, integrarne i contenuti, arricchirne il significato, accrescerne la bellezza - con rotondi alberelli e magari con nuove più massicce costruzioni.

Bisognerebbe domandarsi a che cosa è dovuta la ‘recente’ consapevolezza maturata nel milieu culturale specialistico sulla necessità di intervenire con urgenza per fermare il consumo di suolo agricolo e naturale. Non certo a una sia pur tardiva presa di coscienza da parte della politica e dell’amministrazione. E neppure a un vigoroso allarme sollevato dalla cultura urbanistica ufficiale: quella dell’accademia e delle istituzioni culturali, che ha continuato a preoccuparsi più di moderare, molcire, mitigare, correggere il fenomeno – e insomma di accompagnarlo - che di denunciarlo e di suggerire gli strumenti tecnici per contrastarlo, dopo averne compreso e svelato le radici.

Quali sono le radici del fenomeno, a guardarlo dal campo visuale dell’urbanista? Almeno tre: il ruolo assolutamente dominante della rendita immobiliare (dell’accrescimento del valore della rendita fondiaria a causa delle aspettative di urbanizzazione dei suoli e di nuove forme/aree su cui generarla); l’abbandono delle politiche di edilizia abitativa programmate negli anni 60 e 70; il discredito nel quale è stata gettata quella che è stata definita “urbanistica autoritativa”.

Se si volessero sviluppare le proposte generosamente avanzate da Lanzani occorrerebbe partire da una riflessione su perché e come quelle tre questioni si siano manifestate (e siano anzi diventate devastanti) nel ventennio passato. Certo la riflessione dovrebbe tener conto del quadro più complessivo: che è quello dell’egemonia dell’ideologia neoliberista (a cominciare dalla martellante predica del primato del privato sul pubblico, del mercato sullo stato, dell’economia sulla politica), della sua diffusione nelle pratiche di governo del territorio, e infine, last but not least, della mutazione del sistema economico in quello che è stato definito da Gallino “finanzcapitalismo” (Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, 2011).

Su eddyburg, e nelle diverse edizioni della sua scuola estiva di pianificazione, cerchiamo costantemente di fornire materiali, non troppo specialistici, di conoscenza e riflessione critica su questo più ampio quadro. Siamo infatti convinti che chiudere l’attenzione degli urbanisti nello stretto recinto disciplinare-professionale li possa sospingere a diventare facilitatori di processi che sfuggono alla loro comprensione, anziché interpreti critici delle tendenze in atto e propositori di obiettivi e percorsi alternativi.

In questa sede vogliamo limitarci a porre un interrogativo. Non avrà la cultura urbanistica ufficiale legittimato, consapevolmente o meno, il modello del neoliberismo? A mio parere sì, in particolare con l’appoggio, o addirittura l’invenzione, di pratiche e di parole d’ordine che hanno legittimato le ideologie da cui ha tratto alimento. Accenno ad alcune espressioni che di queste ideologie sono il risultato operativo: l’”urbanistica contrattata” (o concertata) come strumento per sottrarre il rapporto tra il pubblico (l’ente territoriale elettivo) e il privato (immobiliarista e/o proprietario) alla trasparenza e alla subordinazione del secondo al primo; la perequazione e la compensazione come riconoscimento, premio e incentivo alla formazione di plusvalori fondiari; i “programmi speciali” e gli “accordi di programma” in deroga alla pianificazione ordinaria; e infine i “diritti edificatori”, mera invenzione degli urbanisti (PRG di Roma) e causa del riconoscimento pratico dell’impossibilità di ridurre previsioni eccessive di edificabilità dei piani urbanistici. E vorrei aggiungere anche l’errore culturale e pratico commesso con l’introduzione dell’interesse degli investitori come componente legittimamente riconoscibile nella decisione della quantità dell’espansione urbana, fino a farne una componente del fabbisogno edilizio.

Lanzani ha costruito la sua proposta raccogliendo criticamente quelle che ha desunto dal dibattito in corso. (Sarebbe interessante capire perché ha trascurato di rammentare quella elaborata da Luigi Scano, contenuta nella “proposta di legge di eddyburg” e recepita in alcuni dei disegni di legge della XIV legislatura) . Non espongo qui le mie osservazioni su ciascuna delle nove proposte di Lanzani; lo farò su eddyburg.it. Esse comunque non mi sembrano tali da assicurare una ragionevole (cioè drastica quanto è necessario) riduzione del consumo di suolo: sia per alcuni limiti peculiari ai singoli punti, o al modo in cui sono formulati, sia perché non affrontano tutti i versanti del problema, soffermandosi solo su quello urbanistico edilizio.

La mia ferma opinione è che non sia sufficiente combattere l’espansione edilizia, ma occorra al tempo stesso difendere il territorio rurale dall’urbanizzazione non strettamente necessaria. Ciò significa collegare le mille vertenze aperte per combattere il consumo di suolo urbano con quelle, aperte in tutto il mondo, per la difesa delle utilizzazioni agro-silvo-pastorali d’interesse delle popolazioni insediate, per contrastare sia l’irragionevole espansione della “repellente crosta di cemento e asfalto” sia il land grabbing e la sostituzione di colture basate sul valore di scambio sul mercato internazionale anziché sul valore d’uso dell’alimentazione sana e risparmiatrice di energia.

Affrontare congiuntamente i due versanti dell’aggressione all’uso del suolo consentirebbe di rafforzare quello che a me sembra uno degli aspetti decisivi della novità registrata da Lanzani: il fatto che la questione del contrasto al consumo di suolo sia diventata un tema all’ordine del giorno. A mio parere (e dò in tal modo la mia risposta alla domanda che ponevo all’inizio) la novità è emersa per effetto di due tensioni: da un lato, quella positiva espressa dalle migliaia di vertenze che, quasi in ogni regione, sono sorte per rivendicare un uso del territorio alternativo rispetto a quello che ha provocato l’aberrante consumo di suolo che abbiamo conosciuto; dall’altro lato, quella (a mio parere negativa: ma a volte sono un po’ manicheo) esercitata dagli operatori (immobiliaristi e finanzieri, professionisti, amministratori d’ogni ordine e grado) in vario modo legati al mondo del mattone, che avvertono che la bolla si è sgonfiata, che con la prosecuzione del consumo di suolo non si fanno più affari, e che quindi conviene invece spendersi (e guadagnare) recuperando, riqualificando, rigenerando, riprogettando – e mitigando, molcendo, migliorando.

Il Giornale dell’architettura

febbraio 2012

SALVAITALIA

di Arturo Lanzani, geografo e urbanista

Nelle ultimi mesi molti studiosi hanno sottolineato l’urgenza di fermare o almeno rallentare la trasformazione di suolo agricolo e naturale in suolo urbanizzato. La salvaguardia, la cura e la riqualificazione dei grandi spazi aperti è apparsa a molti storici e conservatori come condizione necessaria anche se non sufficiente di tutela del nostro paesaggio storico e precondizione di un modello di sviluppo più attento al ruolo che in esso possono giocare i beni culturali; ma è apparsa anche a molti urbanisti e architetti come punto di partenza di una riqualificazione dei paesaggi contemporanei focalizzata sul progetto di suolo, su un’architettura a volume zero, del riuso e del riciclo. L’arresto del consumo di suolo e della frammentazione degli spazi aperti, che si realizza prevalentemente sulle terre di pianura più fertili, per molti agronomi, ecologi, biologi, geologi, idraulici è una mossa urgente per non penalizzare ulteriormente il settore agricolo, per non incrementare l’effetto serra, per mantenere l’elevato livello di biodiversità e per evitare quella impermeabilizzazione che assieme a una più attenta gestione del bosco di ritorno sulle terre agricole marginali e a un riordino degli insediamenti esistenti è la misura strutturale per ridurre il dissesto idrogeologico ed evitare i ricorrenti disastri ambientali. Parimenti, alcuni economisti hanno sottolineato come la competitività delle nostre urbanizzazioni passa per una loro ricapitalizzazione, per una loro reinfrastrutturazione e per un loro ridisegno qualitativo e non su una crescita estensiva dell’urbanizzato che porta invece a costi di gestione delle reti sempre più elevate e alla realizzazione d’infrastrutture banali. Un punto di vista che s’incontra con chi, nel campo delle politiche dei trasporti, insiste più sulla necessità d’interventi di manutenzione straordinaria, di piccole opere diffuse e d’innovazione di gestione, che non di faraoniche nuove infrastrutture. Infine, alcuni urbanisti e geografi hanno sottolineato come le attuali dinamiche espansive dell’urbanizzazione non siano più legate a una consistente crescita demografica ed economica e a un epocale riassetto della geografia del popolamento e delle imprese, che in passato si sarebbe dovuto orientare ma non certo ostacolare, ma da una spirale dove negli stessi territori abbandono e sottoutilizzo di suoli già urbanizzati si affiancano a nuove urbanizzazioni che consumano suolo. Una spirale alimentata, dal lato dell’offerta, da piani urbanistici che rispondono solo a valutazioni di bilancio e di consenso a brevissimo periodo e, dal lato della domanda, dal riversarsi nell’edilizia di capitali non più reinvestiti in attività industriali competitive, nonché da flussi consistenti di risorse provenienti dall’economia illegale. Una spirale che determina esiti devastanti sulla vivibilità delle nostre urbanizzazioni.

D’altra parte, la drammatica congiuntura economica che sta investendo il nostro paese ha portato in modo diffuso a interrogarsi su come reperire risorse non solo per ridurre i livelli d’indebitamento (senza però penalizzare oltre modo il lavoro e l’investimento), ma anche per promuovere una politica di sviluppo. La lotta alle rendite, e tra queste la vecchia rendita fondiaria, appare allora non solo come una prospettiva di politica economica ampiamente condivisa (almeno in apparenza), ma anche come la possibile congiunzione tra esigenze di risanamento e sviluppo economico del nostro paese e le precedenti riflessioni.

Il decreto «salva Italia» e gli annunciati provvedimenti a favore della crescita da parte del governo Monti non solo non paiono del tutto convincenti rispetto alla difficile inquadratura tra «rigore, equità e sviluppo», ma non sembrano ancora annunciare una nuova stagione d’incontro tra le misure per lo sviluppo e un’attenzione alla qualità dell’ambiente costruito e naturale che allinei le nostre politiche urbanistiche e ambientali a quelle dei paesi europei, facendo propria un’idea di sviluppo che non coincida con la crescita del Pil e preveda infrastrutture effettivamente in grado di riqualificare il nostro territorio. Proviamo allora a delineare una serie di misure che il governo, qualora lo volesse, potrebbe intraprendere per catturare una quota della rendita fondiaria e per «salvare il suolo» sintesi di natura e storia e base materiale del nostro paese.

1. La previsione di nuove aree d’espansione non può più essere definita in maniera esclusiva dalle amministrazioni comunali, ma dev’essere materia di decisione congiunta di comuni e regioni/province e alcune strutture statali (soprintendenze e autorità di bacino). In primo luogo perché lo spazio aperto va inteso come un bene ambientale e paesistico, la cui tutela è costituzionalmente esercitata da regioni e Stato. In secondo luogo poiché la riorganizzazione urbanistica delle aree produttive, d’infrastrutture e attrezzature (l’unica che può esprimere una domanda che non può trovare risposta nel riuso e riciclo dello spazio già urbanizzato) deve procedere, come in quasi tutta Europa, alla scala delle nuove più estese conurbazioni.

2. Superate le logiche particolaristiche nel consumo di suolo va però evitata ogni espropriazione verticistica del suolo non urbanizzato, che è un bene comune. Pertanto ogni soggetto deve poter promuovere una class action in sua difesa secondo lo schema previsto dalla Commissione Rodotà sui Beni pubblici, ad esempio qualora la previsione di nuove urbanizzazioni avvenga in contesti caratterizzati da aree di espansione pregresse inattuate, o dalla presenza di aree dismesse, o da infrastrutture che non paiono di pubblica utilità.

3. Per l’enorme quantità di suoli non ancora urbanizzati, ma previsti come edificabili dai piani vigenti e comunque anche per le urbanizzazioni private del punto precedente va prevista un’imposta da applicarsi quando queste previsioni di edificabilità vengano attuate. Essa deve risarcire le popolazioni locali della rinuncia di una risorsa ambientale a scapito della presente e delle future generazioni. Nello stesso tempo deve riequilibrare il costo-opportunità dell’investimento privato immobiliare sui green field rispetto ai brown field, favorendo questi ultimi. L’imposta deve assommare i differenziali medi di valore nell’acquisto delle aree e i costi di demolizione e smaltimento delle macerie.

4. Le risorse così acquisite devono essere per metà destinate alla riqualificazione dello spazio già urbanizzato (interventi di risanamento dei centri storici e dei monumenti, realizzazione d’infrastrutture innovative quali teleriscaldamento, reti a bande larghe, corsie protette per il trasporto pubblico, metrotranvie, ecc.), ma anche per la semplice manutenzione straordinaria delle infrastrutture tradizionali (scuole, sedi stradali, reti fognarie, idriche, ferroviarie), nonché per un contributo pubblico alle bonifiche di aree dismesse inquinate da riurbanizzare. Per l’altra metà vanno destinate alla riqualificazione degli spazi aperti: realizzando parchi e reti verdi, garantendo manutenzioni alle aree archeologiche, sostenendo l’agricoltura periurbana, rinaturalizzando bacini fluviali, ecc.

5. Per tutte le urbanizzazioni private, ma anche per le opere pubbliche che comportano consumo di suolo, va inoltre prevista una misura di compensazione ambientale sul modello della legislazione tedesca. Per ogni superficie urbanizzata va prevista la cessione o il convenzionamento di pari superfici valorizzate in senso ecologico-paesistico. Nei territori periurbani di pianura queste compensazioni dovrebbero riguardare aree attrezzate ex novo con prati e boschi fruibili, agricoltura urbana e greenways; nelle aree di collina e montagna dovrebbero riguardare un’azione straordinaria di cura e manutenzione dei sentieri, dei boschi e dei prati stabili. Tali compensazioni d’altra parte debbono essere la premessa finanziaria di una progettazione integrata di reti verdi e di reti di comunicazioni, secondo standard europei.

6. Per ogni previsione di piano e per ogni intervento integrato che si realizza nello spazio già urbanizzato che prevede la trasformazione da usi produttivi ad altre più redditizie utilizzazioni o incrementi volumetrici è necessario realizzare un equo riparto della rendita garantendo un certo grado d’indifferenza e concorrenza. L’attuale concertazione a scala comunale e «caso per caso» di oneri o opere aggiuntive da realizzare non ha sempre garantito un riparto sufficiente a favore del pubblico, non ha garantito indifferenza (anzi è spesso stato alla radice di fenomeni collusivi e corruttivi) e ha minato la concorrenza. A tal fine va previsto un onere di urbanizzazione aggiuntivo definito in sede regionale teso a intercettare a vantaggio del pubblico metà della rendita differenziale cosi realizzatasi e da destinarsi a opere infrastrutturali e ambientali. Nello stesso tempo gli oneri di urbanizzazione vanno ridestinati alle sole spese d’investimento.

7. In tutte le aree sottoposte a pianificazione attuativa una quota della volumetria totale dev’essere destinata a edilizia convenzionata o sociale, nelle forme che si sono dimostrate da più di un decennio efficaci e virtuose in Francia e che già trova applicazione in alcuni comuni italiani. Questo provvedimento garantisce che la domanda di edilizia sociale e convenzionata non diventi il cavallo di Troia di nuovo scriteriato consumo di suolo. Esso inoltre favorisce una mixitè sociale all’interno di ogni intervento.

8. In molti casi l’urbanizzazione pregressa ha investito aree particolarmente sensibili da un punto di vista paesistico e/o ambientale: si è costruito negli alvei dei fiumi, o a ridosso di siti archeologici e monumentali, o a pulviscolo nelle campagne ormai intercluse nell’urbanizzato. Per sanare queste situazioni va prevista l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e di costruzione e da ogni altro carico fiscale e un premio volumetrico per tutti i trasferimenti volumetrici da queste aree sensibili ad aree di caduta più appropriate. Una misura che tuttavia non può applicarsi nel caso di edificazioni abusive non condonate.

9. L’ultima misura introduce un criterio di compensazione tra comuni ambientalmente virtuosi e comuni che non ridimensionano le precedenti previsioni di espansioni e/o con elevati livelli di urbanizzazione. Tale criterio di perequazione territoriale dovrebbe applicarsi a una quota parte degli oneri di urbanizzazione raccolti dai comuni «consumatori di suolo» e dei trasferimenti statali verso i comuni con forte livello di urbanizzazione. Le risorse così raccolte dovrebbero essere finalizzate alle sole spese di cura del territorio non costruito dei comuni virtuosi, in parte comuni di montagna e collina, magari di grande estensione territoriale e spopolati, da cui dipende buona parte dell’equilibrio idrogeologico e del bilancio del carbonio del nostro paese.

Note sulle proposte di Lanzani

di Edardo Salzano

1.

Lanzani: La previsione di nuove aree d’espansione non può più essere definita in maniera esclusiva dalle amministrazioni comunali, ma dev’essere materia di decisione congiunta di comuni e regioni/province e alcune strutture statali. […]

ES: E’ esattamente quello che prevede il modello di pianificazione italiano fino alle demolizioni apportate prima e dopo le modifiche alla costituzione (a partire dalle leggi derogatorie dei primi anni 80)

2.

Lanzani: Superate le logiche particolaristiche nel consumo di suolo va però evitata ogni espropriazione verticistica del suolo non urbanizzato, che è un bene comune. Pertanto ogni soggetto deve poter promuovere una class action in sua difesa secondo lo schema previsto dalla Commissione Rodotà sui Beni pubblici, ad esempio qualora la previsione di nuove urbanizzazioni avvenga in contesti caratterizzati da aree di espansione pregresse inattuate, o dalla presenza di aree dismesse, o da infrastrutture che non paiono di pubblica utilità

ES: Forse L. propone di sostituire la class action alle Osservazioni ai piani urbanistici che prevedono ecc. ecc.? La “espropriazione verticistica” nasce da lì. Ma invece della class action bisognerebbe prescrivere forme più incisive di partecipazione.

3.

Lanzani: Per l’enorme quantità di suoli non ancora urbanizzati, ma previsti come edificabili dai piani vigenti e comunque anche per le urbanizzazioni private del punto precedente va prevista un’imposta da applicarsi quando queste previsioni di edificabilità vengano attuate

ES: Preliminarmente, moratoria sull’ “enorme quantità di suoli non ancora urbanizzati, ma previsti come edificabili dai piani vigenti” e cancellazione di tutti quelli che risultano non necessari in base a una rigorosa analisi del fabbisogno. Un’imposta simile incorrerebbe certamente nella censura della Corte costituzionale. La questione dell’appartenenza dell’edificabilità e della tassazione del plusvalore determinato dalle scelte urbanistiche va affrontata in modo complessivo.

4.

Lanzani: Le risorse così acquisite devono essere per metà destinate alla riqualificazione dello spazio già urbanizzato […] Per l’altra metà vanno destinate alla riqualificazione degli spazi aperti […]

ES: La questione è quella della formazione dei bilanci comunali, provinciali, regionali, statali.

5.

Lanzani: Per tutte le urbanizzazioni private, ma anche per le opere pubbliche che comportano consumo di suolo, va inoltre prevista una misura di compensazione ambientale sul modello della legislazione tedesca. Per ogni superficie urbanizzata va prevista la cessione o il convenzionamento di pari superfici valorizzate in senso ecologico-paesistico.[…]

ES: Non conosco la legislazione tedesca in materia. Ma questa “compensazione” che significa? Che se consumo un ettaro con una strada o dei capannoni metto un retino di un ettaro su un’area verde, a ciò destinata dal piano? Oppure che sottraggo un’area alla crosta di cemento e asfalto e la rendo di nuovo permeabile? Per esempio, che il promotore di una qualsiasi operazione prevista dal piano deve cedere al comune un equivalente di terreno che il comune si impegna a destinare a verde pubblico con vincolo permanente?

6.

Lanzani: Per ogni previsione di piano e per ogni intervento integrato che si realizza nello spazio già urbanizzato che prevede la trasformazione da usi produttivi ad altre più redditizie utilizzazioni o incrementi volumetrici è necessario realizzare un equo riparto della rendita garantendo un certo grado d’indifferenza e concorrenza. […] A tal fine va previsto un onere di urbanizzazione aggiuntivo definito in sede regionale teso a intercettare a vantaggio del pubblico metà della rendita differenziale cosi realizzatasi e da destinarsi a opere infrastrutturali e ambientali. Nello stesso tempo gli oneri di urbanizzazione vanno ridestinati alle sole spese d’investimento.

ES: Vedi seconda parte punto 3. Affrontare la questione in questo modo è infantile.

7.

Lanzani: In tutte le aree sottoposte a pianificazione attuativa una quota della volumetria totale dev’essere destinata a edilizia convenzionata o sociale, nelle forme che si sono dimostrate da più di un decennio efficaci e virtuose in Francia e che già trova applicazione in alcuni comuni italiani. Questo provvedimento garantisce che la domanda di edilizia sociale e convenzionata non diventi il cavallo di Troia di nuovo scriteriato consumo di suolo. Esso inoltre favorisce una mixitè sociale all’interno di ogni intervento

ES: Una soluzione simile non sembra affatto in grado di consentire di risolvere il grave problema dell’abitazione in Italia. Si limita a decidere di formare un’ offerta, di dimensioni ignote (e certamente modeste se si vuole interrompere il consumo di suolo), di fronte a una domanda di cui non si sa niente, se non che è legata alle localizzazioni, alle capacità di spesa e a molte altre condizioni che, allo stato delle conoscenze possibili ai livelli locali, non sono manovrabili e neppure conoscibili.

C’è comunque da dubitare che le quantità, disponibilità economiche, caratteristiche sociali della domanda insoddisfatta abbiano una qualche relazione con l’offerta costruita secondo quel modello. Chi si è occupato di edilizia abitative nella logica del “diritto alla casa” negli anni 50, 60, 70 riderebbe di grosso.

8.

Lanzani: In molti casi l’urbanizzazione pregressa ha investito aree particolarmente sensibili da un punto di vista paesistico e/o ambientale: si è costruito negli alvei dei fiumi, o a ridosso di siti archeologici e monumentali, o a pulviscolo nelle campagne ormai intercluse nell’urbanizzato. Per sanare queste situazioni va prevista l’esenzione dagli oneri di urbanizzazione e di costruzione e da ogni altro carico fiscale e un premio volumetrico per tutti i trasferimenti volumetrici da queste aree sensibili ad aree di caduta più appropriate. Una misura che tuttavia non può applicarsi nel caso di edificazioni abusive non condonate.

ES: Sono fortemente perplesso. Inammissibile comunque l’esenzione da tasse e tributi. L’avvenuto condono non giustifica il trattamento comunque non differenziato tra chi ha cstruito lì per colpa del comune e chi ha costruito lì abusivamente. Prima di proporre sanatorie bisognerebbe comunque valutare i dati quantitativi e sociali del fenomeno.

9.

Lanzani: L’ultima misura introduce un criterio di compensazione tra comuni ambientalmente virtuosi e comuni che non ridimensionano le precedenti previsioni di espansioni e/o con elevati livelli di urbanizzazione. Tale criterio di perequazione territoriale dovrebbe applicarsi a una quota parte degli oneri di urbanizzazione raccolti dai comuni «consumatori di suolo» e dei trasferimenti statali verso i comuni con forte livello di urbanizzazione. Le risorse così raccolte dovrebbero essere finalizzate alle sole spese di cura del territorio non costruito dei comuni virtuosi, in parte comuni di montagna e collina, magari di grande estensione territoriale e spopolati, da cui dipende buona parte dell’equilibrio idrogeologico e del bilancio del carbonio del nostro paese.

ES: La compensazione tra comuni posti in condizioni finanziarie differenti dalle diverse politiche urbanistiche, economiche e finanziarie non è certo risolvibile con compensazioni sugli oneri di urbanizzazzioni, ma con politiche, piani, programmi e governi d’area vasta.

Quali sono gli aspetti che hanno caratterizzato maggiormente il processo di formazione del Piano Paesaggistico Regionale?

La grande visione che aveva Renato Soru in quegli anni. Questa è la cosa più stupefacente. Aveva una idea chiara, lungimirante, assolutamente corretta di cosa significa lo sviluppo reale di un territorio, di una regione, di una società.

Mi colpì enormemente il discorso che fece per l’investitura del comitato scientifico, discorso che ho quasi stenografato e poi ho trascritto. In quel discorso c’erano tutte le idee di fondo che se si fossero seguite, non solo in Sardegna ma anche nel resto del mondo, oggi non ci troveremmo nella situazione in cui ci troviamo.

Una idea del territorio, dell’ambiente, del paesaggio, della cultura, della natura e della storia, l’unica idea capace di dare spazio al futuro; quella è la cosa che mi ha colpito di più.

Mi ha colpito molto l’intelligenza e l’impegno di Renato Soru nella vicenda del Piano Paesaggistico Regionale, il fatto che abbia costituito come prima cosa un Ufficio del piano dentro l’amministrazione regionale, capace di sviluppare un enorme lavoro; che come seconda cosa abbia costruito un pool di esperti che potessero consigliarlo, dargli una mano, dare dei suggerimenti, con una forte attenzione alle diverse competenze specifiche disciplinari, senza fare attenzione a bandiere, agli schieramenti, ai distintivi.

Il lavoro è stato molto faticoso, i punti di vista erano diversi all’interno della Commissione, ma questo è stato molto utile. Un miracolo, riuscire a chiudere il Piano Paesaggistico nei diciotto mesi previsti dalla Legge; è stato un peccato non riuscire ad approvare il Piano anche per le aree interne, peraltro tecnicamente già predisposto dall’Ufficio del Piano.

L’attenzione agli ambiti costieri era assolutamente inevitabile, partire dal territorio più vulnerabile, la parte più aggredita; era inevitabile che fosse così. I sardi hanno sempre avuto timore della costa, storicamente si sono occupati poco della costa e infatti la costa è stata occupata dai pirati di oggi, dai saccheggiatori di oggi, che sono le multinazionali, le imprese di costruzioni, gli immobiliaristi, i politici di quarta tacca, fino al penultimo Presidente del Consiglio. Questi sono i nuovi pirati, coloro che si sono impadroniti delle coste.

Quindi era inevitabile partire dalle coste. Seguendo un strategia che era assolutamente ragionevole, Renato Soru ha fatto la scelta giusta. Prima una grande sciabolata con la protezione, il vincolo, la moratoria assoluta ma temporanea prevista dalla Legge 8/2004, la Legge salva coste. Quindi diciotto mesi per fare il Piano Paesaggistico; diciotto mesi erano una scommessa difficilissima, ma Soru ha vinto, abbiamo vinto.

Questa, secondo me, è in sintesi la storia e la ragione per cui sono molto felice di aver partecipato a questa esperienza. Nel mio ultimo libro, “Memorie di un urbanista”, le uniche esperienze positive degli ultimi decenni che ho raccontato, sono il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Foggia e il Piano Paesaggistico Regionale della Sardegna.

Quali sono gli aspetti positivi e negativi che rileva nel processo di formazione del Piano Paesaggistico Regionale?

A me non ha mai convinto l’art. 15 della Normativa, riguardante la disciplina transitoria del Piano. Soprattutto perché offre un ampio margine alle manipolazioni dei comuni. Sarebbe utile verificare che cosa è successo, verificare se nel 2004, 2006, 2007 le aree delle lottizzazioni fatte salve erano davvero già urbanizzate secondo le convenzioni approvate. Probabilmente ci sono altri aspetti problematici del Piano, smagliature, sbavature, ma credo che siano del tutto marginali, credo che l’impianto generale del piano regga.

Molto faticoso interpretare gli Ambiti, provo a spiegare il perché. Io credo molto nella logica della Legge Galasso e sono rimasto molto legato al ragionamento della Corte Costituzione riguardante i vincoli ricognitivi. Con le due sentenze del 1968 (la n. 55 e n. 56) il costituente dice una cosa per me molto saggia e molto corretta: il legislatore può benissimo definire gli usi e le trasformazioni consentite a tutti i beni che appartengono a una certa categoria di oggetti a “confine certo”, confini logici, dove per confine ovviamente non si intende un perimetro territoriale, ma una categoria concettuale.

L’individuazione cartografica degli oggetti riferiti a quella categoria può avvenire in una secondo momento attraverso un atto amministrativo, ma intanto il vincolo c’è, ed è insito all’appartenenza di quell’oggetto a quella particolare categoria di beni. Naturalmente per far si che la legge avesse una efficacia immediata, [la legge Galasso] li ha definiti in termini geometrici (fascia costiera dei 300 metri, fasce fluviali, quote altimetriche,...), per poi procedere con la pianificazione e l’identificazione puntuale dei singoli beni.

Il Piano Paesaggistico organizza la disciplina su due distinti livelli: gli Assetti con le diverse categorie di beni e componenti, contenente le prescrizioni, le direttive, gli indirizzi, ecc., e gli Ambiti di paesaggio che rinviano ad una pianificazione successiva, che tenga conto in modo migliore delle interrelazioni fra le diverse categorie di beni, ambientali, storico culturali, insediativi, che costituisce l’anello di congiunzione con le trasformazioni di tipo urbanistico, con l’uso del territorio, con le esigenze di organizzazione dell’habitat dell’uomo.

Questa è la parte più nuova del Piano, ma anche giuridicamente più debole; il PPR tiene aperta questa parte del Piano più sperimentale e rinvia ad una fase successiva la sua pianificazione a livello di Ambito, ma ad una condizione: che la pianificazione al livello di ambito non contraddica le norme relative alle diverse categorie di beni.

Un motivo di rischio esiste non tanto nel Piano quanto nell’indebolimento dell’impianto della copianificazione; io sono fermamente convinto che la collaborazione tra Enti, tra istituzioni dei diversi livelli sia indispensabile e in particolare l’interesse, la competenza e la responsabilità del paesaggio, in questo sono perfettamente d’accordo con Emilio Lussu , sia assolutamente compito di tutte le istituzioni della Repubblica; solidalmente però, nel senso di avere la consapevolezza che ciascuna è più permeabile a interessi diversi. Il comune è una cellula fondamentale della tutela del paesaggio, ma risponde direttamente a interessi locali, che non è detto siano i più lungimiranti; non è detto che quelli dello Stato siano più lungimiranti, ma è proprio l’equilibrio fra i diversi livelli di competenza che può rappresentare la garanzia dell’interesse collettivo.

Da questo punto di vista il fatto che si sia indebolito il peso dello Stato nella co-pianificazione, sostanzialmente limitato dal Codice ai soli beni paesaggistici, secondo me è un fatto molto grave e pericoloso; questo può avere riflessi nella pianificazione degli Ambiti.

Considera adeguate le forme di comunicazione e condivisione in merito a principi e strategie di tutela e salvaguardia paesaggistica, attivate nel corso del processo di formazione del PPR? Quali sono a suo parere gli aspetti del PPR maggiormente condivisi da parte della società locale o oggetto di maggiore conflittualità?

Non ho una conoscenza diretta approfondita; ho partecipato ad alcune assemblee in quattro province diverse, in cui ho illustrato il Piano, ma so che ci sono state moltissime altre occasione di incontro.

Io credo che la partecipazione sia un processo di maturazione molto lento e molto lungo; credo inoltre che la definizione della Convenzione del paesaggio, “il paesaggio è una determinata parte del territorio, così com’è percepita dalle popolazioni”, sia un processo non un dato raggiunto, in questo sono perfettamente d’accordo con Alberto Magnaghi: “non si dà nei territori locali una identificazione stretta fra popolazioni e luoghi: […] ‘abitanti’ significa abitanti ‘locali’ ma anche nuovi, residenti stabili, ma anche temporanei, ospiti, city users, presenze multietniche, giovani, anziani, ecc.”.

La pianificazione non può quindi ridursi alla “semplice registrazione di una percezione data, ma un processo euristico di decodificazione e ricostruzione di significati, attraverso l’apprendimento collettivo del paesaggio come bene comune”; quindi guai se la pianificazione si basa oggi sul paesaggio così come è percepito dalla popolazione, in quanto la popolazione oggi è viziata dal fatto dell’immediatezza dell’interesse.

Da pochi anni sono nati questi movimenti per la difesa del territorio, stanno crescendo, si stanno sviluppando, ma non interessano ancora l’intera popolazione; non ho più la speranza nei partiti, nelle università, ho la speranza in questi movimenti, ma è un processo lungo e faticoso e non possiamo correre il rischio che i beni del territorio vengano degradati o dilapidati.

La forza di convinzione dei Berlusconi, dei Barrack, è fortissima; hanno lavorato per far diventare egemonica una particolare ideologia per la quale lo sviluppo non è solo costruire di più, ma avere una disponibilità edificatoria più diffusa. Questo si incontra con un aspetto dell’animo sardo; la mia impressione è che in Sardegna la popolazione, in particolare nelle aree interne, non abbia nessuna intenzione di costruire nel proprio territorio, ma guai se qualcuno gli dice tu non puoi costruire.

Quale relazione pensa che ci sia fra tutela e salvaguardia del paesaggio e sviluppo socio-economico?

Dipende da cosa intendiamo per sviluppo. Sviluppo è un termine terribilmente ambiguo. Per meglio dire, è adoperato in modi diversi, e assume diversi significati. È un termine relativo, che acquista un significato positivo o negativo a seconda del fenomeno cui si riferisce. È indubbiamente positivo lo sviluppo intellettuale di una persona, lo sviluppo di una amicizia, lo sviluppo del benessere; è indubbiamente negativo lo sviluppo di una malattia, lo sviluppo di una inimicizia, lo sviluppo di un conflitto.

Nel linguaggio comune sviluppo ha perso il connotato di termine generale per indicare il miglioramento o il peggioramento di una condizione; sviluppo oggi significa quasi esclusivamente sviluppo economico, ogni altra connotazione è scomparsa. Ma quando parliamo di sviluppo economico purtroppo siamo costretti a parlare dell’economia data, dell’economia che ha come unico scopo la produzione indefinita di merci, il massimo guadagno di chi investe.

L’economia è una cosa completamente diversa; l’economia è un efficiente rapporto tra i fini e i mezzi; i fini sono alternativi, i mezzi sono limitati. Coordinare le risorse utilizzabili con i fini che ti proponi sono economia, la concezione generale dell’economia. L’equità o iniquità di una economia si valuta dai fini ai quali l’operazione economica è volta. Se i fini sono il raggiungimento del massimo guadagno di chi ha i mezzi per intervenire, allora questa è una economia iniqua. E noi purtroppo viviamo in una economia iniqua.

Uno sviluppo economico in questo contesto non può che essere uno sviluppo sbagliato e iniquo.

Quali prospettive e scenari futuri prefigura anche alla luce del dibattito attuale e dei recenti provvedimenti regionali? Cosa pensa che sia opportuno fare nell’immediato o nel prossimo futuro?

Io credo che oggi noi abbiamo due sole grandi risorse su cui poter sperare. Un accresciuto consenso sulla necessità di passare di nuovo dall’io al noi, che è espressione di questi movimenti; questo è un elemento decisivo, dopo la ventata neo liberista in cui tutto era ripiegato nell’individuo. Oggi, secondo me, la cosa più importante che questi movimenti esprimono, è la voglia di ricominciare a fare politica, lavorando insieme con la consapevolezza che gli interessi sono comuni e che quindi bisogna battersi insieme affinché siano soddisfatti.

La seconda cosa positiva che vedo è la rigidità di un buon assetto legislativo, di un buon ordinamento giuridico di fondo, espresso e rappresentato, tenendo conto delle componenti sociali in campo, dalla magistratura.

Io vedo nel popolo e nella magistratura le due forze che possono riprendere il cammino dal fondo del degrado nel quale il neo liberismo straccione all’italiana ci ha portato. Questa è l’unica speranza che vedo.

GAZZETTA AMBIENTE

Rivista sull’ambiente e il territorio anno XVII – n. 6/2011

La pianificazione del paesaggio in Sardegna

SOMMARIO

1. Introduzione, di Antonia Pasqua Recchia

2. La vicenda paesistica in Sardegna: dalla Legge Galasso all’annullamento dei PTP (1985-2003) , di Paolo Falqui

2.a. I Piani territoriali paesistici della Sardegna

2.b. L’adeguamento della pianificazione urbanistica comunale ai PTP

2.c. L’annullamento dei Piani territoriali paesistici

2.d. I prodromi della tutela paesistica: il Piano territoriale paesistico di Molentargius e Monte Urpinu

2.e. Fernando Clemente: il progetto ambientale e la pianificazione del paesaggio (di Margherita Monni)

Interviste a: Sebastiano Bitti, Stefano Deliperi

3. La formazione del Piano paesaggistico regionale: dal Decreto Soru all’approvazione del Piano (2004-2006), di Paolo Bagliani, Paolo Falqui

3.a. I riferimenti culturali e normativi del Piano paesaggistico regionale

3.b. Evoluzione del concetto di paesaggio (di Margherita Monni)

3.c. Il processo di formazione del Piano paesaggistico regionale

3.d. Principi, opzioni strategiche e struttura del Piano paesaggistico regionale

3.e. Beni e componenti di paesaggio

3.f. Gli Ambiti di paesaggio

Interviste a: Renato Soru, Gian Valerio Sanna, Edoardo Salzano, Giovanni Maciocco, Antonello Sanna, Paola Cannas, Paolo Scarpellini, Giovanni Maria Campus, Alessio Satta

4. L’attuazione del Piano paesaggistico regionale (2006-2011), di Paolo Bagliani, Paolo Falqui

4.a. Strategie e strumenti di attuazione del Piano paesaggistico regionale

4.b. L’adeguamento della pianificazione urbanistica comunale e provinciale al PPR

4.c. L’adeguamento della pianificazione e la Valutazione ambientale strategica(co-autrice Patrizia Sechi)

4.d. Paesaggio storico e identitario (di Laura Zanini)

4.e. Tutela paesaggistica e difesa del suolo (di Maurizio Costa)

4.f. Pianificazione Natura 2000 e Piano paesaggistico Regionale (di Andrea Soriga)

4.g. I Sistemi informativi territoriali e gli strumenti innovativi di supporto al governo del territorio (di Roberto Ledda)

4.h. Politiche regionali per il paesaggio

4.i. La promozione del Piano: il Progetto Itaca

4.l. Premio del paesaggio del Consiglio d’Europa

Interviste a Gabriele Asunis, Arnaldo “Bibo” Cecchini, Maria Assunta Lorrai, Enrico Corti, Franco Cuccureddu, Roberto Tola, Gianni Mura, Sandro Roggio, Corrado Zoppi

5. La revisione del Piano paesaggistico regionale (2008-2011), di Elisa Mura, Clara Pusceddu

5.a. Primo percorso partecipativo per la revisione del Piano1

5.b. Sardegna nuove idee

5.c. La Valutazione ambientale strategica del Piano paesaggistico regionale

5.d. Dal Piano casa alla legge di incentivazione del golf

5.e. Domande e risposte: la comunicazione regionale sulla revisione del PPR

Una città unica al mondo

Il conflitto a Venezia è come in molte altre città italiane: tra la difesa del bene comune e il dominio dei poteri forti. Questi ultimi, dove governa il centro destra sono smaccatamente nella sala di comando, mentre dal centro sinistra sono privilegiati nella ricerca del consenso. Nella Laguna veneziana questo conflitto ha una luce particolare, perché particolarissime sono le caratteristiche assunte dal bene comune.

Domandiamoci perché Venezia (come si dice) è una città unica al mondo. Perché è una città che ha conservato quasi intatta la sua forma: le grandi trasformazioni avvenute negli ultimi due secoli, se l’hanno indubbiamente guastata, non hanno cancellato il predominio dell’immagine progressivamente composta nel corso di un millennio. Perché è una città ancora viva: non solo un palcoscenico sul quale recitano compagnie forestiere, e neppure ridotta a parte (“centro storico”) imbalsamata o irrimediabilmente trasformata a frazione di un’area urbana più vasta, ma una città dove cittadini stabili abitano, lavorano, si incontrano, si sentono (ancora) cittadini normali di quel luogo millenario. Perché, infine, è una città che testimonia ancora, nella sua forma e nella sua vita, una capacità di governare il rapporto tra intervento dell’uomo e ambiente utilizzando la natura – la sua forma come le sue risorse, la trama del suo disegno come i suoi elementi – senza negarla, senza violentarla, senza distruggerla né degradarla.

Tensioni distruttive

Questa singolarità di Venezia l’ha resa soggetta a due grandi tensioni di trasformazione.

Da una parte, come ogni luogo eccezionalmente dotato di qualità particolari, è divenuta il bersaglio di correnti di visita e d’interesse sempre più vaste. Il turismo d’élite dei tempi di Thomas Mann si è rapidamente trasformato (soprattutto nell’ultimo mezzo secolo) in un turismo di massa sempre più devastante: sia per l’incompatibilità dei grandi numeri (oramai oltre dodici milioni di presenze all’anno) con le dimensioni limitate, spesso anguste, comunque commisurate all’uomo, della città e dei suoi spazi; sia per gli effetti che esso provoca – attraverso la mediazione dell’economia – sulla vita stessa della città. La fortissima riduzione delle case in affitto, la scomparsa dei negozi legati alla vita quotidiana, l’aumento dei prezzi al consumo, l’impoverimento della qualità dei servizi di cittadinanza, tutto ciò contribuisce a impoverire la vita sociale della città e a ridurla al rango di una qualsiasi San Marino: vuoto presepio mantenuto a vita artificiale per la rappresentazione turistica.

Dall’altra parte, la costante tendenza all’omologazione della città e del suo territorio ai modelli d’intervento caratteristici del resto del mondo. Mi riferisco soprattutto al particolarissimo rapporto che lega storicamente Venezia e il suo governo all’ambiente ambiente (alla Laguna), che è un possibile modello per uno sviluppo della società in armonia con la natura, e che negli ultimi secoli è stato sistematicamente violentato: negato nella sua autentica modernità in omaggio a una mercantile modernizzazione. Ma su questo punto conviene soffermarsi.

La Laguna

Venezia non è comprensibile e governabile senza la sua Laguna: ignorare questo sarebbe come ragionare su Roma riducendola al Colosseo. La Laguna è un sistema unico al mondo, in equilibrio instabile tra i suoi due possibili destini (un braccio di mare, o una distesa di terra), Un sistema la cui sopravvivenza è stata garantita per quasi un millennio da un governo assiduo delle acque e delle terre, orientato ad adoperare le forze della natura guidandole accortamente.

Le tre parole d’ordine, che costituivano precise direttive per i governanti della Serenissima, erano: sperimentalità, cioè studiare, verificare, monitorare, provare anche per decenni; gradualità, cioè progettare gli interventi in modo che la loro attuazione nel tempo avvenga per successione di elementi discreti; reversibilità, cioè possibilità, in ogni momento, di ripristinare la situazione preesistente. Parole d’ordine d’un ambientalismo ante litteram, rivelatrici di un’attenzione agli ecosistemi naturali e alle condizioni del loro uso da parte dell’uomo che appaiono oggi d’una modernità sconcertante: una sapienza da riscoprire.

Caduta la Serenissima, le logiche della “modernizzazione” otto-novecentesca hanno provocato un degrado costante: con opere pubbliche coerenti con la mentalità cementizia, con l’abbandono dell’attività diuturna e severa di manutenzione dell’ambiente, con l’interramento e la privatizzazione (la sottrazione alla natura e al governo pubblico) di vaste porzioni di Laguna. L’alluvione del 1966 ha svelato gli effetti del malgoverno ma ne ha prodotto altri, più devastanti: la decisione del governo nazionale (ministro Nicolazzi) di affidare a un consorzio di imprese, sostanzialmente edilizie, i compiti di studio, progettazione, sperimentazione e attuazione degli interventi sulla Laguna, sostanzialmente costituiti dai faraonici interventi alle “bocche di porto”: il cosiddetto progetto Mo.S.E. (acrostico di Modulo Sperimentale Elettromeccanico). Questo consorzio è diventato il vero padrone della città, indubbiamente il più forte dei poteri che in essa (e su di essa) agiscono. Rispetto ad esso e alle sue scelte le forze che hanno governato la città hanno dimostrato una debolezza sconcertante, a volte si sono rivelate apertamente complici.

Riprendere una vigorosa iniziativa politica contro il Mo.S.E., denunciare i suoi primi devastanti effetti, documentarli sollecitando una presa di coscienza dell’opinione pubblica nazionale e internazionale (assolutamente disinformata della reale consistenza dei problemi e della pericolosità delle soluzioni in atto), sostenere le iniziative delle associazioni ambientaliste che tentano di contrastare i malanni, lanciare iniziative che rendano esplicita la possibilità di vivere la ricchezza paesaggistica, ambientale, culturale della Laguna in modo compatibile con la sua sopravvivenza, sperimentare in questo la possibilità di ricostruire un rapporto equilibrato tra uomo e ambiente: questo dovrebbe essere l’impegno centrale di un governo intelligente di Venezia, che voglia sottrarre il bene comune della città e del suo ambiente al dominio dei poteri forti, per conservarlo intatto nell’interesse dell’umanità.

Il turismo e la casa

Turismo e residenza sono due aspetti, strettamente connessi, della vita sociale della città e, oggi, del suo degrado. Per combattere quest’ultimo è in primo luogo necessaria una politica del turismo che lo renda compatibile con la città (e quindi capace di contribuire alla ricchezza dei suoi cittadini ma non distruttivo della risorsa di cui si nutre). Ciò richiede la definizione e l’attuazione di una rigorosa politica di “razionamento programmato dell’offerta turistica”, quale fu proposta ai tempi della battaglia contro l’Expo. Si tratta di una linea che è indispensabile praticare per contenere un’invasione ormai insostenibile. Per farlo, bisognerebbe cominciare a rinunciare a tutti quegli eventi e quelle opere che accrescono il richiamo di Venezia sulle correnti turistiche: dai “grandi eventi” (la città seppe opporsi all’offerta di un Expo, e vincere la sfida), dall’apertura a ogni iniziativa commerciale che si proponga di utilizzare lo scenario offerto dalla città per celebrare i suoi prodotti, dall’ipotesi folle di una metropolitana sublagunare che accrescerebbe l’afflusso di massa dei visitatori.

La difesa della residenzialità “normale” aveva costituito a Venezia una linea costante delle forze politiche della sinistra e del centro, dagli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta. La chiave di volta era stata quella di privilegiare l’intervento pubblico, in particolare nel campo delle nuove costruzioni, di arricchire il patrimonio abitativo pubblico, di difendere la residenza contro ogni cambiamento delle destinazioni d’uso. In quegli anni, tutti i partiti hanno rigorosamente tenuto fede all’impegno ”neppure una nuova costruzione per abitazioni a Venezia che non sia pubblica e destinata ai veneziani”.

A partire dagli anni Novanta il governo cittadino ha operato un drastico mutamento di rotta. Non si è fatto nulla per la programmazione del turismo, cedendo invece a ogni iniziativa di commercializzazione, e anzi stimolandole: dalle esposizioni di automobili nel “luogo sacro” di piazza San Marco alla proposta di una metropolitana sublagunare. Si è condotta una politica della casa pienamente coerente con quella sintetizzato nello slogan “meno Stato e più mercato”, che si manifestava in quegli anni nella sinistra a livello nazionale. E si sono frettolosamente smantellati tutti gli strumenti che avrebbero consentito di controllare le destinazioni d’uso: dalla revoca della delibera comunale di recepimento della legge nazionale sui vincoli alle tipologie di attività commerciali e assimilabili nei centri storici, al piano regolatore della città storica, profondamente snaturato proprio sulla sua capacità di controllo delle utilizzazioni degli spazi edilizi.

Controllare l’uso degli spazi, per finalizzarne l’utilizzazione all’interesse comune: questo è ciò che la Repubblica Serenissima ha saputo fare per secoli, e che ha prodotto il miracolo espresso nel nome di Venezia. Riprendere nelle proprie mani il controllo, contrastando i reiterati tentativi di adoperare privatizzazioni e commercializzazioni come motori di uno sviluppo misurato sul metro esclusivo della rendita: questa è l’unica strada che può consentire al mondo di utilizzare il laboratorio che la città e la sua Laguna possono diventare, nel faticoso tentativo della civiltà di recuperare, dopo i secoli dell’illusione sulle “magnifiche sorti e progressive” d’uno sviluppo affidato alla sfida tecnologica alla natura, gli insegnamenti di una raffinata esperienza di collaborazione tra storia e natura, tra sviluppo e ambiente.

Qui il sommario del numero del mensile Carta etc. n. 1 luglio 2005

Qui un saggio su

“Spazi pubblici: declino, difesa, riconquista”. Questo è il titolo della quinta edizione della scuola estiva di pianificazione - Scuola di eddyburg, e di questo libro. Ogni volta siamo partiti dai quattro giorni di lezioni, incontri, dialoghi tra docenti e studenti attorno a un tema e poi, dalle cose che sono state dette, abbiamo cercato di ricavare un libro. Con molte connessioni tra l’uno e l’altro elemento, ma anche con una certa autonomia dell’uno e dell’altro. Così anche in questo libro. Fabrizio Bottini ne ha spiegato la logica e le ragioni, io cercherò di trarne le conclusioni dal punto di vista della scuola e del processo formativo di cui la V edizione è un tassello importante.

Quest’anno il tema era di particolarmente rilievo. Siamo infatti convinti che lo spazio pubblico, la città e la società siano cose strettamente intrecciate. Anzi, che lo spazio pubblico sia proprio la cerniera che tiene stretti la città e la società: i due momenti essenziali dell’attenzione di ogni urbanista e studioso della città – come di ogni cittadino. Una cerniera cui bisogna porre particolare attenzione in questo momento: in questi very hard times, tempi davvero difficili, per ricordare Charles Dickens.

1. LA CITTÀ NASCE CON LO SPAZIO PUBBLICO

Nel suo contributo Mauro Baioni, il direttore della Scuola, cita una frase dell’architetto danese Jan Gehl: “First life, then spaces, then buildings – the other way around never works”. Questa idea esprime bene il conflitto tra ciò che, nel nostro paese, dovrebbe essere e ciò che invece è. La città contemporanea, quella che vediamo crescere come un blob sotto i nostri occhi inglobando e divorando ogni preesistenza, esprime proprio “the other way around”. La città della storia, quella per cui è nato il mestiere dell’urbanista, quella che in altri più fortunati paesi si tenta ancora di regolare e trasformare, è espressa da quella sequenza: prima la vita, la società di cui la città è strumento; poi gli spazi dove la società può vivere, esprimersi, regolare i propri conflitti, poi le altre costruzioni.

La città (questa è stata la premessa della nostra scuola) nasce con gli spazi pubblici. Nasce quando l’uomo, nel suo sforzo di costruire la sua “nicchia ecologica”, ha bisogno di realizzare spazi e luoghi finalizzati alla soddisfazione di esigenze comuni. La specie umana ha generato la città precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, è nata l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che potessero servire l’insieme della società (Salzano 1969, 2004).

La piazza, archetipo dello spazio pubblico, è il luogo dell’incontro tra le persone (i ricchi e i poveri, i cittadini e i foresti, i proprietari e i proletari, gli adulti e i bambini). É il luogo e il simbolo della libertà, l’emblema dell’antico brocardo medioevale Stadtluft macht frei (ma “l’aria della città rende ancora liberi?” - Gibelli, infra). É l’espressione della mixitè, della mescolanza di ceti, età, mestieri, appartenenze diverse (qualcosa che oggi dobbiamo difendere contro le segregazioni e i recinti, che dobbiamo tutelare come nella natura tentiamo di proteggere la biodiversità).

É nella piazza che i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità aperta. É lì che si fa “pratica di cittadinanza (Mazzette, infra). Lì celebrano i riti religiosi, s’incontrano e scambiano informazioni e sentimenti, cercano e offrono lavoro, accorrono quando c’ è un evento importante per la città. E il ruolo che svolge la piazza è sempre correlato alle condizioni della società, al tempo e al contesto cui sono riferiti: un allarme o una festa, la celebrazione di una vittoria o di una festa religiosa, la pronuncia di un giudizio o una sanguinosa esecuzione.

La piazza non è solo un luogo aperto, fine a se stesso. Costituisce lo spazio sul quale affacciano gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Il suo ruolo sarebbe sterile se non fosse parte integrante del sistema dei luoghi ordinati al “consumo comune” dello scambio e del giudizio, della celebrazione dei valori comuni e del governo della polis.

Dall’area delimitata della piazza e del sistema degli spazi, aperti e costruiti, d’uso collettivo, il concetto di spazio pubblico si allarga. Anche qualcos’altro è pubblico, collettivo, comune: precisamente il modo in cui i luoghi peculiari al privato (la casa, il capannone, la bottega) vengono ordinati. Sono pubbliche, insomma, anche le regole che guidano l’intervento delle famiglie, degli abitanti, delle imprese. Dallo spazio pubblico passiamo decisamente alla sfera pubblica, per adoperare un termine sul quale si è ragionato in questo libro (Boniburini, Mazzette, Sebastiani).

2. SPAZIO PUBBLICO E CITTÀ DEL WELFARE

I due effetti del capitalismo

Così la città nella storia. La dinamica del rapporto tra dimensione privata e dimensione pubblica, tra momento individuale e momento collettivo, e tra spazio privato e spazio pubblico, è mutata nel tempo. Con il trionfo del sistema capitalistico-borghese ha assunto una configurazione particolarmente rilevante per la città, in negativo e in positivo .

Il prevalere dell’individualismo, tipico di quel sistema, ha portato a conseguenze negative, tali da indebolire la sfera pubblica: sia sul versante dell’ideologia, dove ha condotto all’affievolirsi dei valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza, sia sul versante della struttura, dove ha condotto alla frammentazione e privatizzazione della proprietà del suolo urbano, minando la base della capacità regolativa della polis.

Ma dall’altro lato le caratteristiche proprie della produzione capitalistica hanno provocato effetti di segno opposto. L’inclusione di tutti i portatori di forza lavoro - i servi sfuggiti alla miseria delle campagne e accorsi alla città, la cui aria li ha resi liberi - ha posto le premesse materiali all’allargamento della democrazia. Contemporaneamente il conflitto di classe proprio di quel sistema ha condotto al formarsi di una nuova solidarietà nel campo del lavoro. Si può dire che si è indebolita la solidarietà cittadina, ma è certamente nata e irrobustita la solidarietà di fabbrica e da questa, progressivamente, ha germogliato una nuova domanda di spazio pubblico.

Dal movimento culturale, sociale e politico scaturito dalla solidarietà di fabbrica è nata, nel XIX secolo, la spinta a ottenere il soddisfacimento di bisogni antichi negati dal prevalere del nuovo sistema e, soprattutto, di nuovi bisogni nati dall’affermarsi della democrazia. Attraverso le loro azioni e le loro rappresentanze sono entrate nel campo dei decisori le grandi masse fino allora escluse. L’incontro tra la pressione organizzata del mondo del lavoro e il pensiero critico e costruttivo degli intellettuali è riuscito, nel secolo successivo, a incidere in modo consistente sull’allargamento dello spazio pubblico, nella città e nella società. Si è visto nell’affermarsi del diritto socialmente garantito all’uso di un alloggio adeguato alle necessità, e alla capacità di spesa, delle famiglie degli addetti alla produzione. E si è visto nella nascita, e poi nel consolidamento, di servizi che soddisfano collettivamente alcuni dei bisogni che nel passato erano svolti nell’ambito familiare. Certo, ciò è avvenuto solo nell’ambito di quella parte del mondo chiusa nel recinto della civiltà atlantica, escludendo da ogni privilegio i paesi esterni a quel recinto, esportando in essi le proprie contraddizioni e saccheggiandone le risorse.

Gli “standard urbanistici”

In Italia le condizioni per la conquista degli elementi essenziali del welfare urbano si sono raggiunte negli anni Sessanta del secolo scorso, e si sono progressivamente affermate nel decennio successivo nel vivo di un conflitto molto aspro. Si è ottenuto in particolare il diritto di ogni abitante della città ad avere almeno una determinata quantità (“standard”) di spazi pubblici e d’uso pubblico, nell’ambito dei piani urbanistici. Un risultato “solo” quantitativo, hanno affermato alcuni dimenticando che “la contrapposizione tra quantità e qualità è artificiosa” (Baioni infra), e minimizzando invece la grande conquista raggiunta sul terreno del “diritto alla città”. Un risultato che ha avuto effetti positivi dove è stato applicato come strumento per migliorare le condizioni di vita in un regime di equità e di difesa delle categorie più deboli, come testimonia l’esperienza illustrata da alcuni urbanisti dell’Emilia Romagna (Malossi infra).

Le condizioni sociali e politiche che consentirono di raggiungere quella conquista, l’intreccio tra azione sociale, pensiero esperto e sintesi politica che fu necessario, e la preziosa sostanza del patrimonio di diritti sociali e di consolidamento della sfera pubblica che in Italia si raggiunsero in quei decenni sono emersi con chiarezza nel dialogo a più voci con Marisa Rodano, Oscar Mancini e Vezio De Lucia, raccolto e rielaborato in questo libro (Salzano infra). É un dialogo nel quale si raccontano esperienze, vicende, riflessioni che gettano una luce del tutto controcorrente su anni (la sesta e la settima decade del XX secolo) che trasformarono profondamente la società italiana e la dotarono di strumenti essenziali per un ulteriore progresso: strumenti che da allora si tentò in tutti i modi di cancellare, e che costituiscono ancora oggi le trincee della resistenza e i capisaldi di una possibile ripresa di un processo riformatore.

Non si tratta solo degli standard urbanistici, della politica della casa (con tutto l’arco dei provvedimenti che vanno dalla legge 167/1962 fino alla legge per l’equo canone), della generalizzazione della pianificazione urbanistica. Questi risultati si aggiungono e s’inquadrano a quelli, rilevantissimi, ottenuti su altri terreni: dallo statuto dei diritti dei lavoratori al servizio sanitario nazionale, dalla libertà di interrompere la gravidanza all’introduzione degli asili nido e delle scuole materne, dal voto ai diciottenni all’estensione dell’obbligo scolastico. Occorre riflettere oggi soprattutto sulle condizioni che, allora, resero possibili i risultati positivi.

Illuminante per il nostro futuro è ricordare il ruolo allora svolto dalle componenti più attive della società civile: il movimento per l’emancipazione della donna, negli anni dal 1962 al 1968, le lotte studentesche e quelle operaie dopo il 1968. É significativa la testimonianza del modo in cui nuove esigenze sociali (la liberazione dal lavoro casalingo, la conquista del diritto ad abitare la città) abbiano trovato negli esperti le parole mediante le quali esprimersi, nella politica e nelle istituzioni gli strumenti per tradurre le parole in norme e politiche.

3. IL DECLINO DELLO SPAZIO PUBBLICO

Oggi la situazione della città e l’orientamento delle politiche urbane sono radicalmente diversi da quelle che la storia della città e della società ci suggeriscono. Tutte le riflessioni e le testimonianze lo confermano: il carattere pubblico della città è profondamente in crisi, è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, o attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), oppure attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.

Gli standard urbanistici sono in decadenza, e se ne propone addirittura l’abolizione o la “regionalizzazione”: come se il diritto di disporre di scuole, parchi, piazze, mercati, attrezzature sanitarie, biblioteche, palestre fosse diverso per gli abitanti della Puglia e quelli del Veneto. Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario originariamente destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche, gli “oneri di urbanizzazione”, viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.

Si sono svuotate le piazze reali, caratterizzate dall’essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana. E si è fatto invece ogni sforzo per attirare le persone nei “non luoghi” tramutati in “superluoghi”: le grandi strutture esplicitamente finalizzate al consumo (i centri commerciali, i mall, gli outlet), oppure quelle nate per altri ruoli (aeroporti, stazioni ferroviarie, ospedali, stadi) e “arricchite” da funzioni commerciali. Strutture in tutti i casi caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’obbligo implicito di ridurre l’ interesse del frequentatore all’ acquisto di merci (per di più sempre più superflue).

Ha certamente aiutato in questa operazione, contribuendo alla generale decadenza della città e della società, il diffondersi di quelle “variegate forme di dispersione urbana” (Mazzette infra) che sempre più caratterizzano l’habitat dell’uomo. Uno sprawl in gran parte causato dall’abbandono della pianificazione, dalle distorsioni di un mercato immobiliare deformato dalla rendita urbana, dalla costruzione di nuovi immaginari collettivi creati dalla propaganda (Somma infra). É un tema che, come Scuola di eddyburg, avevamo esplorato nella nostra prima sessione, sottolineando un problema grave fino allora ignorato dalla cultura urbanistica ufficiale, e naturalmente dalla politica dei partiti (Gibelli-Salzano 2006).

In questa operazione di mutazione delle basilari regole di vita della città il decisore effettivo – chi aveva il potere di utilizzare la città come strumento per accrescere la sua ricchezza - ha saputo cogliere strumentalmente quanto del passato permane nell’immaginario collettivo, scimmiottandone le forme. Si è finito così “per produrre e perfezionare spazi che forse assomigliano vagamente a un modello urbano, ma certamente nulla hanno a che spartire coi comuni processi di conflitto, sedimentazione e consenso collettivo che caratterizzano l’evoluzione della città” (Bottini2 infra). Si è ridotto il cittadino a cliente, il portatore di diritti a portatore di carta di credito.

Ci siamo ovviamente domandati perché tutto questo sia successo. La ragione di fondo sta nel mutato rapporto tra uomo e società. L’aspetto centrale è la rottura dell’equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. É quell’equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’abitazione.

In effetti, negli ultimi decenni è giunto a un punto di svolta un processo avviato molti secoli fa. Mentre da un lato, infrangendo i tabù dell’autoritarismo e del controllo sociale, si sono liberate le energie derivanti dalla piena esplicazione dei diritti individuali, dall’altro lato si è smarrita la consapevolezza dell’essenzialità, per lo stesso equilibrio della persona, della dimensione sociale.

Contemporaneamente, l’uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.

Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’economia, si è appiattita sul breve periodo, è divenuta priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.

Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città. Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne è una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’ è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite. La tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune che possa dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’ assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti. La progressiva riduzione degli spazi di vita collettiva e di partecipazione sociale, soprattutto a partire da due momenti: quando l’obiettivo della “governabilità” è diventato dominante rispetto a quello della “partecipazione”, e si sono impoveriti alcuni decisivi momenti della democrazia nell’ ambito di tutte le istituzioni, dallo stato ai comuni; quando il crollo delle Twin Towers e il riemergere, in Italia, della xenofobia e del razzismo hanno fornito la giustificazione – o l’ alibi – alla pratica della priorità assoluta della sicurezza su qualunque altro bisogno, esigenza, necessità sociale.

Nei confronti degli spazi pubblici si produce quindi una devastazione che ne colpisce l’uno e l’altro versante: la loro consistenza fisica e la loro consistenza sociale. Si riducono sempre di più gli spazi pubblici nei quali vivere insieme, come si riducono gli spazi, reali e virtuali, per la discussione, la partecipazione, la critica o la condivisione della politica.

4. TENSIONI POSITIVE VERSO LA RICONQUISTA

L’analisi della realtà rivela anche, nell’odierna città del neoliberismo, tensioni e pulsioni che reagiscono al maistream e attivano pratiche nuove non solo di difesa dello spazio pubblico, ma di conquista di nuovi spazi. É il caso di numerose storie di formazione di “spazi pubblici non intenzionali” (Boniburini infra), nelle quali si esprimono sollecitazioni diverse, non sempre complementari: l’insopprimibile tendenza, soprattutto da parte dei gruppi sociali che la città neoliberista tende a emarginare, di trovare i luoghi nei quali con-vivere, riconoscersi, difendersi, passare dall’Io a un primo livello del Noi; la ricerca di alternative al fatto che la maggior parte degli spazi è stata chiusa perché adibita a specifiche ed esclusive funzioni settoriali (Sebastiani infra); l’aspirazione di uno spazio loose “uno spazio sciolto, non imbrigliato, libero, indefinito e in quanto tale passibile di una pressoché indefinita varietà di significato e usi” (Forni infra). Ed è il caso delle esperienze, che sono emerse soprattutto nel convegno conclusivo della Scuola e alimentano la terza parte di questo libro, dove sono raccontate le attività di gruppi di cittadini attiva: comitati sorti spontaneamente, o strutture consolidate che esprimono un rinnovato impegno nelle pratiche territoriali. Ne vogliamo ricordare due, particolarmente emblematiche: la conquista, a Caserta, di un ampio spazio patrimonialmente pubblico destinato ad attività militari, rivendicato e conquistato per riempire, almeno in parte, il pauroso deficit di standard urbanistici (Caiola infra); la difesa, a Giulianova (TE), di una piazza che l’amministrazione comunale voleva, per fare cassa, vendere a privati (Arboretti infra). Da entrambe le esperienze è nata la formazione di liste civiche, che hanno conquistato un seggio nel consiglio comunale e hanno così guadagnato nuove armi per la battaglia di difesa e riconquista dello spazio pubblico.

Esiste insomma nella società - a saperla guardare con intelligenze attente, libere dalle angustie dei recinti disciplinari, aperte alle voci che si esprimono con linguaggi inconsueti - una tensione verso la riconquista di spazi pubblici nei quali esercitare pratiche di cambiamento. Spazi pubblici da difendere, o riconquistare, o conquistare ex novo per avviare un percorso di ricostruzione della città – e della società.

5. CHE FARE PER RICONQUISTARE?

Non meravigli il linguaggio militare che in questa narrazione è spesso adoperato. Una “guerra per lo spazio pubblico” questo è l’evento in corso, ed è per questo che bisogna attrezzarsi. Dobbiamo imparare: chi ha scatenato l’offensiva per impadronirsi dello spazio pubblico adopera la propaganda come uno degli strumenti principali, perciò che chi vince la battaglia dell’informazione vince la guerra” (Somma infra). L’informazione è il primo passo della formazione. Non è infatti dall’informazione mediatica che è partita quella trasformazione dei cervelli che ha ridotto l’Essere all’Apparire magistralmente illustrata dal film di Eric Gandini, Videocracy?

Di fronte all’ideologia corrente, che domina nello spazio pubblico usurpato dalla comunicazione mediatica, la costruzione di immaginari e pratiche contro-egemonici sta forse già iniziando nelle diverse azioni che hanno per oggetto lo spazio pubblico (Boniburini infra). I primi materiali che abbiamo raccolto in questo libro sono l’inizio di un lavoro di documentazione che è necessario proseguire, e in cui eddyburg.it vuole impegnarsi. Ma accanto a questo è necessario utilizzare anche un altro percorso: occorre partire anche dalla riconquista della storia.

Un grave danno è stato provocato alla coscienza civile dell’Italia da quella rimozione della memoria che è stata compiuta negli ultimi decenni. Marcuse affermava che “il ricordare è un atto sovversivo, perché evidenzia il distacco tra il reale e il possibile (Valentini, infra). Cancellare il passato, la nostra storia, è particolarmente grave se ci si propone di costruire un futuro diverso dal presente, come oggi è indispensabile. Quindi per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, delle nostre radici, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile.

Come tener conto oggi dei suggerimenti della storia, senza appiattirsi sulla stanca ripetizione del passato o sull’ingannevole nebbia della nostalgia? Occorre in primo luogo individuare i nuovi bisogni che nascono dalla società di oggi, e che esprimono la necessità di una società nuova. Con quali gambe, però, camminare nella direzione giusta?

Ricostruire la politica

É alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime, per il tramite di quelle strutture organizzative che sono i partiti – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo, un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Oggi non si può fare affidamento alla politica dei partiti. Nessuno dei partiti esistenti ha le carte in regola. Oggi occorre ricostruire la politica. Per farlo bisogna lavorare su due fronti, guardare a due tipi di interlocutori.

In primo luogo – già ne abbiamo accennato - i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.

Il lavoro molecolare dei gruppi di cittadinanza attiva costituisce un modo di ricostituire la politica che è già in atto. É già “politica”, nel senso proprio di volontà e, non raramente, di capacità di partecipare al governo della cosa pubblica. É già politica, se questa è “la pretesa e la capacità di definire collettivamente i beni comuni e di agire d’intesa per produrli” (Sebastiani infra). Confessava del resto, agli albori del Sessantotto, un allievo della Scuola di Barbiana: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica” (Milani1967:14) .

Il lavoro

Il quadro temporale nell’ambito del quale ci muoviamo sollecita anch’esso in questa direzione. La crisi che investe l’intero mondo non è solo una crisi finanziaria: è una crisi di sistema, nella quale disastro dell’economia data, disastro del pianeta Terra e disastro della democrazia sinistramente si congiungono, e devono essere affrontati insieme (Mancini infra). Il disagio che nasce dal degrado dell’ambiente naturale e di quello antropizzato (di cui la città è componente essenziale) si lega strettamente a quello che nasce dalla condizione sempre più umiliata che viene fatta al lavoro, “lo strumento, peculiarmente umano, attraverso cui l’uomo raggiunge i suoi fini” (Napoleoni 1980:4) e mediante il quale può conoscere il mondo e trasformarlo. Si può dire che il lavoro è anch’esso un bene comune, oggi pesantemente minacciato. Hanno minato gli strumenti che nel corso di qualche secolo erano stati costruiti per difenderlo: addirittura il diritto di sciopero – l’unica arma di cui i possessori della forza lavoro dispongono per contrattare, con i possessori del capitale “morto”, le condizioni del loro sfruttamento. Ma prima ancora la difesa del lavoro era stata indebolita dalla sua precarizzazione, dalla dispersione sul territorio, dalla tendenziale liquidazione di quella condizione originaria per difesa di classe che è la solidarietà di fabbrica. Il valore della “contrattazione territoriale”, rilanciata nel 2004 dalle Camere del lavoro e oggi rientrata al centro dell’attenzione della Cgil costituisce un’importante ragione della collaborazione tra sindacato dei lavoratori e persone che si aggregano attorno a eddyburg e alla Scuola, come testimonia questo libro, e le altre attività condotte congiuntamente da Cgil ed eddyburg

Le istituzioni

L’altro interlocutore essenziale di un’azione volta a difendere e riconquistare lo spazio pubblico è costituito dalle istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, dalla città, alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.

Nel confronto con le istituzioni locali, e nel tentativo di spingerle a un’azione virtuosa, l’ostacolo maggiore che si incontrerà sarà costituita dal profondo dissesto delle finanze locali, provocato dalla strozzatura operata dai poteri centrali, nella logica – ahimè bipartisan - del “privato è bello” e del “meno stato e più mercato”. A questo si aggiungono i perversi effetti della teoria secondo la quale tra le città deve esercitarsi la “competizione”, anzichè la pratica, storicamente rivelatasi vincente, della collaborazione e cooperazione, e del funzionamento “a rete”. Anche con gli amministratori, lo sforzo deve essere diretto a convincerli delle ragioni più profonde delle scelte, che è nel rifiuto dei modelli di comportamento della “società opulenta”.

Gli intellettuali

Un compito grande spetta agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’azione. Gli intellettuali sono depositari d’un sapere che devono amministrare al servizio della società. Devono saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta.

Devono innanzitutto demistificare: rivelare in che modo le scelte sul territorio ordinate a fini diversi da quello del benessere dei suoi abitanti siano perniciose. In questo senso l’azione svolta da esperti che militano nei movimenti sociali è particolarmente utile. In questo libro se ne registrano buoni esempi (Lironi infra). E devono proporre. A questo proposito è utile ricordare che oggi più che mai se le dinamiche di mescolanza, inclusione, coesione sociale devono riacquistare rilevanza, e contribuire alla ripresa della democrazia e della civiltà, è essenziale che continuino “a esserci spazi pubblici accessibili e liberi da impedimenti” (Mazzette infra).

Aiuta in questa direzione il confronto con le esperienze di altri paesi europei. Quelle che conosciamo testimoniano come le istituzioni, là dove la politica assume la questione dello spazio pubblico come tema centrale, possono fare molto, sia a livello statale che a livello locale.

Vi sono due insiemi di aree che vanno tutelate e aperte all’uso pubblico: quelle necessarie per lo svolgimento di determinate funzioni urbane, e quelle che meritano la tutela e l’accessibilità pubblica per le loro caratteristiche intrinseche. Due insiemi, che possono anche coincidere in talune parti, in uno dei quali prevale l’esigenza della funzionalità del servizio reso, nell’altro la tutela e la fruizione responsabile delle qualità intrinseche.

In numerosi dei testi qui raccolti emergono indicazioni di lavoro utili ad avviare un cammino nuovo rinnovando e generalizzando itinerari già esplorati: “suggerimenti di buone pratiche” che possono essere applicate a differenti contesti (Gibelli infra), non dimenticando che il territorio è un sistema e che il governo delle sue trasformazioni spetta alla mano pubblica, e che perciò è essenziale riportare gli spazi pubblici all’interno della pianificazione: anzi, porli al suo centro (Baioni infra).

Parlare di pianificazione della città e del territorio oggi può apparire – ed è – singolarmente controcorrente. Come lo è del resto parlare di difesa e riconquista dello spazio pubblico, di riscatto del (e non “dal”) lavoro, di rivendicazione di un Noi divorato dall’individualismo. Ma la corrente oggi egemonica, se non viene arrestata, conduce alla morte dell’umanità: di quella che è in ciascuno di noi, come di quella che popola il pianeta Terra.

Eravamo pochi,

oggi siamo molti

Eravamo pochi, nel 2005, quando cominciammo a documentare e denunciare l’irrazionalità devastante del consumo di suolo in Italia. Di quei pochi, una parte si limitava a studiare il fenomeno nelle sue caratteristiche qualitative e ad analizzarlo dal punto di vista della possibile riqualificazione, riordinamento, riorganizzazione delle vaste estensioni di campagna invase dalla “diffusione urbana”. Nessuno, in Italia, si preoccupava di quantificare (di conoscere esattamente nelle sue dimensioni articolazioni, cause) il fenomeno, né tanto meno di combatterlo . Quando con alcuni amici organizzammo la prima edizione della Scuola di eddyburg questi due elementi ci preoccuparono molto. La nostra osservazione del fenomeno da una pluralità di postazioni locali e disciplinari, e le prime analisi sui loro costi, ci inducevano a dare una valutazione molto preoccupata delle conseguenze territoriali, sociali, economiche, culturali della sua espansione.

Riuscimmo a creare una certa agitazione sul problema, con l’aiuto soprattutto di due elementi: il successo che ebbe, da parte di alcuni gruppi politici, un testo legislativo idoneo a combattere il fenomeno che elaborammo ; la contemporanea reazione al fenomeno da parte di alcune associazioni protezionistiche (soprattutto Italia Nostra), di un certo numero di piccole amministrazioni locali, e di numerosi gruppi di cittadinanza attiva, soprattutto in Piemonte e in Lombardia. Questa ultime due componenti diedero vita a un movimento (Stop al consumo di territorio) che ebbe un inaspettato successo di adesioni.

Evidentemente, nonostante il lungo letargo della cultura urbanistica ufficiale (l’ultima ricerca significativa era stata quella coordinata da Giovanni Astengo , ItUrb80, svolta nella metà degli anni Ottanta), una certa sensibilità alla questione era maturata un po’ dovunque. Prova ne sia che, fin da allora, il “contenimento del consumo di suolo” è diventato un elemento della litania con la quale il politichese (la lingua dei politicanti) rende omaggio alla idee suscettibili di colpire l’opinione pubblica e, all’atto stesso, se ne impadronisce e le deforma utilizzandole ai propri fini. Molti, che oggi invocano quel contenimento, mentre non praticano né attuano politiche davvero capaci di ottenerlo, lo utilizzano come alibi per proporre “densificazioni” delle città esistenti senza nessuna preoccupazione per le reali necessità degli incrementi volumetrici.

La città della rendita

Caratteristica strutturale determinante del periodo che sta dietro le nostre spalle è il peso straordinario che ha avuto – nel sistema economico e nelle politiche territoriali – l’acquisizione privata delle rendite: sia quelle finanziarie che quelle immobiliari (ricordo che gli “immobili” comprendono sia le “aree” che gli “edifici”, talché la rendita immobiliare comprende la fondiaria e l’edilizia). Se volessimo utilizzare una definizione coerente con quella che Luciano Gallino dà all’attuale fase del sistema economico, “finanzcapitalismo” , dovremmo parlare di “urbanistica della rendita”. Questa è stata splendidamente descritta da Walter Tocci nel suo saggio su “Il trionfo della rendita” . A me sembra che tutte le tensioni che attualmente agitano la società civile e hanno generato i movimenti antagonisti nei territori italiani siano riconducibili al conflitto tra due usi alternativi del territorio: quelli che ho definito “città della rendita” e “città dei cittadini” .

La crisi finanziaria esplosa nel 2008 ha modificato in modo consistente il quadro, almeno per quanto riguarda i suoi aspetti di medio periodo. C’è da chiedersi se il disastro che è avvenuto negli scorsi decenni potrà proseguire negli stessi modi. Sembra ragionevole ipotizzare che i prossimi anni saranno invece caratterizzati da bassa domanda privata di alloggi e attività produttive, da scarse risorse pubbliche, e da un’offerta di spazi sovrabbondante e priva (per caratteristiche e localizzazione) di adeguati requisiti per qualsiasi utilizzazione. Insomma, il motore che sospingeva il consumo di suolo derivante dalla crescita della città (delle aree urbanizzate e urbanizzabili), non è forse entrato in stallo? Se così fosse, allora si porrebbe come primario il problema di come recuperare (socialmente, morfologicamente e paesaggisticamente, economicamente, funzionalmente) i territori devastati dallo sprawl.

Guardiamo il consumo di suolo

dalla campagna

Parallelamente si sta sviluppando però un altro fenomeno: le trasformazioni, patrimoniali e d’uso, dei terreni rurali. Consumo di suolo e riduzione del suolo agricolo sono certamente due fenomeni differenti per quantità, qualità, cause ed effetti. La riduzione del terreno agricolo dipende anche dall’aumento dei terreni rinaturalizzati e degli incolti nonché (nei dati delle analisi quantitative spesso utilizzate) dalla scomparsa di aziende agricole censite come tali . Se guardiamo alle trasformazioni dell’uso del suolo dalla città, allora la questione centrale è il devastante “sguaiato sdraiarsi della città sulla campagna”. Se le guardiamo invece a partire dal territorio rurale allora nascono preoccupazioni diverse, ma non meno rilevanti.

Nel territorio lo sviluppo capitalistico provoca infatti, in modo sempre più esteso: il land grabbing, l’accaparramento di suolo di una determinata comunità per costituire riserve alimentari per la nazione acquirente ; la pratica, tipica del colonialismo otto-novecentesco, della sostituzione delle colture tradizionali, legate a fabbisogni alimentari di prossimità; la più recente espansione dei suoli utilizzati la produzione di fonti energie alternative a quelle esauribili; infine, la specializzazione mercantile delle produzioni agricole: si produce là dove i costi di produzione (a partire dal lavoro) sono minori.

Le conseguenze di questi fenomeni sono di diverso ordine. Aumenta l dipendenza del consumo di beni alimentari dai luoghi della produzione internazionale, il che comporta a sua volta un consistente aumento del consumo energetico dovuto al confezionamento e al trasporto. L’omogeneizzazione dei gusti dei prodotti industriali comporta la scomparsa delle caratteristiche organolettiche dei beni; con la conseguenza ulteriore che gradi risorse vengono impiegate per la ricerca di “sapori” finti da aggiungere a merci rese omogenee dalla produzione industriale per “aggiustarne” il sapore e l’odore. Vengono distrutte le economie locali legate alle produzioni legate al territorio, e con esse le culture culinarie, profondamente radicate nella storia e nel paesaggio. Le fonti dell’alimentazione (le condizioni della produzione degli alimenti) vengono sottratte alla conoscenza diretta dei consumatori e affidate alle alchimie (e alle bugie) delle etichette e della propaganda.

Infine, last but not least, i prezzi dell’alimentazione sono sempre meno controllati dal rapporto tra produttore e consumatore. Rispetto ai rapporti produzione/consumo delle economie a filiera corta il prezzo è in costante aumento, grazie anche alle sempre più ingenti spese (in aggiunta al costo della terra e a quello del lavoro) impiegate per adulterare, confezionare, trasportare il prodotto e condizionare il consumatore. Con l’ulteriore conseguenza di contribuire all’aumento della povertà e, là dove la povertà giunge a determinati livelli, alla minaccia alla stessa sussistenza fisica. Perché dell’ultimo modello di telefonino la persona può fare a meno, del cibo no.

Che fare?

Per comprendere che cosa fare oggi credo che si debba partire da un principio. La terra, così come la natura e la storia l’hanno consegnata a noi, è un patrimonio che va amministrato con la massima saggezza sapendo che è un valore, che è limitata, che non è riproducibile, e che senza di essa la vita dell’uomo sarebbe impossibile.

Questo principio deve condizionare ogni azione di trasformazione. La sottrazione di un solo metro quadrato di suolo ai ritmi della natura è un prezzo, che può essere pagato solo se è strettamente necessario alla società umana nel suo insieme e se non ci sono modi alternativi di soddisfare l’esigenza che chiede il pagamento di quel prezzo. Nessuna casa nuova, nessuna strada nuova, nessun nuovo piazzale se prima non si è completamente utilizzato ciò che di artificiale già c’è. E di inutilizzato in Italia, malauguratamente, c’è tanto, se si guarda al nostro paese con lo sguardo fuori dalle bende della mitologia proprietaria e di quella economica.

Per quanto si possa guardar lontano, è difficile vedere un futuro nel quale la maggioranza dei decisori (locali, nazionali, globali) decida di applicare quel principio con piena coerenza. Allora la prima necessità, oggi, è di far diventare quel principio una consapevolezza di massa. É di rendere cosciente il maggior numero di persone di verità che condizionano la vita di ciascuno di noi: e ciascuno di noi, prima di essere casalinga o banchiere, operaio o poeta, professore o studente, spazzino od orefice, sfruttatore o sfruttato – è uomo e donna, è abitante del pianeta Terra, e la sopravvivenza è la prima esigenza di tutti noi e di ciascuno di noi.

Combattere il consumo di territorio non significa solo, oggi, ostacolare l’irrazionale espansione della città, lo sprawl urbano. Certo, questa è un componente essenziale, soprattutto nel nostro paese, in cui il trionfo della rendita immobiliare ha dominato, soprattutto negli ultimi decenni, in ogni aspetto delle politiche territoriali. E a questa necessità di difesa si aggiunge quella di sanare quello che il trionfo della rendita ha prodotto.

Difendere il territorio non significa solo tutelare la natura e il paesaggio, la capacità di rigenerazione fisica ed estetica che il esso fornisce, ma anche la sua prima funzione: alimentare l’umanità in ciascuno dei suoi componenti. Significa perciò anche difendere l’agricoltura: non necessariamente tutte le agricolture, ma certamente quelle che servono agli uomini che vivono il territorio, e li servono là dove essi lo vivono. Significa combattere la sostituzione delle colture locali con le colture industriali, le colture funzionali a primarie esigenze umane a quelle che sussistono solo perché premiate dal mercato globalizzato. Significa coinvolgere il più ampiamente possibile nella stessa grande vertenza le numerose associazioni che si impegnano per promuovere la difesa dell’agricoltura, l’approvvigionamento equo e salubre, la filiera corta, la difesa delle diversità colturali. E significa, al tempo stesso, legare le nostre battaglia - italiane, europee, nordatlantiche - a quelle dei paesi del terzo mondo, soggetti a quella rapina delle terre che ha già devastato le loro economie e la stessa sopravvivenza di interi popoli.

Sommario del numero di novembre 2011

della rivista Verdiana network



1 -Editoriale: “ In memoria di Mario Ghio “ di Enrico Falqui

2 - “Consumo di suolo e futuro del territorio” di Edoardo Salzano

3 - “Paesaggi Critici: il paesaggio liquido della città” di Francesco Ghio

4 -“Sguardi sulla Città: il patrimonio e l’abitare “ di Carmen Andriani

5 - “Utopie Urbane: Consumo zero di suolo” intervista al Sindaco di Cassinetta di Lugagnano (Mi), Domenico Finiguerra di Simona Beolchi

6 - “Tra monasteri benedettini e cave di tufo: progetto di recupero paesaggistico di spazi pubblici tra Gallipoli e Alezio (Puglia) di Annalisa Cataldi

7 - “Radiografia della crescita urbana nel nuovo Piano strutturale di Firenze” di Annalisa Biondi

8 - “ Workshop ACMA a Milano, la progettazione dei sistemi ambientali “ di Silvia Minichino

9 - LA RECENSIONE : “Le mie città, di Vezio De Lucia" di Paola Pavoni

Per chi ha un po’ di frequentazione dei luoghi nei quali si è rifugiata la politica (o dai quali essa riemerge) i caratteri del conflitto del quale il territorio è oggetto sono molto chiari. Sono riassunti nell’antitesi espressa dal titolo di questo scritto: città dei cittadini o città della rendita?

Alcune precisazioni lessicali. Quando parlo di città parlo dell’habitat dell’uomo, il quale comprende sia la tradizionale “città” che la tradizionale “campagna”, sia il territorio urbano che quello rurale. E quando parlo di cittadini parlo di quelli attuali e di quelli potenziali, con particolare attenzione a due categorie di soggetti che oggi non sono dotati dei diritti di cittadinanza: i forestieri e i futuri, i migranti e i posteri.

1. LA CITTÀ DELLA RENDITA

La città come macchina

per arricchire i ricchi

Conosciamo bene la città della rendita. É quella che denunciamo e soffriamo ogni giorno. É quella che vediamo svilupparsi come un orribile blob: più o meno caotica, più o meno disordinata, più o meno inefficiente, ma sempre divoratrice di risorse, distruttrice di patrimoni, dissipatrice di energia e di terra, guastatrice di acqua e di aria. Una città che logora i legami sociali e accentua le diseguaglianze.

Per i costruttori di questa città il territorio è considerato e utilizzato come lo strumento mediante il quale accrescere la ricchezza personale dei proprietari: di quella classe il cui ruolo sociale e il cui contributo allo sviluppo della civiltà sono costituiti esclusivamente dal privilegio proprietario; dal fatto di possedere un bene che può essere utile ad altri.

Non a caso l’economia liberale ha considerato la rendita come la componente parassitaria del reddito. Non a caso ha tentato di ridurne gli effetti, con le pratiche dell’espropriazione a prezzi che non riconoscevano i vantaggi derivanti dalle decisioni pubbliche e i tentativi di tosarla con lo strumento fiscale. Tentativi che, nel nostro paese, sono stati proseguiti fin agli anni 70 del secolo scorso .

Dalla “rendita parassitaria”

alla “rendita motore dello sviluppo

Ma gli animal spirits del capitalismo reale hanno spinto i proprietari e i gestori del capitale a impadronirsi anch’essi di quote rilevanti della rendita. Il passaggio dall’atteggiamento critico nei confronti della rendita urbana alla piena partecipazione al banchetto consentito dal suo progressivo incremento è avvenuto platealmente agli inizi degli anni 70: quando i padroni della Fiat e capi della Confindustria passarono, da affermazioni di piena condivisione per una riforma urbanistica che combattesse la rendita urbana e i suoi incrementi, a pratiche di spostamento di risorse (finanziarie, organizzative, culturali) dagli investimenti industriali a quelli immobiliari.

«Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire. Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza» aveva dichiarato Gianni Agnelli, padrone della Fiat e presidente della Confindustria [Agnelli G. 1972]. Ma pochi anni dopo Fiat, e con essa Pirelli, Falck, Zanussi, Benetton abbandonarono il mondo del profitto e dell’industria per scorrazzare nei lauti pascoli della rendita finanziaria e di quella immobiliare, impegnandosi attivamente nel campo della speculazione sul mattone, irrigato e fertilizzato da un ceto politico sempre più succube dell’economia data.

Ha scritto Walter Tocci, in un saggio che rivela come il peso della rendita immobiliare sia diventato decisivo nell’attuale fase del capitalismo: «La dismissione industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più» [Tocci W. 2009].

Il dominio dell’ideologia e della prassi del neoliberismo

É a partire dagli anni 80 che in Italia le cose cambiarono sostanzialmente. Il dominio dell’ideologia neoliberista e il primato delle parole d’ordine lanciate dal craxismo ne sono una componente essenziale. E rimane aperto il problema di chiarire perché in Italia gli intellettuali, dentro e fuori dai partiti, non lo abbiano compreso.

Sul terreno solido dell’economia la finanziarizzazione aiutò la rendita urbana ad accrescere il suo peso nell’insieme del sistema economico e della percezione del territorio. Rifacendoci alle categorie classiche della teoria economica, l’appropriazione privata di rendite (finanziarie e immobiliari) divenne la componente preponderante dei guadagni ottenuti dai gestori del capitale intrecciandosi strettamente al profitto. Del resto, il peso del salario poteva essere via via ridotto dall’innovazione tecnologica.

É il caso di aggiungere, a questo sommario quadro, che l’appiattimento della politica sull’economia ha consentito ai gestori del capitale di ottenere dagli amministratori il consistente aiuto derivante dalla loro possibilità di promuovere o consentire, con l’insieme delle politiche urbane, la sistematica espansione delle parti del territorio il cui valore di scambio passava dalle utilizzazioni legate alle caratteristiche proprie dei suoli a quella urbana ed edilizia. Attraverso le politiche urbane gli amministratori infedeli hanno insomma servito i poteri forti dell’economia spalmando su aree sempre più vaste la rendita immobiliare. Decisivo, a questo fine, è stato l’aiuto fornito alla speculazione fondiaria dalle politiche nazionali, che hanno ridotto via via le risorse trasferite ai comuni lasciando loro la possibilità di stornare i cespiti degli oneri di concessione dalla realizzazione delle attrezzature pubbliche alle spese correnti.

Per servire la crescita e l’appropriazione privata della rendita fondiaria gli amministratori hanno dovuto introdurre qualche cambiamento nelle loro politiche. Aiutate e anzi sospinte dalla legislazione nazionale, hanno dovuto procedere allo smantellamento della pianificazione urbanistica e territoriale quale era stata definita nei decenni precedenti . Ora, gli strumenti foggiati per tentare di porre ordine e razionalità nelle trasformazioni urbane e territoriali erano considerati solo un impaccio al libero esplicarsi della legge del massimo sfruttamento delle potenzialità economiche (in termine di valore di scambio) del territorio.

I prezzi del trionfo della rendita

Alto è il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno stesso dello sviluppo economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende di spostare gli investimenti, gli interessi, l’intelligenza, dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di carta”. «É stata proprio la rendita la vera responsabile di quella bassa crescita» che ha contrassegnato il sistema produttivo italiano, afferma Tocci [Tocci W. 2009].

Ma ancora più pesante è il prezzo che hanno pagato le città e i territori, le condizioni di vita degli abitanti, la ricchezza dei beni culturali e del paesaggio. Le conseguenze del trionfo della rendita sono sotto i nostri occhi. Si è manifestata una grande euforia immobiliare, che ha stimolato la produzione edilizia e alimentato la domanda, determinando così un balzo in avanti della valorizzazione della rendita. Il cambiamento è stato enorme, non solo in termini quantitativi. È cambiato radicalmente il ruolo della città nei confronti dell’economia. La città è diventata sempre di più una macchina - costruita nei secoli e pagata ancora oggi dalla collettività - usata per accrescere le ricchezze private. Il territorio viene devastato da un consumo di suolo impressionante, le condizioni di vita nelle aree urbane peggiorano sempre di più, la sottrazione di risorse ai cicli vitali della biosfera cresce continuamente.

2. LA CITTÀ DEI CITTADINI

Mille vertenze

In esplicita antitesi con la città della rendita si è affacciata sulla scena una città alternativa: quella che definisco “la città dei cittadini”, con la precisazione che ho fatto all’inizio sul termine di “cittadino”. É quella che emerge dalla miriade di vertenze che si aprono in ogni regione e città d’Italia, in moltissimi paesi e quartieri, per rivendicare qualcosa che si è perduto o minaccia di esserlo, o qualcosa di cui si sente la necessità per vivere in modo soddisfacente. Mi riferisco al fiorire di comitati, gruppi di cittadinanza attiva, associazioni e altre iniziative locali o settoriali (spesso l’uno e l’altro insieme) che caratterizzano la vita sociale in questi anni.

Quando protestano contro l’inquinamento e i rischi alla salute determinati da una cattiva politica dei rifiuti, contro la chiusura di un presidio sanitario o la privatizzazione di un altro, contro la trasformazione di uno spazio verde in un nuovo “sviluppo” a base di asfalto e cemento, contro l’abbattimento di un albero antico minacciato da una strada inutile, contro il prezzo e le condizioni del trasporto pubblico, contro la trasformazione delle campagne periurbane in ulteriori espansioni della “città infinita”. Quando protestano per gli effetti della dilatazione della “città della rendita”, al tempo stesso i mille comitati esprimono un’idea alternativa di città.

Non sono chiari i lineamenti della “città dei cittadini”, ma cominciano forse a precisarsi i principi che dovrebbero alimentarne la costruzione. Proviamo a definirli, riassumendoli in quattro questioni: il rapporto città-campagna, gli spazi per la collettività, l’abitazione, la partecipazione.

A. Città e campagna

La città è, al tempo stesso, il luogo che l’uomo ha inventato e costruito quando ha avuto bisogno di organizzare la sua vita attorno a spazi, servizi e funzioni comuni e, al tempo stesso, il modo che l’uomo ha utilizzato per costruire il proprio habitat nell’ambito dello spazio naturale. Per una lunghissima fase della storia dell’umanità l’urbano (caratterizzato dall’artificialità fisica, dalla ricchezza dei rapporti interpersonali e della vita sociale) è restato racchiuso nella cerchia delle mura urbane e delle sue immediate adiacenze, utilizzando il resto del territorio pressoché unicamente come supporto delle vie di comunicazione – esili dapprima, poi via via più massicce e intense. Nei secoli a noi più vicini l’organizzazione urbana (l’habitat dell’uomo) si è esteso via via all’intero territorio: non solo artificializzandone parti sempre più estese, ma soprattutto inserendo la massima parte delle sue componenti ai ritmi, ai modi di fruizione e di trasformazione, ai valori propri delle funzioni urbane.

Oggi il territorio rurale non è considerato, valutato e trattato in relazione alle sue qualità proprie, ma alla sua capacità di entrare nel ciclo delle utilizzazioni (e dei valori economici) urbani. É un “suolo in attesa di urbanizzazione”. Se è un terreno agricolo il suo proprietario aspetta il momento nel quale la vanga che lo aprirà non sarà più finalizzata alla messa a dimora di una vigna o di un platano, ma alla realizzazione delle fondazioni di un edificio. Un bosco non avrà nel suo destino quello di essere governato per il patrimonio di beni naturali che costituisce ma, nel migliore dei casi, come estensione del parco urbano, nella peggiore come luogo da distruggere per riempire il sito di ville e villette. Una spiaggia svolgerà il suo ruolo come sede di una serie di stabilimenti balneare, e magari di piscine, alberghi, casette di vacanza.

Connesso a questa trasformazione (culturale, economica, fisica) vi è un altro fenomeno, che incide direttamente sulla vita dell’uomo. L’alimentazione non è più il consumo di merci prodotte a distanza ravvicinata, da un suolo nutrito dalla stessa storia che ha prodotto quella citta e dalla stessa cultura che ne ha foggiato gli abitanti, dallo stesso sole e dalla stessa aria, dal ciclo delle stesse stagioni, ma è sempre più prodotta altrove, lontano, là dove le regole dell’economia capitalistica trovano maggiore convenienza.

Le rivendicazioni che nascono dalla società civile costituiscono una critica al modo in cui si è trasformato il rapporto tra città e campagna, tra territorio urbano e territorio rurale, e una pressante richiesta di ricostituire un equilibrio (meglio, di costituire un nuovo equilibrio) tra i due termini. Il modello di città la cui domanda nasce da quella critica deve consentire la vicinanza, alle varie scale (di paese e quartiere, di città, di area vasta, di regione…), tra l’urbanizzato (=prevalentemente artificializzato) e il rurale (=prevalentemente naturale). Deve consentire un’alimentazione sana e una filiera corta tra la produzione e il consumo, aria pulita, luce e sole, libera fruizione di spazi di ricreazione e distensione, di bellezza, di storia, d’identità.

Ma è la stessa localizzazione delle eventuali nuove aree da urbanizzare, là dove ciò si dimostri essenziale ed irrinunciabile, che deve tener conto di un corretto rapporto con la natura. La terra libera, integrata nel ciclo biologico del pianeta, è di per sé un valore. É una perdita per la qualità complessiva della vita dell’umanità sacrificarne una porzione; quindi ciò va evitato per quanto possibile (ove non lo sia in vista di altri e superiori valori), e va compensato con equivalenti restituzioni di naturalità.

B. Gli spazi e i servizi per la collettività

Gli spazi, i servizi e le funzioni comuni attorno ai quali è nata e si è organizzata la città nella storia hanno ricevuto, nei decenni dell’affermazione del welfare state, un consistente accrescimento qualitativo e quantitativo. Ai luoghi classici della città greco-romana, medioevale e rinascimentale si sono aggiunti quelli destinati alle esigenze della salute, dello sport e della ricreazione, della cultura, realizzati per una cittadinanza sempre più vasta e sempre più cosciente dei propri diritti: diritti che avevano la loro condizione decisiva nel ruolo delle classi lavoratrici nel processo di produzione e di consumo. É cresciuta insomma la consapevolezza della necessità di una vasta e articolata “città pubblica”, costituita da quell’insieme di spazi, servizi, attrezzature, reti divenuti standard, indispensabili integrazioni della vita che si svolge nell’ambito dell’alloggio (e della fabbrica).

Per la città della rendita tutto ciò è un peso: riduce lo spazio della speculazione edilizia e, con il sistema fiscale (inevitabile cespite del costo della “città pubblica”) rischia di pesare sulle rendite. Ecco allora che si pratica la riduzione degli spazi pubblici, la loro privatizzazione, al soddisfacimento con servizi privati (a pagamento) di esigenze che nella città del welfare erano soddisfatte con servizi pubblici: dalla salute alla scuola, dallo sport all’assistenza – fino alla sostituzione della piazza, archetipo della città, con il centro commerciale.

É probabilmente da questa consapevolezza, dal disagio provocato dalla perdita di una dotazione urbana sentita come un bene essenziale, che nasce la domanda di una più ricca presenza di attrezzature e servizi, spazi e reti, agevolmente raggiungibili mediante modalità amichevoli. E alle esigenze del passato nuove esigenze si aggiungono, completandole e integrandole: che le dotazioni comuni e pubbliche non solo siano funzionali alle esigenze che devono soddisfare, ma posseggano almeno tre ulteriori requisiti: che siano risparmiatrici d’energia e di altre risorse naturali e non peggiorino la qualità di quelle impiegate; che siano dotate di una riconoscibile bellezza, ottenuta come risultato dell’insieme e non dal singolo oggetto; che siano utilizzabili da tutti, senza discriminazioni tra ricchi e poveri, giovani e anziani e bambini, uomini e donne, cittadini e forestieri. Che siano, insomma, ecologiche, belle, eque.

C. L’abitazione

Nell’ambito della “citta pubblica” – nella tradizione più antica delle città europee come nella città del welfare – un ruolo particolare ha svolto l’abitazione. Questa è intrinsecamente il luogo del privato, quindi dovrebbe essere “l’altra parte della città” rispetto a quella pubblica. Eppure per almeno due circostanze essa è entrata nell’orbita della prima. Innanzitutto perché la forma, e lo stesso funzionamento, degli spazi pubblici sono definiti dal modo in cui gli edifici destinati alla residenza (le case, i “mattoni” con i quali è realizzata la forma fisica della città) sono organizzati sul territorio. Basta osservare la planimetria d’una città medioevale per rendersene conto. In secondo luogo perché, da quando la polis ha applicato una dose di giustizia sociale nell’amministrazione urbana, il “pubblico” si è fatto carico di fornire un alloggio a chi non aveva i mezzi per ricorrere al mercato .

Nei tempi più vicini, soprattutto in Italia, l’abnorme lievitazione della rendita urbana ha reso i prezzi delle abitazioni incompatibili con i redditi di un numero crescente di famiglie. Ecco allora che è rinata in questi anni una vertenza che aveva divampato negli anni 60: quella della “casa come servizio sociale”. Con questo slogan non si chiedeva allora, e non si chiede oggi, che l’uso degli alloggi sia garantito a tutti come lo è un servizio pubblico, come ad esempio il servizio sanitario o quello scolastico, ma che il prezzo per l’uso delle abitazioni sia regolato da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

Oggi la questione della residenza si pone sotto un quadruplice aspetto: quelli del costo, della localizzazione, della tipologia d’uso, dell’espulsione.

Il costo per l’utente: si tratta in primo luogo di abbattere l’incidenza della rendita urbana sul costo compessivo dell’alloggio. Si tratta di riprendere gli strumenti della politica della casa degli anni 70 e di aggiornarli e integrarli in funzione delle modifiche della domanda. Ma si tratta in primo luogo di applicare il principio secondo il quale la funzione della casa non è quella di arricchire chi la produce ma quella di dare abitazione a una famiglia – così come la funzione di un farmaco è di curare un malato.

La localizzazione: si è costruito dappertutto, dove ciò era più conveniente per l’investitore (e dove era reso possibile dai sindaci) in qualunque parte del territorio; ma la residenza deve essere collocata a distanza ragionevole dal luogo dove i suoi abitanti svolgono gli altri momenti della loro vita: il lavoro, la scuola e così via. La città della rendita ha accentuato il pendolarismo . L’assenza della pianificazione urbanistica e una politica dei trasporti finalizzata all’espansione della motorizzazione individuale hanno aumentato, e reso più costosi, i prezzi degli spostamenti. Nella città dei cittadini non si devono costruire residenze dappertutto, ma solo dove esiste una domanda reale e dove un efficiente sistema di servizi pubblici può collegare la residenza alle altre funzioni della vita quotidiana.

La tipologia d’uso: tutti gli strumenti dell’ideologia e dell’economia sono stati impiegati per spingere gli italiani a risolvere il problema della propria abitazione (e di quella dei loro figli) con il godimento in proprietà. Con ciò si è posta una grave ipoteca sulla mobilità della popolazione sul territorio. Mentre in altri paesi la larga presenza dei patrimonio abitativo in affitto consente a chiunque di cambiare luogo di lavoro senza eccessivi problemi, in Italia ciò è diventato particolarmente difficile e oneroso. Sarebbe necessario condizionare fortemente l’ulteriore espansione della proprietà dell’abitazione e offrire, invece, un ampio stock di alloggi in affitto. Iniziando dal porre termine all’alienazione dei patrimoni immobiliari pubblici o parapubblici.

L’espulsione: un peso crescente sta assumendo in Italia un processo in atto in tutto il mondo atlantico: l’espulsione di abitanti da parti della città per effetto di interventi di “riqualificazione”, spesso promossi dagli stessi amministratori pubblici, che comportano modifiche nelle condizioni economiche d’accesso, oppure provocano trasferimenti provvisori che poi diventano definitivi. Sono gli effetti della gentrification, che aumentano parallelamente alla maggior diffusione di politiche urbane volte al recupero anziché all’ulteriore espansione.

D. La partecipazione, ossia la politica

Le nuove vertenze riprendono in gran parte i temi di quello che, sul finire degli anni 60, fu rivendicato come “diritto alla città”. Henry Lefebvre [Lefebvre H. 1968] espresse questo principio in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio (e si tratta, sostanzialmente, degli argomenti che abbiamo toccato nei precedenti paragrafi), e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni.

In effetti oggi dalle vertenze sul territorio emerge la volontà di partecipare, da parte di tutti i cittadini, alla costruzione/trasformazione della città. Una partecipazione che non si riduca alla comunicazione unilaterale, top-down, delle scelte che chi governa ha già fatto, o sta per compiere. Ma una partecipazione che consenta di intervenire sulle scelte, di proporre soluzioni alternative – in una parola, di concorrere al governo. Si tratta quindi, per la città, di conoscere in anticipo i progetti di trasformazione e anche di poterne proporre,, di essere aiutati a comprenderne le premesse e le conseguenze, in definitiva di essere messi nelle condizioni di superare le forme della democrazia rappresentativa e delegata, praticando forme di democrazia diretta.

Grandi sono le difficoltà che si manifestano per ottenere (o strappare) successi in questa rivendicazione. E tuttavia, l’attuale degrado della democrazia delegata, il vuoto che si è aperto tra le istituzioni rappresentative e la società civile, la stessa crisi delle istituzioni, rendono la questione del tutto aperta. Si tratta di comprendere che cosa sia la politica: se sia solo quella che esprime la sua capacità di governo della società attraverso le istituzioni che conosciamo, oppure se essa sia qualcosa che è immanente al rapporto di ciascuna persona con la collettività. Quandi rifletto su questo tema mi viene spesso alla mente una frase del libro che don Lorenzo Milani raccoglie da uno degli allievi della sua Scuola di Barbiana: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» [Milani L. 1967]. Secondo molti, ciò che emerge dalle mille vertenze sul territorio, riannodabili attorno al tema della “città dei cittadini” è proprio il germe di una politica nuova. Ricca di limiti e difficoltà (su cui torneremo), ma anche di speranze.

3 LA NUOVA DOMANDA DI PIANIFICAZIONE

La mia tesi è che dai movimenti generati dalla protesta per il trionfo della “città della rendita” stia nascendo una nuova domanda di pianificazione del territorio urbano e rurale, che ha certo numerosi ostacoli al suo pieno dispiegarsi, ma che è l’unico elemento positivo cui possono fare affidamento quanti non vogliono ridursi alla protesta e alla mera lamentazione per le condizioni cui l’habitat dell’uomo, e la vita della società, sono sempre più immersi.

É una nuova domanda che in parte può essere già soddisfatta mediante strumenti di pianificazione già utilizzati, spesso adoperati al di sotto delle loro potenzialità oppure distorcendoli, in parte trova interessanti anticipazioni e sperimentazioni in nuove forme di azione: limitate, parziali, imperfette, ma non è così che si sperimenta il nuovo in ogni campo?

S’incorrerebbe nell’errore tipico delle discipline separate dagli altri saperi e rinchiuse nella proprie technicalities se si trascurasse il fatto che la nuova domanda di pianificazione dell’habitat dell’uomo non nasce sola. Essa è componente di una più ricca domanda di cambiamento, che concerne tutti gli aspetti della vita sociale: dalla politica all’etica, dall’economia all’antropologia.

In effetti, affrontare in modo risolutivo quei quattro temi che abbiamo sopra indicato presuppone o postula la costruzione di una società interamente diversa da quella attuale, a partire dalla sua dimensione strutturale, dalla sua economia. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) che riesce a sopravvivere, da una crisi all’altra, solo erodendo ancora di più gli scarsi margini delle risorse naturali del pianeta, accrescendo le diseguaglianze, cancellando via via le conquiste raggiunte nell’evoluzione di una civiltà. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) nella quale il lavoro – lo strumento che l’uomo ha per conoscere e governare il mondo – sia ridotto a componente marginale della vita economica e sociale. Non possono essere risolte nell’ambito di una società nella quale la formazione sia diretta all’apprendimento delle tecniche necessarie per far andare avanti un sistema economico obsoleto, divenuto disumano, anziché nell’esplorare le vie dell’ancora sconosciuto e del possibile.

Ecco allora perché le questioni relative al territorio si legano strettamente alle grandi vertenze aperte nel nostro paese: l’ambiente, la scuola, il lavoro.

Ostacoli e limiti

nell’azione della “società critica”

Più che soffermarsi ancora sui contenuti della “città dei cittadini”, e sull’immaginario urbano che nasce dalle mille vertenze aperte sul territorio, è bene riflettere sugli ostacoli che ne intralciano l’affermazione. Poiché ho detto che i portatori essenziali di quell’ idea di città sono i “comitati” (riassumo in questo termine l’intero tessuto di gruppi, più o meno formalizzati, stabili, strutturati che caratterizza la “società critica” del nostro paese), è in primo luogo ai limiti di questi che occorre riferirsi

Mi sembra che si manifestino soprattutto tre limiti, riassumibili: (1) nella difficoltà di superare una visione settoriale e localistica dei problemi e dei disagi, per assumere invece una prospettiva olistica (dalla vertenza per la difesa dell’albero alla vertenza contro un cattivo piano urbanistico); (2) nel limitarsi ad azioni di contrasto e protesta, pur necessarie, invece di approdare alla formulazione di proposte; (3) nel rinchiudersi nell’impegno a difendere/costruire/affermare un’identità circoscritta (e quindi una città delimitata, una “città villaggio”), per assumere invece l’impegno a collaborare alla costruzione di un “mondo di città”: un habitat del quale tutti possano sentirsi ed essere cittadini uguali nel rispetto delle differenze.

Quei tre limiti sono in qualche modo inevitabili in conseguenza del modo in cui storicamente il mondo dei “comitati” è nato: vertenze locali, riferite a uno specifico oggetto o problema; reazioni di difesa e di resistenza, di fronte ad azioni che altri promuovevano nel loro quadro di riferimenti, di interessi, di poteri e di strumenti; individuazione di propri “compagni di lotta” nei vicini più immediati, ugualmente minacciati e componenti dalla “comunità” la cui identità si rivelava essenziale per ottenerne la solidarietà. Questa origine storica di molte vertenze locali fa sì che esse siano spesso caratterizzate da una logica Nimby, cioè ripiegate nella separatezza del proprio cortile, di ciò che immediatamente utilizzano; e quindi ostili a chi è “fuori”, “diverso”, “straniero”.

Remo Bodei ha svolto recentemente una interessante riflessione, proprio a partire dal termine “identità”. Dopo aver esposto e criticato i modelli correnti di identità Bodei propone la sua concezione: il tipo di identità « che preferisco e propongo, è rappresentato da un´identità simile ad una corda da intrecciare: più fili ci sono, più l´identità individuale e collettiva si esalta. (…) Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l´idea che la globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l´esaltazione delle differenze stesse. Il grande paradosso odierno è, appunto, che quanto più il mondo tende ad allargarsi e ad integrarsi, tanto più sembra che a queste aperture si reagisca con chiusure dettate dalla paura e dall´egoismo, con la rinascita di piccole patrie» [Bodei R. 2011].

Localismo, protesta, chiusura:

come andare oltre

Localismo, protesta, chiusura: come superare questi limiti? Si è lavorato e si lavora in più di una direzione. Sebbene manchi ancora un quadro di conoscenza sistematica della ricca realtà associativa, sono da segnalare innanzitutto alcuni tentativi tendenti a superare il localismo coordinando (“mettendo in rete”) gruppi sorti in relazione a tematiche analoghe, aventi quindi analoghe o identiche controparti, e appartenenti a una medesima area; è il caso della rete toscana, pienamente affermata da qualche anno, e degli analoghi tentativi nel Veneto e in Lombardia. Più numerosi sono i cordinamenti e le reti a carattere intercoumane e subregionale (come l’efficacissimo Cat – Coordinamento Ambiente e Territorio, dell’area tra Venezia a Padova) o metropolitano, soprattutto in Piemonte, Veneto, Lombardia, Toscana, Lazio. Il ragionare insieme su un contesto territoriale e tematico più ampio di quello locale aumenta la consapevolezza dello spessore del problema, e rende più facile l’apporto dei “saperi esperti”; facilita perciò alle “reti” e ai “coordinamenti” di superare quei limiti storici.

Altre direzioni di lavoro di grande interesse sono costituite dalle vertenze tematiche nazionali, generate dall’aggressione – da parte dei poteri forti – ad alcune risorse sentite come beni comuni. Per citare solo le principali, l’Onda sorta impetuosa per reagire ai tentativi di mortificare la scuola pubblica e di provocare la privatizzazione dei processi formativi e il loro asservimento alle esigenze del mercato, e la grande esperienza della vertenza dell’”Acqua bene comune”, significativa per più di un elemento: per la grande capacità di mobilitazione determinata da un lavoro volontario di base tenace, ramificato, fornito da comitati e gruppi già esistenti e da numerosi “nuovi militanti”; per la capacità di gestire l’organizzazione in forme originali (come il “forum permanente”); per la collaborazione espressa a ogni livello da gruppi di intellettuali e cittadini; infine, per il grande successo conseguito nonostante gli ostacoli frapposti da un fronte ampio di poteri istituzionali (il governo e le sue emanazioni paragovernative, i partiti nella quasi totalità, i mass media).

Cittadini di più patrie

Superare quei limiti richiede comunque un più ampio sforzo di approfondimento, nel quale è essenziale ricostruire un legame tra due realtà sociali: gli “intellettuali” e il “popolo”. Gli “intellettuali” sono quelle persone che, a causa della loro stessa formazione, sono in possesso delle chiavi che aprono alcuni essenziali passaggi: la comprensione dei meccanismi, delle procedure, degli attori mediante i quali le proposte, le idee gli slogan diventano fatti concreti; la possibilità di delineare proposte alternative che siano concretamente realizzabili; le connessioni tra le specifiche situazioni alle quali ci si oppone (e delle controproposte) e il mondo più ampio dal quale quelle situazioni sono condizionate determinate e sul quale le stesse decisioni “locali” influiscono. E il “popolo” non è solo quello che dà le gambe alle azioni proposte, ma è anche l’interprete diretto della realtà che i disegni degli intellettuali interpretano, delle sue esigenze e speranze, dei suoi interessi e timori, e possessore di quei saperi che no derivano tanto dagli studi, quanto dai processi formativi spontanei basati sulla conoscenza del territorio e dalle tradizioni locali.

Mi sembra che su alcuni temi l’apporto degli intellettuali sia in questa fase essenziale. Quello che probabilmente ne riassume molti è il seguente: come utilizzare ancora lo slogan “pensare globalmente, agire localmente”? Come trovare un equilibrio tra il paese e l’universo? Le lotte dei comitati hanno insegnato che non basta “agire localmente”: le decisioni sul tunnel della TAV non si prende in Val di Susa, ma a Torino, Roma, Bruxelles. Occorre poter intervenire ai vari livelli in cui il processo delle decisioni si pone. La questione si pone allo stesso modo per quanto riguarda il rapporto tra “identità” e umanità: come superare l’elemento di chiusura, di esclusione dell’altro, che è sotteso al concetto di “vicino perché simile a me”?

La soluzione sta forse nel concetto di multiscalarità . Per governare il mondo e le sue trasformazioni, per “restituire lo scettro al popolo” nell’attuale configurazione della vita sociale, occorre che ciascun abitate del pianeta si senta cittadino di più patrie: del suo paese o quartiere, della città, la provincia, la regione, la nazione… e cosi via fino all’intera umanità. E occorre che si sia in grado non solo di conoscere come agisce sulle trasformazioni ciascun livello di governo, ma essere in grado di parteciparvi.

Superare quello slogan dell’ambientalismo primigenio, affrontare i problemi (per comprenderli e, soprattutto, per agire su di essi) richiede di affrontare un’altra questione complessa: il rapporto tra movimento e istituzioni. Le azioni, soprattutto quelle che riguardano il territorio, hanno una lunga gittata. Richiedono costanza dei principi e degli obiettivi, coerenza e continuità nelle azioni; e richiedono équipe di operatori dotati delle competenze necessarie e capaci di lavorare nel lungo periodo. Le istituzioni, comunque denominate, sono indispensabili per un movimento che voglia raggiugere gli obiettivi per i quali è nato. Si possono utilizzare le istituzioni esistenti, rinnovandole dall’intimo (credo che sia molto opportuno l’obiettivo che molti comitati si sono dati, di “conquistare i comuni”), oppure si possono formare istituzioni nuove. Ma il problema non può essere eluso.

Esso ci rinvia a una questione ulteriore: la politica, come ricostruirla, partendo dai germi di nuova politica che oggi si manifestano ma dando all’azione del “sovrano” (il popolo) continuità, coerenza, durata, capacità di egemonia e di efficacia? Su questo tema sarebbe necessario aprire una riflessione che porterebbe – chi ne abbia la capacità - molto al di là dell’argomento di questo lavoro.

Bibliografia

Agnelli G. 1972, Intervista rilasciata all'«Espresso», novembre 1972. Cit. in P. Della Seta, E. Salzano, L‘Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma, 1992, p. 11

Tocci W. 2009, L’insostenibile ascesa della rendita urbana, «Democrazia e Diritto», trimestrale dell’associazione CRS - Centro studi e iniziative per la riforma dello stato, fascicolo 1/2009.

Lefebvre H. 1968, Le droit à la ville, Anthropos, Paris 1968 (trad. it: Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970)

Gibelli M.C., Salzano E. 2006, NO SPRAWL. Perché è necessario controllare la dispersione urbana e il consumo di suolo, Alinea, Firenze 2006

Milani L. 1967, Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967

Bodei, R. 2011, Manifesto per vivere in una società aperta, «La Repubblica», 22 giugno 2011

Informazioni

"Quaderni del territorio" è la rivista online del Dipartimento di discipline storiche, antropologiche e geografiche dell’Università di Bologna. Il n. 2, curato da Paola Bonora e Luigi Cervellati, sarà accessibile all’infirizzo http://www.storicamente.org/, col titolo “Visioni e politiche del territorio. Per una nuova alleanza tra urbano e rurale”. conterrà i seguenti contributi:

Paola Bonora, Tra il dire e il fare: le politiche del territorio in Italia

Sergio Conti, Prammatica per una filosofia di progettazione territoriale

Roberto Camagni, Rendita, efficienza e qualità della città

Matilde Gallari Galli, Partecipazione, spazi pubblici e processi identitari . La città contemporanea come luogo dello scontro tra poteri globali e identità tenacemente locali

Giuseppe Dematteis, La metromontagna: una città al futuro

Maria Cristina Gibelli, Governare l'esodo urbano: buone pratiche internazionali

Alberto Magnaghi, Politiche e progetti di territorio per il ripopolamento rurale

Edoardo Salzano, Dualismo urbano: la città dei cittadini e la città della rendita

Pier Luigi Cervellati, La cultura della terra per la città del XXI secolo



1. IERI.

NASCE IL DIRITTO ALLA CITTÀNELL’ITALIA POST-FASCISTA



Il dopoguerra

Il fascismo, che aveva dominato l’Italia dal 1922 al 1943, e la Seconda guerra mondiale, avevano lasciato all’Italia una pesante eredità: le distruzioni di un conflitto che aveva attraversato l’intero paese, soggiornandovi a lungo; un’economia chiusa, “autarchica” e tendenzialmente autosufficiente, largamente basata su un’agricoltura spesso praticata in forme arcaiche e improduttive. Dopo la Liberazione i principi di libertà, giustizia sociale e democrazia, propri della Resistenza, erano stati assunti a base del nuovo stato. Una nuova democrazia (“democrazia di massa”) aveva sostituito quella prefascista, condizionata dal prevalere dei ceti più ricchi.

Dal 1946 il suffragio universale era stato realizzato nella sua pienezza, estendendo il voto alle donne. Il quadro politico della nuova Repubblica (l’abolizione della monarchia fu determinata da un referendum nel 1946) era fortemente condizionato da partiti che avevano una consistente base popolare. I partiti più ricchi di consenso sociale erano il democristiano (DC), il comunista (PCI) e il socialista (PSI). La DC, a causa del suo substrato cattolico e della sua stessa storia, era l’interprete, oltre che dei ceti borghesi, anche di porzioni consistenti del mondo contadino e dell’artigianato . Il PCI e il PSI esprimevano soprattutto la classe operaia e larghi strati del bracciantato e, nelle regioni centrali, della mezzadria.

Passata la breve fase dell’unità dei partiti antifascisti, dal 1947 anche in Italia aveva prevalso la spaccatura in due schieramenti contrapposti. La maggioranza parlamentare di centro destra era aggregata attorno alla DC; ad essa si opponeva un blocco di forze di sinistra, con una prevalenza del PCI, ampiamente egemonico negli strati intellettuali. Proprietà privata e liberismo economico, fortemente sostenuto dall’assistenza statale, erano i pilastri della politica governativa. Ciò incise pesantemente sul modo in cui avvenne la ricostruzione. L’urbanizzazione era stata pesantemente distrutta dalla guerra.

«Più di tre milioni di vani distrutti o gravemente danneggiati; distrutti un terzo della rete stradale e tre quarti di quella ferroviaria. I danni sono concentrati nel triangolo industriale e nelle grandi città. Particolarmente acuto il problema abitativo che già prima della guerra era assai grave (nel 1931 erano stati rilevati 41,6 milioni di abitanti e 31,7 milioni di stanze). Mentre in molti paesi europei la ricostruzione è stata utilizzata per impostare su basi nuove e razionali i problemi dello sviluppo urbano e territoriale, in Italia, viceversa, è stata utilizzata per far marcia indietro rispetto agli strumenti di cui già si disponeva: con l’alibi – appunto – di “superare rapidamente la fase contingente della ricostruzione dei centri abitati” attraverso dispositivi agili e di emergenza»[1].

La ricostruzione è avvenuta nell’ambito di una politica economica che ha privilegiato soprattutto due settori: l’attività edilizia privata, considerata anche come una utile tappa intermedia per il passaggio della mano d’opera dall’agricoltura, fino ad allora dominante, all’ industria; l’industria manifatturiera, che già aveva solide basi nel capitale industriale del Nord e a cui era affidata la competizione sul mercato internazionale. In questo settore, le cui attività erano concentrate nell’area NordOvest, si puntava soprattutto sulla produzione di beni di consumo durevoli (l’automobile, ma anche gli elettrodomestici). L’agricoltura era stata lasciata, soprattutto nel Mezzogiorno, agli inefficienti rapporti di produzione del passato.

La migrazione dal Sud al Nord, dalle campagne e dai centri minori alle città maggiori, dalle colline e dalle zone interne verso i fondovalle e le coste aveva rimescolato la distribuzione della popolazione sul territorio. La sfrenata attività edilizia aveva trasformato caoticamente la fisionomia delle maggiori città e delle aree costiere. La scelta di politica economica aveva insomma consentito l’ingresso dell’Italia nel mercato mondiale e (grazie al condizionamento esercitato da una forte pressione sindacale e dal carattere popolare dei maggiori partiti) un consistente aumento del benessere e della capacità di spesa delle famiglie; tuttavia aveva provocato anche una estesa devastazione del territorio e gravi fenomeni di congestione, sovraffollamento e disagio nelle città. Questi fenomeni, insieme a un logoramento della formula politica di centro-destra, erano venuti al pettine nella seconda metà degli anni Cinquanta e avevano provocato, sia una presa di coscienza dei guasti provocati e il maturare della necessità di correre ai ripari, sia il formarsi di una nuova alleanza politica.

L’Italia alle soglie degli anni 60

Alla fine degli anni Cinquanta l’Italia era profondamente cambiata. Aveva completato la sua trasformazione: dalla prevalenza dell’agricoltura si era passati decisamente a quella dell’industria. Il reddito medio era aumentato e aumentava la disponibilità ad acquistare i beni di consumo durevoli che l’industria sfornava in grande quantità a prezzi sempre più convenienti.

L’industria era cresciuta, i profitti e l’accumulazione avevano rafforzato i luoghi dove si era concentrato lo sviluppo produttivo: ma il territorio e le città ne avevano pagato duramente il prezzo. La fuga della forza lavoro dal Mezzogiorno, dalle aree interne e collinari dell’Italia centro-meridionale e l’indirizzarsi degli investimenti nelle aree già sviluppate aveva penalizzato le altre. La scelta di privilegiare l’automobile rispetto ai trasporti collettivi aveva reso più grave la congestione delle città. Gli squilibri territoriali cominciavano a essere vissuti come un peso allo sviluppo degli stessi settori avanzati dell’economia.

Erano cambiate decisamente le condizioni della vita delle famiglie. Dai modi, dai ritmi e dai valori del mondo delle campagne si era passati a quelli della città. L’aumento dei redditi e l’incentivo fornito ai consumi individuali durevoli aveva inciso sulla conformazione dei bisogni e dei modi di vita. L’ingresso delle donne in un mondo del lavoro diverso da quello legato all’attività agricola e alla famiglia patriarcale aveva pesantemente mutato il modo in cui si svolgeva la loro vita: le donne, che la propaganda conservatrice avrebbe voluto restassero legate al loro ruolo di “angeli del focolare”, erano ormai condizionate da una nuova vita: Ma in questa si sommavano due lavori: quello nella fabbrica o nell’ufficio, e quello delle mansioni casalinghe, ormai svolte fuori del sistema di benefici fornito dalla famiglia patriarcale.

Le stesse condizioni abitative nelle città erano nuove rispetto a quelle della vita contadina. Nella ricerca di un alloggio si dovevano fare i conti con gli alti valori determinati dalla forte incidenza della rendita fondiaria urbana. La spontaneità lasciata alle forze imprenditoriali mostrava insomma suoi limiti e rendeva evidenti i suoi prezzi. Il sistema economico cominciava a registrare le sue “diseconomie di congestione”, e agli italiani degli anni 60, mentre venivano offerti i benefici dello sviluppo (l’aumento del reddito, la maggiore libertà personale, le più ampie occasioni dì incontro, l’accesso a servizi di livello urbano) venivano imposti i pesi di un modello di vita particolarmente disagiato. Le condizioni di vita nelle periferie urbane e negli slum che accerchiavano le maggiori città cominciavano ad essere l’argomento di film di successo (come quelli di Luchino Visconti e di Pier Paolo Pasolini).

Nel frattempo, mutamenti rilevanti si erano manifestati nel quadro politico. Dopo la sconfitta, nel 1953, di una legge elettorale (denominata “legge truffa”) con la quale l’alleanza imperniata sulla Dc avrebbe avuto la garanzia di assicurarsi la maggioranza assoluta nel Parlamento anche se avesse conseguito la sola maggioranza relativa, erano iniziati processi di mutamento degli orientamenti interni dei gruppi che componevano il partito di maggioranza. Dopo varie oscillazioni, e un pesante tentativo di svolta a destra nel 1960, cominciava ad affacciarsi la proposta politica di una “apertura a sinistra”, che condusse all’inizio degli anni 60 prima alla formazione di maggioranze comunali di centro-sinistra (basate sull’alleanza della Dc con il Psi), e poi al primo governo nazionale di centro-sinistra nel 1962.

Un peso rilevante sul mutamento degli orientamenti della Dc, partito di esplicito orientamento cattolico, ebbe l’avvento al papato, nel 1958, di Giovanni XXIII. Scrive lo storico Paul Ginsborg: “l’integralismo di Pio XII fu sostituito da una diversa concezione della Chiesa, piuttosto legata al suo ruolo pastorale e spirituale che non alla sua vocazione politica anticomunista. Si apri così lo spazio per un dialogo fra cattolici e marxisti, e in campo politico democristiani e socialisti poterono finalmente trovarsi faccia a faccia per trattare”[2]. Degli argomenti della trattativa fecero parte la programmazione economica, l’istituzione delle Regioni, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la riforma della scuola media e la riforma urbanistica. Quest’ultima fu tra quelle che non andarono in porto.

Al nuovo quadro politico si accompagnò la proposta di un nuovo indirizzo economico. Ugo La Malfa[3]è ministro del Bilancio. Nella discussione del bilancio dello stato propone una nuova politica economica4[4], basata su due cardini: programmazione economica, come insieme di strumenti capaci di svolgere un trasparente ed esplicito ruolo di indirizzo delle imprese pubbliche e private coerente con gli obiettivi d’interesse generale, e politica dei redditi, come coinvolgimento dei sindacati dei lavoratori nelle scelte di redistribuzione della ricchezza prodotta. Nel documento si «metteva al centro il contrasto fra l’”impetuoso sviluppo” di quel periodo e il permanere di “situazioni settoriali, regionali e sociali di arretratezza e ritardo economico”. Squilibri territoriali tradizionali (in primo luogo quello fra Nord e Sud) sono in parte modificati, annotava La Malfa, ma per certi versi aggravati, con la “congestione di alcuni centri urbani”, lo “spopolamento di altre aree” e così via. E se “molte situazioni di sottosviluppo sono state alquanto alleviate in termini assoluti, sono però diventate per la nostra società meno sopportabili”»[5].

Questi, in sintesi, i punti rilevanti della proposta: una critica, ampiamente documentata e argomentata, al modo in cui i precedenti governi avevano gestito la fase della ricostruzione e dell’inserimento nel mercato internazionale; l’individuazione delle condizioni delle città e dei territori come punti rilevanti della valutazione critica; una gestione ferma dell’economia da parte di una politica coerente e trasparente, appoggiata da un atteggiamento confidente- sebbene dialettico – delle organizzazioni dei lavoratori.

Lotte sociali e disastri territoriali

Negli stessi anni un ministro democristiano, Fiorentino Sullo, propose una riforma del modello di crescita delle città. La legge che presentò (ispirata dagli intellettuali che facevano capo all’Istituto nazionale di urbanistica) prevedeva l’esproprio preventivo delle aree destinate dai piani all’espansione delle città, e la loro utilizzazione da parte dei promotori immobiliari. La proposta scatenò una reazione furibonda delle destre, che la descrissero come una legge che avrebbe espropriato tutti i proprietari di case. La DC non difese il suo ministro (e la verità dei fatti) e la riforma fu bocciata[6]. Ma nel frattempo si erano manifestati nella società e nel territorio iniziative ed eventi, di segno positivo e negativo, che riaprirono la questione.

Tra gli episodi positivi, dimenticati dalla storia ufficiale di quegli anni, devono essere citati il buon governo urbanistico di molti comuni, soprattutto quelli guidati da maggioranze di sinistra, e l’azione del movimento organizzato delle donne, anch’esso nell’ambito dello schieramento progressista. Numerosi comuni dell’Emilia-Romagna, della Toscana – e anche di altre regioni del Nord e del centro – avevano abbandonato il laissez faire urbanistico promosso dal governo, e applicavano metodi di pianificazione moderni. Essi tentavano di contrastare le pressioni della speculazione fondiaria per contenere l’espansione disordinata delle città, e prevedevano consistenti spazi pubblici7[7]. Il movimento femminile (e in particolare l’Unione donne italiane) aveva organizzato una grande campagna di massa per ottenere l’inserimento nei piani urbanistici di adeguate dotazioni di spazi per gli usi collettivi, e interventi normativi e finanziari per la prima infanzia e la scuola a tempo pieno.

Accanto alle rivendicazioni sociali e alle buone pratiche, si manifestavano eventi drammatici. Nel 1966 alcuni episodi colpirono molto l’opinione pubblica: il crollo improvviso di un intero quartiere ad Agrigento e drammatiche alluvioni che minacciarono di travolgere Firenze e Venezia. Quegli eventi rivelavano che il territorio, - devastato dall’invasione delle costruzioni nei luoghi più sensibili, minacciato dai sovraccarichi edilizi su suoli fragili, abbandonato dalle attività agricole e forestali - si ribellava minacciando le città, gli averi e le vite degli gli stessi cittadini. Il Parlamento corse ai ripari con una legge che introduceva elementi di razionalità nell’uso del territorio, generalizzando una pianificazione urbanistica adeguata alle esigenze della vita contemporanea. Non era una legge di riforma, come quella che aveva proposto il democristiano Sullo, ma una misurata razionalizzazione delle pratiche urbanistiche: una “legge ponte” verso una successiva più ampia riforma, per la quale le condizioni non sembravano mature.

Anche la “legge ponte” ebbe una vita stentata; le sue innovazioni furono contrastate sia da contrasti interni alla stessa maggioranza parlamentare che da successivi interventi della Corte costituzionale; questi ponevano in evidenza le contraddizioni tra l’esigenza di destinare spazi adeguati agli usi pubblici a un prezzo contenuto, e il carattere privatistico che caratterizzava in Italia il diritto di proprietà immobiliare8[8]. Ma più robuste pressioni sociali si preparavano.

Un biennio decisivo: 1968-1969

In Italia il Sessantotto ebbe caratteristiche singolari. «Solo in Italia – solo in Italia, in tutto il mondo – movimento studentesco e movimento operaio crebbero solidalmente, tendendosi la mano»[9]. Il movimento degli studenti, che come negli altri paesi iniziò nelle aule universitarie per estendersi poi a masse più ampie di giovani, incontrò, e contribuì a preparare e a sostenere, l’altro grande evento di quegli anni: la vertenza sindacale che si aprì tra la primavera del 1968 e l’autunno del 1969[10]. Per la prima volta le rivendicazioni dei lavoratori e della loro organizzazione non riguardavano solo le questioni dei salari e dei contratti nelle fabbriche o le condizioni di lavoro nella campagne, ma affrontava i temi della città: il problema dei trasporti, della casa, dei servizi sociali furono al centro di un vertenza che si concluse con un grande sciopero generale nazionale.

La storia era cominciata a Torino, nella primavera del 1969. Nel marzo 1969 la Fiat aveva pubblicato un bando per assumere negli stabilimenti di Torino 15 mila nuovi addetti, reclutandoli nel Mezzogiorno: trasferendosi ovviamente con le loro famiglie, avrebbe significato almeno 60 mila nuovi immigrati a Torino e l’aumento della popolazione che avrebbe fatto saltare le già precarie strutture residenziali, e quel po’ di attrezzature sociali funzionanti nei comuni della cintura. D’altra parte i programmi di espansione degli impianti e dell’occupazione della Fiat avrebbero ulteriormente aggravato l’emarginazione delle regioni meridionali. I fatti di Torino, gli altri scioperi generali in numerose province nei mesi successivi, le proteste degli abitanti delle baracche e negli altri insediamenti impropri, il ripetersi delle occupazioni di alloggi (e dall’altra parte, l’esistenza di numerosi alloggi i cui canoni d’affitto erano bloccati ai valori di prima della guerre) ponevano in primo piano la necessità di una nuova politica della casa.

L’autunno del 1969 fu il momento più alto del conflitto: si trattava di affermare il diritto alla città come componente essenziale di una società riformata. Quei temi non erano agitati solo da èlite intellettuali e dalle componenti più radicali della sinistra, era l’insieme dei sindacati dei lavoratori che scendeva in campo, con l’appoggio del maggiore partito della sinistra, il Pci, che si avviava ad essere quello col più ampio consenso elettorale. Temi come “diritto alla città” e “la casa come servizio sociale” diventano insomma slogan popolari, che alimentano vertenze diffuse sul territorio. Con il primo termine si chiedono democrazia e partecipazione nelle decisioni urbanistiche, e si rivendicano quartieri dotati di tutto ciò che serve a una vita nella quale il privato si prolunghi nel pubblico e il pubblico serva al privato: servizi, verde, luoghi d’incontro, facilità di vivere e d’incontrarsi. Con lo slogan “casa come servizio sociale” si chiede che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.

Da quel momento iniziò un percorso di innovazioni legislative con le quali si definì un quadro di obiettivi, procedure e strumenti di grande positività[11]. Si raggiunsero traguardi notevoli in particolare a proposito della questione delle abitazioni e in quella degli spazi pubblici nelle aree d’espansione: due temi nei quali, nell’Italia di quegli anni, si riassumeva il tema del “diritto alla città”[12].

Quale idea di città

Le conquiste raggiunte generarono reazioni violentissime: al movimento riformatore si oppose la “strategia della tensione”, che trovò complicità inaspettate ai piani alti del Palazzo. L’utilizzazione del territorio urbano ed extraurbano era una delle poste in gioco: “città come casa della società”[13], oppure città come macchina per produrre ricchezza alla proprietà immobiliare? Ma domandiamoci qual’era l’idea di città – di habitat dell’uomo - che costituiva l’immagine che animava le lotte di quegli anni anni.

Il nesso tra cultura, politica e società era molto stretto. La Resistenza, che costituiva il complesso dei valori cui non solo le forze di sinistra si ispiravano, aveva contribuito se non a rompere, a rendere permeabili le frontiere che separavano l’accademia, i partiti e i movimenti sociali. In particolare la cultura urbanistica (che si era formata in Italia nel periodo fascista guardando alle esperienze dell’Europa democratica) si poneva esplicitamente al servizio della società[14].

Più ancora che dalle università, la cultura urbanistica italiana era alimentata allora dalla pattuglia di urbanisti e amministratori associati nell’Istituto nazionale di urbanistica (INU), e soprattutto dalla sua prestigiosa rivista, Urbanistica, diretta dall’urbanista Giovanni Astengo e finanziata dall’industriale Adriano Olivetti. Molto efficace dal punto di vista della documentazione e della descrizione delle nuove pratiche, la rivista contribuì fortemente a far conoscere ai giovani architetti e ingegneri italiani (la professione di urbanista non era ancora formalizzata) le esperienze dei paesi più evoluti. Olivetti non era impegnato nell’urbanistica solo come sponsor di iniziative culturali, ma aveva fondato e sistematicamente alimentato anche culturalmente un movimento (“Movimento di Comunità”) che aveva nella corretta urbanistica e nella creazione di condizioni di vita pienamente umane nelle città uno dei punti di forza della sua ideologia. L’attenzione era rivolta soprattutto alla costituzione di unità di vicinato capaci di promuovere e sostenere uno spirito comunitario, e alla rimozione degli squilibri territoriali e sociali.

Molti giovani architetti avevano trovato un campo di sperimentazione di nuovi principi dell’housing e del planning nella progettazione dei quartieri di edilizia residenziale pubblica, promossi con il programma INA-Casa negli anni dal 1949 al 1963. Esperienze in larga misura insoddisfacenti, per una serie di ragioni che solo successivamente furono superate, ma che comunque – grazie anche al supporto dell’Ufficio studi, regista culturale del programma – applicavano modelli di riferimento desunti dalle esperienze dei paesi più avanzati.

Gli esempi che soprattutto colpivano i giovani professionisti – propagandisti tra le forze sociali dell’idea di una città a misura d’uomo - erano quelli delle città della socialdemocrazia europea (dal Karl Marx Hof della “Vienna rossa” alle realizzazioni di Bruno Taut negli anni precedenti al nazismo ai quartieri e alle città dell’Olanda e della Scandinavia. Oltre alla riconoscibile forma dei nuovi insediamenti, ai loro efficaci collegamenti mediante trasporti collettivi alle diverse parti della città, alle ampie dotazione di verde, alla contemporaneità nella costruzione degli alloggi e degli spazi pubblici attrezzati, colpiva l’attenzione con la quale erano organizzate e gestite tutte le funzioni che potevano ridurre l’impegno materiale nella gestione domestica (dalle scuole agli asili nido, dalle palestre agli ambulatori, fino ai servizi comuni di caseggiato, come le lavanderie e gli spazi per picnic e incontri di gruppi di amici) e ai percorsi pedonali e ciclabili che connettevano gli spazi socialmente rilevanti.

Negli esempi di buone pratiche europee allora proposti come modelli di riferimento, la stessa organizzazione fisica degli spazi appariva guidata molto più dai ritmi e dai percorsi dei bambini (dall’età della carrozzella a quella della bicicletta), dei loro genitori, degli anziani e dei cittadini qualunque che dagli interessi immobiliari[15]. Di quei paesi colpiva anche molto la politica fondiaria che gli stati e i comuni avevano saputo gestire, mediante la costituzione di grandi patrimoni di aree pubbliche sulle quali dirigere l’espansione della città, rendendo così indipendenti le scelte di organizzazione urbanistica dal peso della rendita fondiaria. Si vedeva nella politica fondiaria una delle condizioni di base che consentivano di costruire città vivibili per tutti i suoi abitanti[16].



2. OGGI.

FORME E SOSTANZA DELLA CITTÀ DEL NEOLIBERALISMO

Il contesto, nel mondo e in Italia

Le parole d’ordine e le conquiste degli anni 60 e 70 cui mi sono finora riferito vanno collocate in un quadro più ampio di progressi sul terreno sociale ed economico: il riconoscimento del diritto al divorzio e all’aborto, lo statuto dei diritti dei lavoratori, l’istituzione del servizio sanitario nazionale e l’abolizione delle strutture manicomiali, l’introduzione del tempo pieno nella scuola elementare, l’istituzione della scuola materna statale, l’estensione del voto ai diciotto anni. Esse emersero da un forte intreccio tra ruolo propositivo degli intellettuali (e la forza rappresentativa della narrazione delle esperienze dell’Europa socialdemocratica), la condivisione da parte delle forze sociali significative , che vedevano in quella narrazione orizzonti raggiungibili e coerenti con le loro aspirazioni, e capacità di mediazione tra obiettivi (la città desiderata) e strumenti per raggiungerli (azione legislativa e amministrativa).

Ma esse provocarono anche fortissimi contrasti: una reazione che si scatenò subito, agli albori degli anni 70, con la “strategia della tensione” e con gli attentati terroristici, che proseguirono fino all’assassinio di Aldo Moro[17], ne impedirono il raggiungimento e ne prepararono il capovolgimento. Gli anni 80 del XIX secolo sono quelli che gli storici indicano come gli anni della svolta, del regresso, dell’inizio del declino che ancora oggi caratterizza il nostro paese. Ma il germe del degrado c’era già nei decenni precedenti, nei quali probabilmente si intrecciarono le pulsioni verso il rinnovamento civile e quelle verso una utilizzazione meramente egoistica e individualistica dei successi economico ottenuti dal boom degli anni 50. Si discute sul perché la svolta sia avvenuta, ma il consenso è abbastanza ampio sul quando. Almeno per quanto riguarda l’Italia si colloca nella metà degli anni 80 il suo momento principale, perfettamente correlata alla più ampia trasformazione a livello internazionale.

Nel 1983 era nato il governo a guida socialista, premier Bettino Craxi. Negli stessi anni i poteri di Ronald Reagan e Margaret Thatcher erano stati pienamente confermati nei rispettivi paesi. Nel 1984 in Italia un decreto del governo Craxi aveva aperto l’attacco alla scala mobile (al meccanismo, conquistato per tutti i lavoratori nel 1975, che legava le variazioni del salario a quelle del potere d’acquisto) e nell’anno successivo era fallito il referendum indetto dal PCI per difenderlo. Siamo negli anni del trionfo di una nuova visione della società: nuovi valori sono divenuti vincenti nel pensiero comune. Tutto viene declamato in termini di efficienza, di conquista della "modernità", di celebrazione del "Made in Italy", di enfatizzazione della grande rincorsa dello sviluppo che appare ormai inarrestabile e che fa sentire proiettati verso i vertici massimi della scala mondiale.

Benessere e crescita economica erano traguardi raggiunti. Eppure, come osserva lo storico Paul Ginsborg, «crescita economica e sviluppo umano non sono affatto la stessa cosa, e con l’avvicinarsi della fine del secolo la prima giunse a costituire sempre più una minaccia per il secondo. Gli italiani tacevano parte di quel quarto della popolazione mondiale che consumava ogni anno i tre quarti delle risorse e che produceva la maggior parte dell’inquinamento e dei rifiuti»[18]

La ricchezza aumenta, ma le diseguaglianze aumentano al pari dei privilegi. I principi morali si affievoliscono, il successo individuale è l’obiettivo primario al quale tutto il resto può essere sacrificato. Raggiunge il massimo della sua esplicazione quel “declino dell’uomo pubblico” del quale Richard Sennett individua le antiche matrici e le attuali configurazioni[19]. Tutto ciò non poteva mancar di trovare la sua espressione nel destino della città e del suo governo.

La città del neoliberalismo

Molti episodi – sul terreno della cultura, della politica, della legislazione, dell’azione amministrativa – hanno punteggiato il passaggio da una concezione della città e dell’urbanistica all’altra: da quella che ha ispirato i principi del “diritto alla casa e alla città” e ha prodotto quella che, per la sua vicinanza temporale e sostanziale alle politiche sociali di quei medesimi anni, possiamo definire “città del welfare”, e quella che possiamo definire “città neoliberista”. I primi cambiamenti di orientamento intellettuale e morale della cultura urbanistica si vedono già negli anni 70; in molti ambienti universitari si critica la pianificazione urbanistica non per superarne i limiti, rendendola più adeguata alle nuove esigenze, ma opponendole il “progetto urbanistico”. Questo viene presentato come strumento più flessibile per trasformare la città, ma via via si configura come un sistema di decisione definito in base a input forniti dalla proprietà immobiliare: l’iniziativa, insomma, spetta a quest’ultima. Alle proposte intellettuali seguono leggi e decisioni di sindaci, coerenti con questa impostazione, che consentono deroghe via via più ampie alle regole della pianificazione, e sostituiscono a queste la contrattazione, sempre più esplicita, con gli interessi immobiliari.

Tre eventi riassumono il nuovo contesto, tutti in qualche modo connessi a Milano, la grande laboriosa capitale della borghesia industriale italiana, definita “capitale morale” d’Italia in contrapposizione alla flaccida e burocratica Roma, capitale ufficiale. Nel 2000 viene proposto e adottato, in stretta simbiosi tra esponenti della cultura accademica e protagonisti della politica di destra, un nuovo modo di intervenire sulla città: non più un piano urbanistico che definisca regole, vincoli e opportunità stabiliti a priori sulla base di criteri oggettivi, ma un documento d’inquadramento di carattere molto generale e generico, unica cornice nell’ambito della quale l’Amministrazione sceglierà caso per caso, quindi discrezionalmente, le proposte d’intervento presentate dalla proprietà immobiliare20[20]. Nel 2003 un autorevole parlamentare della destra, ex assessore a Milano, presenta un disegno di legge urbanistica nazionale nel quale si sostituisce formalmente la contrattazione con i proprietari immobiliari alla pianificazione urbanistica decisa dalle autorità pubbliche democraticamente elette[21]. Nel 2007 un docente universitario del Politecnico di Milano esprime in modo molto chiaro l’ideologia neoliberista applicata all’urbanistica: la “città del liberalismo attivo” (come l’autore la definisce) ha i suoi cardini nella supremazia assoluta del mercato rispetto a qualunque regola definita da un’autorità a esso esterna, nella identificazione dei proprietari come gli unici soggetti meritevoli di considerazione, nella definizione di una “soglia di decenza” al di sotto della quale l’abitante ha diritto a un aiuto dello stato per potergli consentire di raggiungere i prezzi per l’uso della città pretesi dal mercato[22].

A livello nazionale, se la proposta di legge del centrodestra non riesce a passare, si approvano peraltro numerosi provvedimenti – praticamente senza discontinuità dall’età di Craxi a quella di Berlusconi e dai governi di destra a quelli di centrosinistra - mediante i quali: la pianificazione urbanistica, con le sue procedure e le sue regole, viene sostituita dalla possibilità, via via più generalizzata, si derogare ad essa; le decisioni in materia di organizzazione e uso del territorio urbano ed extraurbano vengono via via trasferite dagli organismi collegiali, dove è presente una pluralità di posizioni, ai “capi” (il sindaco, il presidente della provincia e della regione, il primo ministro); nelle concrete decisioni sul territorio la finalità è sempre più esclusivamente quella di accogliere e accompagnare le iniziative tendenti a ricavare consistenti aumenti di valore delle aree interessate, indipendentemente dalla reale necessità delle trasformazioni previste; alla stessa logica (accrescere i patrimoni privati accollandone le spese alla collettività) si ispirano le decisioni in merito alle grandi infrastrutture, e alle altre opere pubbliche promosse e finanziate col debito pubblico.

L’elemento che caratterizza la condizione urbana nei territori del neoliberismo all’italiana è la progressiva affermazione di un modello di habitat fondato sulla prevalenza di soluzioni individualistiche, precarie e costose - quindi fortemente differenziate a seconda delle diverse capacità di spesa - ai bisogni che nella fase del welfare urbano erano stati affrontati secondo una logica tendenzialmente egualitaria, solidaristica, collettiva, risparmiatrice di risorse.

Il diritto alla casa si è tradotto nella sollecitazione generalizzata alla ricerca di abitazioni a basso costo, in aree lontane dal centro, possibilmente non “valorizzate” da piani urbanistici (quindi spesso in insediamenti abusivi o illegittimi), non servite da una rete di trasporti collettivi né da servizi pubblici, dotate di un brandello di verde privato in sostituzione dei parchi urbani: la miriade di abitazioni unifamiliari o plurifamiliari che alimentano lo sprawl e formano il sempre più esteso insediamento disperso. A questo modello, propagandato dalle immagini pubblicitarie della “casetta nel verde”, possono accedere quelli che hanno un reddito adeguato. Per gli altri (le giovani coppie, gli anziani soli, e le crescenti legioni di lavoratori precari indigeni o immigrati) l’unica alternativa è un alloggio molto distante dal luogo di lavoro, o una sistemazione di fortuna in un edificio abbandonato.

Il diritto ai servizi collettivi è sempre più contraddetto e negato. La politica finanziaria sposta continuamente risorse dagli impieghi sociali al sostegno alle attività economiche, agli interventi suscettibili di favorire investimenti immobiliari e finanziari privati, agli investimento in opere di prestigio ma di scarsa utilità sociale. Ai comuni è sottratta parte delle risorse direttamente trasferite dallo stato; in cambio, l’imposta sulle nuove costruzioni, che era stata istituita nel 1977 per finanziare l’acquisizione e l’utilizzazione di spazi pubblici, è stata “liberata” da questo vincolo e utilizzata per le crescenti esigenze dei comuni. Molte opere pubbliche rilevanti (come gli ospedali) vengono realizzati con un sistema di project financing all’italiana, che accolla allo stato i rischi d’impresa e consente ai finanziatori privati di lucrare aumentando il costo dei servizi accessori. La privatizzazione di servizi pubblici rilevanti per la vita dei cittadini sul territorio (come i trasporti ferroviari) conduce a privilegiare i servizi ad alto prezzo e a ridurre sistematicamente i servizi a breve e medio raggio e a prezzo più contenuto.

Le stesse piazze, i luoghi che simbolicamente rappresentano più d’ogni altro luogo il carattere sociale della città come bene comune, e che sono all’origine dell’invenzione della città nella civiltà europea, hanno subito un progressivo degrado. Sul ruolo dello spazio pubblico è opportuno soffermarsi, per l’incidenza che ha nella protesta che genera il suo degrado, e quindi sulla formazione di una possibile ideologia alternativa.

Le piazze e gli spazi pubblici

Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla romana fino alla città del medioevo e del rinascimento, decisivo è stato il ruolo delle piazze, come il luogo dell’incontro tra le persone e come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Erano i fuochi dell’ordinamento spaziale e simbolico della città. I luoghi dove i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità, dove celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città. Una città senza le sue piazze e i suoi palazzi destinati ai consumi e ai servizi comuni era inconcepibile, come un corpo umano senza scheletro.

Nell’idea e nella realtà che la storia ha consegnato ai contemporanei gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti: tutti gli abitanti possono fruirne, indipendentemente dal reddito, dall’età, dell’occupazione. E sono il luogo dell’incontro con lo “straniero”.

Nel XIX e XX secolo il movimento di emancipazione del lavoro, che nasce dalla solidarietà di fabbrica, si è esteso a tutta la città. Il governo della città non è stato più solo dei padroni dei mezzi di produzione: è cresciuta la dialettica tra lavoro e capitale, è nato il welfare state. I luoghi delle funzioni comuni si sono arricchiti di nuove componenti: le scuole, gli ambulatori e gli ospedali, gli asili nido, gli impianti sportivi, i mercati di quartiere sono stati il frutto di lotte nelle quali le organizzazioni della classe operaia hanno gettato il loro peso. L’emancipazione femminile ha accresciuto ulteriormente il ruolo degli spazi pubblici destinati ad alleggerire il lavoro casalingo delle donne.

Oggi tutto questo è cambiato. In Italia gli standard urbanistici, lo strumento di base per ottenere una quantità ragionevole di aree da dedicare agli spazi, alle attrezzature, ai servizi d’interesse comune, sono in decadenza: se ne propone addirittura l’abolizione. Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.

Alle piazze reali, caratterizzate dall’essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana, si sono sostituite le grandi cattedrali del commercio, caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’obbligo implicito di ridurre l’interesse del frequentatore all’acquisto di merci (per di più sempre più superflue). La piazza, luogo dell’integrazione, della varietà, della libertà d’accesso, è sostituita dal grande centro commerciale, dall’outlet, dall’aeroporto o dalla stazione ferroviaria (da quelli che sono stati definiti “non luoghi”). Parallelamente il cittadino si riduce a cliente, il portatore di diritti si riduce a portatore di carta di credito.

Il legame di continuità tra spazio privato e spazio pubblico egualitario (aperto al ricco e al povero, al cittadino e al foresto, al giovane e al vecchio), già messo in crisi dalla zonizzazione sociale del razionalismo, è definitivamente spezzato dalla segregazione delle gated communities e dell’emarginazione dei diversi. Le regole sono scavalcate dalle deregulation progressivamente estesa a ogni dimensione della pianificazione. La fabbrica è devastata dal ricorso sempre più massiccio ed esclusivo al lavoro precario. L’abitazione non è più un diritto che deve essere assicurato a tutti, indipendentemente dal reddito o dalla condizione sociale. Ognuno è solo al cospetto del mercato, e di un mercato caratterizzato dall’incidenza crescente della rendita.

Lo spazio pubblico e la democrazia

Spazi pubblici e spazio pubblico: due concetti collegati, ma distinti. Quello che definisco spazio pubblico della città non consiste solo nei luoghi fisici dedicati alle funzioni collettive. Non si tratta solo delle piazze e delle scuole, dei municipi e dei mercati, delle chiese e delle biblioteche, de parchi pubblici e delle palestre. Si tratta anche dell’uso che di questi luoghi viene promosso e garantito, e si tratta della possibilità di ciascuno (quindi di tutti) di concorrere alle decisioni. Si tratta, in altri termini, non solo di urbanistica ma anche di equità e di democrazia.

La possibilità e la capacità di incidere sul processo delle decisioni sulla città è un requisito che sempre più fortemente è stato richiesto nel corso della storia. E ho accennato al fatto che negli anni Sessanta la “democrazia di massa”, che aveva caratterizzato la vita politica italiana fin dal dopoguerra, non era più considerata sufficiente: come si fosse aperta – soprattutto dopo il Sessantotto studentesco e operaio - la domanda di una più intensa partecipazione dei soggetti al processo delle decisioni: una domanda che si era tradotta nelle prime esperienze dei “consigli”, formatisi direttamente nei luoghi del lavoro (la fabbrica), dell’apprendimento (la scuola), della vita urbana (il quartiere).

Queste esperienze rimasero isolate e s’insterilirono. Ma se osserviamo quanto è accaduto nei decenni più recenti scopriamo che la democrazia, invece di fare passi avanti, ha fatto – almeno in Italia – poderosi passi indietro, rispetto agli stessi principi della democrazia liberale. Il destino della città non è più pensato come qualcosa che è ancora – sia pure imperfettamente – nelle mani dei cittadini e dei loro eletti. Sempre di più la governabilità (nuova parola chiave) prevale sulla democrazia. Agli organi collegiali (il consiglio comunale o provinciale o regionale) si è sostituito il potere del “capo” (sindaco o presidente della provincia o della regione o del governo). Dalle istanze nelle quali è presente, con facoltà di conoscenza e di controllo, anche la minoranza, il potere è stato trasferito in quelle dove solo la maggioranza ha tutti i diritti. E si è trasferita la responsabilità di decidere sempre più a organismi esterni alle istituzioni democratiche: a “commissari” investiti di pieni poteri, anche di deroga alla legislazione esistente, e alle aziende private.

3. DOMANI

UNA NUOVA IDEOLOGIA: LA CITTÀ COME BENE COMUNE

La speranza dei movimenti

Come riprendere oggi un cammino che consenta di restituire al popolo qualcosa che abbia la dignità di essere definito “diritto alla città”? E quale idea di città, esprimibile in una frase semplice e semplicemente comprensibile, può riassumere oggi i contenuti di quel “diritto”? Questa è l’ultima parte – la più difficile – del mio intervento.

Partiamo dalle cose. Se si conviene che l’idea di città proposta e praticata dal neoliberismo sia insoddisfacente, che l’ideologia che la sorregge debba essere contrastata e sostituita, che per l’habitat dell’uomo (perché a questo ci riferiamo quando parliamo di “città” al di là degli esempi consegnatici dalla storia) debba essere individuato un diverso futuro, allora dobbiamo riferirci a ciò che resiste alle attuali tendenze e cerca di opporsi e di proporre delle alternative. Guardando alla società possiamo dire che il punto di partenza può essere costituito dalla miriade di episodi che nascono spontaneamente, che esprimono sofferenze individuali che però appartengono a moltissime persone, che si traducono spesso in tentativi di aggregazione, associazione, iniziativa comune di protesta (e talvolta anche di proposta). “Dentro queste nuove esperienze – ha scritto un uomo che viene dalla letteratura e dalla politica e che si è immerso nel movimento ambientalista - circola una gran quantità di energie nuove, diverse, provviste di un pensiero forte. Lo stesso potrebbe dirsi delle associazioni nel campo dei diritti civili”[23].

Proviamo a elencare gli argomenti che sollecitano la formazione di comitati e gruppi di cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti. Le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio, sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità. La condizione della salute dell’uomo, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche. Le condizioni della vita urbana, sempre più caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti; difficoltà gravi per accedere ad alloggi a prezzi ragionevoli in luoghi dai quali sia facile e comodo accedere ai servizi e al lavoro. La precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale. La privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione.

Questi temi toccano direttamente l’esperienza di vita dei cittadini. Meno direttamente la toccano altri temi, che pure hanno sollecitato un movimento molto vasto, che costituisce il tessuto connettivo tra moltissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva. Mi riferisco al movimento che tenta di contrastare il consumo di suolo: la trasformazione sempre più estesa di terreni naturali, spesso caratterizzati da una buona agricoltura o da piacevoli paesaggi rurali, in aree urbanizzate dalla speculazione immobiliare o dall’abusivismo.

Il consumo di suolo è molto esteso in Italia. Esso è considerato particolarmente grave perchè in Italia, a differenza che in altri paesi europei, le aree pianeggianti e di fondo valle (che sono quelle più interessate dalla trasformazione in cemento e asfalto) sono una porzione molto limitata del territorio nazionale, perché il territorio è ricchissimo di testimonianze storiche disperse per ogni doive, e perché sono del tutto assenti politiche governative e regionali tendenti a contrastarlo. Fino a pochi anni fa la stessa cultura accademica ignorava il fenomeno e la sua entità. Oggi, a parole, il consumo di suolo è criticato da tutti, ma solo un ampio movimento popolare ha intrapreso una lotta conseguente[24].

E insieme a questi temi, direttamente legati al territorio e ai beni comuni materiali, quelli dei diritti civili: della libertà e della cittadinanza per tutti, di un’equità vera nell’accesso di tutti ai beni dell’informazione, della partecipazione, della decisione, dell’eguaglianza di diritti tra persone minacciate dalla segregazione a causa del colore della pelle, della cultura e della religione, dell’etnia e della lingua, del genere e della condizione sociale.

Se guardiamo a queste rivendicazioni nel loro insieme vediamo che in esse si manifesta la spinta a trasformare i disagi individuali in un’azione comune. É un passaggio importante. Ricorda l’espressione di quel ragazzo della Scuola di Barbiana, nelle colline tra Firenze e Bologna, quando disse che aveva compreso una cosa decisiva: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica»[25]. É la stessa molla che spinse i proletari in fabbrica a diventare forti utilizzando l’unico strumento che potevano opporre alla proprietà del capitale: la solidarietà dei possessori della forza lavoro. Allora il luogo nel quale il conflitto si svolgeva era di per se stesso tale da spingere alla solidarietà: era la fabbrica. Oggi l’habitat dell’uomo è un luogo nel quale è pervasiva la tendenza alla dispersione, alla frammentazione, alla segregazione.

C’è un concetto allora, al quale implicitamente rinviano tutte le vertenze che sopra ho elencato, sul quale si può (e si deve) far leva: occorre che la città (e per estensione l’intero habitat dell’uomo) sia considerato un bene comune. Ma su questa parole converrà soffermarsi.

Città come bene comune

Per comprendere il significato dell’espressione “città bene comune” è utile riflettere su ciascuna delle tre parole che la compongono.

Città

Nell’esperienza europea (ma probabilmente nell’esperienza storica di tutte le civiltà del mondo) la città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città non è un aggregato di case, è la casa di una comunità. Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.

Bene

Dire che la città è un bene significa affermare che essa non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per comprendere la moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi, e anzi per certi versi opposti, di vedere e vivere gli stessi oggetti.

Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.

Un bene, invece, è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.

Comune

Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.

Il termine “comune” presenta peraltro una possibile declinazione negativa, più esplicito nel termine derivato “comunità”. Una comunità è una figura sociale che include (i membri di quell’organismo comune) ma contemporaneamente esclude (gli altri). Né questa declinazione può essere risolta sostituendo a “comune” il termine “collettivo”. É opportuno allora precisare il termine comune” (e “comunità”) con una ulteriore precisazione. Nell’esperienza della vita contemporanea ogni persona appartiene, di fatto, a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera quotidianamente. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande.

Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo, cittadino del mondo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sento le nostre diversità come una ricchezza di tutti.

Quali soggetti nella “città globale”

Nella città l’eguaglianza è sempre stata l’obiettivo di una dialettica mai placata. Sempre vi sono state differenze, più o meno profonde, tra i soggetti che l’abitavano. Differenze tra le diverse categorie di soggetti in relazione alla produzione della città (basta pensare a quelle tra i proprietari di fondi e di edifici e i non proprietari), e differenze in relazione all’uso della città (nell’accesso alle sue diverse parti e componenti, nella scelta tra usi alternativi delle risorse destinate al suo governo). Perciò la città è stata sempre anche il luogo dei conflitti, nei quali le categorie più svantaggiate hanno tentato di raggiungere un livello accettabile di soddisfacimento delle loro esigenze.

Possiamo dire che una città giusta è quella nella quale vi è un ragionevole equilibrio delle condizioni offerte ai diversi gruppi sociali, e nelle quali tendenzialmente a ciascuno è dato di partecipare in modo equo all’uso del bene città e delle sue componenti, e a concorrere in condizioni d’eguaglianza al suo governo.

É probabile che questo obiettivo non sia mai stato raggiunto in modo compiuto. Sembrava che vi si fosse vicini nell’età del welfare, almeno in quella parte del mondo nella quale le virtù del sistema capitalistico borghese avevano condotto a un ragionevole equilibrio tra le forze antagoniste presenti al suo interno, esportando nel mondo dello sfruttamento coloniale le contraddizioni. Oggi sembra che il mondo se ne stia allontanando sempre più.

La tendenza generale sembra infatti quella di un’accentuazione di tutti gli squilibri tra ricchi e poveri, sfruttati e sfruttatori. Tra i due estremi dell’opulenza e della miseria aumenta la casistica delle differenze con una forte propensione al moltiplicarsi di enclaves e recinti, ciascuno dei quali racchiude gruppi sociali diversamente dotati di accesso ai beni ma ugualmente rinchiusi nella loro incapacità di comunicare con gli altri in termini di comprensione, condivisione, cooperazione.

Essi sono però uniti da un comune destino costituito da due elementi. Da un lato, dal fatto di appartenere tutti al medesimo pianeta, le cui risorse appaiono sempre più limitate, e sono contese tra utilizzazioni alternative, dove prevalgono quelle che privatizzano e commercializzano i beni comuni. Dall’altro lato, dal fatto di appartenere a un habitat (e a un’economia) nel quale la tradizionale dimensione del “locale” è sempre più integrata da una dimensione “globale”, che lega tra loro i diversi “locali” in un sistema sempre più governato da attori lontani e irraggiungibili: da un pugno di uomini dotati di poteri invincibili.

L’habitat dell’uomo appare insomma sempre più caratterizzato dalla integrazione di differenti luoghi, ciascuno con la propria storia, le proprie tradizioni, le proprie peculiarità, i propri conflitti, ma tutti legati tra loro dall’essere funzionali a un unico processo di sfruttamento economico e a un unico sistema territoriale. Un sistema territoriale che Saskia Sassen ha definito “città globale”[26], del quale due elementi essenziali garantiscono la sopravvivenza e la funzionalità. Da un lato, “l’infrastruttura globale”, cioè l’insieme delle reti tecnologiche, dei luoghi eccellenti, delle attrezzature di livello mondiale che garantiscono la vita e le attività dei gruppi sociali che detengono il potere. Dall’altro lato, i flussi dei popoli e dei gruppi sociali che la miseria ha “liberato” dalla possibilità di risiedere nei luoghi della loro origine, proseguendovi le attività tradizionali, e ha ridotto così a mera forza lavoro disponibile, e perciò sono idonei a essere utilizzati nei luoghi dove è più opportuno sfruttarne il basso costo.

Tra gli uni e gli altri, tra gli abitanti della “infrastruttura globale” e quelli del “pianeta degli slums[27]”, vive e consuma la massa del “terzo strato”: di quell’insieme di ceti e gruppi che appartengono alla cultura dei padroni, che sono indotti a condividerne l’ideologia e i valori, che aspirano a sedersi anche loro al desk dove si decide e, soprattutto, a condividere i livelli di remunerazioni e i benefici concessi agli abitanti del “primo strato”. Il loro destino oscilla tra il timore di essere gettati tra i poveri da una delle crisi ricorrenti, e la speranza di essere promossi ottenendo una promozione o vincendo qualche premio alla ruota della fortuna. Di fatto, essi costituiscono per i gruppi dominanti un tessuto sociale di protezione nei confronti della moltitudine dei più deboli e più sfruttati, dai quali è sempre possibile aspettare l’insorgenza.

Se questa rappresentazione della città di domani (che è già presente tra noi) è condivisibile, allora il concetto di “diritto alla città”, così com’è stato elaborato nel corso del secolo scorso, richiede oggi un impegno del tutto particolare, poiché sollecita ad affrontare la questione nel quadro della globalità che oggi la caratterizza. Oggi non è più sufficiente perseguire l’equità all’interno di una delle numerose “città”, o tipi di città, della tradizione, ma occorre cercarla nell’insieme dell’habitat dell’uomo, rompere le barriere tra i diversi strati che lo compongono la “città globale. E il tentativo di perseguire l’equità a questo livello non potrà condurre a risultati soddisfacenti se non si terrà conto, insieme a ciò che unisce, anche di ciò che divide: della grande diversità delle condizioni culturali e materiali tra le varie realtà locali che compongono il “globale”.

Non è insomma in un archetipo della vita urbana che si potranno trovare i riferimenti esclusivi di un nuovo paradigma, ma solo nell’attenta ricerca di ciò che – all’interno di tutte le storie, le culture, le tradizioni che hanno caratterizzato i popoli e i luoghi del mondo – costituisce un insegnamento da applicare per costruire, utilizzando le rovine delle vecchie, una nuova città pienamente umana.

Riconquistare la storia e lo spazio pubblico

La città della tradizione non è ancora scomparsa. Sul terreno non sono rimaste solo rovine. C’è anche vita, speranza, e quindi germi di un possibile futuro. Ne ho indicati i segni nelle tensioni sociali che nascono un po’ dappertutto per resistere alla dilapidazione del beni comuni, nelle vertenze aperte per difendere lo spazio e gli spazi pubblici che la globalizzazione neoliberista sta divorando, nei tentativi di ricostruire una nuova socialità – e una nuova politica – dal basso. É da qui bisogna partire.

Beni e valori comuni, spazi e spazio pubblico, funzioni collettive: questo è il punto di partenza segnalato da ciò che si muove nella società. Ed è questo, in definitiva, che la storia ci indica.

Se si vuole costruire un futuro diverso dal presente è dalla storia che bisogna partire. “Historia magistra vitae”, la storia è maestra della vita. Proprio per questo quei poteri che vogliono che le cose rimangano come sono hanno tentato di cancellare la storia (la consapevolezza del nostro passato, delle radici di ciò che siamo e quindi dei germi di ciò che saremo) dalla nostra memoria. Recuperare la memoria, recuperare la storia: questo è ciò che è innanzitutto necessario per contrastare chi vuole appiattire l’uomo sul suo presente, per inculcargli la convinzione che nulla è modificabile, perché tutto ciò che è stato è quello che sarà, ed è tutto già cristallizzato in un presente immodificabile.

La storia – e le lotte di oggi – ci danno un’indicazione precisa: partire dalla difesa e dalla riconquista dello spazio pubblico. In tutti i suoi aspetti. Poiché è spazio pubblico la piazza, sono spazio pubblico le aree destinate alle funzioni collettive, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. Ma è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro. Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane e la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa.

Il compito dell’urbanista

Per un urbanista l’obiettivo della difesa e riconquista dello spazio pubblico pone una molteplicità d’impegni. Il primo , nella situazione di oggi, è quello della difesa del metodo e dello strumento della pianificazione in quanto tale. Senza una visione olistica e di lungo periodo del territorio e delle sue trasformazioni non è possibile realizzare una città equa e umana: non è possibile garantire un futuro nel quale il diritto alla città sia realizzato.

Non basta però una qualsiasi pianificazione. É necessaria una pianificazione che abbia come suoi obiettivi non il privilegio degli interessi immobiliari, né la crescente “valorizzazione economica” del territorio, né lo “sviluppo dell’urbanizzazione” indipendentemente dalle sue finalità, ma il benessere delle popolazioni presenti e future in termini di salute, di accesso alle risorse e a tutti i beni comuni sia naturali che storici. Una pianificazione che assuma tra i suoi compiti principali (se vogliamo contrastare ciò di più negativo oggi accade) il contrasto al consumo di suolo e delle altre risorse naturali limitate, e il soddisfacimento, nell’organizzazione della città e del territorio, delle esigenze collettive dell’abitazione, dei servizi, della mobilità in condizioni di equità per tutti gli abitanti. Una pianificazione che abbia al suo centro la ricerca dell’equità nella dotazione dei servizi , nella libertà dell’uso e dell’accesso agli spazi della vita e delle funzioni collettive indipendentemente dalle condizioni sociali, culturali, economiche, della razionalità nella disposizione delle cose sul territorio, della bellezza nella definizione dei nuovi paesaggi e nella conservazione di quelli esistenti.

Si tratta allora per gli urbanisti – almeno in Italia - di cambiare molto rispetto alle attuali tendenze culturali. Più che tecnici al servizio degli interessi attuali e futuri della maggioranza della popolazione gli urbanisti sono oggi ridotti alla condizione di “facilitatori” degli interessi immobiliari, di “negoziatori” tra le aspettative dei proprietari e utilizzatori di aree da “sviluppare” con l’urbanizzazione indipendentemente dalle priorità sociali, di operatori abili a “perequare” gli interessi dei proprietari immobiliari e del tutto indifferenti alle ben più gravi sperequazioni tra persone, gruppi sociali e classi che abitano la città.

Ma pianificazione significa anche partecipazione dei cittadini al governo del territorio, alle decisioni che concorrono a realizzare le condizioni della vita futura. Perciò lavorare in questa direzione significa anche impegnarsi nel tentativo di espandere le democrazia (la capacità e possibilità di tutti di concorrere alla costruzione del bene comune) al di là dei limiti della democrazia rappresentativa e dell’istituto della delega permanente. Significa allora dare a tutti la possibilità concreta di essere liberi di partecipare alla vita pubblica, rendendo indipendente la libertà dalla proprietà[28].

Significa perciò anche costruire una nuova economia, nella quale il lavoro non sia alienazione (nel senso di ordinamento ad altro da sé) e riduzione dell’attività dell’uomo a merce, ma sia “lo strumento, peculiarmente umano, attraverso cui l’uomo raggiunge i suoi fini”[29]. Ma qui si apre un discorso che andrebbe ben al di là del tema di questo contributo, e di questo stesso fascicolo.

[1]Vezio De Lucia, Se questa è una città. La condizione urbana nell’Italia contemporanea, Roma, Donzelli, 2006, p. 5

1. Il decreto 70 del 13 maggio propone, secondo le intenzioni di chi l’ha proposto e approvato, «misure diverse finalizzate allo sviluppo e al rilancio dell’economia». Secondo lei centra l’obiettivo?

Vi sono diverse “economie” possibili. Quella che domina nelle teorie e della prassi di chi governa oggi l’Italia è un’economia basata sulla privatizzazione dei beni comuni e sull’appropriazione da parte dei privati di tutte le rendite, a cominciare da quella immobiliare. É un’economia il cui obiettivo finale è arricchire i portafogli dei potenti, portando via alla collettività quello che può essere convertito in moneta nei tempi più brevi. A questo fine il decreto è veramente utile. Se invece l’obiettivo è un’economia che valorizzi il lavoro, che arricchisca le dotazioni sociali, che accresca il benessere degli abitanti (a partire dai più deboli) allora certamente gli effetti di questo decreto saranno devastanti.

2. Uno dei punti più discussi riguarda le coste, con tempi di concessione ai privati portati ai 20 dagli iniziali 90 anni, e i distretti turistico alberghieri: quali scenari si aprono?

La questione delle coste è l’esempio più limpido dell’economia perversa cui accennavo. Nella consapevolezza generale, e negli stessi istituti del diritto e delle istituzioni, le nostre coste sono un bene comune e un bene pubblico. Si è riconosciuta questa loro natura nelle stesse leggi e nello stesso assetto patrimoniale instaurato in Italia dalla borghesia capitalista e liberale. Le coste sono state inoltre riconosciute come una componente essenziale del paesaggio nazionale: una delle categorie di beni più rigorosamente tutelati, in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione, e di tutta la legislazione di tutela del paesaggio nata con la legge Galasso del 1985 e delle successive stesure dei codici del paesaggio (dal testo unico della ministra Melandri al codice Urbani e Rutelli.

Tutelare le coste non significa solo rispettarne il paesaggio, ma anche garantirne la più aperta fruizione da parte di tutti. Aprirne l’uso alla cementificazione e alla privatizzazione significa quindi consentirne la distruzione per l’uno e l’altro aspetto. Un’aberrazione che avrebbe richiesto forma di protesta molto più accese di quelle che pure vi sono state, e che hanno prodotto il risultato, peraltro limitatissimo, di ridurre il periodo della loro privatizzazione. Considero del resto questo risultato del tutto irrisorio. La vicenda delle concessioni autostradali ci racconta con chiarezza una storia che certamente si ripeterà: vedremo puntualmente prorogare i termini alla scadenza dei vent’anni. Nel nostro disgraziato paese diventano definitive tutte le decisioni provvisorie, purchè siano devastanti per il pubblico e fruttuose per il privato.

Se davvero ridiventassimo un paese civile (è un’ipotesi che dopo i risultati delle recenti amministrative non mi sento di escludere) certamente impediremmo di governare alcunché a governanti che abbiano promosso, o accettato, un simile abominio: proclameremmo per loro l’interdizione perpetua a qualunque ruolo pubblico.

3. Il decreto continua a semplificare le procedure, sia autorizzative che burocratiche, in ambito edilizio per favorire l’intervento privato e lancia di fatto un nuovo Piano Casa. È deregulation o liberalizzazione?

Nel termine “liberalizzazione” è compresa una certa razionalità. Nell’ambito della produzione di merci (scarpe o panettoni, chiodi o caramelle, opere edilizie o tubi d’acciaio) è ragionevole sostenere che non è compito del settore pubblco produrli. La regolamentazione di ciò che si può fare sul territorio, e in che modi, quantità, funzioni, è certamente nelle competenze di una istituzione che rappresenti la totalità dei cittadini. Del resto la pianificazione urbanistica moderna è stata invenata dagli stati liberali e borghesi nell’età del capitalismo, proprio perché ci si è resi conto che il mercato, da solo, non sapeva né poteva risolvere alcune questioni che richiedevano una visione (e una decisione) collettiva, d’insieme, sistemica. Eppure in Italia siamo proprio nel campo della deregulation proprio in uno dei domini in cui essa è più negativa. Il carattere stupidamente reazionario di queste norme è veramente straordinario; molto più imbarazzante, per noi italiani, che il bunga bunga.

4. Il decreto modifica anche il Codice dei beni culturali, portando ad esempio a 70 anni il limite di 50 per potere apportare vincoli di tutela per i beni immobili. Quale è la sua valutazione come uomo di cultura?

Anche qui siamo in presenza di una follia. Non c’è bisogno di essere “uomo di cultura” per comprendere che cancellare storia e arte è un segno di incapacità a comprendere i principi base della civiltà. Esiste futuro solo per un popolo che conosce e rispetta il suo passato e apprende da esso. Il fatto è che gli anni di cui si vorrebbero cancellare le testimonianze architettoniche sono stati gli anni più fruttuosi della nostra storia recente. Gli anni della Resistenza, della Repubblica, della Costituzione, della speranza per dei domani che cantassero. Gli anni, per esempio, del monumento alle Fosse ardeatine, epitome di ciò che vogliono distruggere.

5. L’Italia attende ormai da molti anni una «legge di governo del territorio» che superi i provvedimenti frammentari e a volte contraddittori che, come conferma anche quest'ultimo, continuano a regolare gli interventi sul territorio. Non c'è anche una responsabilità delle troppe divisioni tra culture non solo urbanistiche?

Non basta una nuova legge urbanistica. Serve una buona legge urbanistica: che sia finalizzata a organizzare città e territori nell’interesse dei cittadini di oggi e di domani, e non nell’interesse della rebdita immpbiloiare, del suo accresciembto, della sua appropriazione da parte dei più potenti. Con questi chiari di luna…

Esiste un bene comune che viene raramente considerato tale: il territorio, inteso non come mera aggregazione di elementi diversi (gli elementi naturali, i beni culturali, le comunità che lo abitano ecc. ecc.), né secondo approcci monodisciplinari che lo contemplino dal punto di vista di una sola delle “discipline” nelle quali si è frantumato il sapere dell’uomo, ma come sistema nel quale intrinsecamente s’intrecciano natura e storia, patrimoni da conservare ed esigenze sociali da soddisfare; come sistema che può essere compreso, difeso, trasformato unicamente se è considerato nell’insieme dei suoi aspetti e degli elementi che lo compongono. Il territorio, insomma come habitat dell’uomo (Bevilacqua 2009).

É alla tutela e alla messa in valore di questo bene comune che sono volte le attenzioni dell’urbanistica: più precisamente, della sua migliore tradizione, oggi appannata dal prevalere di tendenze corrive al mainstream dell’immobiliarismo neoliberistico (Salzano 2010). É a quello stesso obiettivo (alla tutela del bene comune territorio) che è indirizzata l’azione di numerosissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva, in Italia e negli alti paesi europei: l’azione di quella miriade di aggregazioni - temporanee o stabili - di persone che si incontrano per la difesa di questo o quell’altro spazio pubblico e destinato agli usi collettivi, per impedire interventi minacciosi per la salute degli abitanti, per contrastare la trasformazione di paesaggi godibili in distese di case e capannoni, per protestare contro i costi e i disagi della mobilità, per pretendere le attrezzature necessarie per sostenere la vita delle famiglie, per rivendicare l’accesso di tutti alle dotazioni comuni, per ottenere la soddisfazione del diritto a un’abitazione a condizioni sopportabili.

Alcune delle esperienze nelle quali sono coinvolto testimoniano come l’incontro tra queste due realtà (che potremmo definire il pensiero esperto e il pensiero militante) possano condurre a individuare alcune caratteristiche essenziali del bene comune territorio, e alcune modalità dell’aggressione di cui sono vittime. Mi riferisco alla partecipazione all’European Social Forum del 2008 a Malmö (Salzano 2009) e ad altre esperienze di collaborazione con la Cgil, alla conoscenza diretta delle attività della Rete toscana per la difesa del territorio fondata e guidata da Alberto Asor Rosa, dall’esperienza di costruzione di AltroVe, la rete veneta dei comitati e delle associazioni in cui sono personalmente coinvolto, e alle conoscenze che mi derivano dalla gestione di quel nodo di comunicazioni che è costituito ail sito eddyburg.it e dalla sua Scuola estiva di pianificazione territoriale.

L’insieme di queste esperienze mi ha convinto di due cose. Da una parte, della durezza, ampiezza e potenza dell’azione tesa a distruggere il bene comune territorio, e la grande fragilità delle risposte che fino ad oggi è stato possibile mettere in campo. Dall’altra parte, della necessità – per poter resistere e passare al contrattacco – di riflettere su un momento storico che la cultura ufficiale tende a mistificare rimuovendo dalla memoria collettiva gli elementi positivi: mi riferisco ai decenni a cavallo del 1970.

Il saccheggio

Ho provato a riassumere fatti e valutazioni sull’azione distruttiva del territorio in una nota del sito eddyburg.it, di cui riprenderò alcune formulazioni. Ho definito quell’azione come il prodotto di una strategia chiaramente individuabile: quella del saccheggio del bene territorio.

L’obiettivo è chiaro: far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere o divenire oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa.

Per raggiungere quest’obiettivo il primo passaggio riguarda l’ideologia: precisamente, il peso assegnato alle diverse dimensioni della vita dell’uomo e ai saperi che ne determinano le condizioni. L’unica scienza valida è l’Economia. Tutti gli altri saperi sono squalificati: sono ridotti, da Scienza, a mera Tecnologia. E per scienza economica s’intende quella che descrive e ipostatizza l’economia data, questa economia, che ha nel Mercato lo strumento supremo, l’unico capace di misurare il valore delle cose.

Il secondo passaggio logico è la negazione dell’esistenza di beni non riducibili a merci: solo se ogni cosa è “merce”, tutto è soggetto al calcolo economico e il mercato può diventare la dimensione esclusiva delle scelte (e il mercato, nel frattempo, è stato ridoto a lla sua forma di monopolio od oligopolio collusivo: un ossimoro). Il terzo passaggio (e qui si passa decisamente dall’ideologia alla prassi) consiste nell’abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie; l’unica regola ammessa è quella del mondo dei pesci, grazie alla quale il grosso mangia il piccolo.

I beni che si vogliono ridurre a merci, i “commons” che si vogliono privatizzare li conosciamo della nostra esperienza quotidiana e dalle cronache che su eddyburg e con le sue attività registriamo. Il suolo, che deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, né rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) che devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Gli elementi del paesaggio la cui privatizzazione può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.

Si tenta di cancellare o di privatizzare non solo i beni materiali, ma anche quelli che costituiscono la risposta storica alle esigenze che hanno prodotto nel territorio – nell’habitat dell’uomo – trasformazioni di tipo urbano: a cominciare dalle piazze, luogo aperto all’incontro di tutti gli abitanti, trasformate in parcheggi o svuotate da “non luoghi” alternativi (dove contano solo i “clienti”), proseguendo con le scuole, gli ospedali e alle altre attrezzature degli “standard urbanistici”, via via più trasferite dalla fruizione pubblica al servizio a pagamento, e per finire con i servizi per la mobilità, dove via via si squalifica e si riduce il trasporto collettivo (soprattutto quello per le piccole e le medie distanze) e si incentiva la motorizzazione privata. Insomma, tutti gli elementi del “welfare urbano” (possiamo definire così le conseguenze territoriali delle politiche del welfare state) che furono conquistati in due secoli di faticose vertenze sociali e politiche.

Il saccheggio del territorio è un aspetto di un processo culturale e sociale molto più ampio, che degrada e cancella, oltre all’habitat dell’uomo e della società, altre dimensioni e valori essenziali della vita . Il lavoro, la salute, l’eguaglianza, la solidarietà, l’etica. Il meccanismo è lo stesso: ridurre ogni cosa a merce e cancellare tutto ciò che lo impedisce; plagiare le persone e trasformarle, da cittadini a clienti (e sudditi), da produttori a consumatori (o schiavi). É un saccheggio globale, anche nel senso che riguarda tutte le dimensioni della vita personale e sociale. Provoca disagi e sofferenze, quindi genera reazioni. Proteste nascono a partire da ciascuno dei moltissimi aspetti minacciati: dalle diverse componenti del mondo del lavoro (i lavoratori licenziati, i precari, gli inoccupati), delle molteplici sfaccettature dell’ambiente e del territorio (gli spazi pubblici erosi, gli interventi invasivi, il degrado dei paesaggi), dalla riduzione della qualità della vita (l’assenza di abitazioni a prezzi ragionevoli, il costo dei servizi, i disagi della mobilità).

Ma l’insieme di questi malesseri sociali non si unifica, non raggiunge un livello di sintesi capace di competere con l’unitarietà del processo che provoca i mille aspetti del disagio. A una strategia compatta non sa contrapporre una strategia alternativa, ma solo un pulviscolo di proteste e proposte. E quand’anche strategie alternative si manifestano, come accade nella frammentata sinistra italiana, esse sono molteplici, e sono in competizione tra loro prima che contrapposte a quella dominante.

Il diritto alla città

Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avvenne in Italia ciò che era già avvenuto pochi decenni prima in aree meglio governate: le trasformazioni del territorio e la sua attrezzatura furono finalizzate non solo alla maggiore efficienza del sistema produttivo, ma anche al soddisfacimento di bisogno che postulavano modi collettivi per il loro soddisfacimento: l’apprendimento, la salute, la cultura, la rigenerazione fisica, la ricreazione. La stessa esigenza dell’abitare (che è certamente tra quelle primordiali nella trasformazione del pianeta in habitat dell’uomo) diede luogo a trasformazioni territoriali finalizzate a soluzioni collettive. Ciò avvenne soprattutto grazie alla pressione per migliori condizioni di vita che le organizzazioni politiche ed economiche della classe operaia, divenuta consapevole della sua forza costituita dalla solidarietà di fabbrica, riuscirono a strappare. (Il capitalismo recuperò terreno altrove, accrescendo lo sfruttamento nelle regioni colonizzate e negli ambiti della natura: ma questo è un altro discorso).

La riflessione teorica accompagnò l’affermazione del “welfare urbano” proponendo un nuovo diritto: il diritto alla città. Il primo teorizzatore di questo termine, Henry Levebvre (Lefebvre 1968), lo espresse in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio, e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni. Naturalmente queste due possibilità possono divenir effettuali se esiste un’organizzazione urbana del territorio (ossia, se il territorio utilizzato come habitat dell’uomo non è una mera aggregazione di frammenti) e se ne esiste un governo unitario, e cioè un metodo che consenta di configurare un insieme sistematico delle trasformazioni desiderate. É esattamente ciò che si chiama pianificazione urbanistica e territoriale (ma più esatto sarebbe parlare di pianificazione della città e del territorio).

Negli anni immediatamente successivi altre esigenze si aggiunsero a quelle del welfare urbano. Si comprese che le risorse della natura sono limitate, mentre vengono utilizzate dalla macchina produttiva come se fossero inesauribili; si comprese che considerare il territorio come un giacimento da sfruttare e il recipiente d’ogni sozzura prodotta provocava rischi crescenti per la stessa vita degli uomini; si comprese che alcune caratteristiche proprie del territorio costituivano qualità meritevoli d’essere conservate e aperte alla fruizione di tutti. Nacquero, insomma, le esigenze e le proposte dell’ambientalismo. E anche la pianificazione territoriale e urbanistica arricchi i propri strumenti, fino alla deriva dei decenni a noi più vicini.

Credo che oggi si debbano riprendere i contenuti delle parole d’ordine di quegli anni lontani. I due obiettivi che costituiscono il “diritto alla città” devono diventare parte integrante della difesa della “città (e del territorio) come bene comune”. A tutti gli abitanti del pianeta – a quelli oggi presenti e a quelli di domani, al di là dei recinti antichi e di quelli nuovi – deve essere garantita la possibilità di fruire del territorio, nelle sue componenti naturali come in quelle storiche. E a tutti deve essere consentito di partecipare al processo delle decisioni.

Ciò significa che oggi bisogna prendere coscienza dell’insieme delle aggressioni cui il territorio viene sottoposto: non solo di quelle che ne colpiscono una parte e di un aspetto (la consistenza fisica, la possibilità di fruizione e d’accesso, l’appartenenza collettiva o pubblica), ma anche quella che distrugge quel tanto di democrazia nel processo delle decisioni che è stato garantito dal sistema della pianificazione urbanistica. Un sistema nel quale la decisione sugli strumenti che definiscono le trasformazioni previste spetta agli enti elettivi di primo grado, espressione diretta (almeno nella Costituzione della Repubblica) della volontà dei cittadini; nel quale chi partecipa alla decisione è l’insieme dell’organo consiliare, quindi anche le minoranze; nel quale infine al cittadino è garantita la conoscenza del quadro delle decisioni (il piano) prima della sua definitiva approvazione, e quindi il diritto di osservare e opporsi.

Come aggrediscono la sostanza dei beni comuni territoriali così i saccheggiatori distruggono le modalità mediante le quali essi possono diventare oggetti del “diritto alla città”. Sostituiscono all’urbanistica democratica quella contrattata con la proprietà immobiliare; trasferiscono al competenza delle decisioni dagli organi collegiali a quelli monocratici, e dalle istituzioni della Repubblica a commissari ad hoc o alle stesse aziende private; riducono tutti gli spazi (gli spiragli) nei quali può manifestarsi la volontà dei cittadini. Negano il principio stesso della pianificazione, come formazione d’un quadro coerente e sistemico delle trasformazioni progettate per il futuro.

Frammentare le scelte è un modo classico per eludere non solo la capacità d’incidere, ma perfino la conoscenza di ciò che si sta trasformando. E senza conoscenza l’azione di contrasto è cieca.

Bibliografia

Bevilacqua P., Che cos’è il territorio, relazione al Città Territorio Festival di Ferrara, 2009 [http://eddyburg.it/article/articleview/11266/1/304]

Salzano E., Urbanisti ieri e oggi, "AAA Italia" (Associazione nazionale archivi di architettura contemporanea), Bollettino n. 9, 2010 [http://eddyburg.it/article/articleview/15437/0/321]

Salzano E., Mancini O., Chiloiro. S. (a cura di), Città e lavoro. La città come diritto e bene comune, Ediesse, Roma 2009

Lefebvre H., Le droit à la ville, Anthropos, Paris 1968 (trad. it: Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970)

Un progetto, a suo modo coerente, di sostituzione del privato al pubblico ha caratterizzato la politica urbanistica di Berlusconi. Ne sono esempi principali il cosiddetto piano-casa e gli interventi per il post terremoto all'Aquila. Linea comune è stata l'abbandono delle regole pubbliche, utili a costruire nel territorio un insieme sistemico, e il privilegio dato ad una visione individualistica dello spazio. Dimenticando che città e società sono due aspetti della stessa realtà: una non vive senza l'altra. Il consenso a questa politica l'ha trovato cambiando gli strumenti della formazione: non più scuola, parrocchia e casa del popolo, ma televisione commerciale.

Uomo di poche letture e pochi pensieri Berlusconi doveva affidarsi, anche per la sua politica urbanistica, alle pulsioni individuali e alle esperienze personali. Ecco allora i suoi due principi: ognuno è proprietario a casa sua, e fa della sua terra ciò che vuole; i problemi delle città si risolvono costruendo attorno a ciascuna di quelle esistenti una Citta Due, come ha fatto lui a Milano. Questi due principi non sono rimasti mere dichiarazioni. Si sono tradotti in coerenti politiche.

Il pilastro della visione urbanistica

Il pilastro dell’azione del Cavaliere è costituito dalla distruzione del primato dell’autorità pubblica nel governo del territorio.

É da alcuni secoli che le democrazie liberali hanno compreso che non tutti i problemi della società sono risolti dal mercato e che alcune dinamiche, come la crescita e le trasformazioni delle città e dei territorio, dovevano essere governate da un potere esterno al mercato: un potere pubblico. Il territorio è un insieme sistemico, in cui la modifica di un elemento comporta modifiche in tutti gli altri: non si possono sistemare le fabbriche se si trascura l’inquinamento che producono e le infrastrutture che devono alimentarle; non si possono localizzare le abitazioni e le scuole se non si organizzano in loro funzione ferrovie e strade; non si possono localizzare le urbanizzazioni senza sapere che risorse naturali ci sono sotto la superficie. Ecco che allora, già agli albori del XIX secolo, le democrazie borghesi inventarono la pianificazione urbanistica (poi estesa al territorio): un insieme di metodi e strumenti anch’esso, appunto, di carattere sistemico.

La pianificazione urbanistica, in un regime democratico, consente anche trasparenza (maggiore o minore) nella regolazione dei conflitti che nascono tra le diverse utilizzazioni possibili del suolo: conflitti inevitabili nel regime economico e patrimoniale attuale nel mondo capitalistico. Quali che siano comunque gli interessi che si vogliono privilegiare, le leggi delle borghesie liberali disponevano comunque che, in caso di contrasto tra interesse pubblico e interesse privato nell’uso del territorio, fosse il primo a prevalere. Ed è esattamente in questo spirito che le prime leggi urbanistiche del XIX secolo (e in Italia, dal 1865 fino alla legge urbanistica del 1942) determinavano l’esproprio per pubblica utilità, il pagamento di indennità che non remuneravano il maggior valore derivante dalle opere e le decisioni pubbliche, il prelievo fiscale di una quota dei plusvalori derivanti da queste. E adottavano, come quadro prescrittivo di tutte le trasformazioni della città (poi del territorio) la pianificazione.

La demolizione della pianificazione urbanistica è al fondo della visione urbanistica del Cavaliere proprio per le stesse ragioni che ne hanno storicamente motivato nascita e consolidamento. Lo è perché la pianificazione esprime un insieme di regole dettate dal potere pubblico, e lo è perché esprime una visione olistica della politica (quindi antagonista rispetto alla pratica discrezionale del caso per caso e del “quando voglio faccio”). L’odio per la pianificazione urbanistica si esprime in numerosi atti di governo, e in dichiarazioni pubbliche che hanno, nella società attuale, altrettanto valore di una norma.

La continua riproposizione dei condoni dell’abusivismo edilizio e urbanistico ha costituito un invito quasi esplicito a disprezzare piani e regole, “tanto prima o poi ogni abuso sarà condonato”. L’allentamento dei controlli edilizi (dalla concessione edilizia, via via, fino all’autocertificazione dell’intervento) ha significato passare gradualmente dal principio “il potere pubblico stabilisce che cosa si può fare e che cosa si può fare sul territorio e poi il privato agisce e viene penalizzato se contravviene”, al principio “fai quello che vuoi e se violi qualche legge poi, se ho tempo e voglia, provvederò eventualmente a penalizzarti”. Il trasferimento della potestà deliberativa su scelte rilevanti per l’organizzazione del territorio dagli organi elettivi collegiali agli organi di maggioranza e a quelli monocratici (dai consigli alle giunte e ai sindaci e presidenti), hanno vanificato la capacità di controllo da parte delle minoranze e di conoscenza da parte dei cittadini, sacrificando la democrazia al mito della governabilità. L’impoverimento degli strumenti della funzione pubblica, obbligati a ridurre la quantità e la qualità del personale e delle strutture, a cominciare da quelle addette alla pianificazione del territorio e alla vigilanza su di esso ha reso via via impossibile governare efficacemente anche quelle amministrazioni (e non sono molte) che hanno cercato di andare controcorrente. Si è addirittura giunti ad attribuire funzioni rilevantissime, geloso appannaggio dell'amministrazione pubblica, a soggetti ( commissari) scelti in ragione della loro fedeltà al gruppo di potere dominante, con pieno potere di sostituzione agli organi democratici e di deroga dalle procedure di legge. La privatizzazione e commercializzazione dei beni pubblici è stata la conseguenza patrimoniale di quelle azioni sui dispositivi [1].

“Piano-casa” e dopo-terremoto

I casi più rappresentativi della visione urbanistica berlusconiana sono rappresentati da due avvenimenti: il famoso “piano-casa”, la gestione del dopo terremoto in Abruzzo.

Chiamare “piano-casa” quel singolare provvedimento, più mediatico che strutturale, lanciato da Berlusconi nel marzo 2009 è stato già di per sé un bluff. Il provvedimento annunciato con quel titolo non è un programma finalizzato alla realizzazione di alloggi per quelle fasce di abitanti della Repubblica che non riescono a trovare soddisfazione rivolgendosi al mercato privato (come fu per tutti i provvedimenti che si sono susseguiti dalla Liberazione a Prodi), ma semplicemente l’incentivo a chi possedeva già un’abitazione, o comunque un volume edificato, di ampliare la sua proprietà immobiliare e trasformarla nelle sue utilizzazioni, derogando esplicitamente da tutti i regolamenti e i piani nonché (almeno in una prima fase) dalle stesse norme di prevenzione dai rischi o di tutela dei beni culturali e del paesaggio.

Era facile comprendere che aumentare le cubature e le superfici delle costruzioni esistenti in deroga a piani (per di più già spesso sovradimensionati) avrebbe significato compromettere tutte le condizioni della vivibilità: peggiorare le condizioni del traffico, il carico delle reti dell’acqua e delle fogne, ridurre l’efficienza delle scuole, del verde, dei servizi sociali, peggiorare le condizioni dell’aria e dell’acqua, ridurre gli spazi pubblici, rendere più difficile la convivenza. E avrebbe significato privilegiare, nell’economia, le componenti parassitarie rappresentate dalla speculazione immobiliare rispetto a quelle della ricerca, dell’innovazione dei sistemi produttivi, dell’utilizzazione delle risorse peculiari della nostra terra.

Tutti sono caduti nella trappola. Dimenticando la realtà (cioè l’esistenza di un vero “problema della casa”, che quel provvedimento non affrontava neppure marginalmente), trascurando l’impatto che quella linea d’azione avrebbe avuto sulle condizioni delle città, ignorando perfino la sua evidente incostituzionalità [2], tutti accettarono per moneta sonante il “piano-casa”; tranne pochissime eccezioni. Fu addirittura una “regione rossa”, la Toscana, ad adeguare per prima la sua normativa al dictat berlusconiano. Certo, limandone le punte più aspre, ma accettando comunque quel tema: arricchire l’edilizia privata, consolidare il “blocco edilizio”, premiando gli immobiliaristi piccoli e grandi invece di affrontare il problema di chi la casa non ce l’ha.

La “ricostruzione” dei luoghi colpiti dal terremoto in Abruzzo (l’altra scelta emblematica del regime berlusconiano) è una sintesi dell’immaginario urbanistico del Cavaliere. Già nei primi giorni del dopo-terremoto aveva colpito il modo in cui il premier aveva afferrato l’occasione del terremoto per farsi propaganda. Ha colpito gli osservatori più attenti il divario tra la sicumera delle promesse sui tempi e sull’ampiezza della ricostruzione e i tempi e le deficienze quantitative delle realizzazioni. Hanno preoccupato le voci delle infiltrazioni mafiose negli “affari” della ricostruzione, agevolati dalla logica discrezionale dell’emergenza straordinaria e del ricorso al commissariamento. Hanno colpito le condizioni di vita nelle tendopoli: una vita più simile a quella di un campo di concentramento che al riparo provvisorio d’una comunità di cittadini.

Ma la vera tragedia è stata nel modo adottato dal governo (e sostanzialmente accettato dall’opposizione) di procedere alla ricostruzione in riferimento soprattutto a due scelte, tra loro strettamente collegate: l’affidamento della responsabilità esclusiva al commissario del premier, e la ricostruzione “altrove” delle case distrutte.

Con la prima scelta si è colpita la democrazia, e quindi la dimensione stessa della politica. I poteri locali sono stati emarginati fin dal primo giorno, e il loro allontanamento dal luogo delle decisioni ha proseguito e si è rafforzato nel tempo. Invece di allargare l’area della partecipazione popolare (una necessità che l’emergenza rendeva particolarmente stringente) la si è annullata mortificando le istituzioni che la rappresentano.

Con la seconda scelta si è deciso sostituire, alla ricostruzione della città danneggiata dal sisma, un paio di decine di lottizzazioni su aree scelte casualmente senza nessuna logica territoriale e sociale. Lottizzazioni per di più senza attrezzature sociali, senza luoghi di aggregazione: “con una cura maniacale dell’interno degli alloggi”, come scrivono gli autori del rapporto che per primo ha rotto il velo roseo che avvolgeva l’operazione [3], che rivela come per l’ideologia di Berlusconi (le esigenze dell’uomo si riducono a quello dell’individuo: la società cui appartiene non esiste e non interessa. Anzi, può essere minacciosa. Che ciascuno sia solo nel suo guscio, naturalmente alimentato da un televisore.

Le scelte del dopo-terremoto hanno colpito direttamente la società. Città e società sono due aspetti d’una medesima realtà: l’una non vive senza l’altra. Una città svuotata della società che l’ha costruita e trasformata nei secoli e negli anni, che l’abita e la vive, non è una città più di quanto lo siano le splendide rovine d’una Leptis Magna disseppellita dalle sabbie o d’una Pompei liberata dai lapilli. E una società i cui membri siano dispersi sul territorio e trasferiti in siti costruiti ex novo (per di più senza la loro partecipazione) privati dei loro luoghi, degli scenari della vita quotidiana e degli eventi comuni, delle loro istituzioni, è ridotta un insieme di individui dispersi.

Questa, del resto, è la direzione di marcia dell’attuale maggioranza, debolmente e inefficacemente contrastata dall’opposizione. L’impiego del ricorso al commissario per qualsiasi opera o azione che si vuol fare calpestando ogni possibile obiezione o dissenso: l’apoteosi della governabilità del monarca contrapposta alla democrazia di tutti. La costruzione di nuove città invece di recuperare, riusare, riqualificare, rendere vivibili per tutti le città che già esistono, che hanno una storia, che sono abitate da una società viva. Non aveva promesso Berlusconi una “new city” per ogni capoluogo di provincia?

Come per il “piano-casa” anche per la cosidetta “ricostruzione” in Abruzzo l’opposizione è caduta in pieno nella trappola mediatica. Per molti mesi, quando i progetti erano chiarissimi nella loro impostazione e nel loro svolgimento, perfino la stampa più ostile esprimeva lodi per il comportamento della coppia Berlusconi-Bertolaso. Il fatto è che entrambi i versanti dello schieramento politico e culturale condividono le stesse preferenze: privilegiare la governabilità sulla democrazia, scegliere la tempestività dell’intervento trascurando ricerca laboriosa della soluzione più idonea, cancellare la storia e dimenticare così gli ammaestramenti del passato.

L’urbanistica di Berlusconi esprime, in larghissima misura, una strategia che non può che definirsi bipartisan. Una strategia che assume una certa idea di “sviluppo” come l’obiettivo generale cui tendere e cui ispirare l’intera dinamica della società, che vede nel mercato lo strumento capace di misurare, meglio d’ogni altro, non solo il “valore di scambio” delle merci, ma ogni valore che abbia un senso, e che infine nega, o nasconde, o riduce al massimo, la dimensione pubblica privilegiando al massimo quella privata. Ma Berlusconi innesta una marcia in più: assume privatisticamente i poteri pubblici, utilizzando per gestirli i suoi commissari. Les jeux sont faits; il mito del mercato è stato utilizzato per sostituire a quest'ultimo il potere monopolistico di un monarca assoluto.

La strategia del saccheggio

Nella concezione berlusconiana dell’uso del territorio (e più in generale dei beni comuni) l’obiettivo si specifica con chiarezza, esprimendosi in quella che si può definire la strategia del saccheggio[4]. Bisogna far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa. Bisogna negare l’esistenza di beni non riducibili a merci, perchè se ogni cosa è “merce”, ogni cosa è soggetta al calcolo economico e il mercato diventa la dimensione esclusiva delle scelte. Bisogna abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie.

Ecco allora che il suolo deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, nè rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Devono essere privatizzati gli elementi del paesaggio la cui “valorizzazione” può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.

Naturalmente, come abbiamo visto, si devono distruggere le regole. Ma farlo non si può senza ottenere il consenso necessario, poiché (e finché) si opera in un contesto nel quale bisogna rispettare le forme della democrazia. Allora bisogna cambiare la testa della gente. Via lo spirito critico, via la conoscenza, via il sapere diffuso. Via la memoria, se il passato recente ricorda ai più anziani che cosa era stato conquistato e che cosa ci stanno togliendo. E via la storia, magistra vitae e testimonianza del fatto che non tutto è già scritto e che il futuro non è necessariamente appiattito sul presente (non è vero che “There Is No Alternatives”).

Per cambiare le teste basta cambiare gli strumenti della formazione: non più la scuola, la parrocchia, la casa del popolo, è la televisione commerciale che foggia le teste e le coscienze della gente da almeno trent’anni. E allora, disponendo di questo strumento si può far diventare pensiero corrente gli slogan utili alla strategia del saccheggio (“meno stato più mercato”, “privato è bello”, “padrone a casa mia”, “meno tasse per tutti”) e far credere alla “gente” che benessere significa modernizzazione, sviluppo significa crescita, democrazia significa votare una volta tanto, privato è meglio che pubblico, Io è meglio che Noi.

[1]A proposito delle iniziative di Berlusconi nel settore immobiliare (quindi nel campo del territorio e dell'urbanistica), Walter Tocci osserva che «l'insieme di questi provvedimenti configura una coerente politica nazionale, forse l'unica che può fregiarsi di questo titolo, poiché in nessun altro settore si è realizzata una tale concordia di obiettivi e di realizzazioni. Innanzitutto, sul piano politico con una relativa sintonia tra destra e sinistra». "L’insostenibile ascesa della rendita urbana", Democrazia e Diritto, n 1/2009, p. 27.

[2]Vincenzo Cerulli Irelli, Luca De Lucia, “Il secondo 'piano casa': una incostituzionale depianificazione del territorio”, Democrazia e Diritto, n 1/2009, p. 106-116.

[3]Comitatus Aquilanus, L’Aquila. Non si uccide così anche una città?, a cura di Georg Frisch, Clen, Napoli 2009

[4]Questi temi sono affrontati più ampiamente nel sito web eddyburg.it. Vedi in particolare l'”eddytoriale” n. 143.

Caro Signor Presidente, mi permetto di rivolgermi a lei per la mia antica frequentazione del Cespe, il centro di politica economica del Pci. Con tutto il rispetto, lei è stato ingannato a proposito della Val di Susa. La popolazione della Valle sta subendo una violenza insopportabile, che arriva tra le sue case. Non poche saranno abbattute. Si è creata una situazione che più che a una servitù di passaggio, assomiglia a una servitù per la vita. La violenza è sempre deprecabile, ma in Val di Susa siamo di fronte a una violenza grande, del denaro.

I lavori continueranno per dieci e più anni. I bambini cresceranno in miniera, tra polvere e camion di residui di scavo; enormi macchinari disumani e orribili scoppi rumorosi. Le fonti sotterranee saranno compromesse o si perdranno come troppo spesso avviene per gli scavi nella montagna. Forse l'acqua sparirà del tutto - nessuno dei fautori del tunnel ha fatto studi in proposito - e la Valle dovrà essere rifornita dalla pianura, con appositi trasporti di acqua da bere. L'agricoltura perfetta della Valle, i legumi, il vino d'altura, spariranno senza rimedio. Tutto un prevedibile disastro ecologico in cambio di un treno inutile, esagerato simbolo di una concezione sconfitta; e per eseguire un ordine ingiusto.

Caro Presidente, lei ci ha insegnato che gli ordini ingiusti non si eseguono, agli ordini ingiusti si resiste. Lei, Presidente, ha affermato nel suo comunicato che «non si può tollerare che legittime manifestazioni di dissenso, cui partecipano pacificamente cittadini e famiglie si sovrappongano provenienti dal di fuori, squadre militarizzate per condurre inaudite azioni aggressive contro reparti di polizia chiamati a far rispettare la legge».

Ci son dunque due leggi e anche chi protesta è dentro la legge, non solo chi ha il compito di farla rispettare. Tutto questo deve offrire un'ampia materia di riflessione a ogni persona che non viva di preconcetti. Proviamo dunque a discutere nel merito delle cose. Il treno Tav dà lavoro oggi e ne darà per anni. Domani, il treno entrerà in un progetto di viaggiatori e scambi di merci altissimo e crescente.

Ma è proprio così? In verità, l'oggi è ben diverso da come spesso lo si racconta: traffici e passeggeri sono in netta diminuzione rispetto alle previsioni sulle quali l'opera era stata decisa. Per il futuro la vera preoccupazione è che la Valle e il mondo siano soffocati dall'inquinamento, dal troppo pieno; che l'acqua pulita venga a mancare e anche il nutrirsi possa presentare qualche problema maggiore. Per questo una Valle fertile e pulita è un obiettivo intelligente e di primaria importanza.

Noi sappiamo, presidente, che lei si occupa d'altro, ma resta il fatto che le cifre sui traffici alla base del tunnel sono tutte sbagliate. Dire «forse sono discutibili», come i più democratici dei commentatori dei giornali di lunedì lasciano intendere è troppo poco; sono sbagliate e basta. Per questo, moltissimi esperti del ramo oggi sono convinti che il tunnel sarebbe un errore, un po' come lo era una centrale nucleare nelle settimane precedenti il referendum; solo che prevale la morale lassista dell'«Intanto facciamolo. A qualcosa servirà». Oppure si vuol tramutare il treno Tav in un simulacro? Qualcosa di somigliante al cappello dell'imperatore al quale Guglielmo Tell non volle inchinarsi, non volle rendere omaggio, in una Valle poco lontana?

Presidente, venga nella Valle. Si renderà conto di tutto con i suoi occhi, con il suo alto senso di giustizia.

Postilla

La lettera aperta di Parlato apre, sul giornale, un ampio servizio sulla vicenda della Val di Susa Il manifesto è l’unico giornale che abbia costantemente informato sulle ragioni (locali e generali) dell’opposizione alla TAV. Un’opposizione che non è solo nell’interesse della valle (e che comunque anche per questo aspetto avrebbe meritato attenzione da parte di chi governa e di chi informa), ma anche nell’interesse generale. Eppure, anche i documentati rapporti che hanno svelato le bugie dei promotori della TAV non hanno mai ricevuto puntuali repliche, e neppure hanno avuto risposta le domande che sono state ripetutamente avanzate: ultime, quelle di qualche giorno fa da Beni, Mattei e Pipino. Il silenzio della stampa e la sordità dei governanti dura da sette anni almeno. In realtà (come dimostrano anche i commenti di questi giorni) alla ragione si preferisce la retorica demagogica dello “sviluppo” e della “modernazzione”. Nessuno di quelli che contano (con il potere delle istituzioni e con quello dell’informazione) raccolgono le voci critiche (ragionevoli) a QUESTO “sviluppo” e a QUESTA “modernizzazione”.A proposito di quest’ultima parola, ci piacerebbe che certi giornalisti (per esempio, quello che in questi giorni gestisce Prima pagina di RadioTre) si chiedesse se per l’Italia sia più modernizzante costruire un segmento d’un’opera altamente improbabile nel raggiungimento dei risultati proposti, oppure impiegare le stesse risorse per rendere “mmoderna” la rete già esistente, far viaggiare meglio le persone e le merci, e magari lavorare più seriamente sulle “autostrade del mare”.

L’incapacità di chi governa e di chi informa è il vero segno dell’arcaicità del nostro paese e della necessità di modernizzarlo davvero (ma abbandonando la retorica delle Grandi opere). Se non fosse così, non accadrebbe che della vicende TAV in Val di Susa i grandi meida, dipendenti e indipendenti, si accorgano solo quando esplode qualche bottiglia molotov

Flessibilità a Milano

La “Capitale morale d’Italia” è stata spesso chiamata a svolgere il ruolo di sperimentatrice delle pratiche di pianificazione più corrive verso gli interessi privati e individuali e meno garantiste degli interessi pubblici e collettivi. È degli anni Cinquanta e successivi quel “rito ambrosiano” per il quale il rilascio delle licenze edilizie seguiva, quasi istituzionalmente, vie traverse e tolleranti. Gli anni Sessanta e i Settanta hanno visto aumentare di milioni di metri cubi le capacità edificatorie di un “piano regolatore” di cui un’infinità di compiacenti varianti e variantine aveva cancellato ogni capacità regolatrice [1].

Anche negli anni della “urbanistica contrattata” (uno degli strumenti principali di Tangentopoli) Milano fu all’avanguardia. Ricordo ancora le furenti polemiche a sinistra, nelle quali le ragioni del primato del privato erano sostenute e difese dall’assessore comunista all’urbanistica milanese [2]. Già allora una parte della cultura urbanistica forniva la cornice culturale (e le stesse parole d’ordine) alle pratiche del craxismo rampante [3].

L’intreccio tra posizioni “di destra” e posizioni “di sinistra”, tra impostazioni aperte agli interessi privatistici più spinti e posizioni giacobine, è una caratteristica della cultura milanese che andrebbe indagata a fondo. Qui vorrei segnalare che in questi anni di nuovo Milano si presenta con un evento dello stesso segno. Una evento importante, suscettibile di fare scuola più che nel passato: grazie all’autorevolezza culturale di chi la propone, all’intelligenza con la quale è argomentata, all’onestà personale dei soggetti che la propongono e promuovono – e infine, grazie al clima complessivo, particolarmente favorevole a operazioni ispirate al principio “meno stato più mercato”, quale che sia il terreno sul quale si esercitino.

Mi riferisco, in particolare, al documento recentemente approvato dal Consiglio comunale della capitale lombarda, che delinea la politica urbanistica che si adotterà per Milano, gli strumenti che si adopereranno, gli interessi ai quali ci si rivolgerà prioritariamente, i ruoli che si assegneranno ai principali soggetti. È un documento redatto da un gruppo di lavoro coordinato e diretto da Luigi Mazza, noto e apprezzato studioso di urbanistica e pianificazione, dotato d’un ricco curriculum di esperienze, ricerche e frequentazioni, in Italia e all’estero [4]. Il titolo del documento (nella stesura che è stata divulgata prima della sua approvazione da parte del Consiglio comunale) è “Ricostruire la Grande Milano - Strategie, Politiche, Regole”, il sottotitolo esplicativo è : “Documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali”, la paternità è dell’Assessorato alle strategie territoriali, retto da un esponente di Comunione e liberazione nell’ambito di una giunta di destra.

Una valutazione positivadel passato più recente

Il documento parte da una critica intelligente e serrata, e del tutto condivisibile nelle argomentazioni, della pianificazione tradizionale: è sempre da una critica della pianificazione vigente che muovono i tentativi di sua demolizione. Esso accompagna a questa critica una valutazione positiva delle modifiche legislative introdotte nel corso degli anni Ottanta e Novanta. Di queste modifiche legislative (e in particolare degli “strumenti urbanistici anomali”[5] che la caratterizzano) il documento interpreta correttamente – a mio parere - il significato; vale la pena di seguire l’autore in quella che per lui è un’apoteosi e per me, invece, coincide con una critica profonda.

I provvedimenti più recenti hanno segnato un significativo mutamento della legislazione urbanistica rivolto a facilitare i processi di variante del piano regolatore generale, ad introdurre un ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale, e a sviluppare forme consensuali di decisione (p.3).

Sulla base di una puntuale analisi dei nuovi strumenti normativi introdotti a partire dal “decreto Nicolazzi” del 1982, gli autori affermano, con una valutazione complessiva incontestabile, che (i corsivi sono miei)

i nuovi istituti introdotti dal legislatore negli anni ‘90 costituiscono veri e propri strumenti di pianificazione finalizzati ad agevolare la trasformazione e la riconversione di ampie zone del territorio prescindendo dalle regole stabilite per tali zone dal piano regolatore generale. E questo nuovo assetto urbanistico non scaturisce da un atto autoritativo, ma da un accordo con i privati che confluisce nell’accordo di programma e costituisce lo strumento fondamentale per la realizzazione dell’intervento di trasformazione urbana (p.23).

La mia opinione è che in quegli anni “il ruolo cooperativo degli altri attori con l’amministrazione comunale” e le “forme consensuali di decisione” sono stati ricercati e utilizzati (insieme alla valorizzazione dell’abusivismo nel Sud e alla delegittimazione culturale dell’urbanistica) per facilitare quelle pratiche di perverso intreccio tra poteri pubblici e interessi privati cui è stato dato il nome di Tangentopoli. E con quest’ultimo termine non si indica una periodo di particolare estensione e diffusione delle pratiche di corruzione (quelle pratiche, come molti giustificazionisti ricordano spesso, che “sempre ci sono state e sempre ci saranno”), ma una fase particolare della nostra storia: una fase nella quale la corruzione è divenuta chiave di volta di un sistema di potere e bussola accreditata delle decisioni politiche – in particolare di quelle relative al governo del territorio[6].

Certezze e incertezzenel piano regolatore generale

Per gli autori del documento per la Grande Milano le tendenze derogatorie e delegificatorie che si sono manifestate in quegli anni hanno la loro legittimazione nella scarsa rispondenza del piano regolatore generale rispetto alle esigenze degli operatori immobiliari. Il documento riprende e sviluppa con intelligenza le critiche alla vigente pianificazione urbanistica che sono state sviluppate negli ultimi decenni dalla cultura urbanistica italiana. Sviluppa in particolare un aspetto, che mi sembra esprimere con compiutezza il punto di vista dell’operatore immobiliare: un soggetto cui viene riconosciuta, nel documento milanese, nuova e trasparente centralità.

Mi riferisco alla questione delle “certezze e incertezze” del piano regolatore. Il documento osserva a questo proposito che il piano regolatore generale, se “produce due tipi di certezza: la certezza dei diritti esistenti, che il piano conferma, e la certezza dei diritti legati alle trasformazioni prescritte dal piano”, produce anche “due forme di incertezza, dovute alla possibile inadeguatezza delle norme nei confronti delle variabili aspettative del mercato e al possibile mutamento delle norme nel tempo. Inoltre, il processo di pianificazione aggiunge due altre forme di incertezza che riguardano il contenuto e il tempo delle decisioni” (p.29).

Su questo punto conviene soffermarsi perché nella formazione della proposta degli autori gioca un ruolo essenziale. Secondo le categorie adoperate,

”il riconoscimento degli usi esistenti costituisce la certezza dei diritti d’uso in atto e dei valori corrispondenti. La disposizione delle trasformazioni degli usi esistenti e la definizione di nuovi diritti d’uso è anch’essa una certezza — è una certezza giuridica perché il piano è una legge —, ma la prospezione dei nuovi valori legati ai nuovi diritti costituisce […] solo una certezza ipotetica. L’espressione suona come un bisticcio, ma cerca di esprimere il fatto che la prescrizione da parte del piano delle trasformazioni degli usi esistenti è in realtà una disposizione ipotetica o condizionale, in quanto la prescrizione di un nuovo uso del suolo equivale ad un’affermazione del tipo ‘se … allora’. Solo se la prescrizione del piano viene rispettata , allora i nuovi usi verranno posti in atto e si produrranno i nuovi valori” (p. 29).

Di fronte a questo sistema di certezze e incertezze del piano regolatore generale da parte degli operatori viene “una richiesta contraddittoria: da un lato si esprime la domanda di certezze che garantiscano gli investimenti, dall’altro la domanda di flessibilità per permettere di adeguare norme e programmi di investimento alle dinamiche del mercato”.

In definitiva, secondo gli autori del documento, certezze e incertezze “presentano vantaggi e svantaggi, ma le certezze legate alle trasformazioni prescritte dal piano — indicate come certezze ipotetiche — si rivelano un inutile elemento di rigidità del sistema e, per introdurre elementi di flessibilità nel sistema, la loro scomparsa risulta necessaria”.

Modello continentale e modello britannico

Il ragionamento di fondo del documento è sorretto da una valutazione più generale, che costituisce in qualche modo il punto d’avvio dell’intera argomentazione (e della proposta di cui essa costituisce l’abito). Esso ha la sua premessa in una valutazione, a mio parere corretta e condivisibile, delle differenze nelle pratiche e nelle culture della pianificazione presenti in Europa. Nel documento si osserva infatti che:

“la rigidità di sistema non è una caratteristica specifica dell’urbanistica italiana ma di tutta l’urbanistica europea, ad eccezione di quella britannica. La coppia certezza/flessibilità assume caratteri molto diversi nella tradizione urbanistica continentale e in quella britannica. Il confronto tra piano regolatore e piano di struttura britannico permette di capire come il prezzo della flessibilità sia la discrezionalità amministrativa, e come la flessibilità incida sul rapporto tra piano e progetti, e quindi tra amministrazione e operatori, pubblici e privati”.

In che modo differisce questo rapporto nel modello continentale e in quello britannico?

Nel modello continentale il rapporto tra piano e progetti è regolato dal controllo di conformità, mentre nel modello britannico prevale il controllo di prestazione. Nel modello continentale le norme preesistono al progetto e formalmente sono un vincolo-risorsa per l’investitore, nel modello britannico le norme sono, almeno in parte, il frutto di un rapporto negoziale tra l’amministrazione e l’investitore.

Nello svolgere il loro ragionamento agli autori non sfugge la ragione della differenza tra l’impostazione continentale e quella britannica. La “profonda diversità” tra i due sistemi è “dovuta soprattutto al fatto che nella tradizione britannica i diritti di trasformazione urbana sono dello Stato” (p.5).

E la maggiore discrezionalità del modello britannico poggia proprio sulla circostanza “che i diritti di trasformazione degli usi del suolo sono di proprietà dello stato e ciò garantisce al modello la sua flessibilità; al contrario, la mancanza di discrezionalità che caratterizza il modello italiano e continentale è dovuta alla necessità di rispettare i diritti soggettivi di trasformazione degli usi del suolo e ciò determina le certezze formali offerte dal modello”.

Non è certo una differenza da poco. La necessità di un forte e penetrante potere pubblico nel campo delle decisioni sull’uso del territorio, di una pervasiva capacità regolatrice dello Stato sull’esercizio dei diritti immobiliari, sta nel fatto che questi erano stati venduti ai proprietari privati: erano stati individualizzati. Basta rileggere le pagine di Hans Bernoulli[7] per averne un’illustrazione convincente.

È evidente che, là dove lo Stato dispone dei “diritti di trasformazione urbana” (dove cioè il controllo delle trasformazioni è strutturale e patrimoniale) gli interessi collettivi non hanno bisogno di rilevanti supporti normativi e regolativi per essere soddisfatti. Ma è vero anche il contrario: dove i “diritti di trasformazione urbana” appartengono ai privati la tutela degli interessi collettivi ha bisogno di rilevanti supporti normativi e regolativi. Non è anche in questo senso, forse, che può esser letta tutta la discussione sull’urbanistica che si è sviluppata in Italia particolarmente dagli anni 60? Si può dire che il tentativo perseguito prima attraverso l’esproprio generalizzato delle aree di trasformazione urbanistica[8], poi attraverso l’attribuzione allo stato dello jus aedificandi[9], esprimeva proprio l’intenzione di superare il controllo regolativi (sistema dell’Europa continentale) con il controllo strutturale (sistema britannico).

Gli autori del documento dimenticano la profonda differenza strutturale che è alla base dei due modelli. Essi, anzi, si compiacciono del fatto che “malgrado la profonda diversità dei due modelli […] si manifesta sempre più nelle pratiche una loro convergenza”.

Questa, con ogni evidenza, non si esplica nello svilupparsi, nelle società del Continente, della tendenza ad attribuire allo Stato maggiori “diritti di trasformazione urbana”, ma in quella di diminuire, a favore degli interessi immobiliari privati, la capacità regolativa dello Stato anche là dove questo non dispone dei diritti di trasformazione urbana, o ne dispone in misura limitata.

Il modello milaneseuna “convergenza verso il basso”

È proprio alla convergenza “verso il basso” del modello continentale con quello insulare che “fanno riferimento le nuove procedure proposte per Milano”. Si propone la sintesi tra i due modelli e la costruzione di un terzo modello:

È possibile comporre parte delle qualità dei due modelli in un terzo modello caratterizzato da un relativo indebolimento dei caratteri di entrambi, ad esempio, un modello di tipo italiano che acquista flessibilità rinunciando alle certezze ipotetiche. Il modello proposto può essere definito ‘certo e flessibile’, poiché è rigido e certo per quanto riguarda i diritti soggettivi degli usi del suolo esistenti, flessibile e discrezionale per quanto riguarda le possibili trasformazioni dei diritti d’uso del suolo (p.4).

In altri termini, il “modello milanese” si propone di rendere il regime delle trasformazioni urbane certo per il privato, e di renderlo flessibile per il pubblico a vantaggio degli interessi del privato.

Una pianificazione asimmetrica

Ma vediamo più da vicino come si articola la proposta del “modello milanese”. Esso si basa sul presupposto (sulla scelta) che “in sistemi urbani densi e ad alta infrastrutturazione non sia utile conferire un valore normativo alle previsioni di piano regolatore — ad esclusione di particolari salvaguardie —, ma che programmi e progetti di trasformazione urbana debbano essere decisi in attuazione delle strategie della Amministrazione e a seguito della valutazione dei risultati attesi”.

Quest’affermazione può sembrare abbastanza generica. Ma essa viene subito precisata e chiarita:

“In questa prospettiva programmi e progetti costituiscono uno strumento per la verifica e non solo per la messa in opera delle strategie. In altre parole, la realizzabilità di una strategia è provata nel momento in cui viene tradotta in progetti operativi. La redazione dei progetti serve per verificare se una strategia è concretamente realizzabile o, se non lo è, per individuare gli ostacoli a realizzarla, cioè se siano tali gli stessi criteri fissati dall’Amministrazione e/o vincoli determinati dal contesto. In accordo con questa prospettiva, progetti e programmi di intervento proposti da soggetti pubblici e privati sono un contributo indispensabile alla verifica delle strategie dell’Amministrazione, e possono suggerire utili modificazioni o integrazioni delle politiche pubbliche in attuazione delle strategie nonché delle strategie stesse. Infine, anche progetti e programmi proposti indipendentemente dalle strategie sono utili, purché la proposta sia motivata da argomentazioni sufficienti a far modificare le strategie già adottate” (p.47)

In sostanza, la pianificazione comunale si limiti a definire la disciplina delle parti della città già conformate, delle quali si intende conservare la stabilità dell’assetto raggiunto, e dei connessi valori immobiliari. Lì il piano sia certo e inequivocabile.

Dove viceversa si prevedono trasformazioni negli assetti (e nei valori immobiliari), lì la pianificazione sia generale, generica, “strategica”: indichi scenari, obiettivi, indirizzi. Si esprima non in un “piano” (in un documento impegnativo, specificamente riferito al territorio e opposable aux tiers), ma in un “documento”: un documento che peraltro non sia in alcun modo cogente, ma sia continuamente modificabile dai progetti e programmi presentati dagli operatori, purché adeguatamente motivati e argomentati.

In altri termini, la pianificazione dovrebbe essere “certa e flessibile” in modo profondamente asimmetrico. Nelle aree dove i valori immobiliare sono già consolidati, dovrebbe garantire (ai titolari dei valori immobiliari) la certezza della loro stabilità nel tempo. Nelle zone dove invece si possono prevedere trasformazioni, il pubblico sostituisca la certezza delle sue determinazioni con una flessibilità funzionale (verrebbe da dire asservita) agli interessi (alle “convenienze”) degli operatori privati. Quando questi ultimi si manifestassero e divenissero maturi, l’amministrazione dovrebbe tradurli in certezze.

Non sembra che ci sia molto da aggiungere. Del resto, il documento lo afferma già nelle prime pagine: il piano deve essere “rigido e certo per quanto riguarda i diritti soggettivi degli usi del suolo esistenti, flessibile e discrezionale per quanto riguarda le possibili trasformazioni dei diritti d’uso del suolo”.

Gli autori del documento si rendono conto di alcune delle più immediate conseguenze della loro proposta: Essi scrivono infatti:

“È evidente che l’aumento di flessibilità e di discrezionalità comporta maggiori opportunità per gli interessi individuali di accesso al piano e al mercato urbano, ma il rischio che interessi individuali prevalgano sull’interesse generale non dipende dal tipo di strumenti tecnico-giuridici disponibili quanto dalla volontà e dalla capacità politica di resistere a pressioni che sono in contrasto con l’interesse generale”.

È un’osservazione giusta, ma le conseguenze possono essere molto preoccupanti. Gli strumenti tecnico-giuridici sono un sistema di garanzie la cui ratio sta nell’assicurare che gli interessi collettivi, e quelli strutturalmente meno protetti, siano adeguatamente posti al riparo dagli errori e dalle debolezze degli uomini, e dalla partigianeria degli interessi specifici. Rinunciare a quelle garanzie, senza sostituirle con altre, significa trasformare la società in una giungla in cui solo i più forti sopravvivono[10].

A me sembra molto più ragionevole, e più sicuro, cambiare le regole anziché dire che regole non ce ne devono essere più. Da questo punto di vista, mi sembra molto più convincente un’altra “terza via” che si sta tentando di percorrere.

Un’altra “terza via”

Nulla sarebbe più miope che reagire alle trasformazioni sbagliate del vigente sistema di pianificazione (o per meglio dire, del sistema di pianificazione “classico”, poiché quello vigente è già stato abbondantemente deformato) limitandosi a difendere il passato, e la lettera della tradizione. Che i metodi, gli strumenti, le tecniche della pianificazione vadano profondamente trasformati, è evidente a tutti. Strade di innovazione radicalmente differenti da quella proposte da Luigi Mazza – nel rispetto e nella continuità con i principi di fondo della tradizione – sono state percorse, sia pure in modo ancora insufficiente e parziale.

Mi riferisco, per esempio, a quel tentativo, che, con altri, ho cominciato a sperimentare a Venezia negli anni Ottanta, che è stato illustrato in alcuni convegni all’inizio degli anni Novanta[11], che è stato rilanciato dall’INU a partire dal 1994, che ha dato luogo (in forme più o meno chiare) alle leggi regionali recenti[12], e che è sostanzialmente ripreso nel testo unificato della Commissione Ambiente e Territorio della Camera di deputati[13].

È un tentativo che si basa anch’esso sulle critiche all’inefficacia della vigente strumentazione urbanistica, che tende anch’esso a introdurre elementi di flessibilità nella pianificazione e nel governo pubblico delle trasformazioni, che tende anch’esso a introdurre anche nella pianificazione italiana elementi di operatività, ma che – a differenza del “modello milanese” –conserva il primato del potere pubblico nel campo della trasformazioni urbane e territoriali.

Si tratta di quel modello basato sulla distinzione tra due tipi di “regole”:

1. quelle relative alle scelte strategiche e alle “condizioni alle trasformazioni” poste dalle esigenze di tutela delle qualità ambientali e storiche e di prevenzione dei rischi territoriali, da definire in relazione ai tempi lunghi e con prescrizioni “forti”, certe e non negoziabili;

2. e quelle relative alle concrete trasformazioni fisiche e funzionali, da decidere in relazione alle esigenze, alle opportunità, alle disponibilità di risorse e di attori, valutate nel breve-medio periodo e da definire con procedure caratterizzate da flessibilità e negoziabilità: nell’ambito, certamente (e questo è il punto fondamentale) di prestazioni preliminarmente definite.

La distinzione tra il primo tipo di regole (quelle strategiche e strutturali, valide a tempo indeterminato, formate in relazione ad esigenze permanenti o a scelte di lungo periodo) e il secondo (quelle programmatiche, legate alle esigenze, convenienze e previsioni di breve periodo, coincidenti con la durata del mandato amministrativo) consente di risolvere almeno i più rilevanti limiti di efficacia della pianificazione classica. Consente di ridurre consistentemente i tempi della formazione del piano (poiché la base informativa è costruita una volta per tutte, e sistematicamente aggiornata); consente di effettuare altrettanto sistematicamente il monitoraggio delle scelte e la valutazione dei loro effetti; e consente di distinguere molto più chiaramente di quanto oggi non sia l’ambito delle scelte tecniche e quello delle scelte politiche. Ma argomentare tutto questo richiederebbe uno spazio maggiore di quello di questo articolo.

Per concludere, alcuni principi

Intendiamoci, il modello che si esprime nelle proposte dell’INU, nelle leggi urbanistiche che ho citato, nel testo unificato della Camera dei Deputati non è certo – nelle sue differenti formulazioni – limpido e privo di errori. Io stesso ne ho in più occasioni criticato questa o quell’altra applicazione. Nella sua stessa logica di fondo, non è certamente l’unico modello proponibile, e non è neppure detto che sia il migliore.

In tutte le sue formulazioni esso peraltro resta fedele ad alcune prerogative, ad alcuni principi, che a me sembrano essenziali e che del resto appartengono alla tradizione e alla prassi europea. Proverò a enunciarli:

1. il primato del pubblico nella definizione e nel controllo delle scelte di trasformazione del territorio,

2. la definizione preliminare di regole non negoziabili relative alle tutele,

3. la capacità di misurare la coerenza dell’insieme delle trasformazioni,

4. la trasparenza del procedimento di formazione delle scelte,

5. la garanzia degli interessi collettivi coinvolti.

Mi sembra che è a questi principi che bisognerebbe riferirsi nell’esame di qualunque modello di nuova pianificazione, e che è sulla coerenza con essi che si dovrebbe misurarlo.

Così come si dovrebbe ragionare sugli effetti che rischia di avere, sul sistema economico nazionale, un approccio alle trasformazioni urbane che privilegi – come quello milanese - gli interessi degli operatori immobiliari, e che anzi assuma il loro punto di vista come centrale. Resto convinto che una delle radici dei mali del sistema economico italiano (e una delle anomalie italiane rispetto ad altri paesi europei) sia nell’incompiutezza della rivoluzione borghese, nel compromesso tra borghesia capitalistica e ancien régime che fu stipulato per costruire lo stato nazionale, sull’effetto deprimente che la facile percezione di rendite (spostando gli investimenti dalle attività imprenditoriali a quelle rent oriented) ha sempre avuto sul processo d’accumulazione e sulla conseguente tensione all’innovazione.

[1] Lo ha denunciato sistematicamente Giuseppe Campos Venuti, a partire dagli anni ’80. Si veda ad esempio: G. Campos Venuti, Deregulation urbanistica a Milano, introduzione al dossier Milano senza piano – Urbanistica milanese degli anni 80, a cura di V. Erba, “Urbanistica informazioni”, n. 107, anno XVIII, set.-ott.1990. Si veda anche G. Barbacetto, E. Veltri, Milano degli scandali, Laterza, Bari 1991 e, per gli anni più recenti, F. Pagano, In assenza di una nuova legge regionale, o in alternativa..., “Urbanistica informazioni”, n. 171, anno XXVIII, mag-giu 2000.

[2] La polemica tra due assessori, entrambi del PCI, Raffele Radicioni a Torino e Maurizio Mottini a Milano, fu resa esplicita in articoli molto chiari sulla stampa quotidiana di quegli anni. Mottini può essere considerato un anticipatore della linea che affida agli interessi degli operatori e dei proprietari privati l’egemonia nella gestione dell’urbanistica. Si veda, su “L’Unità”, la posizione di Mottini il 18 agosto 1982 e la replica di Radicioni il 2 settembre 1982.

[3] Suscitò reazioni contrastanti un editoriale di “Urbanistica informazioni” (n. 60, anno X, nov.-dic. 1981) in cui criticavo le “complicità oggettive” degli atteggiamenti accademici e neutrali di parte della cultura urbanistica dell’epoca nei confronti di una linea politica emergente, che tendeva a incrinare il principio della funzione pubblica dell’urbanistica.

[4] Il pensiero e la proposta espressi nel documento della giunta milanese erano stati elaborati ed esposti da Luigi Mazza in molti dei suoi scritti: si veda, tra gli altri, Piani ordinativi e piani strategici, “CRU – Critica alla razionalità urbanistica” n. 3, 1995; Difficoltà della pianificazione strategica, “Territorio” n. 2, 1996; Il tempo del piano, “Urbanistica” n. 109, 1996; Certezza e flessibilità, “Urbanistica” n.111, 1999.

[5]Adopero l’espressione impiegata, e sviluppata, nella ricerca Murst 40%, coordinata da F. Indovina, dal titolo Meccanismi economici, procedure e regole finalizzate a indebolire il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali. Un'alternativa, e in particolare nella parte curata da I. Apreda ( Analisi degli strumenti anomali, rispetto alla strumentazione tradizionale, che sono stati introdotti nel recente passato, sia attraverso la legislazione che per iniziativa amministrativa). La ricerca è in corso di pubblicazione presso l’editore Franco Angeli.

[6] Questa tesi l’ho argomentata, con Piero Della Seta, nel libro Italia a sacco, Editori Riuniti, Roma 1992, e ad esso rinvio chi voglia valutarla. Esaurito in libreria, il libro è disponibile nel sito http://salzano.iuav.edu

[7] Hans Bernoulli è un autore oggi poco noto. Nacque a Basilea il 12 febbraio 1876, svolse attività professionale e di studio a Berlino e a Basilea. Docente di pianificazione urbana, fu titolare di cattedra alla Scuola politecnica federale di Zurigo fino al 1939, quando perse l’incarico per la sua attività politica. È morto nel 1959. Autore di numerosi scritti (di urbanistica, architettura, poesia. letteratura), il suo interesse principale è per la città. L’unico suo libro tradotto (in italiano e in francese) è Die Stadt und ihr Boden ( La città e il suolo urbano) la cui prima edizione è a Zurigo, 1945. In Italia, è stato pubblicata da Antonio Vallardi Editore nel 1951. È esaurito da tempo; ampi stralci ne sono stati pubblicati su “Urbanistica informazioni”, n.79, gennaio-febbraio 1985. Inspiegabilmente poco citato nella letteratura urbanistica italiana, un’ampia bio/bibliografia di Bernoulli è in Kunstler Lexikon der Schweiz XX Jahrhundert, ed.Huber & Co. Aktiengesellschaft, Frauenfeld 1958/1961.

[8] La proposta dell’esproprio generalizzato fu avanzata dal ministro democristiano ai Lavori pubblici Fiorentino Sullo nel 1962. Essa consisteva nel prevedere che, nell’attuazione dei piani regolatori comunali, i comuni acquisissero le aree destinate all’espansione, le urbanizzassero e le cedessero agli utilizzatori. Si tratta di un modello largamente adoperato nelle socialdemocrazie dell’Europa centro-settentrionale. Sulla proposta di Sullo, oltre alla stampa dell’epoca, vedi: F. Sullo, Lo scandalo urbanistico, Vallecchi, Firenze 1965; V De Lucia, Se questa è una città, Editori Riuniti, Roma 19922; A. Becchi, La legge Sullo sui suoli, in: “Meridiana - La decisione politica in Italia” n. 29, 1998.

[9] Nel 1968 la Corte costituzionale (sentenza n. 55 , del 9 maggio 1968, depositata in Cancelleria il 29 maggio) dichiarò l’incostituzionalità degli articoli della legge urbanistica del 1942 che sottoponeva gli immobili destinati a spazi pubblici a vincolo a tempo indeterminato e non indennizzato (l’acquisizione pubblica, e quindi l’indennità, erano incerti e non definiti nel tempo). Tra le proposte che emersero nel dibattito giuridico per superare l’impasse acquistò particolare rilievo quella avanzata dal presidente della Corte costituzionale, il moderato Sandulli. Questi (e con lui numerosi giuristi) sosteneva la legittimità costituzionale di una legge che avesse stabilito, in linea generale ed applicata erga omnes, che l’edificabilità è un requisito che non appartiene al proprietario, ma alla collettività. La proposta apparve la prima volta in: E. Capocelatro, Intervista con il presidente della Corte costituzionale, in “L’astrolabio”, n. 27, luglio 1968, ora in “Urbanistica”, n. 53, p. 101-102. Si veda anche: V. De Lucia, E. Salzano, F. Strobbe, Riforma urbanistica 1973; E. Salzano, Fondamenti di urbanistica, Giuseppe Laterza editori, Roma-Bari, 1999.

[10] Quando ho mosso questa osservazione Luigi Mazza mi ha risposto, in pubblico, che la sua risposta si reggeva sul fatto che il gruppo di Comunione e Liberazione milanese (lui li definiva: i “Comunisti Leninisti”) cui faceva riferimento, e in funzione dei quali era stata calibrata la proposta, erano così convinti sostenitori del primato dell’interesse pubblico che si poteva stare tranquilli. Torniamo al cesarismo!

[11] Si veda, in particolare: L. Scano, Le ragioni e i contenuti di una proposta di legge, in: Cinquant’anni dopo la legge urbanistica italiana - 1942-1992, a cura di E. Salzano, Editori Riuniti, Roma 1993, pp.137-153.

[12] Le leggi urbanistiche che, in modo più o meno convincente, si rifanno ai nuovi principi sono quelle della Toscana, legge 5 del1995; Umbria, legge 28 del 1995 e legge 31 del 1997; Liguria, legge 36 del 1997; Basilicata, legge 23 del 1999; Lazio, legge 38 del 1999; Emilia Romagna, legge 217 del 2000. Una prima analisi dei loro contenuti innovativi è reperibile nel già citato sito internet.

[13] Si veda: Camera dei deputati - XIII legislatura, Resoconto della VIII Commissione permanente, (Ambiente, territorio e lavori pubblici), giovedì 11 gennaio 2001, Allegato 2, Norme in materia urbanistica. Sito internet: http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/bollet/frsmcdin.asp?percboll=/_dati/leg13/lavori/bollet/ 200101/0111/html/08/&pagpro=70n1&all=on&commis=08

Non conoscevo Giorgio Todde quando Renato Soru mi chiese di far parte del comitato scientifico per il piano paesaggistico regionale. Mi colpì molto il clima che respirai già al primo incontro. Oltre ai miei amici urbanisti c’era un gruppo di persone che esprimeva altri saperi e altri punti di vista sulla Sardegna: l’antropologo Giulio Angioni, il botanico Ignazio Camarda, il naturalista Helmut Schenk, l’archeologo Raimondo Zucca e lo scrittore Giorgio Todde. Avevano un pensiero in comune, che fu espresso da Renato Soru con parole che ancora ricordo:

«Vorremmo che ci fossero pezzi del territorio vergine che ci sopravvivano. Vorremmo che fosse mantenuta la diversità, perché è un valore. Vorremmo che tutto quello che è proprio della nostra Isola, tutto quello che costituisce la sua identità sia conservato. La “valorizzazione” non ci interessa affatto. Il primo principio è: non tocchiamo nulla di ciò che è venuto bene. Poi ripuliamo e correggiamo quello che non va bene. Rendiamoci conto degli effetti degli interventi sbagliati: abbiamo costruito nuovi villaggi e abbiamo svuotato i paesi che c’erano; abbiamo costruito villaggi fantasmi, e abbiamo resi fantasmi i villaggi vivi».

Parole che mi colpirono. Erano il frutto di una cultura fondata sulla consapevolezza dello spessore e del valore della propria storia e del proprio territorio. Di quella cultura Giorgio Todde è apparso ai miei occhi l’espressione più limpida, quando, stimolato dall’urbanista Filippo Ciccone, cominciai a leggere i suoi pezzi fulminanti su la Nuova Sardegna. Eccoli qui raccolti in un libro, aperto da una stimolante introduzione dell’autoree concluso dal racconto dell’Affaire Tuvixeddu: documenti impervi (tra i quali Todde aiuta a districarsi) d’un conflitto che è la metafora delle vicende dalle quali è tessuta la storia contemporanea dei “paesaggi rinnegati”.

Il conflitto nel quale vive la bellissima Isola (e la Penisola di cui è regione) potrebbe apparire a prima vista quello tra passato e futuro, tra conservazione e trasformazione, tra nostalgia e speranza. Todde rivela subito come stano le cose per lui. Il movente della sua scrittura è il dolore per una condizione molto concreta: noi siamo lo spazio che occupiamo, «e se lo spazio nel quale ci muoviamo si ammala, ci ammaliamo anche noi». Il dolore «non nasce da una nostalgia lacrimosa del “come eravamo” senza azioni e pensiero conseguenti […] ma dalla rabbia e dal dispetto per ciò che abbiamo perduto e dall’angoscia di perdere il bello che ci resta». Nasce dalla consapevolezza piena del valore delle qualità di bellezza, armonia, equilibrio che natura e storia hanno costruito nei millenni in quei paesaggi, e dall’acuta percezione del danno che il prevalere di logiche diverse hanno imposto con le loro trasformazioni.

«Non abbiamo nostalgia del pozzo nero o dell’asinello in cucina. No. É che per costruire in cesso in casa abbiamo distrutto la casa», dice Todde riprendendo le parole che pronunziava «nei primi anni sessanta il vecchio capomastro di un paesino mentre demoliva una bella e grande abitazione di paglia e fango per erigerne un’altra di “blocchetti”. E per non avere l’asino in cucina abbiamo abolito anche gli asini». Altri asini sono subentrati e altri cessi più grandi e diffusi hanno costruito, ma su questo torneremo.

Ci sono parole che ritornano nelle pagine del libro. Sassolini in un percorso nel bosco. La prima è bellezza. É la bellezza del creato, la natura intatta, il segno del divino nella forma del territorio (nei suoi colori, i suoi suoni e i suoi silenzi), il primo e primordiale dei beni che all’uomo sono concessi nell’Isola. Anzi, erano concessi, prima che gli alieni la colonizzassero. Prima che fosse travolta e cancellata quella «filosofia del costruire» che esisteva nell’isola, grazie alla quale «i paesi erano in equilibrio con la terra, erano costruiti con i materiali della terra su cui sorgevano e perciò assomigliavano alla terra, ne riproducevano i colori e perfino l’odore».

A quella filosofia un’altra si è sostituita: quella che Todde definisce sviluppismo (ecco un’altra parola chiave). Lo sviluppismo è «una forma malata dello sviluppo economico», «una forma degenerativa della modernizzazione», la «frangia guasta dello sviluppo». Utilizza speciali operatori, che a un certo punto della storia dell’Isola «sono apparsi in giacca e cravatta: gli sviluppisti». Per essi, «le due parole “intatto” e “arretrato” significano la stessa cosa. Ciò che è intatto è superato, vecchio. Per loro la civilizzazione consiste nel consumare il creato immacolato che è solo uno strumento della crescita, la loro».

La sviluppite è una malattia contagiosa: un’epidemia. E come molte malattie «è democratica e non fa distinzioni. Così colpisce maschi e femmine, ricchi e poveri, individui di destra e di sinistra senza dimenticare quelli di centro».

Todde ama in modo particolarmente intenso la sua isola. Questo lo induce a compiere qualche errore. Sostiene che «ogni società ha un suo sviluppismo endemico più o meno silente» e attribuisce solo alla Sardegna «uno sviluppismo maligno: una forma di autolesionismo grave che arriva alla svendita di sé e del proprio mondo». Non è così purtroppo. Lo sviluppismo maligno un male che sta soffocando l’Italia, che ha invaso ogni regione e ogni città e paese perché ha invaso – prima dei territori – le teste degli italiani. Se c’è anzi una particolarità della Sardegna è che qui la peste dello sviluppismo, e la constatazione dei danni che esso provoca, ha generato una reazione più forte che in altre parti d’Italia. Se è vero che dall’iniziativa di un gruppo di persone che sapevano alzare i propri occhi dall’orrendo pasto che gli alieni stavano compiendo sulle loro coste ha potuto iniziare, con Renato Soru, una riscossa, e produrre quella politica di salvaguardia delle coste (le più minacciate e corrose) che doveva, e dovrà, estendersi all’intero territorio isolano.

La parola sviluppismo si collega ad altre due sulle quali è utile richiamare l’attenzione: valorizzazione e metro cubismo.

La valorizzazione, sostiene Todde, ha un effetto distruttivo, perché consiste «nel togliere il sangue al territorio sino a renderlo esausto e privo di ogni valore». Come tante altre parole, anche “valorizzazione” è stata deformata e piegata, dal suo significato originario e utilizzata a un unico fine: quello economico. Poiché valore, in sé, è una parola ricchissima di significati: esprime l’insieme delle qualità positive di un soggetto o un oggetto. Hanno valore l’amicizia e l’amore, ha valore la nostra storia e il nostro futuro di esseri umani, ha valore il sacrificarsi per qualcosa in cui si crede e per qualcuno che si ama, hanno valore la poesia e la pittura come espressione della propria anima e comunicazione dei propri sentimenti.

Valorizzare significa dunque mettere in luce l’uno o l’altro di questi “valori”. Oggi significa invece unicamente “attribuire valore economico a qualcosa”, cioè trasformare in merce (ossia qualcosa di fungibile, scambiabile, monetizzabile, distruggibile per farne un’altra merce) un bene (ossia qualcosa che ha un valore di per sé, per l’uso che ne può fare l’uomo). Il fatto è che dalla testa degli economisti, e dal funzionamento del sistema economico-sociale, è scomparso il valor d’uso, che vorrebbe esprimere l’utilità di un bene per il soggetto che lo adopera, e tutto si è ridotto al valore di scambio.

Il territorio può essere ridotto a “merce” (da quel “bene” che è) mediante l’operazione implicita nell’altra delle due parole tra loro connesse: metrocubismo. Il metrocubo di cemento e mattoni, il volume edilizio è infatti l’unico valore che l’ideologia corrente riconosce al territorio. Altro che paesaggio, che intreccio di storia e natura, altro che identità e bellezza, ciò che conta è attribuirgli una capacità edificatoria. Si arriva al punto di parlare di “vocazione edificatoria” del suolo, come che la crosta del nostro pianeta avesse come destino intrinsecamente legato alla sua essenza quello di essere maneggiato dai cementifica tori, dagli “operatori immobiliari”.

Già, ecco apparire i colpevoli della valorizzazione metro cubica. Gli “operatori immobiliari”, quelli che stanno seppellendo sotto la “repellente crosta di cemento e asfalto”, direbbe Antonio Cederna, gran parte delle coste intatte della Sardegna prima della “legge salva coste” di Soru e, ancora oggi, i luoghi più belli e sacri, patrimoni storici tramandati nei secoli: come il colle di Tuvixeddu-Tuvumannu, amorosamente difeso e rigorosamente documentato nelle tappe della sua vicenda negli scritti raccolti alla fine del libro.

Alle parole del disastro non può mancare la parola turismo. Riecheggia spesso nelle pagine del libro. Il turista, generalmente visibile in branchi, è un agente della distruzione ma ne è anche la l’alibi e la vittima. É il veicolo della nuova identità finta che si sostituisce a quella vera: è fatta di plastica, non di pietre e di sangue. Il suo habitat è rappresentato dall’hotel Cala di Volpe; un monumento che ancora pochi riescono a individuare come il più ributtante degli ecomostri. «Il ponticello irreale, il canale veneziano, le acque ferme, lo stile falso “rustico”, la patina di “anticatura”, il prato e molte altre caratteristiche costruttive, grandi e minuscole», ecco alcuni degli elementi che fanno di Cala di Volpe una testimonianza utile. «Cala di Volpe è un “falso naturale”, una simulazione. E la sua artificialità ne fa un luogo simbolico della finzione. Rappresenta bene la vicenda melanconica di una nuova Disneyland». Cala di Volpe rappresenta splendidamente la mostruosa idea di bellezza “ispirata” al passato che domina nel mondo degli “uomini impagliati” e li induce a cancellare la natura sotto una coltre di camere d’albergo e di annessi.

Come hanno fatto i cementificatori dell’immobiliarismo a sbarcare sulle coste dell’Isola, ad arrampicarsi sui suoi costoni, a far scempio degli antichi paesaggi trasformando la ricchezza della natura e della storia in soldi da esportare nelle loro banche? I traditori stavano dentro le mura. Chi ha aperto le porte ai barbari sono stati quelli che avrebbero dovuto, per loro missione, capeggiare i difensori assediati. Gli accenti più feroci (e al tempo stesso più addolorati) Todde li rivolge ai sindaci.

«Nei nostri comuni con vista sul mare si moltiplicano piccoli sindaci manager. Se il sindaco di un paese concupito dai costruttori è, oppure è stato lui stesso costruttore, allora quel sindaco è in una condizione di conflitto. Diventa un sindaco ossimoro, un ossimoro che governa e contiene in sé due princìpi opposti. Deve, questo sindaco d’impresa, decidere cosa è meglio per il proprio paese. Però sentirà il richiamo della propria visione metrocubica del mondo. Se le cose stanno così, c’è poco da fare. E difatti «molti angoli della nostra isola non riescono più a proteggersi anche perché alcuni suoi borgomastri sviluppisti considerano l’attività politica molto simile a quella immobiliare, e le confondono. Tutt’e due attività lecite, s’intende. Lecite ma in conflitto».

Esemplare di ciò che è accaduto è un paese che rappresenta tutta la Sardegna dei paesaggi rinnegati: San Teodoro, sulla costa orientale, poco più a nord dell’ancora intatta Orosei. «San Teodoro, dati del 2001, era composto da 1260 famiglie e in un territorio piccolo possedeva 9587 case. Otto case circa per famiglia. Un mostro venuto su negli anni ’90. E in dieci anni abbiamo perso San Teodoro che non era solo dei santeodorini i quali hanno scelto di affogare se stessi, ma anche noi, nel cemento».

Insieme ai sindaci, i tecnici. Spesso coincidono. A San Teodoro, ad esempio, «il sindaco è geometra. Su quattro assessori che compongono la Giunta due sono geometri. Il candidato sindaco sconfitto alle elezioni di cinque anni fa era anche lui un geometra. Nel Consiglio comunale di San Teodoro, composto da quindici consiglieri, sedevano tre geometri. Nessuno che abbia alleggerito il carico di metri cubi sul sistema delle acque, anzi». Con i geometri, gli architetti, che troppo spesso «hanno prodotto segni che hanno contaminato la costa e lo hanno fatto con violenza e presunzione. Hanno ripetuto tardivamente errori già fatti nel costruire in natura. Hanno alterato il paesaggio nei suoi aspetti più fragili e sacri, hanno svillaneggiato il genio del luogo. Con l’aggravante che deriva dall’essere dotati di intelletto e sensibilità sufficienti per capire che l’unica soluzione per quei luoghi era il non fare».

Sviluppismo, valorizzazione, metricubi, turismo, sindaci: il disastro è fatto.

«Se il sindaco sviluppista di Olbia, quello di Teulada che conta nel suo astrolabio le stelle dei futuri alberghi, il sindaco edile di San Teodoro, quello di Arbus e della sua costa rosticceria, quello di Palau che, travolto dai metri cubi, murerà perfino se stesso, se il sindaco di Villasimius perso in un labirinto di mattoni, o se i nostri sindaci d’impresa utilizzano la parola “valore” allora la terra trema, la costa e le rive tremano e si sentono perdute. Addio pace e innocenza».

Tuttavia il male è più profondo, viene dalla società: «i sindaci sono scelti democraticamente e rappresentano, come un calco in gesso, le società che li esprimono e che, si vede, volevano proprio un governo dell’edilizia». Il punto è proprio questo. Viviamo in una società malata. Una società nella quale, secondo un percorso in atto da qualche secolo, l’io ha prevalso sul noi e lo ha schiacciato, il presente ha cancellato il futuro e il passato. Ciò che ha senso se vissuto come patrimonio di tutti (qualcosa di cui godere ma da tramandare ai posteri, così come lo si è ricevuto dagli avi) viene sistematicamente ridotto a merce: appropriato, recintato, iscritto al catasto come mio, soggetto alla mia jus utendi et abutendi.

É inevitabile che il territorio rappresenti questa sconfitta. É allora necessario che diventi anche il luogo nel quale si tenta la rivincita. Questa è possibile unicamente se qualcuno si rifiuta di entrare nel cerchio degli uomini impagliati, descritti da Thomas E. Eliot:

Siamo gli uomini vuoti

Siamo gli uomini impagliati

Che appoggiano l'un l'altro

La testa piena di paglia. Ahimè!

Le nostre voci secche, quando noi

Insieme mormoriamo

Sono quiete e senza senso

Come vento nell'erba rinsecchita

O come zampe di topo sopra vetri infranti

Nella nostra arida cantina.

Il libro di Giorgio Todde è rivolto a questi uomini, agli uomini (maschi e femmine) che abbiano resistito agli impagliatori di teste e vogliono restare lucidi per poter conservare la bellezza. Questi uomini stanno combattendo ancora. Un terreno di lotta è quella di cui parla l’ultima parte del libro, la vicenda del colle di Tuvixeddu-Tuvomannu. La grande necropoli dei fenici, dei punici e dei romani, inglobata nello sviluppo edilizio di Cagliari, è la metafora del conflitto tra chi vuole difendere ciò che vale e chi vuole impossessarsi dei patrimoni comuni per trasformarli in moneta. Un conflitto che è in corso in tutta l’Isola (e in tutt’Italia), ma qui emana un particolare sgradevole odore.

É una vicenda nella quale emergono, con forza scandalosa, l’incapacità della cultura accademica a comprendere e a contrastare i delitti contro il bene di tutti, la complicità del potere politico nei confronti degli interessi economici legati al mattone, la trepida acquiescenza di quegli stessi servitori pubblici cui la collettività ha assegnato il compito di difendere l’interesse generale.

Componenti rilevanti della cultura, della politica locale e dell’amministrazione statale hanno infatti dimostrato (le carte raccolte da Todde lo testimoniano) di voler favorire a ogni costo, anche a costo della menzogna, chi voleva distruggere storia e bellezza per costruire la propria ricchezza. Quando hanno voluto sembrare neutrali hanno scelto di patteggiare con chi voleva guastare irrimediabilmente quel monumento in un grande condominio edilizio anche quando era possibile vincere. Quando hanno rinunciato all’ipocrisia hanno brindato con l’autore della distruzione.

Fortunatamente è anche da quei medesimi corpi (la cultura, la politica, l’amministrazione pubblica) che sono nate le reazioni allo scempio: la sua denuncia, l’azione di vincolo, la resistenza nei fori del diritto e in quelli dell’opinione pubblica. É grazie a questa resistenza che possiamo parlare, ancora oggi, di un conflitto e non una guerra perduta. É ancora possibile salvare quel colle e farlo rinascere.

La vicenda di Tuvixeddu-Tuvumanno mi ricorda quella dell’Appia antica a Roma. Lì un vasto comprensorio, ricco di tombe, stadi e mausolei, ville e terme veniva dissipato giorno per giorno per effetto d’una strisciante privatizzazione, seguendo le classiche tappe della recinzione e dell’edificazione. La denuncia appassionata d’un archeologo divenuto urbanista, Antonio Cederna, raccolta da un’opinione pubblica vigile (anche lì, come a Tuvixeddu, c’era Italia Nostra), provocò la correzione di un piano regolatore ambiguo e permissivo da parte di un ministro avveduto, Giacomo Mancini. Fu apposto un vincolo, fu allertato l’interesse degli organismi della tutela, fu avviata la costituzione di un parco, furono cancellate le proposte d’infrastrutture che avrebbero snaturato il paesaggio.

La cultura urbanistica proseguì il ragionamento su quel patrimonio. Ne mise in evidenza la continuità con aree preziose che legavano quel comprensorio al centro della città, all’area dei Fori. Seppe proporre soluzioni intelligenti e ardite. Un sindaco intelligente e coraggioso, Luigi Petroselli, le raccolse. Ne nacque un grande progetto, che avrebbe condotto a ricostruire – più ancora che la forma – il funzionamento della città attorno a quei preziosi patrimoni dell’umanità. Il percorso era idealmente compiuto: dalla denuncia si arrivò al vincolo, dal vincolo si giunse al progetto di città. Poi i tempi cambiarono. Il progetto è rimasto fermo (con esso, fortunatamente, il vincolo), ma l’insegnamento è vivo, come la speranza.

Il percorso completo dovrebbe portare dalla denuncia di una manomissione alla realizzazione di un progetto che ponga in primo piano la riscoperta e il godimento rispettoso di un paesaggio che si vorrebbe distruggere. I passaggi necessari sono quelli del vincolo sul bene e del progetto urbanistico, dove per urbanistico non si intende solo il disegno della conformazione fisica, ma anche l’insieme delle scelte che determinano il ruolo del bene protetto nei confronti della città e del territorio, e della società che li abita della sua fruizione.

Io credo che è in questa direzione che il lavoro iniziato da Giorgio Todde con questo suo libro dovrebbe continuare. Se volessi proseguire la lettura de Il Noce ragionando sulle parole che indicano cose positive, oltre a “intatto” e “bellezza” ne troverei altre due: “conservazione” e “vincolo”.

Sono due parole decisive per chi soffre a causa di ciò vede quotidianamente: la distruzione di tutto ciò che vale in nome d’un solo “valore”, gli affari, la ricchezza individuale espressa in termini di moneta (l’unica “merce” che non è un “bene”: che non ha valore di per sé, ma solo per il potere che può procurare).

Ma la difesa di quello che c’è in nome del divieto di ogni trasformazione è un argine che non tiene a lungo. La trasformazione fa parte della vita. E per millenni si è trasformato il mondo migliorandolo (non sempre, ma spesso). E il paesaggio quale oggi lo ammiriamo e ne godiamo è il prodotto dell’applicazione del lavoro e della cultura dell’uomo alla natura: è il prodotto della collaborazione tra natura e storia (Emilio Sereni e Piero Bevilacqua sono due degli autori che a molti hanno insegnato parecchio a questo proposito.

Allora il problema non è quello di affermare “qui si conserva tutto quello che c’è”, “qui nessuna trasformazione è consentita”. E non è neppure quello di individuare alcune aree nelle quale quelle due parole, conservazione e vincolo, devono essere le uniche che valgono, recintarle e abbandonare tutto il testo alla trasformazione scriteriata. ma di seguire un percorso più difficile ma più efficace. La soluzione ragionevole, al tempo stesso tutelatrice ed efficace, è quella che la cultura italiana aveva individuato al tempo della “legge Galasso”.

Tutto il territorio è intriso di qualità: naturali, storiche, culturali. Queste qualità sono il prodotto della collaborazione tra natura e storia. In ogni brandello del territorio ci sono elementi da conservare ed elementi suscettibili (o bisognosi) d’essere trasformati. Anche un bosco richiede l’abbattimento di certi suoi alberi e il diradamento di certe sue essenze, e anche la necropoli richiede la manutenzione dei suoi elementi (quindi la trasformazione di ciò che gli eventi del tempo, se lasciati soli, provocherebbero). Anche l’edilizia storica, per rimanere viva, richiede trasformazioni, che siano però coerenti con le regole che hanno guidato nei secoli la sua formazione e le sue trasformazioni organiche.

Una cosa è importante stabilire senza equivoci. Le esigenze della tutela delle qualità (naturali, storiche, culturali) di ogni porzione di territorio hanno la priorità – in termini di valori, in termini di utilizzazioni, in termini di tempo – rispetto a ogni trasformazione. E finché regole saggiamente elaborate e rigorosamente amministrate non rendono possibile raggiungere questo status, difendiamo la conservazione anche generale (e generica), difendiamo il vincolo.

Su questa linea, del resto, è stato elaborato il piano paesaggistico della Sardegna. E su questa linea, sulla base di questi principi dovrebbe lavorare una pianificazione della città e del territorio che sappia cogliere l’insegnamento delle migliori esperienze del passato. Dato il mestiere che faccio, vorrei dire anzi che questo è il terreno proprio dell’urbanistica. Se questo mestiere è diventato oggi, troppo spesso, lo strumento di chi vuole trasformare per cancellare quello che c’è e ridurlo a moneta sonante nelle sue tasche, è perché altrettanto spesso i suoi operatori hanno rinunciato allo spirito critico – che è la premessa di ogni lavoro intellettuale – e hanno subito le volontà di una committenza (i sindaci, quando non addirittura gli operatori immobiliari) orientata alla difesa di interessi privati in contrasto con l‘interesse comune. L’interesse della “comunità larga”, costituita da quanti sono oggi presenti nel pianeta Terra, e da quanti lo saranno in futuro.

Esiste un bene comune che viene raramente considerato tale: il territorio, inteso non come mera aggregazione di elementi diversi (gli elementi naturali, i beni culturali, le comunità che lo abitano ecc. ecc.), né secondo approcci monodisciplinari che lo contemplino dal punto di vista di una sola delle “discipline” nelle quali si è frantumato il sapere dell’uomo, ma come sistema nel quale intrinsecamente s’intrecciano natura e storia, patrimoni da conservare ed esigenze sociali da soddisfare; come sistema che può essere compreso, difeso, trasformato unicamente se è considerato nell’insieme dei suoi aspetti e degli elementi che lo compongono. Il territorio, insomma come habitat dell’uomo (Bevilacqua 2009).

É alla tutela e alla messa in valore di questo bene comune che sono volte le attenzioni dell’urbanistica: più precisamente, della sua migliore tradizione, oggi appannata dal prevalere di tendenze corrive al mainstream dell’immobiliarismo neoliberistico (Salzano 2010). É a quello stesso obiettivo (alla tutela del bene comune territorio) che è indirizzata l’azione di numerosissimi comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva, in Italia e negli alti paesi europei: l’azione di quella miriade di aggregazioni - temporanee o stabili - di persone che si incontrano per la difesa di questo o quell’altro spazio pubblico e destinato agli usi collettivi, per impedire interventi minacciosi per la salute degli abitanti, per contrastare la trasformazione di paesaggi godibili in distese di case e capannoni, per protestare contro i costi e i disagi della mobilità, per pretendere le attrezzature necessarie per sostenere la vita delle famiglie, per rivendicare l’accesso di tutti alle dotazioni comuni, per ottenere la soddisfazione del diritto a un’abitazione a condizioni sopportabili.

Alcune delle esperienze nelle quali sono coinvolto testimoniano come l’incontro tra queste due realtà (che potremmo definire il pensiero esperto e il pensiero militante) possano condurre a individuare alcune caratteristiche essenziali del bene comune territorio, e alcune modalità dell’aggressione di cui sono vittime. Mi riferisco alla partecipazione all’European Social Forum del 2008 a Malmö (Salzano 2009) e ad altre esperienze di collaborazione con la Cgil, alla conoscenza diretta delle attività della Rete toscana per la difesa del territorio fondata e guidata da Alberto Asor Rosa, dall’esperienza di costruzione di AltroVe, la rete veneta dei comitati e delle associazioni in cui sono personalmente coinvolto, e alle conoscenze che mi derivano dalla gestione di quel nodo di comunicazioni che è costituito ail sito eddyburg.it e dalla sua Scuola estiva di pianificazione territoriale.

L’insieme di queste esperienze mi ha convinto di due cose. Da una parte, della durezza, ampiezza e potenza dell’azione tesa a distruggere il bene comune territorio, e la grande fragilità delle risposte che fino ad oggi è stato possibile mettere in campo. Dall’altra parte, della necessità – per poter resistere e passare al contrattacco – di riflettere su un momento storico che la cultura ufficiale tende a mistificare rimuovendo dalla memoria collettiva gli elementi positivi: mi riferisco ai decenni a cavallo del 1970.

Il saccheggio



Ho provato a riassumere fatti e valutazioni sull’azione distruttiva del territorio in una nota del sito eddyburg.it, di cui riprenderò alcune formulazioni. Ho definito quell’azione come il prodotto di una strategia chiaramente individuabile: quella del saccheggio del bene territorio.

L’obiettivo è chiaro: far sì che di ogni bene, materiale o immateriale, che possa essere o divenire oggetto di lucro, sia trasferito dall’appartenenza pubblica, o collettiva, o comune a quella di singoli soggetti privati, e possa dare un reddito a chi se ne impossessa.

Per raggiungere quest’obiettivo il primo passaggio riguarda l’ideologia: precisamente, il peso assegnato alle diverse dimensioni della vita dell’uomo e ai saperi che ne determinano le condizioni. L’unica scienza valida è l’Economia. Tutti gli altri saperi sono squalificati: sono ridotti, da Scienza, a mera Tecnologia. E per scienza economica s’intende quella che descrive e ipostatizza l’economia data, questa economia, che ha nel Mercato lo strumento supremo, l’unico capace di misurare il valore delle cose.

Il secondo passaggio logico è la negazione dell’esistenza di beni non riducibili a merci: solo se ogni cosa è “merce”, tutto è soggetto al calcolo economico e il mercato può diventare la dimensione esclusiva delle scelte (e il mercato, nel frattempo, è stato ridoto a lla sua forma di monopolio od oligopolio collusivo: un ossimoro). Il terzo passaggio (e qui si passa decisamente dall’ideologia alla prassi) consiste nell’abolire qualunque regola che possa introdurre criteri e comportare decisioni diverse da quelle che il mercato compie; l’unica regola ammessa è quella del mondo dei pesci, grazie alla quale il grosso mangia il piccolo.

I beni che si vogliono ridurre a merci, i “commons” che si vogliono privatizzare li conosciamo della nostra esperienza quotidiana e dalle cronache che su eddyburg e con le sue attività registriamo. Il suolo, che deve avere quale unica utilizzazione quella più lucrosa per il proprietario (cui non chiede né lavoro, né imprenditività, né rischio): l’edilizia. Gli immobili pubblici, aree o edifici che siano (le prime saranno trasformate anch’esse in edilizia) che devono diventare privati ed essere adibiti a funzioni lucrose. Gli elementi del paesaggio la cui privatizzazione può arricchire i proprietari, come le coste e le spiagge, i boschi, e le stesse aree di maggiore qualità per i lasciti della storia, dall’Appia Antica alla necropoli di Tuvixeddu. Perfino l’ acqua deve essere gestita secondo modelli che la trasformino in possibilità di lucro e la sottomettano alla gestione privata.

Si tenta di cancellare o di privatizzare non solo i beni materiali, ma anche quelli che costituiscono la risposta storica alle esigenze che hanno prodotto nel territorio – nell’habitat dell’uomo – trasformazioni di tipo urbano: a cominciare dalle piazze, luogo aperto all’incontro di tutti gli abitanti, trasformate in parcheggi o svuotate da “non luoghi” alternativi (dove contano solo i “clienti”), proseguendo con le scuole, gli ospedali e alle altre attrezzature degli “standard urbanistici”, via via più trasferite dalla fruizione pubblica al servizio a pagamento, e per finire con i servizi per la mobilità, dove via via si squalifica e si riduce il trasporto collettivo (soprattutto quello per le piccole e le medie distanze) e si incentiva la motorizzazione privata. Insomma, tutti gli elementi del “welfare urbano” (possiamo definire così le conseguenze territoriali delle politiche del welfare state) che furono conquistati in due secoli di faticose vertenze sociali e politiche.

Il saccheggio del territorio è un aspetto di un processo culturale e sociale molto più ampio, che degrada e cancella, oltre all’habitat dell’uomo e della società, altre dimensioni e valori essenziali della vita . Il lavoro, la salute, l’eguaglianza, la solidarietà, l’etica. Il meccanismo è lo stesso: ridurre ogni cosa a merce e cancellare tutto ciò che lo impedisce; plagiare le persone e trasformarle, da cittadini a clienti (e sudditi), da produttori a consumatori (o schiavi). É un saccheggio globale, anche nel senso che riguarda tutte le dimensioni della vita personale e sociale. Provoca disagi e sofferenze, quindi genera reazioni. Proteste nascono a partire da ciascuno dei moltissimi aspetti minacciati: dalle diverse componenti del mondo del lavoro (i lavoratori licenziati, i precari, gli inoccupati), delle molteplici sfaccettature dell’ambiente e del territorio (gli spazi pubblici erosi, gli interventi invasivi, il degrado dei paesaggi), dalla riduzione della qualità della vita (l’assenza di abitazioni a prezzi ragionevoli, il costo dei servizi, i disagi della mobilità).

Ma l’insieme di questi malesseri sociali non si unifica, non raggiunge un livello di sintesi capace di competere con l’unitarietà del processo che provoca i mille aspetti del disagio. A una strategia compatta non sa contrapporre una strategia alternativa, ma solo un pulviscolo di proteste e proposte. E quand’anche strategie alternative si manifestano, come accade nella frammentata sinistra italiana, esse sono molteplici, e sono in competizione tra loro prima che contrapposte a quella dominante.

Il diritto alla città



Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avvenne in Italia ciò che era già avvenuto pochi decenni prima in aree meglio governate: le trasformazioni del territorio e la sua attrezzatura furono finalizzate non solo alla maggiore efficienza del sistema produttivo, ma anche al soddisfacimento di bisogno che postulavano modi collettivi per il loro soddisfacimento: l’apprendimento, la salute, la cultura, la rigenerazione fisica, la ricreazione. La stessa esigenza dell’abitare (che è certamente tra quelle primordiali nella trasformazione del pianeta in habitat dell’uomo) diede luogo a trasformazioni territoriali finalizzate a soluzioni collettive. Ciò avvenne soprattutto grazie alla pressione per migliori condizioni di vita che le organizzazioni politiche ed economiche della classe operaia, divenuta consapevole della sua forza costituita dalla solidarietà di fabbrica, riuscirono a strappare. (Il capitalismo recuperò terreno altrove, accrescendo lo sfruttamento nelle regioni colonizzate e negli ambiti della natura: ma questo è un altro discorso).

La riflessione teorica accompagnò l’affermazione del “welfare urbano” proponendo un nuovo diritto: il diritto alla città. Il primo teorizzatore di questo termine, Henry Levebvre (Lefebvre 1968), lo espresse in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio, e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni. Naturalmente queste due possibilità possono divenir effettuali se esiste un’ organizzazione urbana del territorio (ossia, se il territorio utilizzato come habitat dell’uomo non è una mera aggregazione di frammenti) e se ne esiste un governo unitario, e cioè un metodo che consenta di configurare un insieme sistematico delle trasformazioni desiderate. É esattamente ciò che si chiama pianificazione urbanistica e territoriale (ma più esatto sarebbe parlare di pianificazione della città e del territorio).

Negli anni immediatamente successivi altre esigenze si aggiunsero a quelle del welfare urbano. Si comprese che le risorse della natura sono limitate, mentre vengono utilizzate dalla macchina produttiva come se fossero inesauribili; si comprese che considerare il territorio come un giacimento da sfruttare e il recipiente d’ogni sozzura prodotta provocava rischi crescenti per la stessa vita degli uomini; si comprese che alcune caratteristiche proprie del territorio costituivano qualità meritevoli d’essere conservate e aperte alla fruizione di tutti. Nacquero, insomma, le esigenze e le proposte dell’ambientalismo. E anche la pianificazione territoriale e urbanistica arricchi i propri strumenti, fino alla deriva dei decenni a noi più vicini.

Credo che oggi si debbano riprendere i contenuti delle parole d’ordine di quegli anni lontani. I due obiettivi che costituiscono il “diritto alla città” devono diventare parte integrante della difesa della “città (e del territorio) come bene comune”. A tutti gli abitanti del pianeta – a quelli oggi presenti e a quelli di domani, al di là dei recinti antichi e di quelli nuovi – deve essere garantita la possibilità di fruire del territorio, nelle sue componenti naturali come in quelle storiche. E a tutti deve essere consentito di partecipare al processo delle decisioni.

Ciò significa che oggi bisogna prendere coscienza dell’insieme delle aggressioni cui il territorio viene sottoposto: non solo di quelle che ne colpiscono una parte e di un aspetto (la consistenza fisica, la possibilità di fruizione e d’accesso, l’appartenenza collettiva o pubblica), ma anche quella che distrugge quel tanto di democrazia nel processo delle decisioni che è stato garantito dal sistema della pianificazione urbanistica. Un sistema nel quale la decisione sugli strumenti che definiscono le trasformazioni previste spetta agli enti elettivi di primo grado, espressione diretta (almeno nella Costituzione della Repubblica) della volontà dei cittadini; nel quale chi partecipa alla decisione è l’insieme dell’organo consiliare, quindi anche le minoranze; nel quale infine al cittadino è garantita la conoscenza del quadro delle decisioni (il piano) prima della sua definitiva approvazione, e quindi il diritto di osservare e opporsi.

Come aggrediscono la sostanza dei beni comuni territoriali così i saccheggiatori distruggono le modalità mediante le quali essi possono diventare oggetti del “diritto alla città”. Sostituiscono all’urbanistica democratica quella contrattata con la proprietà immobiliare; trasferiscono al competenza delle decisioni dagli organi collegiali a quelli monocratici, e dalle istituzioni della Repubblica a commissari ad hoc o alle stesse aziende private; riducono tutti gli spazi (gli spiragli) nei quali può manifestarsi la volontà dei cittadini. Negano il principio stesso della pianificazione, come formazione d’un quadro coerente e sistemico delle trasformazioni progettate per il futuro.

Frammentare le scelte è un modo classico per eludere non solo la capacità d’incidere, ma perfino la conoscenza di ciò che si sta trasformando. E senza conoscenza l’azione di contrasto è cieca.

Note bibliografiche

Bevilacqua P., Che cos’è il territorio, relazione al Città Territorio Festival di Ferrara, 2009 [ qui in eddyburg ]

Salzano E., Urbanisti ieri e oggi, "AAA Italia" (Associazione nazionale archivi di architettura contemporanea), Bollettino n. 9, 2010 [ qui in eddyburg]

Salzano E., Mancini O., Chiloiro. S. (a cura di), Città e lavoro. La città come diritto e bene comune, Ediesse, Roma 2009

Lefebvre H., Le droit à la ville, Anthropos, Paris 1968 (trad. it: Il diritto alla città, Marsilio, Padova 1970)

La politica della Fiat nell’era di Marchionne ha colpito molto l’opinione pubblica italiana. Si tratta certamente di una politica fortemente innovativa, che si colloca con autorevolezza nel trend di quella “globalizzazione” che porta alle estreme conseguenze l’inumanità catastrofica raggiunta dal sistema economico-sociale nella sua fase estrema. La questione è stata esaminata da molteplici punti di vista. Ma mi sembra che nessuno abbia messo in rilievo il ruolo che ha svolto, nella crisi dell’industria italiana, quel trasferimento di interessi dalla politica industriale a quella del mattone, dal profitto alla rendita. Un osservatore che guardi alle cose con un po’ di consapevolezza sul ruolo della rendita urbana nelle dinamiche dell’economia e nelle trasformazioni del territorio rimane veramente colpito da alcune stranezze, che vorrei qui rapidamente elencare.

É davvero strano che nessuno, neppure gli analisti più attenti e intelligenti delle politiche sociali e di quelle economiche, si sia chiesto quanto pesi, sulla crisi dell’industria italiana, il fatto che, a partire dagli anni 70, le grandi industrie “moderne” abbiano dirottato le loro risorse dagli strumenti di una politica industriale avveduta e lungimirante (ricerca e innovazione, esplorazione delle nuove esigenze compatibili con i limiti delle risorse e con i nuovi possibili stili di vita e così via) verso l’investimento immobiliare.

É davvero strano che i comuni e le regioni, che piangono oggi per l’abbandono delle attività industriali nelle loro aree, non si domandino quanto sia grande la loro responsabilità, per aver consentito alle industrie di lucrare altissime rendite con le allagre modifiche delle destinazioni d’uso delle loro proprietà, e di abbandonare così le attività produttive a vantaggio della speculazione sul mattone.

É davvero strano che evitino qualsiasi accenno autocritico quegli urbanisti, convertiti al ruolo di facilitatori delle operazioni immobiliari, che hanno promosso o favorito l’applicazione degli strumenti perversi (dai “programmi urbani complessi” agli “accordi di programma”) adoperati dalle amministrazioni, miopi o asservite, per facilitare l’incremento della rendita fondiaria nelle aree ex industriali.

Ed è infine davvero strano che i politici, soprattutto quelli di centrosinistra e di sinistra, non diano segno d’aver compreso la loro responsabilità per aver abbandonato ogni attenzione per le regole elementari di utilizzazione del territorio, e aver lasciato così campo libero alle scorrerie dei “capitani coraggiosi” e degli affari immobiliari (o averle addirittura promosso e favorito), attribuendo agli incrementi della rendita e alla sua appropriazione privata un ruolo salvifico nella crescita del PIL.

É ingenuo sperare che chi ci governa oggi, in Italia e nelle sue città, o pretende di farlo domani, comprenda le proprie responsabilità per quanto è avvenuto, e assuma di conseguenza la difesa del territorio, e il ripristino delle regole di una pianificazione socialmente, culturalmente e ambientalmente orientata, come obiettivo politico primario per oggi e per domani?

A chiunque è consentito riprodurre l’articolo, citandone l’autore e indicando la fonte con la seguente dicitura: “tratto dal sito web http://eddyburg.it”.

Qui vari articoli sulla crisi della Fiat e sulla strategia di Margchionne, le sue cause, conseguenze e rimedi

Complesso è il rapporto tra la cultura e la società. Non sempre la prima guida la seconda, interpretandone i segnali nascosti e dando loro espressione compiuta: individuando i problemi e indicando le soluzioni possibili. A volte è la società che conduce la danza e gli intellettuali sono servili: assecondano, accompagnano, adornano. Ciò vale per la cultura, e vale per le culture specialistiche. E non sempre (anche questo la storia ci insegna) il nuovo è migliore del vecchio, società e cultura camminano verso il progresso.

Se confrontiamo l'oggi con il passato più recente dobbiamo riconoscere che viviamo in una fase di regresso. A chi si occupa di territorio la cosa è del tutto evidente: l'abusivismo dilaga irrefrenabile, e ugualmente devastano i paesaggi l'edilizia legale e l'urbanistica ufficiale. Infrastrutture spesso inutili e sempre ridondanti, sprawl e dispersione urbana, capannoni d'ogni forma materia e foggia, tutto ciò invade i campi e i boschi. le coste e le colline, vicino e lontano dalle città. Le uniche leggi riconosciute come invincibili sono il diritto a costruire ovunque e quello a beneficiare dello “sviluppo del territorio”. La pianificazione urbanistica è considerata il residuo di un passato che solo i nostalgici ricordano. Si tenta perfino di far saltare, come opprimenti “lacci e lacciuoli”, le norme a tutela dei rischi causati dalla fragilità del suolo. Nulla e nessuno deve ostacolare la ricerca del massimo tornaconto individuale.

Se questo è il quadro che esprime i nuovi “valori” della società di oggi, è facile comprendere che la cultura , soprattutto quella urbanistica, non gioca più un ruolo di propulsione attiva e verso il progresso della società. Basta confrontare l'oggi con quando accadde mezzo secolo fa. Gli storici stanno riabilitando gli anni 70 del secolo scorso, dipinti dalla politica revisionista come gli “anni di piombo”, anni da dimenticare. Gli storici ricordano oggi le grandi conquiste che in quegli anni furono compiute (gli anni delle riforme, non del riformismo spicciolo dei nostri tempi): la scuola a tempo pieno, gli asili nido e le scuole materne, il diritto di voto ai diciottenni, lo statuto dei diritti dei lavoratori, il diritto all'interruzione di maternità e quello al divorzio, il servizio sanitario nazionale e l'abolizione dei manicomi. E a proposito di territorio l'obbligatorietà della pianificazione urbanistica comunale, la disciplina dell'espansione privata e la definizione di quella a urbanizzazione pubblica, la tutela urbanistica dei centri storici, l'istituzione delle regioni con poteri di pianificazione d'area vasta, l'introduzione degli standard urbanistici, e gli strumenti per una politica della casa all'avanguardia rispetto agli stessi paesi più evoluti d'Europa, con il controllo di tutti i segmenti del patrimonio abitativo (dall'edilizia a totale carico dello stato all'edilizia privata).

In quegli anni non si raggiunse l'obiettivo di un controllo completo della rendita immobiliare urbana, e della devoluzione di una quota consistente del plusvalore determinato dalla città alle opere d'interesse dei cittadini, ma certamente risultati così significativi non furono mai raggiunti né prima né dopo quella stagione. Nel decennio successivo iniziarono il declino del trend e lo smantellamento dei risultati raggiunti. Sono convinto che la cultura urbanistica, se ebbe un ruolo positivo di rilievo nelle riforme ottenute, ne ebbe uno negativo non del tutto secondario nella fase del riflusso e delle smantellamento.

Il riflusso è iniziato agli inizi degli anni 80. Il primo segnale fu una polemica che, sull'Unità, si aprì tra due assessori entrambi del PCI: il milanese Maurizio Mottini (sensibile interprete di ciò che cultura e politica stavano maturando) sosteneva la necessità di liberare la sostituire, nella pianificazione urbanistica, “alla politica del vincolo la politica dell'uso pubblico dell'interesse privato”, mentre il torinese Raffaele Radicioni individuava la crisi della pianificazione urbanistica nel permanere dell'appropriazione privata della rendita immobiliare . Negli ambienti accademici si teorizzava già la prevalenza del “progetto” sul “piano”: dell’intervento localizzato, delimitato, riferito agli interessi (alla proprietà) di un solo operatore o gruppo di operatori, rispetto al “piano”, necessariamente riferito a un sistema complesso e sistemico, quindi anch’esso necessariamente complesso e sistemico. Contemporaneamente iniziavano i condoni dell’abusivismo, strumenti perniciosi che provocavano l’estendersi del già dilagante abusivismo. Anche su questo aspetto, si registravano posizioni giustificazioniste di una parte almeno della cultura urbanistica.

L’indagine “mani pulite” svelò anche al grande pubblico il baratro nel quale la legalità era caduta con l’estendersi dell’“urbanistica contrattata”: la pratica di asservimento degli interessi pubblici (la corretta pianificazione urbanistica) a quelli privati (la valorizzazione immobiliare), contenute in nuce nelle proposte cui ho accennato. Ancor prima di “mani pulite” alcuni episodi avevano rivelato la tendenza in atto, e provocato critiche e denunce da parte della cultura urbanistica del tempo. Mi riferisco alla vicenda della speculazione sulle aree della Fiat e della Fondiaria a Firenze, alla proposta “la città del possibile” a Napoli, alle migliaia di varianti del PRG di Milano, alla proposta di affidare alle imprese la progettazione dello SDO (Sistema direzionale orientale) di Roma. Ero all’epoca presidente nazionale dell’INU (Istituto nazionale di urbanistica), proposi di criticare fortemente la linea che emergeva da questi casi macroscopici; ciò non accadde, al successivo congresso il gruppo di cui facevo parte fu sconfitto. Anche il glorioso istituto, avanguardia della corretta orbanistica in Italia, era passato dall’altra parte.

Gli anni successivi – placata la tormenta di “mani pulite” – sono quelli nei quali, senza forti discontinuità tra maggioranze di destra e di centrosinistra, le pratiche di uso del territorio hanno via via abbandonato ogni regola volta alla tutela dell’intesse comune (nel campo del governo delle trasformazioni urbane come in quello della tutela dei beni paesaggistici e culturali). La parte maggioritaria della cultura urbanistica ha accompagnato questa tendenza inventando con grande fertilità espressioni e tecniche cha hanno aiutato il crescente predominio degli interessi immobiliari. Tipica la “perequazione urbanistica”: una tecnica che persegue la compensazione di tutti gli interessi proprietari mediante la spalmatura dell’edificabilità su tutto il territorio; tipico il riconoscimento di “diritti edificatori” ineliminabili (secondo gli inventori di questa espressione, sconosciuta allo jure) attribuiti dai piani regolatori; tipico l’allargamento dell’istituto della deroga ai piani mediante l’invenzione di “programmi complessi”, dalle denominazioni fantasiose ma sempre promossi dagli interessi immobiliari.

Dei grandi problemi irrisolti (come il virulento consumo di suolo, il dramma della casa per i non proprietari, la privatizzazione degli spazi pubblici e l’abolizione degli standard) la cultura urbanistica istituzionale si accorge oggi – quando è obbligata a farlo – più per formulare proposte tendenti a facilitare la strategia dominante che per contrastarla.

Venezia, aprile 2010

Qui il sito dell'Associazione nazionale archivi architettura contemporanea (AAA-Italia). Il Bollettino n. 9 è scaricabile qui sotto

La notizia viene confermata. Il governo starebbe per inserire nella manovra finanziaria un provvedimento di condono per gli edifici abusivi emersi dalle verifiche del catasto. Insomma, per compensare gli autori delle speculazioni finanziarie e “risolvere” in tal modo la crisi dell’euro, oltre togliere soldi dalle nostre tasche tagliando salari e pensioni e aumentando tariffe, tolgono speranza al nostro futuro dissipando un po’ di più due beni comuni cui affidato il nostro destino: l’autorità dello stato e la salute del territorio.

Lo Stato - anzi, la Repubblica - non è di “lorsignori”. Lo abbiamo conquistato con la Resistenza, e con la Costituzione gli abbiamo affidato la cura degli interessi collettivi, fondandolo sul lavoro e sulla tensione verso l’equità. La certezza della legge è la garanzia soprattutto per quelli che hanno meno potere degli altri. Condonare gli abusi di chi ha infranto la legge dello stato significa minare l’autorità pubblica, confermando la convinzione che chi non viola la legge (a spese degli altri) è un fesso.

Il territorio non è suolo edificabile ad libitum di chi ne possiede un pezzo. É un bene scarso, intriso di bellezza e di storia e minacciato da fragilità estese e spesso nascoste; è un patrimonio collettivo che deve essere utilizzato oggi e domani, nelle sue potenzialità e nei suoi valori. In tutti i paesi civili la sua utilizzazione da parte dei possessori è assoggettato al rispetto di norme d’interesse collettivo, che si chiamano “piani territoriali e urbanistici”. Legittimare l’abusivismo significa premiare chi ha anteposto i propri interessi immediati a quelli di tutti, incoraggiare quelli che possono a seguire questa strada.

Come Berdini ricordava, il berlusconismo non è nuovo a queste imprese. Dopo il condono di Craxi nel 1985 i governi di destra ne hanno approvati un secondo (1996) e un terzo (2003). L’anno scorso, plagiando i presidenti regionali Berlusconi, col suo “piano casa” ha promosso quello che si è definito “condono preventivo”. E meno di un mese fa, con un decreto legge che è passato sotto silenzio (solo eddyburg.it ha proposto una denuncia e un appello), il Consiglio dei ministri ha approvato un provvedimento che condona gli abusi “per fronteggiare la grave situazione abitativa della Campania”.

Una grande campagna d’opinione per difendere i beni comuni dell’autorità collettiva e del territorio bene comune dovrebbe intrecciarsi con quelle in corso per la difesa del’acqua pubblica e per la libertà dell’informazione. Solo quando queste battaglie, insieme a quelle per la scuola e per il lavoro, troveranno un denominatore e una voce comune si potrà sperare in un coronamento politico dell’azione che si svolge nelle piazze: queste sono il primo luogo della democrazia, non possono essere l’unico.

Il denominatore comune emerge dalla violenza dei fatti: è la difesa dei beni comuni. La voce ancora non si è levata.

Federare vuol dire unire: unificare più stati in uno. In Italia significa dividere ciò che si era unito 150 anni fa. L’argomento principale è che quello Stato non funziona. Su questo quasi tutti sono d’accordo, infatti pochissimi si dicono contrari al federalismo all’italiana. Alcuni perché vogliono uno Stato che funzioni diversamente: anzi, differenziatamente, senza preoccuparsi di unificare condizioni, diritti, opportunità, ricchezze ma anzi rafforzandole. Altri perché hanno perso la fiducia che questo Stato (quello nato dal Risorgimento e modificato dalla Resistenza) possa essere reso migliore, e quindi subiscono il trend “federalista”. Magari questi altri cercano di ridurre la negatività del federalismo dei padani: meglio uno Stato separato in due come propone Giorgio Ruffolo, che lo “spezzatino federalista”, ha scritto ieri Valentino Parlato. Ma il primo provvedimento dal quale si comprende che cos’è che sta marciando spiega tutto: qual è il disegno che si sta attuando, la strategia che domina, l’egemonia che ha coinvolto quasi tutti. Parliamo del federalismo demaniale.

Il suo obiettivo è ridurre il peso dello Stato, trasferire poteri dall’Italia alle sue parti periferiche ritenute, giustamente, più deboli nella resistenza contro l’obiettivo finale: la privatizzazione di tutto ciò che è privatizzabile, la riduzione a merce di tutto ciò che merce ancora non è ma che tale può diventare. La Repubblica è stata disegnata dalla Costituzione come un sistema di poteri equilibrato tra Stato, Regione e poteri locali (province e comuni). Negli ultimi decenni queste ultime istituzioni sono state pesantemente indebolite: se ne sono accresciute le funzioni e ridotte le risorse. Oggi sono adoperabili, proprio per la loro procurata povertà, come grimaldelli per cedere patrimoni pubblici a soggetti privati.

Preoccupa l’accordo sostanziale che si è raggiunto ieri nella commissione parlamentare, dove Di Pietro ha accettato tutto e il PD si è astenuto di malavoglia. Preoccupa il larghissimo consenso espresso anche dalle opposizioni parlamentari all’obiettivo della priorità della “valorizzazione economica” su qualunque altro obiettivo. I “miglioramenti” introdotti dagli oppositori sembrano costituire argini troppo deboli per porre i beni comuni al riparo dell’impetuosa marea della speculazione; sono già in moto le pratiche per abbatterli con procedure amministrative “facilitate” o con il coinvolgimento dei comuni nella “valorizzazione immobiliare”.

E preoccupa l’accettazione comune della liceità, per raggiungere quest’obiettivo, di alienare beni pubblici, di spezzettare beni strutturalmente unitari, e addirittura di modificare le destinazioni dei beni trasferiti derogando alla pianificazione urbanistica: privando così la collettività anche del potere di intervenire nelle decisioni sul territorio. Anche questo, la pianificazione democratica del territorio e delle città, è un bene comune che stanno liquidando.

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