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Una visione ottimistica della proposta di "modifica ragionevole" della Costituzione. Se son rose fioriranno, e a noi le rose piacciono.

Il manifesto, 4 settembre 2016

La proposta d’Alema sull’oggetto del referendum (e gli effetti sul collegato italicum) colma un vuoto nel confronto tra noi del “No” e i sostenitori del “Sì”. Il vuoto di una proposta riformatrice del testo costituzionale, per una autentica “revisione”. Insisto: revisione, non eversione della forma di governo (e di stato) premeditata e avviata a mezzo dei due combinati mostriciattoli Renzi-Boschi.

A quel che si legge, D’Alema proporrebbe: a) la ridefinizione del rapporto di fiducia al governo in modo che intercorra con la sola camera dei deputati, il superamento quindi del bicameralismo perfetto; b) la riduzione del numero dei membri del parlamento a 400 per la camera e a 200 per il senato, (in totale, trenta in meno del numero attuale dei soli deputati) per contenere l’estensione del ceto parlamentare alle funzioni da svolgere a seguito del riparto delle competenze con l’Ue; c) la soppressione del Cnel e delle province, d) le modifiche al Titolo V segnalate dalla decennale giurisprudenza della corte costituzionale.

Il tutto si tradurrebbe in emendamenti a 5 o 6 soli articoli della Costituzione, come notava, giovedì scorso, su questo giornale, Massimo Villone. Li chiamo “emendamenti” a ragion veduta.

Come tali dovrebbero essere e dimostrare di essere, non solo pertinenti formalmente, ma logicamente coerenti al testo della Costituzione e al suo spirito.

I meriti della proposta vanno sottolineati. Non soltanto e non tanto perché dimostrano l’infondatezza della accusa al “no” di cieco conservatorismo delle … virgole della Costituzione. Ma perché, di fatto e con rilevanza politica assai notevole, trasforma il “no” in un “sì” a una diversa modifica della Costituzione che accoglierebbe le proposte revisioniste oneste rendendole di costituzionalità indubitabile.

La proposta inoltre, offre ai sostenitori del “si” al governo e/o in parlamento, una chance che sarebbe grave rifiutare. Quella di dimostrare, accogliendola, che i loro intenti non sono affatto quelli temuti e da noi motivati e denunziati e che perciò essi sono disposti a raggiungerli anche in modi diversi dai contenuti della Renzi-Boschi che allarmano così tanto vasti settori dell’opinione pubblica. Modi che già hanno il favore delle minoranze parlamentari e che, con quello del Pd, in ambedue i rami del parlamento, costruirebbero un consenso adeguato per una revisione costituzionale degna di questo nome. Rifiutare tale proposta dimostrerebbe tutta la perversità del disegno istituzionale renziano.

Ci si deve però chiedere come e in che senso la proposta D’Alema (da spersonalizzare chiamandola, ad esempio, «dei cinque emendamenti alla Costituzione») possa essere accettata. È difficile immaginarlo ma ci si può provare. Sapendo che il suo presupposto è la vittoria del “no” ed è indefettibile. A tale presupposto dovrebbe corrispondere se non un sì, qualcosa che, senza somigliargli troppo, non gli si opponga. Lo si può ipotizzare come giudizio positivo sulle singole parti della proposta, su ciascuno degli emendamenti alla Costituzione. Sarebbe quindi auspicabile, e non solo da questo punto di vista, la presentazione alla camera e al senato di un progetto di legge costituzionale con tale contenuto.

La proposta intanto ha sortito un successo importante e immediato. Renzi ha riconosciuto che «se vince il “no” non casca il mondo».

Non si deve escludere perciò un ulteriore ripensamento di Renzi. A fronte dell’eccesso dei toni che ha lamentato riconoscendo la sua parte di responsabilità, potrebbe decidere, in nome dell’unità politica della Nazione sulla Legge fondamentale della Repubblica, di uscire dalla mischia, elevandosi al di sopra di essa quale presidente del consiglio e lasciare al corpo elettorale la più ampia e serena autonomia decisionale su tutte e due le alternative in campo. Quella della legge costituzionale sottoposta al referendum respingendola e quella che potrebbe ottenere un più ampio consenso. Di fronte a tale sua decisione non potremmo che riconoscerli il più alto senso di responsabilità istituzionale.

«Il premier Renzi governa come se ci fossero già l’Italicum e la nuova Costituzione. Il presidente Mattarella non distoglierà lo sguardo da questa situazione. Il bipolarismo crolla ma non c’entra il populismo. I partiti non sanno più leggere la società» Intervista di Andrea Fabozzi.

Il manifesto, 30 dicembre 2015
«Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza». L’intervista con Stefano Rodotà comincia dal giudizio sui risultati elettorali in Francia e Spagna. «In entrambi i casi il bipolarismo va in crisi. Ma in Francia il fenomeno assume tinte regressive. Lì il Front National coltivava da tempo il disegno di sostituirsi ai due grandi partiti in crisi, ed è stato facilitato dalla rincorsa a destra di Sarkozy e Hollande, che hanno finito per legittimare Le Pen. In Spagna Podemos ha interpretato un movimento reale, quello degli Indignados, e ha predisposto uno strumento di tipo partitico per raccogliere il fenomeno. Il risultato pare essere un’uscita in avanti dal bipolarismo».

Renzi benedice la nuova legge elettorale italiana e sostiene che da noi non potrà succedere.

Non coglie il senso di quello che sta succedendo e con la sua risposta non fa che aumentare la distanza tra il partito e la società. Sostanzialmente dice: «A me della rappresentanza non importa nulla, a me interessa la stabilità». Ma con un governo che rappresenta appena un terzo degli elettori ci sono enormi problemi di legittimazione, di coesione sociale e al limite anche di tenuta democratica.

In Spagna e Francia si è votato con sistemi elettorali non proporzionali. Di più, lo «spagnolo» è stato a lungo un modello per i tifosi del maggioritario spinto. I risultati dimostrano però che l’ingegneria elettorale da sola non basta a salvare il bipolarismo. Può fallire anche l’Italicum?

L’ingegneria elettorale è un modo per sfuggire alle questioni importanti. In questi anni non solo è stato invocato il modello spagnolo, ma anche quello neozelandese e quello israeliano. Sembrava di stare al supermarket delle leggi elettorali. Tutto andava bene per mortificare la rappresentanza, sulla base dell’idea che ciò che sfugge agli schemi è populismo. Invece è una legittima richiesta dei cittadini di partecipare ed essere rappresentati. Il nuovo sistema italiano, l’abbiamo spiegato tante volte, presenta il rischio di distorsioni spaventose. Può aprire la strada a soluzioni pericolose, ma anche ad alternative interessanti. Penso per esempio alla stagione referendaria che abbiamo davanti: dal referendum costituzionale, a quelli possibili su Jobs act, scuola e Italicum.

Il primo referendum, quello sulle trivellazioni, il governo ha deciso di evitarlo. Renzi è meno tranquillo di quanto dice?

È possibile, del resto le previsioni sul referendum costituzionale sono difficili, ancora non sappiamo esattamente come si schiereranno le forze politiche. Di certo la partita non è chiusa. E vorrei ricordare che nel 1974 una situazione elettorale che sembrava chiusa fu sbloccata proprio da un referendum, quello sul divorzio. I cittadini furono messi in condizione di votare senza vincoli di appartenenza politica e l’anno dopo si produsse il grande risultato alle amministrative del partito comunista.

In questo caso il presidente del Consiglio sta politicizzando al massimo il referendum, anzi lo sta personalizzando: sarà un voto su di lui ancora più che sul governo.

Il fatto che abbia deciso di giocarsi tutto sul referendum costituzionale apre una serie di problemi, il primo è la questione dell’informazione. C’è già un forte allineamento di giornali e tv con il governo, la riforma della Rai non potrà che peggiorare le cose. Renzi ha già impropriamente politicizzato tutto il percorso della riforma, il dibattito parlamentare è stato gestito in modo autoritario. In teoria quando si scrivono le regole del gioco il cittadini dovrebbero poter votare slegati da considerazioni sul governo, in pratica non sarà così. Il gioco è chiaro: se dovesse andargli male, Renzi punterà alle elezioni anticipate con un messaggio del tipo: o partito democratico o morte, o me o i populisti.

La strategia è evidentemente questa. Il ballottaggio serve a chiedere una scelta tra il Pd e Grillo, al limite Salvini. E se fosse un calcolo sbagliato? L’Italia non è la Francia, «spirito Repubblicano» da far scattare ne abbiamo poco.

Può essere un calcolo sbagliato. l’Italia non è la Francia per almeno due ragioni. Il Movimento 5 Stelle non fa paura come il neofascismo del Front National. E la mossa dei candidati socialisti in favore di quelli di Sarkozy è stata seguita perché lì la dialettica politica restava aperta. Da noi al contrario si rischierebbe l’investitura solitaria, rinunciare significherebbe consegnarsi pienamente a Renzi. L’appello al voto utile non credo funzionerà anche perché l’Italia non solo non è la Francia, ma non è più neanche l’Italia di qualche anno fa. Renzi non può chiedere il voto a chi quotidianamente delegittima, negando il diritto di cittadinanza alle posizioni critiche. Infatti si comincia a sentire che il vero voto utile, quello che può servire a mantenere aperta la situazione italiana, può essere quello al Movimento 5 Stelle. Sono ragionamenti non assenti dall’attuale dibattito a sinistra, mi pare un fatto notevole.

Sulle riforme costituzionali la sinistra spagnola va all’attacco, Podemos ha cinque proposte puntuali. Perché in Italia siamo costretti a sperare che non cambi nulla?

Proposte ne abbiamo fatte per uscire dal bicameralismo in maniera avanzata, per favorire la rappresentanza e la partecipazione, non escludendo la stabilità. Sono state scartate, nemmeno discusse. Alcuni di noi avevano denunciato il rischio autoritario della riforma costituzionale, siamo stati criticati, poi abbiamo cominciato a leggere di rischi plebiscitari, «democratura» e via dicendo. Troppo tardi, ormai lo stile di governo di Renzi è già un’anticipazione di quello che sarà il sistema con le nuove regole costituzionali e la nuova legge elettorale. Il parlamento è già stato messo da parte, addomesticato o ignorato, com’è accaduto sul Jobs act per le proposte della commissione della camera sul controllo a distanza dei lavoratori. Lo stesso sta avvenendo sulle intercettazioni.

Dobbiamo considerare un’anticipazione anche il modo in cui è stata gestita l’elezione dei giudici costituzionali?
È stata data un’immagine della Consulta come luogo ormai investito dalla lottizzazione, cosa che ha sempre detto Berlusconi. Un altro posto dove viene rappresentata la politica partitica, più che un’istituzione di garanzia. Lo considero un lascito grave della vicenda. La Corte dovrà prendere decisioni fondamentali, mi auguro che le persone che sono state scelte si liberino di quest’ombra, hanno le qualità per farlo.

L’altra istituzione di garanzia che finisce nell’ombra di fronte a questo stile di governo è il presidente della Repubblica.

Sulle banche il presidente Mattarella ha giocato un ruolo attivo. Le sue mosse possono essere considerate irrituali, ma di fronte al rischio per la tenuta del sistema bancario e per il rapporto tra cittadini e istituzioni ha fatto bene a intervenire. Stiamo scivolando verso una democrazia scarnificata, rinunciamo pezzo a pezzo agli elementi sostanziali — la rappresentatività, i diritti sociali e individuali — in cambio del mantenimento di quelli formali — il voto, la produzione legislativa. La situazione è grave ma le conclusioni un po’ affrettate per il momento me le risparmierei. Se questo orientamento proseguirà non credo che il presidente della Repubblica distoglierà il suo sguardo.

Il manifesto, 30 dicembre 2015

Come era prevedibile Matteo Renzi si è affidato alla guerra dei decimali per cercare di dimostrare che in Italia spira aria di ripresa. Ma si tratta di uno striminzito 0,8% in più, persino meno di quanto era nelle previsioni del Ministro dell’economia. D’altro canto l’Istat aveva già segnalato ai primi di dicembre che la tendenza è quella al rallentamento dell’economia italiana. Quindi c’è da dubitare sul raggiungimento degli obiettivi già modesti di fine 2016. Sarà per recuperare credibilità dopo gli scandali bancari tuttora in pieno svolgimento, sarà perché ormai è evidente anche ai ciechi, nella conferenza stampa di fine anno il Presidente del Consiglio ha mostrato una certa aggressività verbale verso le politiche europee. “Di sola austerità il Continente muore” ha affermato, mentre l’Italia avrebbe puntato più sullo sviluppo, solo che le autorità europee non vogliono riconoscerle la flessibilità desiderata sui conti.

Quando gli fa comodo Renzi è pronto a giocare la carta del vittimismo. Ma è una coperta troppo corta. Sia perché fin dal suo sorgere la renzeconomics si è dimostrata una semplice articolazione delle politiche europee; sia perché l’attuale performance del nostro paese è nettamente inferiore a quella media dell’Eurozona; soprattutto perché l’irresponsabilità di fronte alla gravità della situazione è totale. Tecnicamente la recessione finisce nel primo semestre del 2015, tuttavia la vantata ripresa è non solo lenta, ma inadeguata a colmare l’abisso che abbiamo alle spalle. Alla fine del 2014 gli investimenti erano del 35% più bassi che nel 2007. Altro che sviluppo italiano. Nel solo periodo 2012-2014 il Pil si è ridotto del 5%, più o meno come nel lontano 1929!

Certo, la crisi italiana viene da più lontano. Tra il 1995 e il 2007 la nostra crescita media annua è stata del 1,6% contro il 2,4 della media dell’Eurozona. Nello stesso periodo abbiamo accumulato uno svantaggio di 19,3 punti di Pil rispetto a quest’ultima. Anche quando l’occupazione è cresciuta è avvenuto in misura inferiore che negli altri paesi europei. E i salari? Tra il 1990 e il 2014 il salario medio di un dipendente privato italiano ha perso tre punti percentuali al netto dell’inflazione, mentre nella media dell’Eurozona è cresciuto del 15%. Proprio quest’ultimo dato spiega la bassissima crescita di produttività italiana messa al confronto con quella nella Ue. Infatti sono gli aumenti salariali che trascinano in alto la produttività e non il contrario, come invece si vorrebbe condizionando gli aumenti dei primi all’innalzamento della seconda. Solo la frusta salariale – ce lo ricordano i più attenti economisti - spinge anche il più pigro imprenditore all’innovazione, fattore decisivo per lo sviluppo della produttività di sistema.

Renzi sembra non avere alcuna consapevolezza di tutto ciò. Anzi spara cifre, come l’aumento di 300mila posti di lavoro, a seguito del Job Act, peraltro nello stesso giorno in cui l’organo della Confindustria ne stima 200mila. In ogni caso nella attuale lunga crisi abbiamo perso un milione di posti di lavoro. Se guardiamo al tasso di occupazione dovremmo crearne almeno 7 milioni per metterci al passo. In realtà da quando è stata introdotta la decontribuzione, cioè dal 1° gennaio i posti di lavoro, secondo Il Sole24Ore, sono cresciuti di 185mila unità fino al settembre 2015. Se si confronta il periodo analogo del 2014, in assenza degli attuali incentivi, risultano solo 26mila posti in più, pagati a carissimo prezzo.

L’Istat ci dice che le assunzioni a termine hanno avuto una impennata proprio dopo l’entrata in vigore del cosiddetto contratto a tutele crescenti del Job Act, raggiungendo il loro massimo storico nel terzo trimestre del 2015: 2 milioni e 560mila. Benché sia stato cancellato l’articolo 18 i padroni non si fidano. A fronte delle incertezze della crisi economica, preferiscono il classico contratto a termine. Tanto più che grazie al precedente decreto del ministro Poletti possono stipularlo del tutto arbitrariamente, senza alcuna motivazione o causale. Si ripete in sostanza quando già avvenne con la cosiddetta legge Biagi. Tra tutte le nuove forme di contratto precario previste – più di 40 - la preferita restava sempre quella del semplice contratto a termine. D’altro canto la fidelizzazione del dipendente non è necessaria quando la produttività è bassa, la qualità del lavoro scarsa, i settori in cui si assume sono quelli meno innovativi. E viceversa.

Questo dovrebbe suggerire a chi, dopo le recenti decisioni del direttivo Cgil e la prevista consultazione dei lavoratori, dovrà formulare i quesiti per un referendum abrogativo in materia di lavoro, di non dimenticare il decreto Poletti. Non avrebbe senso ed efficacia cancellare le norme più odiose del Job Act e lasciare in piedi un contratto a termine a totale discrezionalità padronale.

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Tutti i giornali parlano in questi giorni dell’emergenza smog. Pochi ammettono che non si tratta di emergenza. Siamo d’accordo con il grillino Grillo e il Verde Bonelli, tra i pochissimi che hanno rotto la coltre dell’understatement. Ieri abbiamo pubblicato due articoli de la Repubblica: riassumono bene i fatti, le dichiarazioni, il clima generale. Li trovate qui sotto, ma chissà quanti altri ne avete letti. Vogliamo dire la nostra in uno spazio un pochino più ampio di una postilla.

La colpa non è di una natura estranea e sconosciuta. Non si tratta neppure di una "emergenza". Fanno ridere i "piani del governo" proclamati dal ministro Delrio (che pure è stato sindaco e quindi qualcosa più degli altri dovrebbe saperla), così come le misure annunciate dal ministro Galletti, preposto all'ambiente. Anzi, fanno piangere perché ci convincono una volta di più che la nostra salute, il benessere nostro e dei nostri posteri è in mano a una masnada di imbecilli incapaci di comprendere di che cosa si tratta, e perciò di agire di conseguenza.

Abbiamo usato una parola tenue per definire la ir-responsabilità di chi ci governa. Qui non c'entra "la politica", non parliamo di Renzi e dei renzichenecchi, ma di un plotone molto più ampio e variegato. Parliamo degli uomini che ci hanno governato in questo secolo, e forse anche un po' prima.

Parliamo dei potenti (nella politica, nella finanza, nei massmedia) che non hanno compreso quelle poche cose elementari che i gufi da decenni ripetono: che incentivare la motorizzazione individuale è un errore madornale, che la rotaia (dotata di vettori confortevoli, frequenti e a basso prezzo) deve sostituire la gomma soprattutto nelle aree densamente popolate, dove dominano gli spostamenti pendolari; e soprattutto che il modo in cui gli oggetti (le residenze, i servizi, i supermercati, gli stadi, le fabbriche) si collocano sul territorio non può essere lasciata al caso - e che quindi il “fai da te” nel governo del territorio equivale a spararsi sui testicoli, e che la pianificazione del territorio e delle città è uno strumento essenziale perché gli abitanti di una terra densamente abitata possano sopravvivere.

L’abbandono di queste verità (che non sono necessariamente frutto di studi severi, ma il portato del semplice buon senso) è la causa principale di tutte le “emergenze” che ci minacciano.

Il fatto è che di buonsenso ce n’è sempre meno. Questo è il vero problema: anzi, la vera perdurante emergenza. Il buon senso (la capacità di riconoscere, intuitivamente, i fondamentali principi del conoscere, e dell'agire) è stato sostituito dal senso comune, quello foggiato dall’ideologia dominante, propagandato con perversa efficacia dai media e dalla propaganda commerciale: quei “persuasori occulti” (vedi Vance Packard, 1957) che hanno trasformato i cittadini in “uomini eterodiretti” (vedi Gramsci, 1929-1935). Ecco perché tanti credono nelle bubbole dei ministri e dei loro corifei, senza accorgersi di essere diventati parte di quel popolo delle teste impagliate di cui ha scrittoThomas Stearns Eliot, nelle sua preveggente poesia che trovate anche qui, su eddyburg.

Ancora un generoso tentativo per ricominciare un cammino iniziato con lle elezioni europee e poi perso in un incomprensibile grovigli.

Il manifesro, 22 dicembre 2015

Nelle ore in cui Podemos lancia la sua sfida per l’alternativa, un gruppo di persone appartenenti a realtà politiche e sociali, ha scritto questo testo e lo mette a disposizione di chiunque ci si riconosca. Usiamolo liberamente, copiamolo, condividiamolo, diffondiamolo, è un testo proprietà di nessuno per una sinistra di tutte e tutti.

Incontriamoci il 19, 20 e 21 febbraio a Roma per ridare senso alla parola “politica” come strumento utile a cambiare concretamente le nostre vite. Incontriamoci per organizzarci e costruire un nuovo soggetto politico, uno spazio aperto, democratico, autonomo. Non è un annuncio. È una proposta. Non sarà un evento cui assistere da spettatori. Non ti chiediamo di venire a riempire la sala, battere le mani e chiacchierare in un corridoio come accade di solito in queste assemblee.

Mettiamoci in cammino per condividere un processo e costruire insieme un nuovo progetto politico innovativo e all’altezza della sfida. Un progetto alternativo alla politica d’oggi, svuotata e autoreferenziale, che ritrovi tanto il legame con la propria storia, quanto la capacità di scrivere il futuro.

L’obiettivo

È ora di cambiare questo paese e le condizioni di vita di milioni di persone, colpite dalla crisi e dalle politiche neoliberiste e di austerità, svuotate della capacità di immaginare il proprio futuro. Vogliamo costruire un’alternativa di società, pensata da donne e uomini, fatta di pace e giustizia sociale e ambientale, unici veri antidoti per fermare le destre e l’antipolitica, il terrore di Daesh, i cambiamenti climatici. Serve una netta discontinuità con il recente passato di sconfitte e testimonianza, per metterci in sintonia con le sinistre europee che indicano un’alternativa di lotta e speranza. Dobbiamo metterci in connessione con il nostro popolo, con i suoi desideri e le sue paure, con le centinaia di esperienze territoriali e innovative che stanno già cambiando l’Italia, spesso lontani dalla politica.

Bisognerà cambiare molto: redistribuire le ricchezze e abbattere le diseguaglianze sociali e di genere, costruire un nuovo welfare e eliminare la precarietà, restituendo dignità al mondo del lavoro. È ora di cambiare il modo in cui si produce e quello in cui si consuma, il modo in cui si fa scuola e formazione, le politiche per accogliere. Intendiamo difendere la Costituzione e i suoi valori, per difendere la democrazia.

Il governo Renzi e il Pd vanno in una direzione diametralmente opposta e ci raccontano che non c’è un’alternativa. Per noi invece non solo un’alternativa è possibile ma è necessaria ed è basata sui diritti, sull’uguaglianza, sui beni comuni.

Dobbiamo organizzarci. Organizzare innanzitutto la parte che più ha subito gli effetti della crisi, chi ha voglia e bisogno di riscatto, di cambiamento, chi non crede più alla politica; lottando tanto nelle istituzioni quanto nella società. Una forza politica, non un cartello elettorale, che si candidi a governare il paese per cambiarlo e che lo faccia con un profilo credibile, in competizione con tutti gli altri poli esistenti.

Partecipa

Probabilmente ti starai facendo alcune domande: «come funzionerà il nuovo soggetto?», «come si chiamerà?», «quale sarà il suo programma?», «è possibile innovare la forma partito?», «chi sarà il suo o la sua leader?», «c’è davvero bisogno di un leader? E, se sì, come verrà scelto?». A queste e tante altre domande la risposta è semplice e per questo rivoluzionaria: lo decideremo insieme.

Partecipiamo a questo percorso come persone, “una testa un voto”, riconoscendogli piena sovranità. Abbiamo bisogno di una sinistra di tutti e di tutte: non un percorso pattizio, ma una nuova forza politica che nasca dalla partecipazione diretta di migliaia di persone.

Cambiamo la politica, innoviamo le forme della democrazia, diamo la parola ai cittadini, attraverso una piattaforma digitale per il confronto, la codecisione, la cooperazione e l’azione. Ma non basta: serve restituire protagonismo alla vita dei territori attraverso una campagna di ascolto con assemblee per connettere percorsi e conflitti, scrivere collettivamente il nostro programma, la nostra idea di società, la strada per il cambiamento.

Invitiamo tutti e tutte a partecipare, a rimescolare ogni appartenenza, a mettersi a disposizione, fino allo scioglimento delle forze organizzate, sapendo che solo un cammino realmente inclusivo può essere la strada per coinvolgere i tanti che purtroppo sono scettici e disillusi. Sarà importante l’impegno dei rappresentanti istituzionali a tutti i livelli a mettersi al servizio del processo, agendo da terminale sociale. Non vogliamo raccogliere solo le istanze dei singoli, ma anche quelle di tutte le esperienze collettive, le reti sociali, le forze sindacali, l’associazionismo diffuso, i movimenti, che in questi anni hanno elaborato e realizzato proposte concrete ed efficaci.

Non siamo i proprietari di questo percorso, e questo documento non ne vuole determinare gli esiti: proponiamo un obiettivo (costruire un nuovo soggetto di alternativa), un metodo (un cammino fatto di assemblee territoriali e di una piattaforma digitale, adesione individuale, piena sovranità), una data di partenza. Da quella data in poi, sarà chi deciderà di partecipare a indicare la rotta. Cominciamo un viaggio che sappia cambiare noi stessi e il mondo che ci circonda. Mettiamoci in cammino.

L'ironica risposta di una persona dotata di molta saggezza, evidentemente prodotto da una raffinata cultura lontana da noi nelle storia e nella geografia, a molte brave persone che esortano molto ma capiscono poco.

La Repubblica, 21 dicembre 2015

SONO in ansia per i musulmani. L’islam mi insegna ad aver cura di tutti gli esseri umani e anche degli animali, ma la vita è breve e non riesco neppure a trovare il tempo di preoccuparmi di tutti i musulmani. Non mi preoccupano tanto i musulmani vittima di oltraggi razzisti in Europa e in America, quelli che sul posto di lavoro sono guardati con sospetto per timore che covino intenti omicidi, o che ai controlli per l’immigrazione vengono bersagliati di domande assurde sul contenuto del loro bagaglio e sui loro antenati. Mi dico che alla fine di questi umilianti travagli potranno godere di privilegi come l’acqua corrente, l’elettricità e fasulle promesse d’eguaglianza.

Mi preoccupo per i musulmani minacciati di estinzione da parte di altri musulmani nella loro patria, dove in genere costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione. La mia amica Sabeen Mahmud è stata assassinata quest’anno probabilmente perché non corrispondeva al canone della buona musulmana ed è successo in Pakistan, un paese talmente musulmano che vi si può trascorrere una vita intera senza mai stringere la mano a un non musulmano.

Ma soprattutto sono in ansia per i musulmani come me, quelli chiamati a spiegare al mondo intero qual è il vero islam. A noi musulmani cosiddetti moderati viene chiesto di prendere le redini della narrazione, strappandole ai radicali — come se fossimo allievi di un master di scrittura alle prese con un saggio, invece che un miliardo e seicento milioni di persone diversissime tra loro.

Mi preoccupo per gli esperti che finiscono in tv a distanza di poche ore da un’atrocità e devono condannare, o difendere e spiegare, a nome nostro. Mi preoccupo per quella brava gente che ha il compito di ricordare al mondo che l’islam è una religione di pace.

È vero, la parola islam significa pace. Lo dice il dizionario. Ma ci vuole un bel coraggio ad agitare un dizionario davanti a chi ha perso una figlia, un figlio o il partner: “Guarda un po’ qui, vedi, c’è scritto che islam significa pace”.

Dire che l’islam è una religione di pace è come ridurre l’induismo al rispetto per le mucche e il buddismo alla posizione del Loto. L’ebraismo è fondamentalmente una disputa sulla proprietà? E i cristiani sono sempre alla ricerca dell’altra guancia?

Ogni volta che sento dire che l’islam è una religione di pace mi vien voglia di gridare “Attento, guardati alle spalle”.

È un’impresa impossibile spiegare l’islam, sia per i musulmani osservanti (niente alcol, niente bacon, niente jihad) che per i musulmani per caso (un po’ di tutto e certamente niente jihad) o per quelli che stanno in mezzo. Ma se non riusciamo a spiegare, ci dicono, almeno possiamo un tantino condannare. A quanto pare i musulmani non condannano a dovere.

Se da buon musulmano iniziassi a condannare tutte le malefatte dei musulmani non avrei più tempo da dedicare alle mie cinque preghiere giornaliere, né tanto meno a preparare i maccheroni al formaggio ai miei bambini o a portarli al parco. E diventerei un musulmano peggiore.

Continuano a ripeterci che è solo un numero esiguo di musulmani a rovinarci la reputazione. A mio avviso tra quei pochi andrebbero inclusi anche i nostri rappresentanti nei media, quelli che immaginano di poter salvare la reputazione dell’islam in tv e scrivono articoli per rassicurare il mondo sulle nostre intenzioni pacifiche.

Dicono che, sì, l’autore della strage citava il Corano, ma ne travisava il senso. Molti rilanciano la palla: e i vostri killer laici allora? Chiedono che gli assassini di massa musulmani siano trattati come gli assassini di massa non musulmani, i killer che sparano all’impazzata nei campus delle università americane o gli invasori dell’Iraq. Dovremmo ringraziarli per questo loro impegno a favore della par condicio tra assassini? Ma non si parlava di pace?

Dicono che l’islam insegna il rispetto di tutte le religioni. Riprendono in mano il Corano: vedete, c’è Gesù, è anche profeta nostro. Ma non spiegano che senso ha scegliere una religione se il suo dio e il suo profeta non sono i più grandi, i migliori, o i più veloci.

Ci invitano a guardare al sufismo come modello di islam moderato. Ma i sufi, brandendo i versi di Rumi e roteando come distici in una brutta poesia, neppure fanno finta di fornire una qualche soluzione. Se gli chiedi dell’islam ti invitano ad ascoltare un po’ di musica. Loro almeno sono più onesti dei nostri portavoce.

E vi siamo grati, cari portavoce, perché ricordate al mondo che i musulmani non sono una razza. Certi parlano cinese, altri swahili. Tra noi ci sono gay, pittori, avvocati, prostitute, magnaccia, batteristi e, ovviamente, assassini di massa. I musulmani non sono quasi mai d’accordo tra loro, neppure su questa vita e sull’altra. In famiglia noi siamo in sei e non riusciamo ad andare d’accordo su niente, anche se uno è un neonato e due sono cani.

Chi è il buon musulmano? Quello che prega e lascia fare Allah? Quello che non prega e lascia fare a Allah? Quello che pensa che Allah sia troppo occupato e allora fa da sé e prende una scorciatoia per l’aldilà? Beh, no, forse quello no, perché, come dicevamo, l’islam è una religione di pace.

L’affermazione più poetica che si sente per bocca degli esperti è che secondo l’islam, uccidendo un essere umano si uccide l’intera razza umana. Come mai allora Sabeen Mahmud non c’è più e tutta la maledetta razza umana, inclusi i suoi assassini, sono ancora vivi?

( Traduzione di Emilia Benghi)

Ecco una delle storie che spiegano in che modo le aziende del Primo mondo, ivi compresa l'italiana e stale ENI, sorregge governi la cui corruzione contribuisce a spegnere i vagiti della democrazia e ad aumentare miseria e rabbia.

Il Fatto Quotidiano on line, 21 dicembre 2015

L’azienda fino a poco prima dell’accordo con il governo federale ha trattato con la Malabu Oil & Gas Ltd di Etete, ex ministro del petrolio. Lo scambio di posta dimostra che il colosso sa bene che solo una piccola parte dei soldi vanno al governo per strade, ospedali o scuole. Il resto va al vero venditore: la società dell’ex ministro
Ci sono alcune mail dei manager dell’Eni della primavera del 2011 che svelano le verità finora nascoste sull’affare nigeriano da un miliardo e 92 milioni di dollari dell’acquisto del blocco petrolifero Opl 245. L’Eni - come si legge nelle mail - fino a pochi giorni prima dell’accordo con il governo federale della Nigeria del 29 aprile 2011 ha trattato con la Malabu Oil & Gas Ltd del nigeriano Dan Etete, l’uomo che nel 1998, quando era ministro del petrolio, si era auto-assegnato la concessione petrolifera per pochi milioni.

Quelle mail dimostrano ciò che Eni non ha mai ammesso: nell’aprile del 2011 quando firma l’accordo con la Nigeria sa benissimo che solo 207 milioni di dollari vanno al governo per strade, ospedali o scuole. A parte questo piccolo bonus (in cambio del timbro di legalità sull’acquisto) il miliardo e 92 milioni pagato per la concessione petrolifera più promettente della Nigeria (si stima possa contenere più di 9 miliardi di barili, un quindicesimo di tutte le riserve dell’Iraq) vanno al vero venditore: Malabu Oil & Gas dell’ex ministro Etete.

Eni sapeva che il suo bonifico miliardario al governo Nigeriano sarebbe stato seguito da un secondo bonifico a Malabu. Sulla destinazione finale di questa enorme somma sono aperti vari procedimenti. La Southwark Crown Court di Londra, il 15 dicembre, ha respinto la richiesta di Etete di sbloccare 84 milioni di dollari sequestrati su richiesta della Procura di Milano che indaga l’ex numero uno di Eni, Paolo Scaroni e il suo braccio destro che poi ne ha preso il posto, Claudio Descalzi, con altri due ex manager Eni e con Luigi Bisignani e Gianluca di Nardo. I pm Sergio Spadaro e Fabio De Pasquale sospettano che parte della mediazione promessa da Etete a un altro nigeriano in grado di arrivare tramite la filiera De Nardo-Bisignani-Scaroni al sì dell’Eni, cioè Emeka Obi, sarebbe poi stata destinata ai retro pagamenti per non meglio precisati manager italiani.

La decisione della corte inglese di mantenere il sequestro è dovuta alle carte americane che mostrano “pagamenti per un totale di 523 milioni di dollari, tramite percorsi molto tortuosi giunti a Abubakar Aliyu”. Secondo gli investigatori “le società di Aliyu sarebbero collegate al presidente (ora ex presidente nigeriano, Ndr) Jonathan”. Anche l’agenzia anti-corruzione nigeriana (EFCC) sta indagando e ha ascoltato Etete e Aliyu mentre una commissione del Parlamento nigeriano ha chiesto al governo di annullare la concessione all’Eni.

Al di là del profilo penale ed economico resta una questione politica: Eni nel 2011 sapeva di trattare con un ex ministro che si era impadronito delle risorse del suo popolo e che era stato condannato nel 2007 per riciclaggio in Francia. Le mail interne di Eni sono state pubblicate dal giornalista del Sole 24 Ore Claudio Gatti sul suo sito Gradozeroblog dopo la trasmissione Report di Milena Gabanelli di domenica scorsa. Gatti si è inserito nel dibattito scatenato sul web dalla scelta di Eni di ribattere, durante la trasmissione, ai contenuti del servizio di Luca Chianca “La trattativa” con una serie di tweet.

Mentre i giornali italiani si dedicavano al dito della ‘svolta comunicativa’ dei tweet di Eni, Gatti ha continuato a concentrarsi sulla luna dell’affare miliardario scovando le mail interne a Eni che, a quanto si apprende da fonti investigative, sono confluite nel fascicolo dei pm milanesi. Le mail pubblicate da Gatti e non smentite da Eni dimostrano l’ipocrisia della società petrolifera guidata da Descalzi.

Il 7 marzo 2011 un funzionario di Eni in Nigeria, Enrico Caligaris scrive a Roberto Casula, l’allora presidente di Nae, la società di Eni in loco: “Vi rimetto in allegato la versione (…) dell’Escrow Agreement (cioè l’accordo di garanzia sul pagamento, ndr) … Faccio presente che (…) la bozza allegata non disciplina ancora il pagamento a Fgn (governo federale nigeriano, Ndr) per Malabu in due tranche”.

Allegata alla mail c’è la bozza del contratto di garanzia che dimostra la consapevolezza di Eni sul fatto che il destinatario finale del pagamento fosse Malabu. La parte più interessante della bozza dell’Escrow Agreement (accordo di garanzia) sono i punti C e D. Nel primo si legge che Eni “ha l’obbligo di bonificare sul conto Escrow la cifra di XXX milioni di dollari Usa a favore del Fgn (governo nigeriano, Ndr)” e nel secondo si legge che “la suddetta cifra sarà rilasciata dall’agente Escrow (la banca, Ndr) a favore di Malabu per conto del Fgn”.

L’accordo non è stato firmato in questi termini troppo sfacciati ma la mail dimostra la consapevolezza di Eni sul reale destinatario finale del pagamento. In una mail del 30 marzo 2011 il responsabile delle contrattazioni di Eni, Guido Zappalà scrive: “È previsto che Fgn sia quello che paghi direttamente Malabu (…) Fgn (governo federale della Nigeria, Ndr) pagherà Malabu e il fatto che il denaro arrivi a Fgn da Nae (la controllata nigeriana di ENI, Ndr) è una questione separata”.

I due pagamenti Eni-Fgn e Fgn-Malabu e i due accordi dovevano restare divisi giuridicamente proprio per evitare tutti i problemi che ora Eni sta incontrando. Il 6 aprile 2011, il solito Casula di Nae scrive alla collega Donatella Ranco di Eni una mail con oggetto: “Sintesi incontri 245” in cui si legge: “Al di là di una informativa per Claudio (Descalzi, Ndr) trasmetto un aggiornamento sintetico sugli ultimi incontri con le Autorità Nigeriane”. Nella ‘sintesi degli incontri’ si legge che agli incontri tra Eni e governo dell’11, 24 e 28 febbraio e 14 aprile 2011 erano presenti anche i rappresentanti di Malabu. Il mattino del 28 aprile, cioé il giorno prima dell’accordo il manager Eni Guido Zappala scrive: “sarà presente anche Malabu? ”.

Eni replica al Fatto: “Le negoziazioni con gli advisor finanziari di Malabu non hanno avuto buon fine e si sono interrotte nel novembre 2010. Fu proprio Eni a bloccare la transazione. Le ultime comunicazioni email pubblicate da Claudio Gatti sul suo blog, a prescindere dal fatto che siano veritiere o meno e dalla lettura strumentale che ne viene data dal giornalista, sono riferite al 2011, anno in cui Eni e Shell da una parte e il governo nigeriano dall’altra sottoscrissero gli accordi commerciali relativi all’unica operazione effettivamente realizzata da Eni in merito al blocco Opl 245. Eni e Shell eseguirono il pagamento per una nuova licenza sul blocco su un conto del governo nigeriano. Il governo nigeriano, per rilasciare una nuova licenza per l’Opl 245, doveva necessariamente cancellare la vecchia licenza Opl 245 intestata a Malabu e risolvere l’annoso contenzioso tra governo, Shell e Malabu. È un fatto incontestabile che Eni abbia firmato accordi commerciali solo con Shell e il governo federale nigeriano e che Eni e Shell abbiano eseguito il pagamento per la nuova licenza Opl 245 su un conto intestato al governo nigeriano”.

L’organizzazione non profit Re-Common, che da anni conduce una battaglia sull’Opl 245, ha pubblicato una nota dal titolo: “mail ‘soffiate’ (leaked, Ndr) mostrano come Shell e Eni abbiano operato per nascondere il pagamento alla società dell’ex ministro per l’affare corrotto dell’Opl245”. In Italia i giornali e i siti non lo hanno ripreso preferendo rilanciare i tweet colorati di Eni.

«Elezioni spagnole. La grande maggioranza di spagnole e spagnoli continua a volere farla finita con l’austerità e i tagli alle prestazioni dello stato sociale, ma c’è anche la consapevolezza che perseguire questi obiettivi comporta sfidare chi oggi governa l’Europa».

il manifesto, 20 dicembre 2015

Nell’indifferenza generale sulla campagna elettorale spagnola è puntualmente piombato il diktat dei liberisti europei: chiunque vincerà le elezioni del prossimo 20 dicembre dovrà rispettare i patti e compiere ulteriori massacri sociali, altrimenti chi governerà verrà sottoposto allo stesso trattamento riservato a Tsipras e al suo governo.

Da nessuno dei quattro partiti, cinque se si aggiunge Izquierda Unida, che si contendono il prossimo governo spagnolo è arrivata una presa di posizione. Forse si pensa che elettori ed elettrici spagnole e soprattutto quel 41% che ancora si dichiara indeciso, secondo gli ultimi sondaggi, non diano alcuna importanza a questa minaccia e comunque che essa non abbia un peso nella loro decisione di voto. In realtà la durissima punizione a cui sono stati sottoposti il popolo greco e il suo governo hanno già pesantemente influito sulle intenzioni di voto degli spagnoli, soprattutto su coloro che reclamano cambiamenti sociali e politici profondi, come Podemos. Non a caso il partito, nato per portare al governo l’indignazione sociale che paralizzò la Spagna quattro anni fa, ha perso consensi nei sondaggi proprio a partire dalla conclusione amara della vicenda greca.

Il principale argomento che le destre, ma anche i socialisti, hanno usato contro Podemos è proprio quello che una sua vittoria farebbe fare alla Spagna la stessa fine della Grecia. Non c’è dubbio che la grande maggioranza di spagnole e spagnoli continua a volere farla finita con l’austerità e i tagli alle prestazioni dello stato sociale, ma c’è anche la consapevolezza che perseguire questi obiettivi comporta sfidare chi oggi governa l’Europa.

Che a mettere la testa sotto la sabbia siano le destre si può capire, perché sia il Partito Popolare che Ciudadanos, se dovessero vincere le elezioni e allearsi per governare, rispetterebbero le condizioni capestro che provengono da Bruxelles. Per Rajoy si tratterebbe solo di dare un seguito alle disastrose politiche economiche, sociali ed ambientali che il suo governo ha imposto in questi ultimi anni. Altrettanto farebbe Ciudadanos, cioè la destra presentabile e modernizzante, in grande ascesa nei sondaggi. Il suo leader, Rivera, ha sempre dichiarato che in caso di vittoria si guarderebbe bene dal rimettere in discussione il patto di stabilità e tantomeno abrogare dalla costituzione spagnola l’articolo sul pareggio di bilancio.

Meno comprensibile è il silenzio della sinistra che ha appoggiato il generoso tentativo di Tsipras, cioè Podemos e Unidad Popular-Iu. Altrettanto ambiguo è il silenzio del Psoe. È abbastanza evidente che le promesse di Sanchez e dei socialisti di rilanciare lo stato sociale e il lavoro sarebbero carta straccia senza un no alle richieste dei falchi liberisti. La stessa sorte riceverebbero la rivoluzione energetica rinnovabile, il rilancio della sanità e dell’istruzione pubbliche, la redistribuzione del reddito lanciate dal programma di Podemos o il lavoro (garantito) per tutti richiesto dal giovanissimo candidato premier, Alberto Garzón, di Izquierda Unida.

Pensare che elettrici ed elettori siano solo una folla facilmente manipolabile è vecchio vizio perdente della vecchia politica, che giustamente si condanna. Non era quello della partecipazione e del rifiuto della delega uno degli elementi costitutivi del movimento degli indignados, a cui Podemos e Izquierda Unida si ispirano?

Quindi chi vuole e propone di farla finita con il massacro dello stato sociale e una iniqua distribuzione della ricchezza ha l’obbligo, per essere credibile, di dire chiaramente se intende sottostare ai vincoli imposti da Bruxelles o sovvertirli. Gli ultimi sondaggi, oltre ai tanti indecisi, evidenziano anche che l’unica concreta alternativa a Rajoy sarebbe solo un’alleanza fra socialisti, Podemos e Unidad Popular-Iu. Non sembrano essere queste le intenzioni.

Sia il Psoe che Podemos rinviano qualsiasi eventuale intesa al dopo elezioni, facendola dipendere da come il voto di oggi, 20 dicembre, definirà i rapporti di forza fra questi partiti. Per ora il Psoe, tristemente, sembra attratto a cercare un accordo più con Ciudadanos che con Podemos. Una risposta chiara all’arrogante ingerenza di Bruxelles, dovrebbe obbligare il Psoe ad unirsi a sinistra.

Un no comune della sinistra al diktat aiuterebbe l’elettorato a capire la natura di destra di Ciudadanos che, con una sua vittoria, nulla cambierebbe in Spagna rispetto ad ora. Dare un volto giovane e più rispettabile alle politiche liberiste non le rende meno socialmente disastrose, come dimostra Renzi in Italia. Non solo. Invece un no comune alle pretese di Bruxelles, come è successo in Portogallo, renderebbe più facile un accordo a sinistra per governare.

Fare irrompere, anziché occultare, il proposito comune di una nuova Spagna in una Europa differente avrebbe potuto spostare quegli equilibri, che i sondaggi sembrano aver consolidato, e rilanciare il cambiamento.

Il manifesto, 19 dicembre 2015

Aveva detto: «Noi non rincorriamo le bombe degli altri», e invece Matteo Renzi, subito dopo la chiamata di Barack Obama, ha annunciato da Porta a Porta (a questo punto la prima Camera del Paese) l’invio a Mosul, l’area più calda dell’Iraq, di 450 soldati.

Una svolta del «disertore» Renzi, passata quasi sotto silenzio, anzi sotto banco. Perché si tratta di «stivali a terra», truppe sul campo, quelle che l’America non mette più in questa misura, tanto che delega l’appalto del presidio di guerra proprio all’Italia che si accoda così alla scia dei pesanti bombardamenti Usa nella regione.

Dopo le gravi responsabilità degli Amici della Siria (Stati uniti, Paesi europei, Turchia e petromonarchie del Golfo) che per più di due ani hanno destabilizzato questo Paese «perché Assad se ne deva andare», favorendo indirettamente e direttamente la nascita dello Stato islamico.

Andiamo in armi a Mosul per difendere l’importantissima struttura della mega-diga, ora ripresa dai peshmerga ma diventata famosa nel 2014 per lo sventolìo di bandiere dell’Isis che annunciava la sua estensione e visibilità dalla Siria alla provincia irachena di Anbar, proprio con la conquista di Mosul. Da dove infatti il «califfo» Al Baghdadi ha fatto il suo proclama al mondo. Una zona dunque ad alto rischio.

Che, pur accerchiata ma da eserciti quasi pronti a farsi la guerra fra loro, resta saldamente in mano alle milizie dell’Isis. Le stesse che approfittano anche del conflitto tra l’autorità centrale di Baghdad e il governo del Kurdistan iracheno impegnato nella separazione dall’Iraq e, sotto la guida di Barzani, a chiamare – assai poco fraternamente con i kurdi del Rojava e quelli del Pkk – in soccorso l’esercito turco, subito inviato da Erdogan. Per cominciare a farlo evacuare il governo iracheno ha dovuto presentare una mozione al Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Ora l’Italia invia in quest’area di conflitto aspro con il nemico Califfato ma anche tra «alleati», centinaia di soldati a presidiare una zona che, nel prosieguo della guerra, diventerà peggio di Nassiriya.

Renzi aveva detto e ripetuto «senza una strategia non c’è intervento militare», e invece corriamo al seguito della strategia Usa mirata ai suoi dividendi di guerra e ad impegnare la più presentabile Italia in sostituzione dell’improponibile Sultano atlantico di Ankara. In Iraq, da dove ci siamo ritirati da anni. Mentre si apre anche la possibilità di un intervento in Libia, ora che, divisa e in guerra civile, vede la firma dei due parlamenti di Tripoli e Tobruk per un governo di carta che chiami truppe occidentali a definire hotspot «sicuri» per recintare la disperazione dei profughi.

Non solo ci appaltano una guerra, ma annunciamo che lo facciamo per un appalto. Per la ditta di Cesena, il Gruppo Trevi, che avrebbe dovuto avere una committenza milionaria per la sistemazione della diga di Mosul, ma ancora non ce l’ha. E allora corriamo manu militari per il made in Italy in concorrenza con gli interessi tedeschi per lo stesso subappalto. Finalmente una chiarezza: stavolta non è una guerra «umanitaria» ma d’affari.

Un altro sbattimento di tacchi, un altro signorsì di Matteo Renzi dopo la decisione di estendere, su richiesta della Casa bianca, la missione militare italiana in Afghanistan, dove siamo in guerra con la Nato da «soli» 14 anni contro il nemico talebano che resta sempre all’offensiva. Presa a ridosso della strage Nato dell’ospedale Msf di Kunduz e nello stesso giorno in cui il neo-premier canadese Trudeau ritirava il contingente di Ottawa. Insomma, da un appalto all’altro.

Il Parlamento europeo approva una risoluzione sulla trasparenza nell’export bellico. potente contributo del mondo nordatlantico alle fortune militari del Daesc. Naturalmente l'Itslia è in buona posizione tra i mercanti di morte.

Il manifesto, 18 dicembre 2015
Opaco, maneggevole, smontabile come nei film di spie hollywoodiani, il fucile di precisione BushmasterX152S, è pubblicizzato in America, dov’è prodotto, come «l’arma perfetta per un killer». Nei video di propaganda più recenti è esibito anche dai guerrieri del Califfato come un gioiello crudele o il regalo di un Babbo Natale nero.

Molte altre armi nuove, luccicanti, non vecchi ferri in dotazione all’esercito iracheno, arrivano all’Isis da paesi impegnati a combatterne l’avanzata, almeno ufficialmente: missili anticarro Milan prodotti in Belgio o in Francia, mortai turchi, fucili tedeschi, batterie anti-aeree statunitensi, tank russi, pick-up d’assalto coreani. È ciò che documenta il rapporto pubblicato tre giorni fa da uno dei più importanti centri di ricerca internazionali sui traffici di armi e munizioni: «Taking stock, the arming of Is», prodotto dall’Armament Research Services con Amnesty international, che cerca di ricostruire gli approvvigionamenti di armamenti, leggeri e pesanti, in dotazione ai tagliagole del Califfato.

E girano per l’Europa denunce specifiche contro governi, come quello inglese, accusati di aver autorizzato la vendita di sofisticati fucili da cecchino, con binocolo ottico all’avanguardia, all’Arabia Saudita che — è dimostrato — sono stati usati per reprimere nel sangue manifestazioni civili durante le primavere arabe in Yemen.

Sfavillanti fucili sniper sono serviti allo stesso brutale scopo, nel Bahrein, ed erano di fabbricazione italiana, modello Beretta, anche se prodotti dalla consorziata finlandese Sako. E dopo la denuncia di Amnesty sono stati interdetti dal governo della Finlandia.

Le ong indipendenti, insomma, stanno dando battaglia sulla tradizionale oscurità che ammanta i traffici delle industrie armiere, tanto che la questione è approdata a Strasburgo, dove ieri in seduta plenaria il Parlamento europeo ha approvato un codice di regolamentazione in otto punti per migliorare la trasparenza e i controlli sull’export di armamenti convenzionali e tecnologia militare dall’Ue verso paesi terzi.

Stante il pilastro che la gestione di questo tipo di commercio è — e resta, come da trattati — appannaggio degli stati nazionali, gli eurodeputati hanno convenuto che in una mutata situazione geopolitica, sempre meno stabile, soprattutto per quanto concerne i paesi confinanti e vicini, specialmente mediorientali, l’export incontrollato di armamenti potrebbe mettere a rischio la sicurezza dei cittadini europei, oltre a non corrispondere al rispetto dei diritti umani.

Pertanto la risoluzione – approvata con 249 sì, 164 no e 128 astenuti – pur non essendo vincolante e non prevedendo sanzioni per chi non vi ottempera, invita caldamente gli stati membri a rendere maggiormente trasparenti le licenze alla vendita di armi, ribadisce gli standard minimi di limitazione approvati in sede Onu, e arriva ad ipotizzare una autorità garante o quanto menouna relazione annuale sulle esportazioni di armi da parte delle autorità dell’Unione, che — piccolo particolare — si conferma il primo esportatore al mondo di prodotti per la guerra, dagli elmetti con visore termico agli stabilizzatori di mira e quant’altro.

L’Italia non è affatto in fondo alla lista come al solito.

Anzi, primeggia in questo caso (come si vede dal grafico a torta dell’ultimo rapporto dello Stockholm institute of peace research, altro importante centro di ricerca) con un 3% dell’intero volume di affari del settore nel 2014 (26 miliardi solo verso paesi terzi), percentuale quasi doppia rispetto della Germania.

E con l’industria di Stato — Finmeccanica, 64% delle autorizzazioni italiane — salda nella top ten delle corporation armiere.

Anche se nel 2014 sono i produttori emergenti a guadagnare di più in un mercato abbastanza statico: Turchia, Brasile, Corea, India. La Turchia con le nuove aziende Tai e Aselan, dice il rapporto Sipri, oltre l’autosufficienza ha una «esportazione particolarmente aggressiva».

Anche l’Onu sta cercando di vincolare maggiormente il commercio di armi e una decina di giorni fa il trattato Att, di cui l’Italia figura tra i proponenti, ottenendo oltre 50 firme, è diventato giuridicamente vincolante.

L’Att imporrebbe parametri di riferimento per valutare le autorizzazioni all’esportazione: dagli embargo, al rispetto della convenzione di Ginevra e all’esclusione dei paesi destinatari coinvolti in conflitti, al rispetto dei trattati sulle mine anti-uomo. Finora l’Att è stato approvato da 157 paesi con 26 astenuti (tra cui Iran, India, Egitto, Russia, Siria e paesi del Golfo).

Washington l’ha firmato ma non ratificato

Intervista di Emilio Randacio al giudice Giuliano Turone: «Bisogna ricordare cosa è stato questo paese nel dopoguerra. Dallo sbarco degli alleati in Italia, c’é stata una sorta di investitura da parte degli americani in Sicilia, di uomini di Cosa nostra».

La Repubblica, 17 dicembre 2015 (m.p.r.)

Ma chi e stato Licio Gelli? Cosa ha rappresentato il gran Maestro della Loggia Massonica P2? Per rispondere, forse, non ci sono parole migliori se non quelle di Giuliano Turone, il giudice di Milano che insieme a Gherardo Colombo, nel marzo del 1981 ordinò alla Guardia di Finanza di perquisire Castiglion Fibocchi, dove venne trovata la lista della P2. Gelli? «Il grande notaio di un sistema di potere occulto».

Cosa ricorda di quel giorno, dottor Turone?
«Quando la Finanza ci chiamò per dirci cosa aveva trovato, la nostra prima reazione fu di estrema attenzione, perché non pensavamo di trovare tutto quel materiale. Stavamo indagando sull’omicidio di Ambrosoli e sul rapimento “fasullo“ di Michele Sindona. I contatti tra il banchiere e Arezzo erano stretti, e da qui la perquisizione».
Cosa venne sequestrato quel giorno?
«Una quantità di carte impressionante. C’erano le liste della P2, certo, ma non solo. C’erano buste sigillate con la sigla di Gelli che contenevano documenti con dentro i misteri della storia d’Italia, molti dei segreti di cui Gelli era il grande custode».
Fino a quel giorno cosa si sapeva della loggia P2?
«Si sapeva che esisteva una loggia di cui faceva parte sia Gelli che Sindona, ma non di questa importanza. Quando abbiamo scoperto che nell’elenco comparivano ministri e capi dei Servizi, abbiamo deciso di comunicarlo a Palazzo Chigi».
Quando avete scoperto l’importanza di quel ritrovamento, cosa avete fatto?
«Il giorno stesso abbiamo deciso di trasferire immediatamente a Milano le carte per fotocopiarle una a una in tre copie, tutte autenticate a mano da un cancelliere. Ci sono voluti giorni per completare il lavoro. Ricordo che per evitare depistaggi o sottrazioni, chiudemmo tutte le copie in tre diverse casseforti dell’ufficio istruzione. In agosto, l’inchiesta passò per competenza a Roma, ma nessuno, poi, riuscì mai a smentire nulla sulla genuinità di quei documenti».
Ma cosa è stata la P2, da quello che avete scoperto attraverso la vostra inchiesta?
«Uno strumento principe per creare meccanismi di potere occulti che prendeva decisioni di rilievo per le sorti del Paese. Questo non lo diceva solo la nostra inchiesta milanese, ma fa anche parte delle conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presieduta da Tina Anselmi».
E Licio Gelli e stato il direttore di questo strumento?
«Gelli era il custode, non il grande capo. Lui era stato designato come il notaio di questo meccanismo».
Chi aveva interesse che il potere venisse gestito in questo modo occulto?
«Bisogna ricordare cosa è stato questo paese nel dopoguerra. Dallo sbarco degli alleati in Italia, c’é stata una sorta di investitura da parte degli americani in Sicilia, di uomini di Cosa nostra. Sono stati insediati anche sindaci che appartenevano a Cosa nostra e alla ‘ndrangheta. Questo perché c’era il timore che l’Italia diventasse un paese sotto il controllo di Mosca. Gli Usa, in questo senso hanno obiettivamente rafforzato Cosa nostra, che era intimamente collegata sia a Sindona che a Gelli. Dalle carte di processi dei primi anni ‘90, sappiamo che Licio Gelli dialogava con i capi palermitani della mafia.
«Gli incentivi monetari forniti alle imprese non si sono concretizzati in nuova occupazione a tempo indeterminato, ma hanno piuttosto favorito la trasformazione di contratti temporanei in contratti ‘permanenti’».

Sbilanciamoci.info, 17 dicembre 2015

Come risposta alla crisi del 2008, le economie della periferia europea hanno adottato politiche deflattive con l’obiettivo di recuperare competitività e far ripartire crescita ed occupazione. Il tutto in completa ottemperanza ai dettami della visione neoliberista che egemonizza l’agenda di politica economia europea. In Italia, la legge 183 del 2014, evocativamente denominata ‘Jobs Act’, ha svolto un ruolo chiave determinando uno storico cambiamento nell’equilibrio delle relazioni industriali.

Portando a completamento il percorso di riforma cominciato all’inizio degli anni 90, il Jobs Act ha sancito un definitivo livellamento verso il basso delle tutele dei lavoratori. Le più rilevanti modifiche introdotte dalla legge riguardano: i) l’introduzione di una nuova tipologia contrattuale a ‘tempo indeterminato’, pensata per divenire la forma prevalente nel sistema italiano, che elimina ogni obbligo di reintegro del lavoratore nel caso di licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo oggettivo (tranne nei casi di dimostrata discriminazione o di licenziamento comunicato oralmente); ii) l’introduzione della videosorveglianza per mezzo di dispositivi elettronici – misura che ha dato adito a forti polemiche circa la violazione della privacy e delle libertà individuali; iii) la completa liberalizzazione dell’uso dei contratti atipici. In particolare, per i contratti a termine viene meno per i lavoratori il diritto all’assunzione a tempo indeterminato e al risarcimento monetario nel caso di superamento da parte dell’azienda del limite del 20% del totale dell’organico a tempo indeterminato. E’ stato inoltre aumentato il tetto al reddito percepibile tramite lavoro accessorio, incentivando di fatto l’uso dei voucher -rapporti di lavoro senza alcuna garanzia e tutela per i lavoratori- da parte delle imprese.

Il tema più dibattuto della legge 183/2014, sia sul piano politico sia su quello sindacale, rimane il ‘contratto a tutele crescenti’ che pone fine alla cosiddetta ‘tutela reale’ (racchiusa nell’Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, abrogato dal Jobs Act) quale attributo dei contratti “stabili e indeterminati”. I nuovi rapporti di lavoro così definiti, infatti, non possiedono la caratteristica della stabilità dal momento che il licenziamento senza diritto al reintegro è sempre possibile senza una giusta causa e, allo stesso tempo, enormemente meno oneroso per le imprese (l’obbligo è stato ridotto a un indennizzo di due mensilità per anno di lavoro al lavoratore licenziato).

Tuttavia, nominalmente il ‘contratto a tutele crescenti’ viene presentato come “indeterminato”. Tuttavia, l’indeterminatezza si risolve in questo: il lavoratore non sa quando esattamente si risolverà il suo rapporto di lavoro, ma sa che ciò può avvenire in qualunque momento se il datore di lavoro decide in questo senso. Inoltre, la Legge di Stabilità 2015 ha incentivato l’utilizzo del nuovo contratto attraverso la decontribuzione totale del costo del lavoro per le imprese per tre anni; un incentivo valido sia per le nuove assunzioni che per la trasformazione di contratti a termine (ma non di apprendistato) già in essere.

In un articolo appena pubblicato come working paper (prodotto nell’ambito del progetto europeo Horizon 2020 ISIGrowth), abbiamo proposto una valutazione preliminare degli effetti del Jobs Act. Quest’ultimo viene inquadrato quale tassello finale di un processo di liberalizzazione del mercato del lavoro cominciato a metà degli anni ’90 e assunto come elemento cardine della politica economica italiana. Tale strategia si rifà ad un approccio di tipo neoliberale in nome del quale le ‘rigidità del mercato del lavoro’ – ovvero la presenza di sindacati, del salario minimo, della contrattazione nazionale o delle tutele reali contro il licenziamento – sarebbero le cause principali della disoccupazione persistente, del mancato incontro tra domanda ed offerta nel mercato del lavoro e, più in generale, delle deboli performance competitive delle economie.

I fatti stilizzati messi in luce nel working paper mostrano come la debole dinamica dell’economia italiana – in particolar modo per quel che riguarda occupazione e produttività – non appare invertirsi lungo tutto il periodo di liberalizzazione analizzato.

Tra il 1995 e il 2014, l’economia italiana è stata caratterizzata da esigui investimenti in Ricerca e Sviluppo, sia pubblici che privati. Tale dinamica ha indebolito la struttura industriale, rendendola sempre meno competitiva e capace di espandersi. La politica economica, piuttosto che affrontare le proprie criticità strutturali, ha scelto invece di inseguire pedissequamente la via della deflazione e della deregolamentazione del mercato del lavoro, senza interrogarsi sulla validità di tale scelta.

Ma il progressivo e costante alleggerimento dei vincoli ed il parallelo rafforzamento degli incentivi alle imprese non ha intaccato nessuna delle problematiche storicamente rilevanti del mercato del lavoro italiano: la relativa minor partecipazione delle donne al lavoro; la persistenza del tasso di disoccupazione giovanile; il forte divario tra nord e sud del paese circa la performance produttiva ed occupazionale. Non fa eccezione il Jobs Act.

Attraverso l’uso di dati, sia di fonte amministrativa che campionaria (Indagine sulle Forze di Lavoro), viene evidenziata l’inefficacia del Jobs Act nel raggiungere gli obiettivi previsti in termine di espansione dell’occupazione e di riduzione della quota dei contratti a tempo determinato. Lo stesso dicasi per la riduzione di quelli atipici.

I dati mostrano, infatti, come la gran parte dell’incremento occupazionale riguardi i contratti a tempo determinato. Al contrario, l’aumento dei contratti a tempo indeterminato è dovuto principalmente alla trasformazione di contratti a termine preesistenti e non alla creazione di nuova occupazione. In particolare, è importante sottolineare come gli incentivi monetari forniti alle imprese non si siano concretizzati in nuova occupazione a tempo indeterminato, ma abbiano, piuttosto, favorito la trasformazione di contratti temporanei in contratti ‘permanenti’. Questi ultimi, come già argomentato, solo virtualmente permanenti, contrariamente agli sgravi contributivi per le imprese, la cui portata nei bilanci è molto reale e tutt’altro che marginale.

Al netto di trasformazioni e cessazioni, dunque, i contratti a tempo indeterminato rappresentano una quota modesta, il 20% sul totale dei contratti stipulati durante i primi nove mesi del 2015. Inoltre, in termini di ore lavorate, i risultati lasciano emergere che i contratti part-time – per lo più dal carattere involontario – sono più numerosi proprio fra i tempi indeterminati piuttosto che fra i contratti a tempo determinato.

I dati dell’Indagine sulle Forze di Lavoro confermano come l’incremento dell’occupazione, dopo l’introduzione del binomio Jobs Act-decontribuzione, è sostanzialmente debole e, in gran parte, dovuto a nuovi contratti a tempo determinato. Inoltre, l’aumento più sensibile dei contratti a tempo indeterminato sembrerebbe aver interessato le coorti più anziane (oltre 55 anni) di lavoratori e non le coorti più giovani. L’occupazione giovanile e la variazione del tasso di inattività di questi ultimi sembrerebbe essere principalmente spiegato dalla recente introduzione del programma ‘Garanzia Giovani’ e dall’esplosione dei cosiddetti vouchers (come emerge con chiarezza dall’analisi delle fonti di natura amministrativa).

I dati dell’Indagine sulle Forze di Lavoro mettono ulteriormente in luce l’incapacità del Jobs Act di rispondere ai compiti che era stato chiamato ad assolvere. Da questo punto di vista, il working paper ISIGrowth mostra come tra il primo ed il secondo trimestre del 2015, in Italia, il 35% dei disoccupati ha smesso di cercare lavoro, transitando dalla disoccupazione all’inattività. Un’evidenza che spiega, tra le altre cose, la riduzione del tasso di disoccupazione tanto decantata in questi mesi dal governo Renzi. L’insieme di evidenze disponibili e raccolte finora – confermate dalle più recenti rilevazioni Istat- testimonia come il trend di indebolimento della struttura occupazionale italiana non ha mostrato segni di inversione dall’introduzione del Jobs Act in poi. Quest’ultimo sembra invece facilitare lo spostamento di parte della forza lavoro italiana verso il settore dei servizi a scarso contenuto tecnologico (magazzinaggio, ristorazione e turismo), senza nessun incremento occupazionale nell’industria.

Questo elemento risulta di estrema pericolosità se legato agli effetti della crisi sulla struttura dell’economia italiana. In particolare, la significativa riduzione della capacità produttiva osservata fra il 2008 ed il 2013 e la sofferenza del settore manifatturiero segnalano la necessità di politiche industriali e interventi pubblici diretti a stimolare la creazione di produzioni – ed occupazione – stabili, qualificate e ad alta intensità tecnologica. La strada scelta dal governo italiano appare, tuttavia, opposta. L’aver scelto il Jobs Act, ovvero il definitivo smantellamento delle tutele dei lavoratori, quale elemento cardine della propria strategia di politica economica ha un unico significato: invitare le imprese italiane a competere abbattendo i costi (cioè i salari) disincentivando la strada dell’investimento in tecnologia, innovazione e formazione dei lavoratori.

In conclusione, il combinato disposto ‘Jobs Act’-decontribuzione si è rivelato, sin ora, inefficace in termini di quantità, qualità e durata dell’occupazione generata. Il potenziale effetto deflattivo di tali politiche, inoltre, rischia di contribuire ulteriormente all’indebolimento della struttura occupazionale ed industriale italiana, già gracile all’inizio della crisi del 2008 e pesantemente colpita da quest’ultima.

Lo "scandalo Boschi-Renzi" ha rivelato che, più che una truffa e una rapina, si tratta di un sistema di un programma di saccheggio sistematico dei poveri, dei medi e dei poco ricchi a vantaggio dei più ricchi e potenti.

ATTAC online, 18 dicembre 2015

C’è un piccolo paese dell’entroterra toscano, in cui un’intera comunità di 300 famiglie si è trovata in una notte con i risparmi di una vita totalmente azzerati. E con la drammatica scoperta che quel funzionario di quell’unica banca che incontravano tutti i giorni -che nella comunità locale era uno dei punti di riferimento cui affidarsi- li aveva coinvolti in un giro di investimenti ad alto rischio, finito nel peggiore dei modi. Naturalmente, quel funzionario non era diventato improvvisamente malvagio: stava solo cercando di eseguire al meglio il suo lavoro, essendo, ormai da anni, la sua efficienza contrattualmente misurata in base a quanti prodotti finanziari aveva collocato presso i propri concittadini.

Vero è che fino al 2009, quando una banca proponeva ad un cittadino un investimento in obbligazioni subordinate, aveva l’obbligo di comunicare gli scenari probabilistici dello stesso. Ma sono arrivati gli anni della crisi, e il mandato di Bankitalia ad una forte ricapitalizzazione delle banche ha spinto queste ultime, data la fuga dei classici investitori istituzionali, ad inondare i cittadini di prodotti finanziari: ed ecco allora la Consob eliminare prima l’obbligo di comunicazione degli scenari probabilistici, poi, dal 2011, persino la comunicazione facoltativa degli stessi.

Solo per fare un esempio, ai cittadini che hanno investito in obbligazioni subordinate della Banca dell’Etruria e del Lazio nell’ottobre 2013, nessuno ha comunicato una probabilità pari al 62,7% di perdere la metà del capitale.

E, naturalmente, quanto prescritto dalla normativa europea in merito alla profilatura del cliente, ovvero alla sua conoscenza e propensione agli investimenti finanziari, è stato facilmente aggirato, facendo risultare, nell’ultimo caso delle banche coinvolte, il 75% dei cittadini come grandi conoscitori degli strumenti finanziari.

Il via libera alle banche verso la spoliazione dei cittadini ha fatto da specchio alle contestuali gestioni del credito da parte delle stesse, che, in molti casi, le ha portate al fallimento.

Come sempre, ad ogni scoppio del bubbone, la prima reazione a tutti i livelli è lo scarico delle responsabilità verso l’anello superiore od inferiore della catena, a cui segue una levata di scudi generale in direzione di drastiche misure affinché non accada mai più. Fino all’ormai classica conclusione in cui il nuovo scandalo viene riclassificato nella categoria di ”mela marcia in albero sano”.

Che le cose non stiano affatto così ce lo dicono i dati: in questi ultimi 7 anni sono oltre 35 i miliardi fatti investire ai cittadini in obbligazioni subordinate e, mentre le quattro banche, ormai famose, vengono salvate dai provvedimenti governativi, sono ad oggi altre 12 quelle commissariate per gli stessi motivi.

Per farsi un’idea di cosa sia strutturalmente diventata l’attività di gestione del risparmio, basti vedere cosa scrive Consob (procedimento 20638/14) in merito all’attività di Poste Italiane, ovvero la società a cui si rivolge la parte più semplice dei risparmiatori: “vendite di prodotti in conflitto di interesse con la rete BancoPosta, strutture commerciali pressate per raccogliere volumi e incentivi legati al budget, forme di marketing scorrette, poche e ottimistiche profilazioni di clienti che permettevano al 74,5% di essi di sottoscrivere strumenti complessi (come le opzioni certificates su sottostanti cartolarizzati)”.

Siamo dunque di fronte ad una crisi di “sistema”, che, aldilà delle situazioni specifiche, può essere affrontata solo con proposte sistemiche. La prima delle quali non può che essere una legge che sancisca la netta separazione tra banche commerciali e banche d’investimento, avviata con un immediato provvedimento di divieto totale di vendita di prodotti finanziari agli sportelli; in secondo luogo, occorre una drastica inversione di rotta sulla trasformazione delle banche popolari in SpA ed una loro reale riforma, che ne sancisca la territorialità, attraverso la gestione partecipativa dei lavoratori e delle comunità locali; il terzo filone non può che riguardare l’inversione di rotta sulla privatizzazione di Poste italiane e sulla trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti, da avviare con la separazione, e relativa immissione in un circuito pubblico, partecipativo e sociale, del risparmio postale; in quarto luogo, provvedimenti in favore del risparmio etico e della diffusione di tutte le esperienze, anche autorganizzate, che vanno in quella direzione.

Perché o si mettono in campo con la mobilitazione diffusa misure che disegnano un’altra società basata sulla mutualità cooperante, o niente e nessuno ci salverà da un modello che ci vuole tutte e tutti immersi nella solitudine competitiva.

«Draghi duro con l’Italia “Occupazione al palo Grecia meglio di voi”. “Due nuovi posti su tre sono precari”. “I conti pubblici deviano troppo e la vigilanza europea non funziona”».

La Repubblica, 18 dicembre 2015

Nelle pieghe dell’ultimo Bollettino della Bce, sempre molto cauto sulla ripresa che è debole e piena di rischi, ci sono diverse brutte notizie sull’Italia e il lavoro. L’Eurotower è dura. Dice per esempio che, da noi, l’occupazione è al palo mentre altrove in Europa aumenta; che la Grecia ha fatto meglio; che 2 su 3 dei nuovi posti di lavoro il 63% - sono precari, o a tempo determinato, o stagionale.

«Questo accade quando si fanno i provvedimenti avendo la presunzione di conoscere e non avendo il coraggio di confrontarsi sulla realtà» accusa il leader della Cgil Camusso. In realtà il Bollettino, nel citare quest’ultimo dato- politicamente tra i più sensibili- mette a confronto il secondo trimestre 2013 con lo stesso periodo del 2015 e dunque non può tener troppo nel conto il Jobs Act che entra in vigore a marzo. Sconta invece la decontribuzione, cioè l’esonero contributivo per i nuovi assunti a tempo indeterminato, scattato invece il primo gennaio.

Ma al di là dell’impatto delle riforme, dall’analisi di questi esperti emerge una Italia a passo di lumaca sul fronte del lavoro, mentre per esempio Germania e Spagna hanno contribuito per quasi due terzi all’incremento del numero degli occupati nell’area euro nel secondo trimestre. E come se non bastasse, da noi come in Spagna frena pure la crescita dell’occupazione femminile.

Il Bollettino Bce arriva all’indomani del rialzo dei tassi deciso dalla Fed e salutato con una certa euforia dalle Borse europee. Le piazze finanziarie Ue volano, di fronte al primo aumento del costo del denaro dal 2006. I listini corrono tutti, come fosse un rally, per poi rallentare nel finale con Wall Street. Milano da sola guadagna l’1,48% .

Gli analisi s’aspettano tre rialzi dei tassi nel 2016 da parte della Fed, sicura sulla salute dell’economia americana e certa di non intravedere rischi di recessione all’orizzonte, secondo le rassicurazioni del presidente JanetYellen.

La Bce di Mario Draghi, invecce, scatta un quadro più cauto: ci sono ancora pericoli per la crescita, rischi geopolitici legati alle incertezze dell’economia mondiale. L‘afflusso dei rifugiati potrebbe pesare sui bilanci di alcuni paesi, quali l’Italia, con un impatto sui conti pubblici dello 0,2%.

Ed è duro il giudizio della Bce sui bilanci pubblici. Con l’Italia, accusata di deviare troppo dalle regole, come anche il Belgio. Ma pure con le autorità Ue: la clausola sulle riforme strutturali e sugli investimenti, per esempio,introdotte dalla Commissione a gennaio «può ridurre in maniera sostanziale i requisiti di aggiustamento strutturale », per i paesi ad alto debito. La stessa vigilanza Ue sui conti è giudicata al dunque poco trasparente e asimmetrica.

«Continua l’azione del governo a sostegno della crescita e dell’occupazione in un quadro di progressivo consolidamento della finanza pubblica per il 2016», puntaulizza il ministro Padoan. Dal suo osservatorio inoltre la ripresa dell’economia italiana si sta rafforzando, nonostante lo scenario internazionale sia più difficile. «Se guardiamo a 12 mesi fa la situazione è radicalmente diversa. Occorre ora rendere la ripresa robusta per trasformarla da ciclica a strutturale ».

Una modificazione che farebbe bene anche al lavoro, sia italiano che europeo. Il tasso di disoccupazione nell’area dell’euro «rimane elevato e, con l’attuale ritmo a cui si sta riducendo, occorrerà molto tempo prima che si torni ai livelli pre-crisi», è il monito del Bollettino. E più avanti: «Con circa 7 milioni di persone (5% della forza lavoro) che lavorano attualmente a tempo parziale per mancanza di un’occupazione a tempo pieno e con oltre 6 milioni di lavoratori scoraggiati (coloro che hanno rinunciato a cercare un’occupazione) il mercato del lavoro nell’area dell’euro rimane nettamente più debole di quanto indicato dal solo tasso di disoccupazione”.

Cronaca e commenti sulla Leopolda di Sandra Bonfanti (la Commissione potrebbe sevire se...) e Alessandro Robecchi (il rito renziano). Il Fatto Quotidiano, 16 dicembre 2015 (m.p.r.)



BANCHE,
PERCHÉ SERVE LA COMMISSIONE
di Sandra Bonfanti

Sono d’accordo con tutto quello che ha scritto Roberto Saviano. Sono convinta che questo governo sia nel mezzo di un conflitto di interessi grande come il buco che si è inghiottito i risparmiatori beffati. Sono anche sconvolta da quell’atteggiamento di sfida, quell’aria di serena attesa del futuro, quell’arroganza del potere, quell’attacco alla libera informazione che abbiamo visto regnare all’interno della Leopolda. E sono sconvolta infine dagli applausi che hanno accompagnato ogni riferimento al potere conquistato. Fuori aspettavano di potersi avvicinare. Con i loro tristi cartelli, in mezzo al traffico di auto e bus, nell’aria irrespirabile di una delle città più inquinate, i truffati dalle banche. In tutti i sensi.

Le mozioni di sfiducia riusciranno a qualcosa? Di solito i ministri colpiti ne escono vincitori. Ma questa volta è diverso. È diverso anche perché quella risposta del premier «faremo una commissione d’inchiesta» è a dir poco patetica. Ricordo ancora Bettino Craxi presidente del Consiglio che usciva da un incontro con Sandro Pertini durante uno dei molti scandali che già allora assediavano la Repubblica. Passò tra noi giornalisti e disse quella frase rimasta celebre: «Tanto quando non si vuole arrivare a niente si fa una commissione d’inchiesta» e se ne andò col sorriso di chi la sa lunga. Non è proprio così.
Una commissione servirebbe sì se fosse seria. Ma nella storia politica italiana ce ne sono state poche. Alla fine sono sempre prevalsi gli interessi politici sulla verità, all’insegna di un “salviamoci tutti”, “noi vi salviamo i vostri e voi salvate i nostri”. Non succederebbe così anche oggi? Se fosse seria la commissione d’inchiesta si proporrebbe non solo di sapere come sono andate le cose nelle quattro banche, non solo di certificare se e semmai chi ha guadagnato con operazioni del tipo di insider training (di quelle che negli Usa, ad esempio, prevedono pene da mettere i brividi) non solo se e quanti conflitti di interesse si sono aggirati nei mesi del governo Renzi, ma, se fosse seria la commissione d’inchiesta farebbe luce sul lato oscuro della vicenda, cioè sulle voci che da tempo indicano in questa ed altre banche una concentrazione massonica insidiata soltanto da Cl e Opus Dei.
È vero o non è vero? È vero che in Toscana tutto è così. È vero che anche Verdini rientra in questa categoria? È vero che anche il Monte dei Paschi è una storia di questo tipo? E via dicendo. Ecco: se funzionasse, la commissione su Banca Etruria e le altre, bisognerebbe che facesse luce una volta per tutte. È verosimile, questo? Penso di no, a meno che la pressione dei cittadini ingannati non faccia il miracolo. A meno che la si smetta di sghignazzare e si cominci a capire che la vita è qualcosa di più serio di un gioco di ragazzi, anche se sono quelli della Leopolda.
Nella relazione finale della commissione Anselmi si legge: «A completare il quadro concorrevano inoltre, i contatti emergenti con esponenti di numerose banche pubbliche e private per alcune delle quali le presenze (nella loggia P2, ndr) erano particolarmente significative per qualità e rappresentatività, come per la Banca Nazionale del Lavoro (quattro membri del consiglio di amministrazione, il direttore generale, tre direttori centrali di cui uno segretario del Consiglio), il Monte dei Paschi di Siena (il Provveditore), la Banca Toscana (il direttore centrale), l’Istituto centrale delle casse rurali e artigiane (il presidente e il direttore generale), l’Interbanca (il presidente e due membri del Consiglio), il Banco di Roma (due amministratori delegati e due membri del consiglio di amministrazione). Infine: il Banco Ambrosiano col presidente e un membro del consiglio di amministrazione. Soltanto il Monte aveva fatto in seguito una inchiesta che mise in luce “casi di trattamento di favore»: Allora…

Si può fare nell’Italia di oggi una inchiesta seria sulle banche? Sarebbe la miglior risposta... ma Bettino Craxi docet, ancora. La generazione Leopolda sorride, ci sarebbe da vergognarsi.


“PANETTONE O PANDORO?”
IL “MOOD” DEL “QUESTION TIME” STILE LEOPOLDA

di Alessandro Robecchi
Ho perso il treno per Firenze e non me lo perdonerò mai. Avrei potuto essere tra quei giovani virgulti chiamati a fare le domande ai ministri del governo, nello showroom delle idee di Matteo Renzi. Per esempio, adeguandomi al clima di aspro confronto, avrei potuto chiedere alla ministra Boschi: «Parliamo un po’ di suo padre. Alla mattina, caffelatte o ginseng». Bisogna avere coraggio quando si fanno domande ai potenti. Matteo Renzi lo aveva detto: «I ministri saranno interrogati dai partecipanti alla Leopolda in un modo innovativo e divertente», e in effetti ci siamo divertiti.
Abbiamo in action quello che si vorrebbe dalla libera stampa. Niente che non si fosse già sentito nelle polemiche sui cattivi talk show o nelle solite lamentazioni contro “i giornali” (e questo in particolare), ma insomma, vedere così plasticamente rappresentato il sogno del «giornalismo di rinnovamento» (copyright Marianna Madia) è stato istruttivo. Ecco, avrei voluto essere lì, adeguarmi, entrare nel mood lepoldo: «Caro ministro dei Trasporti, e del cambio Shimano che mi dice? Lei ce l’ha sulla bicicletta?». Nei casi estremi, tipo con il ministro Poletti, mi sarei limitato, come fanno i professori umani, a dire: «Mi dica un tema a sua scelta», certo che quello si sarebbe incasinato da solo.
Per farla breve: esiste una linea invisibile superata la quale la propaganda diventa autocaricatura, spesso è una linea sottile, difficile da individuare, ma va dato atto agli strateghi renzisti di aver superato quel confine di alcuni chilometri. Alla Leopolda mancava la piramide di Panseca, quella che rese monumentali (e poi monumentalmente ridicoli) i tronfi trionfi craxiani. Ma il resto c’era tutto, compresa la lezione di question time come lo desidererebbe qualunque potente sulla terra: “Compagno Stalin, ci conferma che nei gulag si mangia benissimo?”.
Ora, su tutto questo si può fare satira e umorismo, ma come restare indifferenti alle vicende umane? Come non provare un moto di tenerezza per quei giovani chiamati ad agevolare le passerelle ministeriali con il loro umile lavoro di comparse? Uno si può immaginare l’angoscia della vigilia, la febbrile compilazione delle domande, i mille dubbi: non avrò osato troppo? Non sembrerò scomodo e importuno? “Ministra Giannini, come si può rendere magnifica la già meravigliosa riforma della scuola, forse con dei lapislazzuli? ”. Beh, mi pare una domanda equilibrata … Ecco, siccome l’esempio vale più di mille discorsi, ci hanno fatto proprio l’esempio, ci hanno mostrato come si fa. Presentarsi con il nome di battesimo, essere informali, dare del tu al ministro. E poi trafiggerlo con argomenti inoppugnabili e domande che non lasciano scampo: “Panettone o pandoro?”. Ma forse la commedia dell’arte leopolda non era per tutti e alcune cose erano, diciamo così, a uso interno, come quelle campagne pubblicitarie che tendono a fidelizzare il cliente.
Se le precedenti Leopolde dovevano far conoscere il prodotto, questa qui appena conclusa aveva un altro scopo: convincere i clienti a non andarsene, giurare che il prodotto funziona, stimolare il consumatore. E per fare quello, motivare i venditori. E in più ancora, mostrare che ci sono nuove leve di venditori che premono, che si fanno notare, che incalzano con severità e spirito battagliero: “Ministro, cosa si prova a cambiare il paese?”. Brivido. Se è questo che volevano, i grandi comunicatori, ci sono riusciti in pieno: la chiesa di Renzology ne esce perfettamente rappresentata, i suoi sacerdoti sono stati interrogati da adepti intimoriti, il Ron Hubbard di Rignano ha scritto un altro capitolo e indicato nuovi nemici: i giornali cattivi che durante la messa – maledetti – scrivevano di banche.
«Ieri il premier è tornato ad attaccare i giornali. Sembra non capire che il confronto serve a crescere, a misurarsi, che è il sale della democrazia. Sembra non capire che non bastano i simulacri di confronto quali sono state le imbarazzanti domande concordate della Leopolda».

La Repubblica, 16 dicembre 2015 (m.p.r.)

Ricordo un’intervista a Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, sull’Huffington Post. Era del 2013 e riguardava una bufera piccola perché periferica, piccola perché marginale rispetto a ciò che riguarda il governo centrale. Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris voleva che suo fratello Claudio, che aveva costruito la campagna elettorale (è attribuibile a lui lo slogan “scassiamo tutto”, versione napoletana della rottamazione renziana) e gli aveva fatto da consulente praticamente gratis, avesse un incarico retribuito e lo voleva alla direzione del Forum delle culture. Si levarono scudi contro questa candidatura e a Cantone fu chiesto se si trattava di sciacallaggio o di legittima critica. Rispose che «(gli sciacalli ndr) ci sono, ma non mi permetto assolutamente di annoverare tra questi i media, che registrano fatti e opinioni, favorendo così l’indispensabile controllo da parte dell’opinione pubblica».

Perché ho ricordato questa vicenda? L’ho fatto perché il potere, sempre, deve sottostare a delle regole auree e una di queste, in democrazie avanzate, è costituita dalla accettazione della funzione di controllo svolta dai media. Non è sciacallaggio, non è remare contro, ma è svolgere un’azione fondamentale e doverosa di controllo sulla cosa pubblica; per fare ciò bisogna porre delle domande, magari trovare le risposte per offrirle ai cittadini, perché possano giudicare il governo in maniera consapevole. Non era sciacallaggio parlare del fratello di De Magistris e non lo è chiedere chiarezza sul padre del ministro Boschi.
Lo sciacallaggio lo fa chi come Salvini dà dell’infame a Renzi e gli addossa la colpa del suicidio del pensionato che ha perso i suoi investimenti. Lo fa chi inquina la politica irresponsabilmente con una demagogia violenta e incivile. Lo fa chi crede che porre domande a un esecutivo equivalga a volerlo mandare a casa.
Ieri il premier è tornato ad attaccare i giornali. Sembra non capire che il confronto serve a crescere, a misurarsi, che è il sale della democrazia. Sembra non capire che non bastano i simulacri di confronto quali sono state le imbarazzanti domande concordate della Leopolda. Mentre ascoltavo il lungo discorso del premier che ha chiuso la manifestazione, la mia attenzione è stata catturata da una frase detta con leggerezza, quasi con disattenzione «Quindici mesi fa il mio babbo - ha detto Renzi - è stato indagato e gli è crollato il mondo addosso. La procura ha chiesto l’archiviazione del suo caso, ma lui passerà il suo secondo Natale da indagato. Io gli ho detto “zitto e aspetta”. Ma lui mi dice che dovremmo passare al contrattacco, io, però, non dirò mezza parola, perché ho fiducia nella giustizia».
Non so se ho capito bene - anche se è tutto piuttosto chiaro - ma il premier riferisce che suo padre, per una vicenda giudiziaria personale, avrebbe detto «dovremmo passare al contrattacco ». «Dovremmo» chi? Viene da chiedersi. Perché il premier si sente coinvolto nella strategia difensiva di suo padre? A che titolo dovrebbe eventualmente dire quella «mezza parola»? E a chi? Nel ruolo di figlio o di presidente del Consiglio? (Ma è poi possibile smettere di essere il presidente del Consiglio per occuparsi, in forma privata, di questioni giudiziarie che riguardano familiari?). E ancora, «passare al contrattacco»: contro chi? Non gli viene in mente che nel suo ruolo non può neanche permettersi di scegliere o meno se passare al contrattacco, in risposta a una vicenda privata?
Che cosa può significare questa frase? Che la linea del governo in materia di giustizia la detterebbe Renzi padre? Cos’è questo: un avvertimento o semplici parole in libertà? Sembra che il presidente del Consiglio, desideroso di rispondere con il sorriso, non sia stato in grado di misurare le proprie parole. Oggi, a bocce ferme, ha il dovere di chiarire cosa intendesse e quanto le vicende familiari influiscono sull’azione del suo governo.
Articoli di Andrea Fabozzi, del deputato PD Franco Monaco e del giurista Gianni Ferrara sul vistoso strappo alla democrazia e alla dignità (residua) del Parlamento operato da Renzi.

Il manifesto, 15 dicembre 2015

CONSULTA.
OBBLIGO DI TRATTARE CON M5S

di Andrea Fabozzi

Ventinove votazioni a vuoto in un anno e mezzo, tre soltanto negli ultimi venti giorni e il Pd cosa propone: scheda bianca per la trentesima votazione, e così anche ieri pomeriggio il parlamento in seduta comune non ha eletto i tre giudici che mancano alla Consulta da un tempo ormai record. Scheda bianca per prendere altro tempo, anche se l’unica strada possibile per uscire dall’impasse è ormai chiara anche ai renziani più devoti agli ultimatum del capo. Serve un accordo con il Movimento 5 Stelle, i grillini del resto hanno già da giorni mutato atteggiamento e sono pronti a sostenere il candidato di Renzi, Augusto Barbera, solo chiedendo che venga fatto cadere il prescelto dai Berlusconiani - prescelto sulla carta visto che l’avvocato Francesco Paolo Sisto non mette d’accordo neanche i suoi. Da stasera il parlamento sarà convocato ogni sera alle 19 (e lo spoglio ci sarà solo verso le 23); le premesse per un cambio di schema e dunque una soluzione - se non oggi, domani - ci sono, ma solo le premesse.

Renzi non vuole cedere su Barbera perché il professore è stato un tenace sostenitore della riforma costituzionale e soprattutto della legge elettorale, che o presto (attraverso i ricorsi in tribunale) o tardi (attraverso l’iniziativa della minoranza in parlamento, una volta promulgata la legge di revisione della Costituzione) arriverà davanti ai giudici delle leggi. Il presidente del Consiglio non accetta che per chiudere un accordo i 5 Stelle vogliano sindacare le scelte del Pd, e d’altra parte i 5 Stelle hanno risparmiato il fastidio ai democratici selezionando all’interno della loro rosa l’unico candidato che non si è mai avanzato critiche all’Italicum. Si tratta del professore emerito Franco Modugno, l’unico che anche nella votazione di ieri ha raccolto voti in maniera significativa (110, comunque qualcuno in più dei votanti grillini).

La votazione di ieri si è fatta notare soprattutto per gli assenti, oltre duecento. D’altronde la seduta di lunedì è tradizionalmente difficile perché scarsamente frequentata. Impossibile in queste condizioni raggiungere qualsiasi accordo e il problema rischia di riproporsi oggi, visto che alla camera lavorano ancora soltanto le commissioni, soprattutto la commissione bilancio sulla legge di stabilità e gli argomenti all’ordine del giorno (come il caso delle banche) non sono di quelli che favoriscono accordi.

Un accordo tra il Pd, il resto degli alleati centristi di governo e il Movimento 5 Stelle, al quale potrebbero aderire i parlamentari di Sinistra italiana, si potrebbe chiudere sacrificando Sisto. E convincendo gli indecisi di Forza Italia a rinunciare del tutto al loro candidato, anche con l’argomento che molto presto potrebbe presentarsi l’occasione di scegliere ancora un altro giudice di nomina parlamentare.

Il terzo giudice, allora, oltre Barbera e Modugno, potrebbe essere un candidato dei centristi, ma non la professoressa Ida Nicotra indicata da Alfano ma impallinata già al debutto, due votazioni fa. Il Corriere della Sera ieri ha fatto il nome del giurista Alessandro Pajno, tra gli uomini più vicini al presidente della Repubblica Mattarella, che non incontrerebbe obiezioni tra i grillini. È un cattolico ma non esattamente nelle corde del Nuovo centrodestra e ha più il profilo per essere indicato alla Consulta dalle supreme magistrature amministrative (è presidente di sezione del Consiglio di Stato) o eventualmente dal presidente della Repubblica. Renzi punta a una composizione della Corte che gli dia garanzie nel giudizio sull’Italicum, le camere conservano nello scrutinio segreto gli ultimi spazi di manovra e così sono trascorsi invano diciotto mesi di votazioni inutili. Da stasera a oltranza.

I SETTE VIZI CAPITALI
DEI CAPI-PARTITO
SUI TRE NUOVI GIUDICICOSTITUZIONALI
di Franco Monaco
L’impasse sui tre giudici della Consulta è sempre più umiliante e imbarazzante. Mi sia lecito fare qualche appunto a margine.
Primo: si spiega perfettamente l’ulteriore discredito - come se ve ne fosse bisogno - gettato sul parlamento dalla sua ingiustificabile inadempienza. Essa investe l’istituzione, ma anche tutti e singoli i parlamentari. Si deve tuttavia sapere che essi (intendo i singoli parlamentari) sono totalmente esclusi da tali decisioni, gestite nella forma più verticistica dai capi partito. Nonostante le mie rimostranze, mai, dico mai, quantomeno il gruppo parlamentare cui appartengo [il PD n.d.r.] ci ha dato modo di discutere non dico i nomi (che pure non dovrebbe essere vietato), ma quantomeno metodo e profilo di essi. Dunque, risponda chi più precisamente deve risponderne, ovvero i vertici dei partiti.

Secondo: mi si è obiettato che, in passato, si è sempre fatto così (ieri il bigliettino allungato in aula, ora l’sms all’ultimo minuto). Non è esattamente così e tuttavia non è un buon argomento. Anche per due novità specifiche che riguardano l’elezione attuale: (1) la circostanza che questa volta si tratta di eleggerne ben tre e dunque di concorrere significativamente a disegnare il profilo complessivo della futura Corte; (2) proprio in queste settimane, la Camera sta varando una riforma costituzionale di grande portata che, comunque la si giudichi, disegna una democrazia maggioritaria (specie se la si considera associata all’Italicum) e che, conseguentemente, prescriverebbe di marcare vieppiù la terzietà degli organi di garanzia. Mai come ora.
Conseguenza? Terzo rilievo: a maggior ragione ci si dovrebbe orientare su figure di alto profilo e a tutti gli effetti indipendenti. Non figure controverse (erano necessarie 20 votazioni per comprendere che Violante, a torto o a ragione, rappresentava un nome divisivo e dunque un ostacolo a quella larga intesa prescritta dal quorum?).

Quarto: giusto per farsi carico di questa esigenza di terzietà e sapendo quanto sia facile cadere in tentazione da parte dei partiti, sarebbe utile ancorarsi a una sorta di convenzione: no al passaggio diretto, senza soluzione di continuità, dal parlamento o dal governo agli organi di garanzia. Per essere esplicito: no a Sisto oggi (che peraltro fatica a raccogliere anche i voti di Fi). Come sarebbe stato meglio evitare ieri, in questo caso per il Csm, l’elezione di due ex colleghi che menziono per onestà intellettuale proprio perché amici che stimo: Legnini e Balduzzi. Piuttosto che Leone e Casellati, a suo tempo molto esposti politicamente nella stagione da dimenticare (o da ricordare!) delle leggi ad personam.
Quinto: tra le motivazioni dell’impasse, si dice, vi sarebbero ragioni di puntiglio rappresentate come ragioni di principio e cioè la tesi secondo la quale non devono essere gli altri gruppi a scegliere il «nostro». Tesi da confutate in radice: il criterio più convincente e più coerente con la suddetta «terzietà» è semmai che i principali gruppi convergano su tutti e tre i nomi. Non è impossibile. In passato ci si è riusciti.Nessuno può sedersi al tavolo dicendo: Tizio o morte. Sennò effettivamente non se ne esce. L’imparzialità non è la somma delle partigianerie.

Sesto rilievo: la discussione non possono essere confinate nel perimetro della maggioranza di governo. Stando alla tradizione e alle consuetudini parlamentari, gli attuali tre grandi raggruppamenti dovrebbero poter esprimere candidati (naturalmente con il suddetto profilo). In concreto, non si capisce perché non lo possa fare il gruppo 5 stelle, tanto più se si considera che, nel caso concreto, esso ha proposto un metodo di trasparente confronto e, quanto al merito, un candidato da tutti giudicato all’altezza.

Settimo: il Pd propone Barbera. Anche sul suo nome si può discutere. Non è un mistero che, anche in settori del Pd, gli si rimprovera di avere ispirato le riforme di stampo maggioritario e segnatamente il ddl Boschi che a taluni non piacciono. È un argomento. Ma, complice la mia stima per la persona e lo studioso, mi sentirei di fare tre osservazioni (1) egli teorizzava il «modello Westminster» ben prima della stagione renziana; (2) è costituzionalista di vaglia, ha tutti i titoli per la Consulta, come ha riconosciuto anche Zagrebelsky, che pure ha posizioni politico-costituzionali assai lontane dalle sue; (3) per come lo conosco, sono sicuro che, una volta eletto, egli di sicuro non si farebbe dettare i comportamenti dal governo.
Da vecchio cattolico, credo nella «grazia di stato».

LE CAMERE E L'ARBITRIO
di Ganni Ferrara


L’impotenza dimostrata finora dal Parlamento ad eleggere i tre giudici costituzionali, prima ancora e invece che deprecata, andrebbe spiegata. Ne risulterebbero le ragioni, se ne scoprirebbero le responsabilità. Si dedurrebbe innanzitutto che questa elezione non ha precedenti, non per il ritardo e la difficoltà di scegliere candidati adeguati al tipo e al valore dei giudizi di costituzionalità, ma per la posta che è in gioco. Una posta che va ben oltre la valutazione della conformità a Costituzione di una legge o di un atto avente forza di legge o l’esercizio di un’attribuzione ad uno o ad un altro potere dello stato o tra Stato e Regioni o tra Regioni. È in gioco il ruolo stesso della Corte, la sua funzione di garanzia effettiva della Costituzione. È in gioco la forma di governo sancita in Costituzione. È in gioco la fisionomia dell’ordinamento della Repubblica, la determinazione di suoi principi fondanti, la sua identità.

È della democrazia italiana che si tratta, è la democrazia italiana ad essere stata posta in gioco con le due operazioni di chirurgia istituzionale compiute dal governo Renzi e dalla sua maggioranza con l’Italicum e col cosiddetto «superamento» del bicameralismo. È di queste due leggi, della loro costituzionalità che sarà chiamata a giudicare la Corte costituzionale. Con buona pace degli assertori, ingenui o ipocriti, della unitarietà e della neutralità della scienza giuridica, le sentenze, specie se di costituzionalità, riproducono, ineluttabilmente l’orientamento, la cultura, la sensibilità, lo specifico canone interpretativo dei testi normativi che adotta il giudice che le pronunzia e, se giudice collegiale, quella della maggioranza dei membri del collegio. Ebbene, come mai finora così decisamente, questi fattori interverranno a determinare il giudizio su queste due leggi. L’ingresso di tre giudici, con i loro orientamenti, le loro sensibilità, nel collegio giudicante si pone perciò come decisivo. Decisivo, per ribadire lo spirito e la lettera della sentenza n. 1 del 2014 sulla incostituzionalità del porcellum e, di conseguenza, della trascrizione delle sue disposizioni nell’Italicum. O, invece, per discostarsi da tale sentenza e chissà in che misura. Decisiva l’integrazione della Corte anche per il giudizio sul «superamento» del bicameralismo e sugli effetti che, combinandosi con l’Italicum, rispettino o violino il principio della separazione dei poteri, cardine della democrazia costituzionale.

Il Costituente non era né un ingenuo, né un ipocrita. Era ben consapevole della complessità delle esigenze da soddisfare con la scelta del modo di composizione di un organo competente a giudicare gli atti parlamentari per antonomasia, le leggi. Strutturò con molta saggezza questo organo per far sì che in esso potessero confluire le culture giuridiche derivanti dalle tre esperienze, quella giurisprudenziale, quella dottrinale, quella forense. E, quanto a queste due ultime, affidò al Parlamento il compito di provvedervi, ma gli impose il modo, quello che avrebbe garantito il più esteso consenso delle forze politiche alla scelta dei giudici. Ne derivò, mediante una convenzione rispettata per più di 40 anni, l’effettiva presenza nella Corte delle diverse culture, professionalità, sensibilità giuridiche e giuspolitiche. Diverse, non compatte.

La devastazione costituzionale che Renzi sta compiendo ha incrinato questa convenzione. Alla pluralità delle culture e delle sensibilità, al rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento, Renzi vuole sostituire l’approvazione del suo ordito istituzionale, la sicurezza che i tre eletti sostengano la legittimazione… dell’illegittimità. Mira quindi a ridurre anche la Corte costituzionale ad organo esecutivo per la legittimazione delle decisioni del «capo del governo». Il che equivale alla confessione di un delitto da parte del colpevole. I cui effetti, per ora, sono stati bloccati in 28 sedute di Camera e Senato. Come a dimostrare che, anche se di «nominati», un Parlamento può opporsi all’arbitrio, come quello di una ulteriore manomissione della Costituzione, proprio grazie al nome che porta. Per esserne degno.

Il Fatto Quotidiano, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)

Il fronte repubblicano ha fatto scudo al Front National ieri sera al ballottaggio delle elezioni regionali in Francia. Marine Le Pen è uscita sconfitta dalle urne su tutta la linea: dopo essere arrivata in testa al primo turno in sei regioni, dopo aver sfiorato lei stessa la presidenza della macroregione del Nord, la leader dell’ultradestra resta a mani vuote e non ha vinto da nessuna parte. A fare la differenza è stato il tanto atteso risveglio cittadino.

È la paura dell’ultradestra a vincere nelle urne come era stato nel 2002, quando i francesi si erano uniti per barrare la strada dell’Eliseo al patriarca del FN, Jean-Marie Le Pen. I Repubblicani di Sarkozy prendono il controllo delle macroregioni del Nord-Pas de Calais, dove Xavier Bertrand ha battuto Marine Le Pen con il 57,70% dei voti contro 42,30%, e della Provenza-Costa Azzurra, dove Christian Estrosi ha vinto contro la nipotina Le Pen, Marion, 53,50% contro 46,50%. Il voto dei socialisti, che si erano ritirati e avevano invitato a votare Sarkozy, è stato determinante.
I Repubblicani hanno trionfato anche nell’est, in Alsazia-Lorena, battendo la stella nascente del FN, Florian Philppot, nonostante l’ammunitamento del socialista “ribelle”Jean-Pierre Masseret, che disobbedendo agli ordini dei vertici aveva mantenuto la sua lista, facendo probabilmente la scelta giusta. Il PS, che usciva perdente dal primo turno, ha resistito e conservato cinque regioni. Porta a casa una vittoria strategica, ma perde la regione-capitale dell’Ile-de-France, dove il testa a testa tra Valerie Pecresse e Claude Bartolone è stato serrato.
Dopo queste elezioni, niente sarà più come prima. Il FN continua a tessere la sua rete sul territorio. In molti consigli regionali, dove i socialisti si sono ritirati, sarà la sola opposizione. Ha dimostrato di poter mobilitare nuovi elettori e potrà continua a navigare sui temi della crisi migratoria e del sicurezza. Lo ha detto Manuel Valls che il «pericolo dell’estrema destra non è scongiurato». Dopo l’assordante silenzio del primo turno, il premier ha preso subito la parola e ha richiamato tutti alle proprie responsabilità: «Stasera non ci sono trionfalismi - ha detto - Smettiamola con i giochetti politici. I responsabili politici di ogni fazione devono imparare a costruire insieme».
Da parte sua Nicolas Sarkozy, che si giocava tutto ieri sera, anche l’investitura all’Eliseo, resta ancora in corsa: «L’unità nel partito - ha detto - e il rifiuto di ogni compromesso con l’estrema destra ha permesso questo risultato. Questi principi devono restare nostri anche in futuro». Per i Républicains la campagna presidenziale è già iniziata. Dal feudo di Hénin-Beaumont, Marine Le Pen, accolta da un pubblico esultante, ha ringraziato i più di 6 milioni di “patrioti” che hanno votato per lei. Non sono mai stati così tanti: «Siamo entrati nel bipartitismo –ha detto –La scissione ormai non è più tra destra e sinistra, ma tra mondialisti e patrioti». E ha attaccato i socialisti, primo fra tutti proprio Valls, che l’hanno “calunniata”, ha detto, “diffamata”, lungo tutta la campagna.

«Poco importa che le due Le Pen non siano state elette. Il dato sconvolgente è che in alcune regioni più del 40 per cento degli elettori ha votato Front National per la seconda volta. Saremo costretti a tener conto delle esigenze e dei desiderata del Front».

La Repubblica, 14 dicembre 2015 (m.p.r.)

Adesso cambia tutto. E poco importa che le due Le Pen non siano state elette. Il dato sconvolgente è che in alcune regioni più del 40 per cento degli elettori ha votato Front National per la seconda volta, il che significa che moltissimi francesi si riconoscono nell’estrema destra. Quindi, dato che siamo in democrazia, tutto ciò che verrà fatto d’ora in poi, sul piano politico ed economico, ma anche su laicità e rapporti tra le diverse comunità, sarà pensato anche in funzione di questa parte dell’elettorato. Saremo costretti a tener conto delle esigenze e dei desiderata del Front.

Come siamo giunti a questa disgrazia? Forse per semplice distrazione. O per il solito narcisismo francese, che ci ha impedito di guardare quanto accade al di là delle nostre frontiere, dove queste forme di fascismo xenofobo già esistono da anni. Negli Stati Uniti c’è Trump, in Ungheria quelli che la pensano come Le Pen sono al potere da tempo. In Germania, invece, 70 anni dopo la fine del nazismo, prospera in molti länder un partito della destra estrema. In Svizzera, le leggi contro l’immigrazione sono state registrate nella Costituzione e alla testa di alcuni cantoni vi sono politici di estrema destra.
È come se l’opinione pubblica si fosse fatta più arida, come se il liberalismo, la solidarietà e le nobili aspirazioni per costruire un mondo migliore che hanno nutrito diverse generazioni non funzionassero più. Il problema di questa destra, sia essa tedesca o francese, è che costruisce il suo messaggio politico contro qualcosa o contro qualcuno. Negli anni Trenta, il nemico era l’ebreo. Si sosteneva che tutto andava male perché i giudei, che erano 14 milioni, mangiavano il pane degli europei. Oggi, invece, i nemici sono i musulmani, accusati di non essersi assimilati agli europei, di non essersi integrati nella nostra società, di non essere diventati abbastanza italiani, francesi, tedeschi o ungheresi.
In Germania l’Islam è diventata seconda religione, gli immigrati turchi che continuano a costruirvi nuove moschee. Se una volta c’erano tensioni tra protestanti e cattolici, oggi ci sono quelle tra cristiani e musulmani. A questi problemi, si è aggiunto quello che sovrasta gli altri: l’infima minoranza dei musulmani che vorrebbe imporre le sue regole con la violenza e commette atrocità come gli attacchi del 13 novembre, scatenando la nuova paura dell’Islam. Ma l’accusa che il Front National ha rivolto per anni ai musulmani francesi è di rubare il lavoro ai francesi riconosciuti tali da secoli di storia. Anzi a quei francesi “giudeo-cristiani”, poiché dopo la Seconda guerra mondiale anche gli ebrei sono rientrati nel novero dei cittadini di prim’ordine.
Oggi si chiedono tutti cosa fare per impedire che nel 2017 Marine Le Pen diventi presidente. Al momento né Hollande né Sarkozy, hanno una risposta. Anche perché la sconfitta della leader del Front l’ha comunque resa più forte di prima, e perché data la stagnazione economica continuerà comunque a guadagnare voti. La soluzione è nelle mani dei musulmani: basterebbe, per esempio, che 100mila di loro scendessero nelle strade per manifestare contro l’Is.

“Mi pare ovvio che non sia un appuntamento del Pd”. Ha ragione Graziano Delrio, la Leopolda è un format, e tale resta anche quando i protagonisti sono i ministri Franceschini Poletti Madia, Giannini Pinotti Gentiloni, De Vincenti Boschi e Padoan, più lo stesso Delrio e naturalmente il padrone di casa. La squadra del governo. Gli incazzosi, ruspanti e un po’ naif figuranti delle prime edizioni sono in second’ordine, e fanno da contorno ad un appuntamento dove gli alberi di natale decorati con i memorabilia 2010–14 non riescono a nascondere una realtà fatta di metal detector, scorte e servizi d’ordine occhiuti e onnipresenti. Con discrezione, comunque.
Fuori, tenuti a distanza dalle forze dell’ordine in assetto antisommossa, lontani alla vista dei leopoldati che entrano ed escono, ci sono quelli che qualcosa non torna. “Scuola, jobs act e privatizzazioni, queste riforme sono da cialtroni”, c’è scritto su uno striscione portato da un migliaio fra studenti dei collettivi, lavoratori Cobas di un’Ataf privatizzata ma scricchiolante, comitati contro l’aeroporto intercontinentale e il maxi inceneritore di Case Passerini, Movimento per la casa, Rifondazione, e un pezzo di Sel che da queste parti ha assaggiato il renzismo appena munto. Dai Ds dell’epoca.

Dentro, a conferma, sale sul palco Franco Bassanini. Cinque volte parlamentare, due volte ministro, ex presidente della Cassa depositi e prestiti, il 75enne Bassanini sancisce il principio che la rottamazione è stata una magnifica idea per scalare il potere. Degli altri. “Renzi è l’incarnazione di un’Italia che ha recuperato nuova credibilità e autorevolezza – vola alto l’oratore — un volto e un’immagine nuova perché il governo ha fatto le riforme, prima fra tutte il jobs act. E nell’ultimo anno dei sette alla guida della Cassa ho firmato accordi di investimenti stranieri per 6 miliardi. Una cifra che non arriva neppure a metà se si sommano i sei anni precedenti”. Di crisi nera, ma questo per Bassanini è un dettaglio.

A seguire ecco le contorsioni di Giuliano Poletti. Intervistato da una delegazione “selezionata” di under 40, il ministro del lavoro azzarda parecchio: “Questo paese deve tornare a innamorarsi delle sue imprese. Continuo a sentirmi dire che puntiamo troppo sulle imprese. E su chi cavolo dobbiamo puntare se non sulle imprese? Non è che se una cosa aiuta l’impresa fa del male ai lavoratori”. Intanto le imprese vere, da Ansaldo Breda alle Acciaierie di Piombino, da Telecom Italia alla Fiat e tanto altro ancora, sono volate oltre le Alpi.

Ma niente paura: “Da gennaio partirà il programma ‘self employment’ – annuncia felice il ministro Poletti — da 5mila a 50mila euro senza interessi per 7 anni, ma non a fondo perduto, a chi si vuole mettere in proprio”. E per gli under 40 c’è “Garanzia giovani”: “Un programma importantissimo, il primo nella storia d’Italia che dice ad un ragazzo che ha finito gli studi ‘se vuoi, vieni qui. Ragiona con noi, ti diamo una mano’. 900mila giovani italiani si sono registrati, e ne abbiamo 550mila che sono già stati chiamati per un colloquio”. Un colloquio.

Arriva la notizia che il nuovo think tank renziano, affidato a Giuliano da Empoli sul binario Milano-Bruxelles, si chiamerà “Volta”. “Ma tutti aspettano Maria Elena Boschi, difesa a spada tratta dalle basse insinuazioni sui problemi bancari di famiglia, da parte di quei giornalacci messi all’indice — le televisioni no — da una platea aizzata a tavolino. Ed eccola: “Ben tornata a casa…” la annunciano dal palco. Lei si intenerisce: “Vi voglio bene, è stata una grande fortuna essere cresciuta con voi”. Poi, con lo stesso incedere leggiadro, affonda il coltello: “Con l’italicum non c’è alcun pericolo per la nostra democrazia. E’ una legge che funziona bene perché dà la certezza del vincitore. Dà un premio di maggioranza certo e limitato, anche se sono sempre i cittadini a scegliere quale è la lista che vince. Se questo non succede al primo turno, c’è il ballottaggio”. Abbracci&baci: “Grazie a tutti voi, stiamo cambiando l’Italia. A domani, viva la Leopolda”. Dal suo punto di vista, non fa una grinza.
La denuncia del presidente di Antigone, l'associazione che si è costituita parte civile nel processo per le torture della scuola Diaz durante il G8 del 2001.

Il manifesto, 12 dicembre 2015 (m.p.r.)

Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Scompare dai lavori parlamentari la proposta di legge che criminalizza la tortura. Desaparecida. Non c’è traccia all’ordine del giorno della Commissione Giustizia del Senato. Era il 9 aprile 2015 quando la Corte Europea dei diritti umani nel caso Cestaro (torturato alla Diaz) nel condannare l’Italia stigmatizzava l’assenza del crimine di tortura nel codice penale italiano. Renzi aveva promesso che la risposta italiana alla Corte di Strasburgo sarebbe stata la codificazione del reato. Da allora è accaduto qualcosa di peggio che il consueto niente.

Le forze contrarie hanno trovato buoni alleati al Senato. La Commissione Giustizia di Palazzo Madama avvia la discussione di in testo già di per sé non fedele al dettato delle Nazioni Unite. A maggio calendarizza una serie di audizioni. Sono tutte di natura istituzionale. Vengono auditi, in modo informale, i capi delle forze dell’ordine e l’associazione nazionale magistrati. Manca un resoconto stenografico degli incontri. Non vengono sentite le ong, gli avvocati, gli accademici. Così, nonostante le prese di posizione favorevoli al reato da parte dell’Anm, il risultato - prevedibile - è l’approvazione di un testo che pare pensato in funzione della non punibilità dei torturatori.

Un esempio: per esservi tortura le violenze devono essere più di una. Colui che tortura una volta sola pertanto la può scampare. La lettura degli interventi dei parlamentari lascia inebetiti. La pressione istituzionale esterna ha funzionato: viene prima concordato un testo di bassissimo profilo e poi viene messo in naftalina. Siamo quasi alla fine del 2015 e la melina continua senza tema di sottoporsi al ludibrio pubblico. Ma non è finita. C’è qualcosa di peggio che il nulla.

Il governo italiano si rende disponibile a pagare fior di soldi pur di evitare una nuova condanna dei giudici europei. È notizia fresca dei giorni scorsi. Meglio pagare piuttosto che fare una legge contro la tortura. Ricapitoliamo: era il 2004, tre anni dopo Genova, quando nel carcere di Asti due detenuti vengono torturati. L’indagine questa volta va avanti. Ci sono le intercettazioni telefoniche e ambientali. attraverso il proprio difensore civico Simona Filippi si costituisce parte civile nel processo.

Si arriva al 2012.

Così scrive il giudice nella sentenza: «Dal dibattimento emergono alcuni elementi che possono essere ritenuti provati aldilà di ogni ragionevole dubbio. In particolare, non può essere negato che nel carcere di Asti sono state poste in essere misure eccezionali (privazione del sonno, del cibo, pestaggi sistematici, scalpo) volte a intimorire i detenuti più violenti. Tali misure servivano a punire i detenuti aggressivi…e a dimostrare a tutti gli altri carcerati che chi non rispettava le regole era destinato a subire pesanti ripercussioni…I fatti in esame potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura…ma non è stata data esecuzione alla Convenzione del 1984…né sono state ascoltate le numerose istanze (sia interne che internazionali) che da tempo chiedono l’introduzione del reato di tortura nella nostra legislazione…in Italia, non è prevista alcuna fattispecie penale che punisca coloro che pongono in essere i comportamenti che (universalmente) costituiscono il concetto di tortura».

Così il giudice è costretto a non sanzionare gli agenti di polizia penitenziaria. I reati lievi per cui è costretto a procedere sono oramai prescritti. Tutti assolti ma tutti coinvolti e responsabili.

La Cassazione conferma la sentenza. Questa volta Antigone (con il proprio difensore civico) in collaborazione con Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International e con gli avvocati dei due detenuti reclusi ad Asti, presenta ricorso alla Corte europea dei diritti umani. E qui arriviamo ai giorni scorsi. Il ricorso è dichiarato ammissibile. Il Governo, pur di evitare un’altra condanna che stigmatizzi l’assenza del delitto di tortura nel codice penale (dopo il caso Cestaro-Diaz), chiede la composizione amichevole e offre 45 mila euro a ciascuno dei detenuti ricorrenti. Dunque sostanzialmente ammette la responsabilità ma preferisce pagare piuttosto che farsi condannare ed essere costretta ad approvare una legge contro la tortura. Che ne pensano il premier Renzi e il ministro della Giustizia Orlando? Che ne è della promessa del Presidente del Consiglio?

La Seconda guerra mondiale non è finita se l'deologia e la prassi d'ispirazione nazista agiscono ancora. Aveva ragione Bertold Brecht: «il ventre da cui nacque è ancora fecondo».

Il manifesto, 9 dicembre 2015

Decreto di espulsione differita. È un foglio che le autorità mettono in mano ai profughi appena sbarcati In Italia, con cui viene ingiunto di abbandonare il paese dall’aeroporto di Fiumicino entro sette giorni. Così, persone appena uscite dall’incubo di un viaggio atroce e disperato, senza denaro, biglietto aereo, documenti, conoscenza della lingua, parenti, amici o strutture di sostegno, vengono abbandonate alla clandestinità e all’arte di arrangiarsi, in territori infestati da mafia e criminalità pronte a reclutarle.

Difficile da credere, ma è così. Per ora ha riguardato un numero ristretto di profughi ai quali è stata negata la richiesta di asilo: in base alla nazionalità o al paese di provenienza, considerato non in guerra; o anche senza aver nemmeno accertato questo dato. È il risvolto locale della decisione di Bruxelles di distinguere tra profughi di guerra e migranti economici: i primi meritevoli di protezione, i secondi da respingere.

Una selezione da affidare agli Hot spot di Italia e Grecia, che però non sono ancora in funzione e che rischiano di trasformare entrambi i paesi in “depositi” incontrollati dei profughi che gli altri Stati non vogliono. Non ci sono soldi per pagare i voli di ritorno, né accordi con i paesi in cui rimpatriare i migranti economici, perché è silenziosamente fallito il vertice di La Valletta, il cui obiettivo era lo scambio di un miliardo e otto di aiuti – soprattutto per organizzare campi in cui internare profughi in fuga o rimpatriati – con la disponibilità dei paesi africani a bloccare quei flussi per conto dell’Europa. Per questo si ricorre ai decreti di espulsione differita.

Quanto questa misura sia non solo cinica e criminale, ma anche miope e stupida, tanto da mettere in pericolo sicurezza e incolumità dei cittadini italiani, soltanto il silenzio complice dei media riesce a nasconderlo.

Con essa l’Unione europea conta di sbarazzarsi, senza sapere come, di almeno la metà dei profughi che hanno raggiunto il suo territorio quest’anno (più o meno un milione; quanti i migranti richiamati ogni anno dall’Europa prima della crisi del 2008 e delle politiche di austerity; e meno di un terzo del necessario per mantenere in equilibrio il saldo demografico dell’Unione, in caduta verticale, e la sua vacillante economia).

Ma ciò che non è andato in porto con i paesi africani sembra invece riuscito con la Turchia: in cambio di tre miliardi – tutti ancora da stanziare, in gran parte a valere sui bilanci di renitenti Stati membri — Erdogan si impegna a trattenere in Turchia (o in un’enclave da ricavare manu militari in territorio siriano) due milioni e mezzo di profughi, in gran parte siriani, iracheni e afghani (ma molti anche subsahariani, senza contare quelli nuovi, che le guerre continueranno a creare).

Questo accordo — fortemente voluto dalla Merkel per bilanciare l’impopolarità creatale, non tanto tra i cittadini tedeschi, quanto in seno all’establishment della Grande coalizione, dall’avventata promessa di accogliere tutti i profughi siriani — è stato fatto nel momento in cui di Erdogan venivano finalmente messi in chiaro i crimini politici, le misure antidemocratiche, i finanziamenti, le armi e l’addestramento offerti all’Isis.

Pur di sbarazzarsi dei profughi l’Unione europea, proprio mentre comincia a bombardare l’Isis senza intervenire sui flussi da cui provengano i soldi, le armi e gli appoggi di cui gode, è disposta a passare sopra a tutte queste cose; e persino a riaprire le procedure di ingresso della Turchia nell’Unione.

Con questo accordo i governi dell’Unione si sono però consegnati in mano a un feroce dittatore, che ora ha a disposizione una bomba umana (a questo servono i due milioni di profughi) da scagliare contro l’Unione appena si dimostrerà poco accondiscendente con le sue richieste. I primi a farne le spese sono i Kurdi, che non otterranno più asilo in Europa non potendo più sostenere di essere discriminati, perseguitati e massacrati in Turchia.

Così i capi di Stato di tutto il mondo, e soprattutto quelli europei, accorsi a Parigi (con puntate a Bruxelles) per lanciare una battaglia che non faranno mai contro i cambiamenti climatici, ne hanno approfittato per decidere invece una guerra; che oltre a creare migliaia di vittime e milioni di nuovi profughi è, di tutte le attività umane, quella che più contribuisce alla produzione di gas di serra; anche se nel computo delle emissioni climalteranti questa minuzia non viene mai calcolata.

Renzi se ne è per ora chiamato fuori, riscuotendo le lodi di sostenitori e avversari; ma solo per tenersi mani e truppe libere per la guerra in Libia che la Nato sta preparando. Non bisogna rifare il disastro della guerra contro Gheddafi, ripete; ma non si vede dove stia la differenza con quella in programma.

Se mettiamo in fila questi episodi grandi e piccoli ne esce il quadro di una governance dell’Unione europea totalmente allo sbando: quasi una banda di ubriachi che non sa più dove andare.

Quanto basta per ridicolizzare Stefano Manservisi (una specie di badante dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini), che concludendo giovedì scorso a Milano un convegno sul XXI rapporto dell’Ismu sulle migrazioni, aveva sostenuto che, se le politiche economiche hanno contribuito a mettere in crisi l’Unione europea, la condivisione delle misure sui migranti ne sta invece ricomponendo l’unità; aprendo la strada all’agognata unione politica…Peccato che quelle misure, oltre a essere criminali, sono inattuabili e, in alcuni casi, come l’accordo con la Turchia o l’entrata in guerra, suicide.

L’Europa allargata ai profughi e ai loro paesi di provenienza è un progetto che deve essere ripensato dalle fondamenta, costruendo innanzitutto un fronte di coloro che non vogliono rinchiudersi in una fortezza dominata dal cinismo, dal nazionalismo e dal razzismo.

Questo modo di governare, che spinge l’Unione europea verso l’insignificanza e la dissoluzione e spiana la strada alle forze antieuropeiste e razziste delle destre, evidenzia l’incapacità di misurarsi con le sfide che il pianeta e la popolazione mondiale si trovano di fronte.

Governano come se tutto dovesse continuare a scorrere come prima. La crisi climatica alle porte, e in molte regioni già in pieno corso, è solo una, e non certo la maggiore, delle questioni sul tappeto, su cui nessun uomo o donna di governo è disposto a giocarsi il proprio ruolo, e meno che mai a mettere in relazione i cambiamenti climatici con i profughi che sta cercando di tenere lontani. La guerra è un’altra quisquilia, affrontata con leggerezza e senza il minimo progetto per il dopo, per far salire di qualche punto la propria popolarità ormai irrimediabilmente a terra (come aveva fatto Blair a suo tempo; e sappiamo come è poi andata). Tutto viene deciso nella convinzione che, vinta la guerra — che in Afghanistan e in Iraq dura da anni e non si sa quando e come possa finire — governi finanza e imprese potranno continuare o riprendere gli affari di sempre.

Lo stesso vale per l’economia: la crisi sarebbe dietro le spalle perché il Pil di alcuni paesi registra un mezzo punto in più, senza considerare la scia di disoccupati, generazioni perdute, devastazioni ambientali, disperazione, miseria e rancori che l’austerity ha creato e a cui la “ripresa” non apporta alcun rimedio.

Peggio ancora per lo spirito pubblico: il pensiero unico, che è una rappresentazione vuota e falsa della realtà, ha lasciato dietro di sé, a destra, al centro e a sinistra, il deserto: una totale incapacità di raccogliere i fili di un progetto di salvaguardia del pianeta, delle vite e dei rapporti sociali tra le persone.

Siamo ormai in trincea, avendo allegramente dilapidato tutto quello di buono che avremmo potuto salvare di un’epoca ormai trascorsa. Dobbiamo prepararci a un lungo periodo di ricostruzione di una prospettiva più umana. Che il papa e la sua enciclica siano diventati un punto di riferimento non è un buon segno: perché è il risultato della miseria altrui.

Le interviste a Olivier Roy di Giuseppe Acconcia, a Jacques Séguéla di Anais Ginori, a Marin Le Pen di Olivier Mazerolle, Julien Absalon, Aymeric Parthonnaud. Il manifesto e la Repubblica, 8 dicembre 2015 (m.p.r.)

Il manifesto
«TANTA ASTENSIONE NELLE BANLIEUES
LASCIATE DALLA SINISTRA»
di Giuseppe Acconcia

Abbiamo raggiunto al telefono a Parigi Olivier Roy, docente all’Istituto universitario europeo di Firenze, si è occupato di islamismo politico, jihadismo ed è consulente del ministero degli Esteri francese.
Come hanno votato i giovani delle periferie alle elezioni che hanno portato all’affermazione del Front National?
Pare che in quei quartieri abbia vinto la sinistra. La mia impressione è che ci sia stato un forte astensionismo giovanile nelle periferie. Detestano Sarkozy ma si sentono traditi dal discorso politico di Hollande e del premier Valls.
Come giudica la reazione energica di Hollande che ha imposto un lungo stato di emergenza dopo gli attentati del 13 novembre scorso?
Hollande ha voluto riprendere le redini dello stato. Ma l’Is non si vince con le bombe, è necessaria una coalizione politica. L’imposizione dello stato d’emergenza ha avuto un costo politico enorme: ha minacciato l’intero spazio delle libertà politiche.
Il disagio dei giovani musulmani francesi nasce dall’assenza di sinistra?
Sì, un tempo si riconoscevano nei partiti comunisti, soprattutto tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Poi questi partiti hanno assunto una posizione ambigua su Islam e immigrazione. Anche l’alternativa della sinistra radicale si è ridimensionata per la sua ambiguità in tema di laicità: vedere una ragazza velata era uno scandalo a sinistra. I giovani delle periferie non sopportano il divieto del velo.

Cosa prevede per la sfida presidenziale del 2017?

«Marine Le Pen arriverà quasi certamente al secondo turno. Dopo, la sfida è aperta. La verità è che ci sono due alternative di governo che si combattono, quella del Fn e dei Républicains. E con tre soggetti politici in un sistema bipolare ce n’è sempre uno che deve morire».

E proprio questa depoliticizzazione delle periferie è la causa del fenomeno dei foreign fighters?
I jihadisti non si interessano alla politica francese. Militano nei quartieri periferici ma non costruiscono un discorso politico nelle periferie. Sono anche disinteressati alla politica estera di Hollande, sebbene non abbiano mai sentito una parola seria levarsi dalla sinistra anti-imperialista. Il loro problema principale riguarda la politica interna di Hollande, la mancanza di lavoro, il discorso politico di destra di Valls.

Quindi l’avanzata del fenomeno jihadista è una conseguenza della crisi della rappresentanza democratica?
Certo, io direi della crisi della cittadinanza. Chi si dà all’Islam radicale non si riconosce nella vita politica, si sente escluso e ha interiorizzato questa esclusione. Per esempio, non ci sono partiti musulmani in Europa. A parte in Belgio, non vedo tentativi seri che rappresentino i giovani musulmani, ad esempio in tema di immigrazione.

Riguarda anche il Belgio dove gli attacchi di Parigi sono stati pianificati?
In Belgio c’è una società comunitarista: fiamminghi, da una parte, e valloni dall’altra. Anche gli immigrati si sono adeguati al comunitarismo creando la loro repubblica di Molenbeek.

Sembra poi che i più radicali nel discorso jihadista siano i convertiti?
Chi pensa che il problema sia l’Islam non riesce ad afferrare come sia possibile che non musulmani (cattolici, atei) passino al jihad. Pensano si tratti di musulmani «nascosti». Non è così. I convertiti all’Islam scelgono il salafismo: sono spesso i più religiosi tra i religiosi.

Evidentemente emerge un forte contrasto tra genitori e figli?
I giovani non sono radicati nell’Islam culturale, religioso, linguistico dei padri ma cercano il loro Islam nel discorso salafita.

È così che nascono i foreign fighters?
Si interessano all’Islam mondializzato, sono internazionalisti in un certo senso. Questa è la genialità di Is: fare appello al jihadista globale. E la risposta arriva dai lupi solitari… Il jihadismo non è un movimento di massa. Richiama individui non integrati socialmente. E nel mercato della rivolta, Is è in testa.

Perché non funziona l’alternativa dell’Islam politico?
I Fratelli musulmani non sono riusciti a creare un’organizzazione internazionale efficace. Sono un movimento gerontocratico in cui è necessario un apprendistato di cinque anni per poter parlare in pubblico. E poi non sono violenti.

La Repubblica
“È LA FINE DEL RAZIONALISMO.
MARINE PUÒ ARRIVARE ALL'ELISEO.
SI REALIZZA L'INCUBO FRANCESEl”
di Anais Ginori

Parigi.«Dopo questo voto, tutto diventa possibile: anche Marine Le Pen all’Eliseo». La Francia si è svegliata ieri mattina con quasi metà delle 13 macro-regioni segnate di blu. Jacques Séguéla non ha dormito tutta la notte. «Dopo gli attentati, per me è stato un nuovo lutto nazionale», racconta il pubblicitario esperto in comunicazione politica, già consigliere di François Mitterrand e di Nicolas Sarkozy. «Anche se il secondo turno di domenica non consegnerà il potere al Fn in tutti gli scrutini ormai il segnale è chiaro. Siamo entrati in un’altra epoca: a noi spetta capire, adattarci. Ma non sarà facile».

Lei che di mestiere studia e anticipa le tendenze, se l’aspettava?
«È un cataclisma che covava da tempo. Tutti ne parlavano, si sapeva, ma nessuno ha fatto niente per tentare di curare i primi sintomi. Ci siamo accorti del danno solo quando la malattia è ormai conclamata».
Quale sarebbe la malattia della Francia?
«Tutto è cominciato con la paura, in particolare il sentimento di insicurezza sociale, provocata dall’immigrazione e dalla globalizzazione. Poi la scelta dell’estrema destra è stata usata come un messaggio di rabbia. Adesso, però, c’è un nuovo salto di qualità».
Di cosa parla?
«Il voto al Fn non è più solo paura e rabbia, ma una vera e propria adesione al discorso semplicistico di Le Pen. In questo, il Fronte si è trasformato in un partito come gli altri. E pazienza se si rischia di gettare il Paese in un vicolo cieco. È la scomparsa del buon senso della razionalità francese. Cartesio si starà rivoltando nella tomba».
La responsabilità è anche della classe politica, incapace di dare risposte?
«A causa del fallimento del governo socialista, di questa sinistra incolore che parla e pensa ancora come nel Novecento, il sogno di un vecchio signore e poi di sua figlia è diventato realtà. Un incubo».
Non vede differenze tra padre e figlia Le Pen?
«Marine ha corretto alcuni estremismi di Jean-Marie, o meglio: li ha messi in sordina. Non appaiono più ma nella base l’anima del Fn rimane la stessa. Di suo, la Presidente del Fn ha portato una capacità di comunicazione straordinaria».
Da questo punto di vista, non ha bisogno di spin doctor?
«Ha la forza del cognome, un talento per parlare alla pancia della gente, è la più giovane dei leader, si presenta come novità nel panorama politico anche se viene da un partito vecchio di quarant’anni. E poi non è sola. Al suo fianco c’è Marion, che ha lo stesso talento, è anche dolce, bella e quindi ancora più pericolosa. Nella triade del governo Fn c’è infine Florian Philippot che si presenta con buoni studi, un profilo più alto».
Lei parla di fallimento socialista, ma non è Nicolas Sarkozy che vede i suoi elettori in fuga verso il Fn?
«È vero, Sarkozy ha perso voti alla sua destra. È la dimostrazione che un discorso centrista, come vorrebbe Alain Juppé, non paga. Qualche anno fa, l’ex Presidente era riuscito a prendersi gli elettori del Fn. Tutti lo criticavano nel suo partito e veniva dipinto come il Diavolo dalla sinistra. Salvo poi vedere ora Hollande che parla di identità nazionale, fa una svolta autoritaria dopo gli attentati, vuole limitare l’immigrazione rispetto a Angela Merkel».
Cosa dovrebbe dire Sarkozy ai francesi in vista del secondo turno?
«Bisogna parlare alla loro intelligenza. Spiegare che se vincesse Le Pen in molte regioni le aziende straniere avrebbero paura di investire e che, al livello nazionale, ci sarebbe un crollo del potere d’acquisto con l’uscita dall’euro. Sono verità che nessuno vuole ascoltare. E purtroppo la classe politica non è più credibile».
Il “sacrificio” dei socialisti, che non si presentano in alcune regioni, è un ”beau geste”?
«È puro marketing politico. La sinistra non è diventata improvvisamente buona e generosa. Questa mossa non impedirà al Fn di vincere al Nord o al Sud, ma intanto i socialisti potranno gettare la croce su Sarkozy. È finito in una trappola infernale».

La Repubblica
“LA MIA VITTORIA UNA SFIDA ALLE ÉLITE.
COSì I SOCIALISTI SI SONO SUICIDATI”
di Olivier Mazerolle, Julien Absalon, Aymeric Parthonnaud

Marine Le Pen, quali sono i vostri obbiettivi per il secondo turno?

«Sei regioni su 12 e nella settima siamo in parità, perché in Normandia credo che ci separi una differenza dello 0,2%. Questo dimostra una crescita incredibile per il Front national, ma bisogna fare anche altre osservazioni. Innanzitutto il risultato molto modesto dell’Ump, che Sarkozy diceva capace di riprendere le forze sotto la sua direzione, ma non è stato così. Quanto al Partito socialista, un vero e proprio crollo, seguito da una specie di suicidio collettivo».

Quali sono i vostri obbiettivi per il secondo turno?
«Il nostro obbiettivo è vincere e ottenere il più alto numero di regioni. Vogliamo poter dimostrare che l’indebitamento, i continui aumenti delle tasse, l’assenza di sostegno alle piccolissime, piccole e medie imprese non sono delle fatalità ma delle scelte politiche adottate dall’Ump e dal Partito Socialista che hanno contribuito a creare la situazione drammatica che sta vivendo oggi il paese».
Lei ha un tono meno trionfalistico di quanto ci si sarebbe potuti aspettare tenendo conto dei risultati.
Significa che non si fida?
«La chiave delle elezioni è nelle mani degli elettori. Il risultato incredibile del Front national è la rivolta del popolo contro le élite. Il popolo non sopporta più il disprezzo in cui è tenuto da anni da una classe politica che cura i propri interessi e non difende in nessun modo gli interessi della popolazione. Questa popolazione, e quella che si è astenuta, può decidere di mobilitarsi, almeno per il secondo turno per un reale cambiamento nelle regioni».
Ieri sera Jean-Marie Le Pen ha detto: “Attenzione al secondo turno!”. Vi siete parlati?
«Non rispondo più a questo genere di domande».

E perché?
«Ma insomma, Jean-Marie Le Pen non è più nel Front national, l’ho detto nella maniera più chiara possibile, e non commento più né le affermazioni né le azioni di Jean-Marie Le Pen. Ha altre domande?».
Sì. Lei afferma che il Front national è l’unico in grado di assicurare l’unità nazionale, ma è il partito che più divide i Francesi: o si è radicalmente a favore del Front national o si è radicalmente contro.
«Che cosa c’è di estremo nel fatto di dire che bisogna fermare l’immigrazione quando non abbiamo neanche i mezzi per accogliere questa gente, che cosa c’è di estremo nel dire che bisogna smettere di sostenere ininterrottamente i grossi gruppi finanziari per aiutare le piccole e le microimprese, che cosa c’è di estremo? Vede bene che queste argomentazioni sono argomentazioni che mirano soltanto a difendere i loro interessi di casta».
Ma non avete ancora convinto tutti. Sos Racisme, ma anche il Crif che rappresenta gli ebrei di Francia, ha lanciato un appello a fare opposizione al Front national.
«Queste strutture sono sempre dalla parte del potere in carica. A ogni elezione se ne escono con queste cose per aiutare il potere a conservare il posto mentre la disoccupazione esplode, la povertà esplode, mentre il nostro paese è in una situazione drammatica per quanto riguarda il debito pubblico e di creazione di ricchezza, mentre la concorrenza internazionale sleale fa dei danni spaventosi».

Al secondo turno bisogna riunire i francesi. Come è possibile farlo quando qualcuno come sua nipote dice che i musulmani non possono avere lo stesso rango dei cristiani o che bisogna tagliare i fondi per la pianificazione famigliare?
«Non è quello che ha detto mia nipote, lei lo sa bene. Tutta questa esagerazione contro il Front national non ha impedito che si realizzassero questi risultati. Non ci sono stati grossi balzi in avanti bensì un movimento che si struttura, che guadagna progressivamente la fiducia dei francesi, elezione dopo elezione. Abbiamo raggiunto il 25% alle europee, il 26 e qualcosa alle cantonali, e oggi abbiamo ottenuto un risultato storico ma non c’è ancora una vittoria».

«Non sarebbe meglio comprendere, finalmente, le ragioni che spingono milioni di cittadini europei ad abbracciare idee e programmi “sbagliati”, poiché quelli “giusti” stanno sostanzialmente fallendo?». Il Fatto Quotidiano, 8 dicembre 2015 (m.p.r.)

La risposta esatta al successo del Front National in Francia arriva da un altro mondo, il Venezuela, dove in altre elezioni e con altri problemi, Nicolás Maduro, il caudillo travolto dai suoi nemici politici, non ha evocato l’apocalisse e ha preso atto del risultato: “Noi sconfitti ma ha vinto la democrazia”.

Forse il pessimo erede di Hugo Chavez non aveva scelta ma ritornati nel nostro continente ci chiediamo a cosa serva la demonizzazione dei seguaci di Marine e Marion Le Pen, la descrizione di milioni di elettori come dei nazifascisti con le teste rasate oppure dei subumani invocanti l’immediata espulsione di tutti i musulmani dai confini francesi. Certo, domenica sera, di teste rasate ce n’erano in giro a festeggiare, senza contare che le “soluzioni finali” hanno radici profonde nel Paese della Marsigliese ma anche dei collaborazionisti di Vichy. Però, nelle foto dell’esultanza dell’estrema destra, non si vedono camicie brune bensì signori dall’aria benpensante (che forse la volta scorsa avevano votato Sarkozy), alcune dame finte bionde sintoniche alle Le Pen e molti giovani in giacca e cravatta. Insomma, facce della stessa antropologia che in Italia vota per Matteo Salvini, che in Germania riempie le piazze contro la Merkel e le sue aperture ai rifugiati siriani, che ha fornito consensi plebiscitari ai governi xenofobi in Ungheria e Polonia.
Anche se da essi tutto ci divide (e per chi scrive è certamente così), cosa vogliamo fare? Dequalificarli tutti come elettori di serie B, appestati politici da tenere a distanza con una sorta di razzismo alla rovescia? O non sarebbe meglio comprendere, finalmente, le ragioni che spingono milioni di cittadini europei ad abbracciare idee e programmi “sbagliati”, poiché quelli “giusti” stanno sostanzialmente fallendo? Se «in una delle maggiori società dell’Occidente un terzo dei suffragi ha scelto il partito che più rappresenta la collera, il risentimento, l’odio, la paura del terrorismo» (Bernardo Valli), si tratta di una reazione isterica di massa? O di sentimenti diffusi a cui la sinistra di Hollande e la destra moderata di Sarkozy non hanno saputo dare la risposta giusta, regalandoli alla risposta sbagliata anti-immigrati e islamofoba della destra radicale?
E se in termini tattici è comprensibile, in vista dei ballottaggi di domenica prossima, la ricerca di un compromesso tra socialisti e centrodestra per arginare l’offensiva del FN, in procinto di annettersi sei grandi regioni, sarà sufficiente ricreare lo spirito del Front Républicain per arginare la deriva lepenista che rifiuta l’euro e invoca il ripristino della pena di morte? O una volta salvato il salvabile non sarebbe meglio un profondo esame dei vizi e degli errori commessi in questi decenni, a targhe alterne, dalle forze “repubblicane”, dalla politica che si sente buona. Il governo socialista che con le stragi di Charlie Hebdo e del 13 novembre ha mostrato di sé il peggio quanto a impreparazione e superficialità. E l’opposizione conservatrice la cui esistenza è certificata soprattutto dagli scandali da cui deve difendersi il suo malconcio leader Sarkozy.
E sul voto di domenica non avrà avuto anche il suo peso la ragazza Marion che a dispetto del credo reazionario e antiabortista (via le sovvenzioni alle associazioni “multiculturaliste”) impone l’immagine di una politica nuova, femminile, senza scheletri nell’armadio, non più rappresentata dai vecchi politicanti tromboni, attenti soltanto alla conservazione dei propri privilegi? Un po' come in Italia il M5S, o Podemos in Spagna ma con molti meno rischi per la democrazia. Se la Francia repubblicana saprà apprendere la lezione del 6 dicembre, il lepenismo 2.0 potrà essere una delle tante malattie ricorrenti ma guaribili dei sistemi dediti all’autoconservazione. Altrimenti, aspettiamoci un nuovo Houellebecq e una Sottomissione francese riveduta e corretta. Non più un governo islamico moderato che impone lo studio del Corano e consiglia la poligamia, ma una giunta di fascisti in doppiopetto (con l’aggiunta di qualche testa rasata) che persegue la discriminazione etnica e distribuisce armi ai cittadini per la difesa della razza bianca.
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