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In queste pagine l'autore racconta di quando suo padre, Silvio Saraceni, divenne commissario di governo di Castrovillari nel 1944. Come condizione all'accettazione della sua carica Silvio stilò un decalogo in cui chiedeva poteri straordinari (perquisizioni, requisizioni), la possibilità di nominare su base volontaria e gratuita «ausiliari del Comune», da affiancare alla esigua (e non tutta affidabile) pattuglia dei vigili urbani e di usare il titolo di sindaco o commissario del popolo anziché quello di commissario di governo. Gli fu concesso pressoché tutto, ma non il titolo di sindaco. Poté usare quello di commissario straordinario. (a.b.)

Il seguente testo è tratto da «Un secolo e poco più» Sellerio Editore, 2019

Mio padre sceglie di insediarsi il 1° maggio, «festa del Lavoro e del Socialismo». La situazione logistica del Municipio è disastrosa. Tra l’altro manca anche una macchina da scrivere e, naturalmente, il dattilografo. Silvio possiede una Olivetti Lettera 22, su cui aveva imparato a scrivere la sua primogenita, allora quattordicenne. Macchina e figlia vengono trasferite in pianta stabile al Comune, ovviamente senza retribuzione. Il che era, se non proprio giusto, certamente opportuno. E condiviso in famiglia.

Ricordo che però mia madre non fu d’accordo quando, ad una delle mie sorelle che si era ammalata, negò il supplemento di latte e la razione di riso che spettava agli ammalati. E non era d’accordo, mia madre, neppure quando, per non incorrere nei fulmini di Silvio, era costretta a rispedire al mittente qualche modesto, ma all’epoca prezioso, regalo alimentare, un cesto di verdure, un chilo di pane, un litro d’olio. C’era, in questi atteggiamenti, un connotato estremista, un eccesso di «piacere dell’onestà» (l’opera di Pirandello di cui apprezzava soprattutto il titolo).
Un mese dopo l’insediamento in Municipio, il 3 giugno, Fausto Gullo, ministro dell’Agricoltura, gli chiede di assumere l’incarico della «Direzione Generale della Alimentazione», struttura del Governo di Salerno in prima linea nell’affrontare il principale problema del momento. Lui ringrazia e declina, gli sembra un tradimento del suo popolo, che lo ha voluto alla guida del Comune. In questa occasione confida all’amico ministro – forse anche in cerca di «protezione» – il recente scontro che ha avuto con il capitano dei carabinieri: lo aveva ha messo alla porta dopo che, durante una visita di cortesia, aveva detto che sull’approvvigionamento «personale» avrebbero senz’altro trovato un accordo (in seguito sulla stampa apparve la notizia che questo capitano, nel frattempo trasferitosi altrove, era stato arrestato in una delle rare indagini del tempo per corruzione).
Per esporre il suo programma e fare un appello ai cittadini, Silvio vorrebbe affiggere dei manifesti. La tipografia macchiatasi di colpa antifascista è ancora chiusa, così si dà da fare e riesce a farla riavere al tipografo. Dopo la ripulitura delle tracce della falsificazione delle Am Lire, la tipografia può entrare in funzione anche grazie ad alcuni vecchi rotoli di carta rimasti intatti. La prima stampa è il manifesto del «Sindaco», un appello ai cittadini: l’urgenza è assicurare alla popolazione intera il necessario per sopravvivere; tutti hanno il dovere di collaborare; chi dispone di scorte alimentari o di vestiario ha l’obbligo di dichiararlo al Comune, pena la requisizione; contadini e commercianti hanno l’obbligo di portare le loro mercanzie al mercato comunale, dove saranno vendute a prezzi calmierati; il commissario pro tempore intende impiegare i suoi poteri straordinari per snidare accaparratori e mercanti neri, contro i quali sarà usato il massimo rigore; i volontari disponibili al ruolo (gratuito) di «ausiliari» devono presentarsi al Comune che ne vaglierà i requisiti.
Nell’immediato l’appello e la minaccia producono qualche effetto. Al mercato per qualche settimana compaiono prodotti della terra, scarpe e vestiario. Si formano lunghe file, ma quasi tutti riescono a tornare a casa con qualcosa. Il commissario si reca spesso di persona al mercato per controllare che siano rispettati i prezzi e l’ordine nelle file, non sono ammessi favoritismi per censo o ceto sociale, solo donne incinte o con bambini piccoli, anziani e invalidi, hanno la precedenza. (Ricorda mia sorella Fiorenza che una volta, mentre era in attesa, il mercante la riconobbe e la chiamò per farle scavalcare la fila; ma «don Silvio» piombò come una furia e retrocesse mia sorella all’ultimo posto minacciando il mercante di revocargli la licenza).
Intanto arriva la chiusura dell’anno scolastico, che per le scuole elementari si è ridotto a pochi mesi. L’edificio scolastico era stato danneggiato dal bombardamento dell’agosto ’43 ed era tornato agibile solo nel febbraio ’44. Il commissario fa un accorato appello ai maestri, teniamo aperte le scuole almeno fino a ferragosto, poi vi resterà ancora un mese e mezzo di vacanze (allora l’anno scolastico si apriva formalmente il primo ottobre e la scuola cominciava a funzionare a regime addirittura a novembre, dopo i primi quattro giorni festivi).
All’appello rispondono in pochi, cinque o sei; ma sotto la loro guida si improvvisano maestri una decina di volontari, in maggioranza donne. Del resto – spiega il commissario in una riunione plenaria estesa ai genitori – si tratta soprattutto di tenere i bambini lontano dalla strada e dalle precarie condizioni delle famiglie, in cui gli adulti sono impegnati l’intera giornata per sbarcare il lunario. Silvio rimaneva al Comune tutto il giorno e spesso anche la notte, si era fatto portare una brandina («Mi basta un giaciglio», diceva). E altrettanto spesso mia madre gli preparava qualcosa da mangiare che lei stessa o un commesso gli portava sul posto di lavoro.
Era riuscito a procurarsi una vecchia Balilla, usata rigorosamente solo per gli affari del Comune (noi in campagna – sei chilometri di strada – andavamo a piedi). La usava di notte per pattugliare, insieme ai pochi vigili e agli ausiliari, le strade di uscita dal paese, da dove passavano le «esportazioni» della borsa nera. Intanto mercanti e contadini si organizzavano per prendere le contromisure e non sottostare alla «dittatura» (così la chiamavano) del commissario. I mercanti si procurarono muniti nascondigli e trovarono nuovi canali per lo smercio clandestino.
I proprietari terrieri proibirono portava sul posto di lavoro. Era riuscito a procurarsi una vecchia Balilla, usata rigorosamente solo per gli affari del Comune (noi in campagna – sei chilometri di strada – andavamo a piedi). La usava di notte per pattugliare, insieme ai pochi vigili e agli ausiliari, le strade di uscita dal paese, da dove passavano le «esportazioni» della borsa nera. Intanto mercanti e contadini si organizzavano per prendere le contromisure e non sottostare alla «dittatura» (così la chiamavano) del commissario. I mercanti si procurarono muniti nascondigli e trovarono nuovi canali per lo smercio clandestino. I proprietari terrieri proibirono ai loro contadini di raccogliere i prodotti da portare al mercato comunale: preferivano farli marcire, quando non riuscivano a venderli clandestinamente e di fronte alle ispezioni e alle minacce del commissario simulavano furti, danneggiamenti, allagamenti.
Giorno dopo giorno, gli approvvigionamenti si assottigliavano, finché il mercato comunale non rimase deserto. Il commissario tenne un discorso dal balcone del Comune e affisse un bando: dava tempo una settimana a contadini e commercianti per portare al mercato prodotti della terra e mercanzie. Scaduta inutilmente la settimana, requisì due camion di un «pescecane» locale, convocò il popolo e guidò una «spedizione» nei terreni agricoli. Per due giorni consecutivi furono raccolti quintali di prodotti, annotati alla bell’e meglio in un registro con il nome dei proprietari. I prodotti furono portati al mercato e venduti ai prezzi di calmiere. Il ricavato fu distribuito ai proprietari terrieri. L’impresa fu approvata dalla stragrande maggioranza della popolazione, ma incontrò la disapprovazione dei benpensanti e delle autorità costituite.
I carabinieri trasmisero un rapporto alla magistratura, il prefetto chiese giustificazioni scritte. La sezione locale del Comitato di Liberazione Nazionale affisse un manifesto in cui si dissociava. Il commissario rispose con un suo manifesto in cui ricordava al «sedicente» CLN che i partiti politici di cui si dicevano espressione avevano il dovere di stare dalla parte del popolo e non dei suoi affamatori. Il manifesto si concludeva annunciando un comizio del commissario per la domenica successiva. Al comizio partecipò praticamente l’intera comunità. Il popolo in piazza, mentre i dissenzienti se ne stavano ai margini o ascoltavano il discorso da dietro le finestre socchiuse delle case patrizie che si affacciavano sulla piazza.
L’essenza del discorso stava nella sua conclusione: visto che le autorità costituite in nome del re osteggiano l’opera del commissario che agisce in nome e nell’interesse del popolo, di cui riscuote il pieno consenso, non ci resta che proclamarci Repubblica. Il popolo applaudì, più per adesione all’operato del commissario che per fede repubblicana.
In un manifesto affisso qualche giorno dopo (ricordo la minuta, scritta a matita sul retro di una tessera annonaria scaduta), Silvio ribadì che «la Repubblica indipendente di Castrovillari» avrebbe fatto il suo corso nel rispetto della legge, che certamente consentiva al commissario di espropriare, anche con la forza, i beni imboscati dai nemici del popolo. La «Repubblica di Castrovillari» – che lo storico Vittorio Cappelli cita a p. 555 del volume della Storia d’Italia della Einaudi dedicato alla Calabria – è praticamente coeva alla ben più eroica Repubblica della Val d’Ossola, nata nel settembre 1944 in territorio ancora occupato dai nazifascisti e cessata dopo poche settimane di intensa vita democratica. Nel «Regno del Sud» la Repubblica di Castrovillari precede invece la più nota (e più cruenta) Repubblica di Caulonia, che nasce nel marzo 1945.
Alla pubblicazione del manifesto – firmato, in violazione dell’originario accordo, «il commissario del Popolo» – seguirono i fatti. Qualche giorno dopo, convocata ancora la comunità popolare, mio padre organizzò un’altra spedizione nei magazzini di due commercianti di calzature e vestiario. Anche questa mercanzia fu venduta al mercato e il ricavato messo a disposizione dei due, che però lo rifiutarono (il denaro fu depositato in banca con «offerta reale»). A questo punto gli interessi, leciti e illeciti, di contadini, mercanti, trafficanti vari si saldarono al composito fronte degli oppositori politici («sinceri democratici», democratici», neo-liberisti, ex fascisti riciclati, emergenti esponenti dei rinati partiti), in una alleanza che si mise al lavoro per destituire il commissario. Il primo tentativo fallì. Un gruppo di «personalità» si radunò sotto il Comune spalleggiato da una piccola folla. L’intento, probabilmente approvato in alto loco, era di occupare la sede municipale e imporre le dimissioni al commissario. Era il 27 gennaio, giorno della festa del patrono di Castrovillari (San Giuliano), considerato propizio dai «congiurati»: la gente era distratta dalla festa, lo spirito religioso che pervadeva in quel giorno la cittadinanza relegava il commissario, noto miscredente, nella solitudine del suo ufficio, da cui anche i vigili e gli ausiliari si erano allontanati per partecipare alla processione che seguiva il santo. Ma avevano sbagliato i conti. Qualcuno arrivò nel bel mezzo della processione gridando «vogliono cacciare il sindaco, vogliono cacciare don Silvio». D’incanto, tra lo sconcerto di sacrestani e sacerdoti officianti, la processione virò, tutta intera (salvo qualche irriducibile «bizzoca») verso il Comune. Quando il drappello delle «personalità» e la piccola folla che lo spalleggiava videro arrivare quel fiume di gente che inneggiava al sindaco, si diedero a precipitosa fuga, trovando scampo nei già ricordati palazzi patrizi o nei vicoli adiacenti la piazza. Invocato dal suo popolo, il commissario si affacciò al balcone e disse: «Oggi il vostro Santo, che io rispetto anche se non ci credo, così come rispetto tutti voi che ci credete, ha fatto il miracolo: ha ricacciato nelle loro tane i nemici del popolo, i vostri nemici. Viva la Repubblica di Castrovillari». In un tripudio di sacro e profano, il sindaco – ormai lo chiamavano tutti così – fu strappato alla casa comunale, dove rimase un presidio di volontari, e portato in trionfo per le strade principali del paese, fino alla sua abitazione. Qui si affacciò per un nuovo e caloroso discorso al balcone che dava sulla strada, la quale non riusciva a contenere tutta la folla, sicché in molti salirono sui tetti delle case di fronte, rischiando di sfondarli. Io ho un nitido ricordo dell’arrivo del corteo sotto casa nostra, annunciato da una «staffetta» con queste parole: «Stanno portando don Silvio». Mia madre inizialmente si allarmò, perché dalle nostre parti si «porta» qualcuno quando è morto o ferito. Ma mio padre arrivò «portato» sulle braccia dei dimostranti fin sotto casa, anzi fin dentro casa. Noi abitavamo al primo piano e le case di fronte erano tutte a piano terra; anch’io, come gli altri, mi affacciai al balcone e vidi la gente camminare sui tetti. Ecco cosa scrive su questo episodio l’atto giudiziario conclusivo della vicenda: «La maggior parte della popolazione, escluse la classe dei contadini arricchiti e dei commercianti accaparratori e di persone interessate, avea per lui la massima stima ed ammirazione, tanto vero che un tentativo di dimostrazione a lui contraria di qualche risentito si tramutò immediatamente in una dimostrazione a lui favorevole, di gratitudine e di trionfo». Dopo questa manifestazione di popolo si andò avanti tra alti e bassi nella guerra quotidiana contro speculatori e mercanti neri, sulla quale pesava ormai l’aperta ostilità delle autorità costituite e degli oppositori politici. Ovviamente alla fine l’ebbero vinta e il «commissario del Popolo» fu destituito. Accolse l’atto di destituzione – per «insubordinazione» e «lese prerogative delle Autorità costituite» – come un complimento. «È la prova che ho fatto il mio dovere verso il popolo» fu il suo primo commento. Non sapeva che il peggio doveva ancora venire.
Un commento a caldo sui un colloquio tra due protagonisti del confronto dulle modifiche alla costituzione e sul nuovo assetto delle istituzioni e del potere che ne discenderebbe.

La Repubblica online, blog "Articolo 9", 1 ottobre 2016

Ho appena ascoltato il Presidente del Consiglio dichiarare che se vince il Sì saranno risparmiati 500 milioni di euro l'anno. Ebbene, è una solennissima menzogna. L'unica stima disponibile, quella della Ragioneria dello Stato , quantifica questo risparmio in 49 milioni di euro l'anno.

Non discuto se sia poco o sia tanto: mi chiedo cosa succede alla democrazia quando il Governo usa la menzogna come arma politica. Ai tempi del liceo (il mio stesso liceo) Matteo Renzi era soprannominato il Bomba, per tutte le balle che diceva. Il 4 dicembre, giorno del Referendum, si festeggia Santa Barbara, patrona degli artificieri. Quale migliore occasione per disinnescarlo?»

«La condizione per pensare positivamente al futuro è quella di guardare con occhi diversi al passato». Una recensione del libro Razzismo e noismo. Le declinazioni del noi e l’esclusione dell’altro, di Daniela Padoan e Luca Cavalli Sforza. Left Avvenimenti, n. 45, 16 novembre 2013, con una premessina

Eddyburg non si occupa solo di quello che succede ogni giorno. Però siamo distratti, e il tempo collettivo che possiamo dedicare a eddyburg non è tutto quello che sarebbe necessario. Perciò molte cose dell’oggi ci sfuggono. Ma la serendipity ci aiuta. Così troviamo oggi cose che ci sarebbe piaciuto scoprire e segnalare ieri: lo facciamo oggi, chiedendo scusa ai frequentatori troppo esigenti

IO, TU E L'UMANITA'

In un Paese imbarbarito dalla crisi economica, dalla iniqua ripartizione delle risorse e dall’esclusione di masse giovanili dal mercato del lavoro, si avverte più che mai il bisogno di un investimento nella cultura come strumento di maturazione e di crescita morale e intellettuale: si pensi all’importanza della scuola pubblica, dove i figli degli immigrati si incontrano ormai normalmente coi figli degli italiani di antica data. è specialmente qui che ci sarebbe bisogno di una decisa politica di investimenti perché questo è il luogo proprio della educazione alla conoscenza e al rispetto delle diversità. La cronaca quotidiana ci mette davanti di continuo a episodi di intolleranza e a nuove forme di razzismo. Ci sono le figure tradizionali dell’alterità negativa – l’ebreo, il negro, lo zingaro – ma ce ne sono di nuove. L’Europa intera ne è vittima: è noto il caso dell’Ungheria e adesso allarma la vicenda della Francia dove il movimento di destra xenofobo sta diventando maggioritario. La condizione di povertà oggi stimola gli stessi atteggiamenti di rifiuto e di disprezzo riservati tradizionalmente alle “razze” inferiori. Ma come è nato e che cosa è il razzismo e quali fondamenti ha nella storia naturale della specie umana? Su questo tema è concentrato il dialogo di Daniela Padoan con Luca Cavalli Sforza in un libro appena uscito da Einaudi, Razzismo e noismo. Le declinazioni del noi e l’esclusione dell’altro. Al notissimo studioso che ha indagato la storia dell’origine della specie umana e delle migrazioni di popoli, Daniela Padoan pone domande che lo portano non solo a ripercorrere le acquisizioni della sua ricerca ma anche a riflessioni sugli esiti tragici della storia del dominio europeo. Esiti riassunti in una sola parola: Auschwitz, «l’immenso laboratorio dell’umano», come lo definì Primo Levi. Ripercorrere il passato risalendo alla formazione del primo nucleo umano. è qui che l’umanità nasce nel segno dell’incontro tra l’io e il tu, con la formazione della “coppia generativa”, primo nucleo della creazione di gruppi sociali, cioè del “noi”. Circa 6 milioni di anni fa, in Africa, con la separazione dei primi nostri antenati dallo scimpanzé. E da lì, circa due milioni e mezzo di anni fa, cominciò l’avanzata esplorativa verso il resto del mondo da parte di un essere umano che aveva imparato a camminare eretto e a usare utensili. Questa storia è dominata dall’aspetto positivo di quello che Cavalli Sforza ha chiamato il “noismo”, come capacità di collaborazione tra l’io e gli altri. Ma Padoan gli ricorda che c’è anche un lato negativo del “noismo”, quella volontà di affermazione di un gruppo a esclusione degli altri che ha portato all’emergere dell’uomo bianco europeo. Un percorso che se vede da un lato le affermazioni trionfali del sapere e del potere maschile europeo, dall’altro affonda nella notte dello schiavismo, dell’infanticidio, della trasformazione dello straniero in nemico, fino ad arrivare al discorso di Himmler sulla “penosa necessità” di eliminare non solo gli ebrei maschi ma anche le loro donne e i bambini. Impossibile riassumere la ricchezza del libro: ma ricordiamo la conclusione di Cavalli Sforza. La condizione per pensare positivamente al futuro è quella di guardare con occhi diversi al passato: per esempio alla cultura dei pigmei, prediletti da Cavalli Sforza, che pensa che quel popolo, benché a rischio di sopravvivenza, possegga il segreto del vivere in armonia, dell’assenza di aggressività e sopraffazioni e della capacità di risolvere pacificamente ogni crisi di convivenza.

La Repubblica, 30 dicembre 2013

Si parla spesso del merito come della soluzione ai problemi della nostra società bloccata da un sistema farraginoso e burocratico e da un perverso abito clientelare che premia chi ha amici potenti, non chi ha capacità. Per questo, merito e lavoro appaiono come una coppia inscindibile: il primo come condizione per il secondo. Da un’interessante analisi del voto delle primarie del Pd dell’8 dicembre scorso condotta dall’Osservatorio sulla Comunicazione Politica dell’Università di Torino, risulta che questa sia la tesi vincente e il segno dell’identità ideologica della nuova sinistra centrista. Tra i dati aggregati e interpretati da Luciano Fasano e dai suoi collaboratori emerge che nel suo complesso il Pd è un partito di centro-sinistra autentico nel quale la componente legata alla sinistra tradizionale è scarsamente rilevante nel suo elettorato e ancora di meno tra gli eletti. A comprovare questa valutazione è la collocazione del merito accanto al lavoro e distante dall’eguaglianza nelle proposte dei delegati del gruppo che ha raccolto più consensi.

Non da oggi, il merito gioca un ruolo di primo piano nella riconfigurazione della cultura ideologica della sinistra. In una società, come la nostra, dove parenti e amici contano sempre molto, più delle vocazioni e delle doti personali, il richiamo al merito è sacrosanto. Ma è un fatto di legalità piuttosto che di giustizia sociale. Anche perché organizzare la società sulla “abilità dimostrata” è alquanto complesso visto che il merito è non solo difficile da misurare e attribuire, ma anche fortemente condizionato dal capitale sociale e dall’ambiente culturale. Per non essere ingiusta considerazione, il merito richiede molta attenzione alla distribuzione eguale delle condizioni di partenza. Per questa ragione un liberal social-democratico come John Rawls non credeva che dal merito potesse partire una politica di giustizia sociale. Perché è difficile spiegare con precisione che cosa sia vero merito, prima di tutto in quanto è impossibile stabilire con certezza il dosaggio tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche volta sembra che il merito sia una qualità che la persona riconosciuta meritevole possieda naturaliter come per innata disposizione (talenti) e che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare emergere (responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi abbastanza sulla dimensione sociale del merito, sul suo dipendere profondamente dal riconoscimento sociale e dalla sintonia che si stabilisce tra chi opera e chi ne riceve i frutti o é influenzato dall’operato.

Il giudizio sul merito di una persona è relativo a un settore di lavoro, a determinati requisiti che definiscono una prestazione, all’utilità sociale delle funzioni in un determinato tempo storico e luogo, ovvero al riconoscimento sociale e pubblico. Nel merito entrano in gioco ben più delle qualità della persona. Per questo nelle questioni di giustizia si dovrebbe diffidare di usarlo come criterio per distribuire risorse. Non perché non sia giusto che ad essere assunto in un ospedale debba essere un bravo medico, ma perché non si deve scambiare l’effetto con la causa: è l’eguaglianza di condizione, di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia; il merito è semmai la conseguenza di un ordine sociale giusto. Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un’eguale possibilità di formarsi capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita.

Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson raccontò questa storia per far comprendere ai suoi concittadini la necessità di politiche pubbliche, in primo luogo scolastiche: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che partono sulla stessa linea ma una di esse con dei pesi alle caviglie cosicché dopo pochi metri si troverà in irrimediabile svantaggio, nonostante si impegni con tutte le sue forze. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare del merito del vincitore? Evidentemente no. In questo caso il vincitore non avrebbe proprio alcun merito. Semmai godrebbe di un privilegio. Perché ci sia una gara onesta ed effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli dell’altro competitore, e lo si può fare in tre modi: o si libera la persona impedita a gara cominciata e si fa finta che ci sia giusta competizione (affermazione del privilegio), oppure si dà a chi è oggettivamente impedito un vantaggio a gara cominciata (programmi di aiuto a chi ha bisogno) oppure lo si prepara prima che la gara cominci (politiche di cittadinanza sociale).

Non si intende dire con questo che non ci può essere merito meritato; ma che non ci può essere se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le diseguaglianze di opportunità prima di valutare il merito.
Ecco perché senza l’accoppiamento con l’eguaglianza il merito non è un valore di giustizia. A meno che non si controllino tutte le relazioni sociali che presiedono alle nostre scelte individuali (cosa indesiderabile oltre che impossibile da ottenere in una società che vuole restare libera) non si può onestamente parlare del merito come della soluzione ai problemi di ingiustizia sociale (mentre la sua violazione nei concorsi pubblici può comportare illegalità). Si deve invece partire dall’eguaglianza di opportunità e delle condizioni di formazione delle capacità, per esempio da scuole pubbliche di buona qualità distribuite su tutto il territorio nazionale affinché la gara possa essere davvero aperta a tutti e non si sfoltisca a valle il numero dei potenziali concorrenti.

La Repubblica, 29 dicembre 2013

Nel giro di qualche ora ha ricevuto centinaia di messaggi offensivi, tra cui una trentina di questo tipo: «Era meglio se morivi a 9 anni brutta imbecille, io sperimenterei su persone come te»; oppure: «Se per darti un anno di vita sono morti anche solo 3 topi, per me potevi morire pure a 2 anni». Penso sia lecito chiedersi dove siamo finiti e che ne sia ormai della solidarietà umana.

Come Caterina Simonsen, anch’io ho scelto di non mangiare più carne, è una scelta che mi fa sentire solidale con la vita, che reputo sacra in ogni sua manifestazione, umana e animale. Anzi, penso che la vita sia sacra già a livello vegetale e che di per sé non si dovrebbero mangiare neppure le patate e le cipolle che sono tuberi e possono generare vita, e infatti i monaci giainisti non le mangiano cibandosi solo di frutti. Ma non basta, occorrerebbe chiedersi se un albero voglia darci i suoi frutti, che non ha certo prodotto per noi, e se raccoglierli non implichi una forma di violenza, per lo meno di quella legata al furto. Non a caso Gandhi scriveva che «il consumo dei vegetali implica violenza», aggiungendo però subito dopo: «Ma trovo che non posso rinunciarvi ». Da qui il profeta della non-violenza concludeva che «la violenza è una necessità connaturata alla vita corporea ». La nostra vita, in altri termini, per esistere si deve nutrire di altra vita che deve necessariamente sopprimere. Per questo nessuno è innocente e nessuno è in grado di stabilire con certezza dove si debba attestare il rispetto per la vita.

Tale conclusione sull’alimentazione vale anche per la cura medica: anche qui c’è un’inevitabile dose di violenza, come mostra già il nostro sistema immunitario del tutto simile a un esercito di professionisti senza scrupoli. Si potrebbe obiettare che i batteri eliminati dai globuli bianchi e le cavie su cui viene condotta la sperimentazione nei laboratori non sono la stessa cosa perché i primi sono aggressori e gli altri no, ma io penso che anche i batteri che entrano nel nostro corpo siano innocenti perché fanno solo il loro mestiere senza nessuna intenzione di aggredirci. In realtà la violenza è intrinseca in ogni sistema di difesa: se vuole continuare a vivere, nessun vivente può uscire indenne dalla catena di violenza di cui è impastata la vita, e per questo nessuno ha il diritto di tirare la prima pietra condannando chi mangia carne o chi sostiene la ricerca mediante sperimentazione animale.

Tuttavia dalla catena di violenza di cui è intrisa la vita alcuni esseri umani desiderano emanciparsi, e questo è un nobile ideale che a mio avviso va sostenuto. Nessun altro essere vivente può concepire tale emancipazione, solamente l’uomo lo può, mostrando in questo di essere ben al di là della vita animale. Sto dicendo che gli animalisti, con il loro sostenere un comportamento del tutto privo di violenza verso gli animali e con il loro volere per gli animali gli stessi diritti dell’uomo, mettono in atto un comportamento che li distanzia al massimo dal mondo animale. Nessun animale carnivoro infatti cesserà mai di mangiare carne, nessun animale erbivoro deciderà mai di astenersi dai bulbi e dai tuberi, nessuna specie animale estenderà mai alle altre specie i diritti di supremazia che la natura lungo la sequenza della selezione naturale le ha concesso. A parte quella umana, nessuna specie cesserà mai di seguire l’istinto sotto cui è nata. L’uomo al contrario ha imparato a poco a poco a estendere gli ideali di giustizia a tutti gli esseri umani, compresi quelli dalla pelle diversa, e oggi alcune avanguardie stanno lottando per allargare tali ideali ad altri esseri viventi. Tutto ciò, esattamente al contrario del naturalismo professato da alcuni animalisti, mostra in modo lampante lo iato esistente tra Homo sapiens e gli altri viventi. Se gli esseri umani lottano per estendere agli animali gli stessi diritti dell’uomo non è quindi perché non c’è differenza tra vita umana e vita animale, ma esattamente al contrario perché tra le due vi è una differenza qualitativamente infinita.

Ponendosi in tale prospettiva di estensione degli ideali di non-violenza anche al mondo animale, Gandhi scriveva: «Aborrisco la vivisezione con tutta la mia anima. Detesto l’imperdonabile macello di vita innocente nel nome della scienza e della cosiddetta umanità, e considero del tutto prive di valore le scoperte scientifiche macchiate di sangue innocente». Per questo, al di là delle ignobili offese a Caterina Simonsen che meritano solo l’oblio, io ritengo che nella campagna animalista contro la sperimentazione sugli animali vi sia qualcosa di importante. Si tratta dell’appello a estendere a tutti i viventi l’imperativo categorico della vita etica, formulato da Kant alla fine del Settecento solo in prospettiva antropocentrica: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre come fine e mai solo come mezzo». Oggi si tratta di giungere a trattare «sempre come fine e mai solo come mezzo» non solo l’umanità, ma, per quanto è possibile, tutto ciò che vive: gli animali, le piante, i mari, le montagne, il pianeta, il cosmo… tutto dovrebbe essere visto in una prospettiva non utilitaristica ma vorrei dire

contemplativa,in cui si contempla la natura delle cose rispettandole per quello che sono e cessando di calcolare solo l’utile che ne viene a noi, per una filosofia ecologica di cui il nostro tempo e il nostro spazio hanno urgente bisogno.

Attenzione però alla saggezza del grande filosofo: dicendo «mai solo come mezzo», Kant ricordava che un elemento di strumentalità è sempre connaturato al vivere, nel senso che ognuno di noi in alcune circostanze è anche un mezzo per la vita degli altri. Ciò ci dovrebbe portare a quel saggio equilibrio del cuore e della mente che mette al riparo da ogni radicalismo fanatico e che porta ad appoggiare la liceità etica della sperimentazione animale laddove davvero non vi sia altra possibilità per sconfiggere le malattie degli uomini e degli stessi animali.

«La Repubblica, 24 dicembre 2013

SEI anni sono passati dall’inizio della crisi, e tre sono gli stati d’animo di chi in Europa governa lo squasso o lo patisce. C’è chi si complimenta con se stesso, convinto che il peggio sia alle spalle: nei Paesi debitori le bilance di pagamento tornano in pareggio, l’intervento lobotomizzatore è riuscito, anche se il paziente intanto è stramazzato. Ci sono i catastrofisti, che ritengono euro e Unione un fiasco. Di qui l’appello a riprendersi la sovranità monetaria sconsideratamente immolata. Infine ci sono gli europeisti insubordinati: essendo la crisi non finanziaria ma politica, è l’Unione che urge cambiare, subito e radicalmente.

I veri rivoluzionari sono gli ultimi, perché vogliono scalzare il potere delle inette oligarchie che l’hanno guastata e crearne un altro, non oligarchico. La questione della sovranità sequestrata non viene affatto negata, ma posta in altro modo: esigendo accanto alle malridotte sovranità statali una sovranità europea effettiva, solidale e quindi federale, dotata di una Banca centrale prestatrice di ultima istanza. Nietzsche li avrebbe chiamati i «legislatori del futuro», dediti a un «compito colossale» ma ineludibile: non contentarsi di constatare la crisi, ma «determinare il Dove e Perché» del cammino umano, fissando nuovi princìpi.

Sono gli unici in grado di adottare l’antica, nobile filosofia scettica: la realtà costituita è apparenza, e il compito colossale consiste nel confutarla col pensiero e gli atti. A ogni tesi corrisponde un’antitesi: il mondo non è senza alternative. Quest’ultimo è insensato oltre che menzognero, ragion per cui i rivoluzionari sono avversari dell’immobilismo, che professa l’Europa a parole. Quando sentono parlare di bicchiere mezzo pieno s’impazientano, perché un pochetto di vino va bene per i tempi tiepidi, non per i bollenti. Non a caso la parola greca skepsis significa ricerca, indagine: gli scettici si dissero “ricercatori”, visto che tutte le questioni erano aperte.

Non stupisce che umori analoghi si manifestino a Atene, nei programmi di Alexis Tsipras, leader della sinistra radicale ellenica ed europea. La Grecia infatti è stata non solo un Paese immiserito dal trattamento deflazionistico. L’hanno usata come cavia, come animale da esperimento biologico. Biologico alla lettera: quanto e come avrebbe resistito, viva, alla cura da cavallo? Non ha resistito. La bilancia dei pagamenti è risanata ma si è gonfiato un partito nazista, Alba Dorata. Dal paese-cavia giungono notizie costernanti: ai suicidi, s’aggiungono quest’inverno i morti carbonizzati da malconce stufe a legna, usate quando non hai soldi per l’elettricità (sito di Kostas Kallergis). Tra i legislatori del futuro non dimentichiamo i Verdi di Green Italia. Lista Tsipras e Verdi potrebbero unire gli sforzi, se non saranno esclusi dal Parlamento europeo che sarà eletto il 22-25 maggio. La lotta non è tra europeisti e antieuropeisti (i poli sono tre, non due). È tra chi si compiace in pigri rinvii, chi fugge, e chi vuol scompigliare l’Unione disunita. Questo pensano i firmatari dell’appello di domenica sul Manifesto. È urgente - dicono - un’inversione di tendenza, che affidi alle istituzioni nazionali e comunitarie il compito di realizzare politiche espansive, e alla Banca centrale europea una funzione prioritaria di stimolo alla crescita: «Ammesso che considerare il pareggio di bilancio un vincolo indiscutibile sia potuto apparire sin qui una scelta obbligata, mantenere tale atteggiamento costituirebbe d’ora in avanti un errore imperdonabile, e la responsabilità più grave che una classe dirigente possa assumersi al cospetto della società che ha il dovere di tutelare». Tra le firme: Stefano Rodotà, Luciano Canfora, Marcello De Cecco, Adriano Prosperi, Guido Rossi, Salvatore Settis.

C’è una cosa che abbiamo capito, in questi anni: l’Europa così com’è - e forse le democrazie - non sono attrezzate per pensare e affrontare le crisi, se per crisi s’intende non un’effimera rottura di continuità ma un punto di svolta, un’occasione che ci trasforma. Crisi simili sono temute, perché minano oligarchie dominanti e ricette fondate su vecchie nozioni di Pil, oggi molto contestate. Come nella peste di Atene o nella guerra civile di Corcira (Corfù), narrate da Tucidide, la corruzione dilaga e gli uomini diventano «indifferenti alle leggi sacre come pure a quelle profane» (alle costituzioni democratiche, oggi). Nessuno crede che otterrà giustizia e uguaglianza («Nessuno sperava di restare in vita fino al momento della celebrazione del processo e della resa dei conti»). Quanto ai capi della fazioni di Corcira: «A parole servivano lo Stato; in realtà lo consideravano alla stregua del premio di una gara ». Quello che abbiamo visto in questi giorni a Lampedusa e a Roma - in centri sfacciatamente chiamati d’accoglienza - è rivelatore: uomini e donne denudati per ripulirli d’una scabbia contratta dopo l’ingresso nei recinti, e a Roma ribelli che si cuciono le bocche. Chi ha visto il film di Emanuele Crialese ( Nuovomondo) ricorderà la vergogna di Ellis Island, presso la statua della libertà a New York: l’umiliazione dei controlli medici, fisici, mentali, cui i trapiantati erano sottoposti. Isola delle Lacrime, era chiamata. Il sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini va oltre: denudare in pubblico un essere umano ricorda i Lager.

Se la crisi è paragonabile a una peste, se sconvolge costituzioni e democrazia, se secerne rabbie tanto vaste (la Lega parla di «euro criminale »), non bastano più i piccoli progressi di cui si felicitano i governanti. Esemplare è l’Unione Bancaria concordata il 18 dicembre a Bruxelles dai leader europei. È stata descritta come un «risultato storico». In realtà è un inganno, spiegano critici seri come Wolfgang Münchau e Guy Verhofstadt sul Financial Times, o Federico Fubini su . L’unione delle banche vedrà la luce solo fra 10 anni, come se la crisi non esistesse già adesso, e le somme che saranno allora a disposizione delle banche in difficoltà sono ridicole: appena 55 miliardi di euro, «quanto basta per un unico intervento di medie dimensioni (una sola banca, ndr), a fronte di bilanci bancari che in totale valgono 25 mila miliardi» (Fubini, 20-12). Anche l’economista Rony Hamaui, sul sito Voce. it, è esterrefatto: è bene che non siano i contribuenti ma i privati a pagare, ma la somma in cantiere è niente, «se pensiamo che i governi europei hanno mobilitato in questi anni risorse per oltre 4500 miliardi ». Angela Merkel ha voluto quest’accordo al ribasso: la sua rielezione, e la coalizione con i socialdemocratici, sono non un progresso ma una regressione e una chiusura.

Non è la prima volta che l’Europa si trincera nell’ottusità, davanti a scosse gravi. Anche in politica estera è così. Parigi ad esempio chiede aiuti per gli interventi in Africa, ma si guarda dal condividere e discutere la sua politica estera con il resto dell’Unione, e con Berlino che lo domanda da quando nacque l’euro. Purtroppo le dittature sembrano più equipaggiate delle democrazie, di fronte alle crisi e alle rivoluzioni. Vedono crisi e sovversioni in ogni angolo, il che le rende paradossalmente più mobili, guardinghe. La rapidità con cui Putin decide le sue mosse è significativa: sia quando profitta della sua ricchezza energetica per legare a sé l’Ucraina e vietarle l’associazione con l’Unione europea, sia quando scarcera i propri dissidenti: tardi ma al momento giusto.

La sete dell’uomo forte non meraviglia. È la sete dei catastrofisti, ma anche di chi difende lo status quo. Solo i legislatori del futuro resistono. Sanno che il futuro dovrà costruirsi sul rispetto delle Costituzioni, e su un’idea di bene pubblico che è stata l’Europa a inventare, per far fronte col Welfare alla triplice sciagura della povertà, della disuguaglianza, delle guerre civili.

Mario Melloni (l'indimenticabile "Fortebraccio") li avrebbe chiamati "lorsignori". Oggi guidano il più grande partito della "sinistra" italiana. Il manifesto, 22 dicembre 2013

Ai tempi del governo Monti, nel momento di mag­gior pole­mica sull’articolo 18 dello sta­tuto dei lavo­ra­tori, fu il pre­si­dente degli indu­striali Gior­gio Squinzi a get­tare acqua sul fuoco («la licen­zia­bi­lità dei dipen­denti è l’ultimo dei nostri pro­blemi»). Oggi, invece, con balzo felino, Squinzi sale sul carro di Renzi, il poli­tico ten­tato da una revi­sione dell’articolo 18, peral­tro modi­fi­cato pro­prio dal tan­dem Monti-Fornero. Così l’appello di Lan­dini a Renzi («Fai una cosa intel­li­gente, ripri­stina l’articolo 18») sem­bra desti­nato a rima­nere inascoltato.

Sul carro ren­ziano è da sem­pre ben piaz­zato Oscar Fari­netti, un cam­pione del made in Italy ali­men­tare. Inter­vi­stato dal Fatto, l’imprenditore che ogni sera offre le sue ricette (pur­troppo poli­ti­che) da tutti i talk-show tele­vi­sivi, ha chia­rito il suo pen­siero. Secondo lui la tutela dal licen­zia­mento ille­git­timo andrebbe abo­lita per­ché in realtà l’articolo 18 è solo un grande scudo die­tro il quale si ammassa l’esercito dei fan­nul­loni: «Il lavoro garan­tito per chi non ha voglia di lavo­rare è un delitto». E i sin­da­cati? «Sono un impe­di­mento di sicuro». Basta e avanza, e non c’è nep­pure biso­gno di aprire l’imbarazzante capi­tolo delle per­qui­si­zioni cor­po­rali subite dai suoi dipen­denti per veri­fi­care che, a fine turno, non si met­tano in tasca qual­che fet­tina di prosciutto.

Natu­ral­mente la cop­pia Renzi-Farinetti non è la prima e non sarà l’ultima che mal sop­porta il sin­da­cato, che pre­fe­ri­rebbe avere mano libera sui licen­zia­menti, che mette sullo stesso piano padrone e ope­raio, che rac­conta la favola del merito, come fos­simo tutti uguali, tutti impren­di­tori di noi stessi. Il libe­ri­smo come la falsa coscienza sono la merce che oggi vende di più. Basta non esa­ge­rare pre­ten­dendo pure di essere con­si­de­rati lea­der (o impren­di­tori) di sinistra

Il vero genio si fa riconoscere subito. Poi dicono che non è vero che il nuovo leader del maggior partito della "sinistra" italiana si chiami Renzusconi.

La Repubblica, 19 dicembre 2013
RIGUARDAVA un’iniziativa da organizzarsi il prima possibile a Lampedusa, dove accadono cose molto brutte, anche solo a vedersi. Con un po’ di sorpresa, e almeno pari sgomento, si è invece visto Renzi presentare il libro di Bruno Vespa. Insieme ad Angelino Alfano, nella Sala Santa Chiara, già sede della conferenza stampa di presentazione del Ncd, a due passi da Palazzo Chigi, Montecitorio e Senato, come dire nel pieno della Roma politica, o della Città Proibita, a volerla proprio considerare in tal modo.

Il fatto è che quasi mai i luoghi sono neutrali. Non solo, ma lo scenario nel quale il Rottamatore si è lasciato comodamente incastonare strideva parecchio con tanti suoi proclami dell’ultima e penultima ora, «Io non logoro, strappo», «vedrete che infilo un paio di botte », «occorre innescare un cambiamento rivoluzionario», «scardinare il loro sistema» e così via.

Tutto, in quella specie di bomboniera palatina, era in effetti allestito all’insegna dell’ecclesiologia cerimoniale di Vespa. Ben cinque copie del Libro dei libri, Sale, zucchero e caffè (Mondadori), geometricamente disseminate sul tavolo dei presentatori, trasmettevano il senso dell’ennesima consacrazione ridimensionando il peso di Renzi e Alfano. Alle loro spalle, il roseo fondale riverberava la copertina del bestseller e con enormi lettere il nome dell’autore; ma soprattutto la sacra icona del piccolo Vespa in bianco e nero, una specie di Gesù bambino para-istituzionale, incombeva sul capo dei ragazzoni della post-politica. Vestiti oltretutto allo stesso modo, cioè alla maniera del medesimo Vespa, che pure si distingueva - ah, potenza della futilità! - per una cravatta molto più shocking della loro.

E allora, osservandolo con quel pizzico di scetticismo che i vincitori accecati dal successo nemmeno mettono nel conto, faceva impressione vedere quel giovane, così attento all’antipolitica, così«a piedi tra la gente», o in bici, comunque senza scorta, accanirsi attorno alla più iniziatica e quindi incomprensibile ossessione di palazzo, i maledettissimi sistemi elettorali; e veniva da chiedersi: ma è lo stesso Renzi che nel gran torneo dell’utensileria simbolica contro il «cacciavite» di Letta voleva usare il «trapano»? Lo stesso del «caterpillar», del «finish», dell’«altrimenti ci arrabbiamo»?Vespa, al suo fianco, pareva così appagato di tale trasfigurazione da assumere una posa di trasognata immobilità. Né salvavano Renzi, che è un naturale e prodigioso primo della classe, le faccette e le sopportazioni dinanzi alle pignolerie di Alfano, né le attese battute («Battute a parte» è la premessa che ripete spesso); mentre dietro a quel gioco segreto di bigliettini scambiati sul tavolo si poteva di già anche cogliere uno - nemmeno il più sfolgorante - dei perenni archetipi del potere: noi sì, voi no.

Alla Leopolda, in un gran bel discorso, Alessandro Baricco evocò Holderlin: «Il futuro è un ritorno». Ma ecco che con il medesimo e rassegnato scetticismo di cui sopra questo verso si può storcere nel senso nella regolarità, anzi nella ineluttabilità con cui tutti o quasi gli homines novi, specie quelli che promettono sfracelli, finiscono per rispondere al richiamo di Vespa; e con ciò, per la gloria anche commerciale del pontefice della terza Camera, si ritrovano inesorabilmente conglobati in un modulo di rappresentazione, in un format di potere, in un insieme di premesse simboliche, e dunque omologati o meglio «vespizzati».Se ne può trovare conferma nella mesta sorte di Mario Monti, che proprio adagiandosi sulle bianche poltroncine di Porta a porta,su consiglio di qualche geniale stratega della comunicazione, cominciò a dissipare il suo patrimonio di serietà, prima che Bersani spargesse lacrime sul vecchio parroco di Bettola, e Berlusconi continuasse a risuscitare malati, firmare contratti, mostrare il Ponte di Messina e incantare serpenti su quel tronetto.

Per cui paradossalmente Renzi è tornato a essere se stesso solo quando, con evidente maleducazione, si è astratto dal soporifero dibattito e connettendosi altrove ha cominciato a testa bassa a scrivere sms, o forse erano tweet, comunque Vespa sembrava un po’ seccato, diamine, proprio adesso...

E non è questione di pretesa superiorità etica, né di radical-chic, o di «puzza sotto il naso», come dice anche giustamente Renzi. Quell’aria da «recita in famiglia», come la battezzò tanti anni fa Enzo Forcella, quel chiamarsi insistentemente e ipocritamente per nome, «Angelino», «Matteo»; quella domandina finale sull’abito grigio indossato al Quirinale, e la rispostina finto offesa del Rottamatore sui problemi dell’Italia, e la zampata ironico-condiscendente di Vespa, «Sa, noi giornalisti siamo così frivoli... «, e Renzi che vuole metterci l’ultima parola, «per questo vi vogliamo così bene».Vero. Ma sappia che la prossima tappa è il servizio di Chiconlui sorridente in famiglia che fa l’occhietto e lava i piatti, come un Alemanno qualsiasi.

Per giustificare il degrado del territorio, della società e della politica proclamano: "E' l'Europa che lo chiede". Guardate un po' quale Europa. Ne vogliamo un'altra.

L'Unità, 18 dicembre 2013

Al Parlamento europeo i funzionari della troika di Ue, Fmi e Bce che gestiscono i programmi di salvataggio dei Paesi euro in difficoltà sono finiti sul banco degli imputati. Non hanno valutato le conseguenze sociali delle misure imposte, ha scritto l'eurodeputato socialista spagnolo Alejandro Cercas in una relazione presentata ieri. In questi giorni inoltre iniziano ad arrivare i risultati di un'inchiesta condotta da diversi media europei sulle consulenze milionarie pagate ad un ristretto gruppo di note agenzie internazio- nali, le stesse che hanno contribuito a provocare la crisi internazionale con la finanza creativa dei derivati.

Da parte loro i funzionari della troika temono di diventare il capro espiatorio da dare in pasto ai cittadini infuriati in vista delle elezioni europee, anche se i veri disastri li hanno combinati i governi dei Paesi in crisi, ma il lavoro degli economisti super specializzati di Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale è sempre più aspramente criticato, perfino dalle loro stesse istituzioni.

Il costo dei salvataggi

Eppure all'inizio le intenzioni erano buone. Nonostante l'euro sia nato con la regola che ogni Stato membro è responsabile del proprio bilancio, il principio del «no-bail out», dal 2010 in poi diversi Paesi sono stati salvati dalla bancarotta grazie miliardi di euro di aiuti economici, per la maggioranza tedeschi, in cambio di risanamento dei conti e riforme. I funzionari delle tre istituzioni sono stati chiamati quindi a stilare i programmi e a verificarne l'applicazione. A maggio 2010 è stato varato il programma di salvataggio della Grecia, a dicembre è toccato all' Irlanda, a maggio 2011 al Portogallo e a giugno di quest'anno a Cipro. I programmi, soprattutto in Irlanda e in Portogallo, sono riusciti a riportare i parametri economici in linea con gli obiettivi e nessuno dubita che senza gli aiuti europei i cittadini dei quattro Paesi se la sarebbero passata peggio, ma la conseguenze sociali delle misure imposte sono state comunque catastrofiche e ora sono in molti a prendere le distanze dalla filosofia di quegli interventi.

I primi sono stati gli economisti del Fmi, che hanno ammesso che fare troppi tagli di bilancio con una recessione globale in corso ha effetti più nocivi del previsto. Poi a novembre il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, ha pubblicato un articolo sul quotidiano greco To Vima e ha ammesso esplicitamente che «la troika ha fatto più danni che bene».

Sempre a novembre il Parlamento europeo ha avviato un'inchiesta basata su questionari e audizioni. Ieri l'eurodeputato Cercas, portavoce del gruppo dei Socialisti & Democratici per le questioni sociali, ha deplorato la «completa marginalizzazione» dell' Assemblea di Strasburgo e ha sottolineato che i programmi «sono stati disegnati senza alcuna stima» delle conseguenze sociali e senza fare valutazioni di impatto o consultare i vari organi specializzati dell'Ue.

Un disastro sociale

Il risultato è stato «il record storico di distruzione di occupazione e precarizzazione delle condizioni di lavoro». I gruppi più vulnerabili, donne e immigrati, sono stati quelli colpiti più duramente mentre la disoccupazione giovanile farà sentire i sui effetti a lungo nel Vecchio Continente. Inoltre molte delle misure imposte, come tagli a pensioni, servizi di base e sanità, hanno aumentato la povertà, anche quella dei minori, e peggiorato il dialogo sociale.

Alle accuse degli eurodeputati si aggiungono poi le notizie che arrivano dalla stampa internazionale che ha avviato varie inchieste sul lavoro della troika. Il sito EuObserver ricorda che tutti i programmi di salvataggio sono stati stilati con l'aiuto di poche società di consulenza «indipendenti» (Alvarez and Marsal, BlackRock, Oliver Wyman e Pimco) pagate in totale 80 milioni di euro. Alcune di queste sono in palese conflitto di interesse perché gestiscono gli stessi fondi di investimento che speculano sui debiti degli Stati e utilizzano in subappalto sempre le stesse quattro grandi agenzie mondiali di certificazione e consulenza (Deloitte, Ernst&Young, Kpmg and Price Waterhouse Coopers). Gli incarichi inoltre sono distribuiti senza gare di appalto trasparenti.

Il risultato, ha spiegato al sito Richard Boyd Barrett, un deputato della sinistra irlandese, è che i consulenti «sono parte dello stesso circolo dorato di banchieri e funzionari che ha provocato la crisi».

«Si assi­ste allo svuo­ta­mento pro­gres­sivo delle forme rap­pre­sen­ta­tive della nostra demo­cra­zia costi­tu­zio­nale. Ma quanto può soprav­vi­vere una demo­cra­zia senza un Par­la­mento?».

Il manifesto, 16 dicembre 2013

Cos’altro deve suc­ce­dere prima che ci si ponga seria­mente il pro­blema del ruolo del Par­la­mento? In que­sta legi­sla­tura è esplosa — nel disin­te­resse dei più — la sua crisi. Un organo par­la­men­tare impo­tente, inca­pace di assol­vere alle sue essen­ziali fun­zioni costi­tu­zio­nali.Prima il pastic­ciac­cio brutto dell’elezione del capo dello Stato, che si è con­cluso con un fatto mai acca­duto in pre­ce­denza: la rie­le­zione per un nuovo set­ten­nato del vec­chio Pre­si­dente. Non può stu­pire più di tanto allora il raf­for­za­mento del potere del capo dello Stato di fronte al vuoto deci­sio­nale del Parlamento.

In seguito la vicenda della for­ma­zione del governo delle lar­ghe intese. Sul piano isti­tu­zio­nale l’effetto prin­ci­pale è stato quello di ren­dere l’esecutivo l’unico tito­lare della fun­zione di indi­rizzo poli­tico e di ren­dere super­fluo — anzi inop­por­tuno — il con­fronto par­la­men­tare. Una volta defi­nito l’accordo in sede gover­na­tiva, esso non può certo essere rine­go­ziato in Par­la­mento.

Rimane un’unica pos­si­bi­lità alle Camere: quella di non fare. Le ragioni dell’immobilismo par­la­men­tare sono diverse e com­plesse, ma è evi­dente che un organo che può, nei fatti, eser­ci­tare solo un potere di veto, prima o poi sarà sopraf­fatto. E così è avve­nuto. Nel caso della legge elet­to­rale, impan­ta­nata nella discus­sione par­la­men­tare e para­liz­zata dagli inte­ressi con­trap­po­sti dei vari par­titi e movi­menti poli­tici pre­senti in Par­la­mento, inca­paci di giun­gere a una sin­tesi; alla fine s’è tro­vata una solu­zione con la pro­nun­cia della Corte costi­tu­zio­nale. Un inter­vento assai oppor­tuno, reso neces­sa­rio dall’inerzia del legi­sla­tore e dalla palese lesione della lega­lità costi­tu­zio­nale. Ora, in molti appa­iono risen­titi della deci­sione del giu­dice delle leggi, ma fareb­bero meglio a inter­ro­garsi sul com’è potuto avve­nire che un Par­la­mento non fosse in grado nep­pure di defi­nire le pro­prie regole costi­tu­tive.
Da ultimo, la legge sul finan­zia­mento ai par­titi poli­tici. Una legge che — a fatica — era in discus­sione al Senato e aveva già pas­sato il vaglio della Camera. La que­stione del finan­zia­mento delle for­ma­zioni poli­ti­che è, in verità, assai con­tro­versa, e dun­que sarebbe stato utile, per giun­gere a un com­pro­messo tra le diverse con­ce­zioni, un con­fronto, anche acceso, in seno all’organo della rap­pre­sen­tanza. E invece la debo­lezza del Par­la­mento, tanto più su un tema così sen­si­bile, ha reso pos­si­bile al Governo, di inter­ve­nire in sua vece.
Non sem­bra che il Par­la­mento abbia gran­ché pro­te­stato per que­sto inter­vento sosti­tu­tivo del governo. Eppure ne avrebbe avuto motivo. Avrebbe infatti dovuto riven­di­care il pro­prio potere e ricor­dare che il governo, in assenza di una delega del Par­la­mento, può ema­nare decreti aventi valore di legge, solo «in casi straor­di­nari di neces­sità e d’urgenza». Avrebbe almeno dovuto chie­dere quale fosse l’urgenza di inter­ve­nire anti­ci­pando la discus­sione già pre­vi­sta al Senato. Non lo ha fatto, e forse se ne intui­sce la ragione: per timore di vedersi rispon­dere che l’«urgenza» era det­tata dall’«impotenza» del Par­la­mento.
Un Par­la­mento preso a schiaffi. Che lascia il passo agli altri poteri (dal Pre­si­dente della Repub­blica al governo, pas­sando per la Corte costi­tu­zio­nale), ma inca­pace di rea­gire. A volte addi­rit­tura sol­le­vato dalla sup­plenza di altri organi, che ese­guono il lavoro “sporco” al quale esso è isti­tu­zio­nal­mente pre­po­sto, ma che non rie­sce più a svol­gere.
Ed è così, mesta­mente, che si assi­ste allo svuo­ta­mento pro­gres­sivo delle forme rap­pre­sen­ta­tive della nostra demo­cra­zia costi­tu­zio­nale. Ma quanto può soprav­vi­vere una demo­cra­zia senza un Par­la­mento?
Distratti dal chiac­chie­ric­cio e dalla lotta per con­qui­stare un posto al sole da parte del nuovo esta­blish­ment, si rischia di non vedere il peri­colo più grande: la dege­ne­ra­zione del parlamentarismo.

«Sarebbe una scia­gura – peg­gio, un delitto – rega­lare ai cen­tu­rioni delle destre sociali il mono­po­lio della comu­ni­ca­zione con que­sto mondo e la pos­si­bi­lità di quo­tarne i (cat­tivi) sen­ti­menti alla pro­pria borsa».

Il manifesto, 13 dicembre 2013

Torino è stata l’epicentro della cosid­detta “rivolta dei for­coni”, almeno fino o ieri. Torino è anche la mia città. Così sono uscito di casa e sono andato a cer­carla, la rivolta, per­ché come diceva il pro­ta­go­ni­sta di un vec­chio film, degli anni ’70, ambien­tato al tempo della rivo­lu­zione fran­cese, «se ‘un si va, ‘un si vede…». Bene, devo dirlo sin­ce­ra­mente: quello che ho visto, al primo colpo d’occhio, non mi è sem­brata una massa di fasci­sti. E nem­meno di tep­pi­sti di qual­che clan spor­tivo. E nem­meno di mafiosi o camor­ri­sti, o di eva­sori impu­niti.
La prima impres­sione, super­fi­ciale, epi­der­mica, fisio­gno­mica – il colore e la fog­gia dei vestiti, l’espressione dei visi, il modo di muo­versi -, è stata quella di una massa di poveri. Forse meglio: di “impo­ve­riti”. Le tante facce della povertà, oggi. Soprat­tutto di quella nuova. Potremmo dire del ceto medio impo­ve­rito: gli inde­bi­tati, gli eso­dati, i fal­liti o sull’orlo del fal­li­mento, pic­coli com­mer­cianti stran­go­lati dalle ingiun­zioni a rien­trare dallo sco­perto, o già costretti alla chiu­sura, arti­giani con le car­telle di equi­ta­lia e il fido tagliato, auto­tra­spor­ta­tori, “padron­cini”, con l’assicurazione in sca­denza e senza i soldi per pagarla, disoc­cu­pati di lungo o di breve corso, ex mura­tori, ex mano­vali, ex impie­gati, ex magaz­zi­nieri, ex tito­lari di par­tite iva dive­nute inso­ste­ni­bili, pre­cari non rin­no­vati per la riforma For­nero, lavo­ra­tori a ter­mine senza più ter­mini, espulsi dai can­tieri edili fermi, o dalle boîte chiuse.


Le fasce mar­gi­nali di ogni cate­go­ria pro­dut­tiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, fino a un paio di anni fa ancora sot­tili, oggi in rapida, forse ver­ti­gi­nosa espan­sione… Intorno, la piazza a cer­chio, con tutti i negozi chiusi, le ser­rande abbas­sate a fare un muro gri­gio come quella folla. E la “gente”, chiusa nelle auto bloc­cate da un fil­tro non asfis­siante ma suf­fi­ciente a gene­rare disa­gio, anch’essa presa dai pro­pri pro­blemi, a guar­darli – almeno in quella prima fase – con un certo rispetto, mi è parso. Come quando ci si ferma per un fune­rale. E si pensa «potrebbe toc­care a me…». Loro alza­vano il pol­lice – non l’indice, il pol­lice – come a dire «ci siamo ancora», dalle mac­chine qual­cuno rispon­deva con lo stesso gesto, e un sor­riso mesto come a chie­dere «fino a quando?».

Altra comu­ni­ca­zione non c’era: la “piat­ta­forma”, potremmo dire, il comun deno­mi­na­tore che li univa era esi­lis­simo, ridotto all’osso. L’unico volan­tino che mostra­vano diceva «Siamo ITALIANI», a carat­teri cubi­tali, «Fer­miamo l’ITALIA». E l’unica frase che ripe­te­vano era: «Non ce la fac­ciamo più». Ecco, se un dato socio­lo­gico comu­ni­ca­vano era que­sto: erano quelli che non ce la fanno più. Ete­ro­ge­nei in tutto, folla soli­ta­ria per costi­tu­zione mate­riale, ma acco­mu­nati da quell’unico, ter­mi­nale stato di emer­genza. E da una visce­rale, pro­fonda, costi­tu­tiva, antro­po­lo­gica estraneità/ostilità alla poli­tica.
Non erano una scheg­gia di mondo poli­tico viru­len­tiz­zata. Erano un pezzo di società disgre­gata. E sarebbe un errore imper­do­na­bile liqui­dare tutto que­sto come pro­dotto di una destra gol­pi­sta o di un popu­li­smo radi­cale. C’erano, tra loro quelli di Forza nuova, certo che c’erano. Come c’erano gli ultras di entrambe le squa­dre. E i cul­tori della vio­lenza per voca­zione, o per fru­stra­zione per­so­nale o sociale. C’era di tutto, per­ché quando un con­te­ni­tore sociale si rompe e lascia fuo­riu­scire il pro­prio liquido infiam­ma­bile, gli incen­diari vanno a nozze. Ma non è quella la cifra che spiega il feno­meno. Non s’innesca così una mobi­li­ta­zione tanto ampia, diver­si­fi­cata, mul­ti­forme come quella che si è vista Torino. La domanda vera è chie­dersi per­ché pro­prio qui si è mate­ria­liz­zato que­sto “popolo” fino a ieri invi­si­bile. E una pro­te­sta altrove pun­ti­forme e selet­tiva ha assunto carat­tere di massa…

Per­ché Torino è stata la “capi­tale dei for­coni”? Intanto per­ché qui già esi­steva un nucleo coeso – gli ambu­lanti di Parta Palazzo, i cosid­detti “mer­ca­tali”, in agi­ta­zione da tempo – che ha fun­zio­nato come prin­ci­pio orga­niz­za­tivo e deto­na­tore della pro­te­sta, in grado di rami­fi­carla e pro­muo­verla capil­lar­mente. Ma soprat­tutto per­ché Torino è la città più impo­ve­rita del Nord. Quella in cui la discon­ti­nuità pro­dotta dalla crisi è stata più vio­lenta. Par­lano le cifre.

Con i suoi quasi 4000 prov­ve­di­menti ese­cu­tivi nel 2012 (circa il 30% in più rispetto all’anno pre­ce­dente, uno ogni 360 abi­tanti come cer­ti­fica il Mini­stero), Torino è stata defi­nita la “capi­tale degli sfratti”. Per la mag­gior parte dovuti a “moro­sità incol­pe­vole”, il caso cioè che si veri­fica «quando, in seguito alla per­dita del lavoro o alla chiu­sura di un’attività, l’inquilino non può più per­met­tersi di pagare l’affitto». E altri 1000 si pre­an­nun­ciano, come ha denun­ciato il vescovo Nosi­glia, per gli inqui­lini delle case popo­lari che hanno rice­vuto l’intimazione a pagare almeno i 40 euro men­sili impo­sti da una recente legge regio­nale anche a chi è clas­si­fi­cato “incol­pe­vole” e che non se lo pos­sono per­met­tere.
“Maglia nera” anche per le atti­vità com­mer­ciali: nei primi due mesi dell’anno hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esi­stenti, 15 al giorno) in città, e 626 in pro­vin­cia (di cui 344 tra bar e risto­ranti). E’ l’ultima sta­ti­stica dispo­ni­bile, ma si può pre­sup­porre che nei mesi suc­ces­sivi il ritmo non sia ral­len­tato. Altri quasi 1500 erano “morti” l’anno prima. Men­tre per le pic­cole imprese (la cui morìa ha mar­ciato nel 2012 al ritmo di 1000 chiu­sure al giorno in Ita­lia) Torino si con­tende con il Nord-est (altra area calda della rivolta dei “for­coni”) la testa della clas­si­fica, con le sue 16.000 imprese scom­parse nell’anno, cre­sciute ancora nel primo bime­stre del 2013 del 6% rispetto al periodo equi­va­lente dell’anno prima e del 38% rispetto al 2011 quando furono por­tate al pre­fetto di Torino, come dono di natale, le 5.251 chiavi delle imprese arti­giane chiuse nella provincia.

E’, letta attra­verso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi suc­ce­du­tisi nella tran­si­zione all’oltre-novecento, tutta intera la com­po­si­zione sociale che la vec­chia metro­poli di pro­du­zione for­di­sta aveva gene­rato nel suo pas­sag­gio al post-fordismo, con l’estroflessione della grande fab­brica cen­tra­liz­zata e mec­ca­niz­zata nel ter­ri­to­rio, la dis­se­mi­na­zione nelle filiere corte della sub­for­ni­tura mono­cul­tu­rale, la mol­ti­pli­ca­zione delle ditte indi­vi­duali messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo pro­dut­tivo auto­mo­bi­li­stico, le con­su­lenze ester­na­liz­zate, il pic­colo com­mer­cio come sur­ro­gato del wel­fare, insieme ai pre­pen­sio­na­menti, ai co .co .pro, ai lavori a som­mi­ni­stra­zione e inte­ri­nali di fascia bassa (non i “cogni­tari” della crea­tive class, ma mano­va­lanza a basso costo… Com­po­si­zione fra­gile, che era soprav­vis­suta in sospen­sione den­tro la “bolla” del cre­dito facile, delle carte revol­ving, del fido ban­ca­rio tol­le­rante, del con­sumo coatto. E andata giù nel momento in cui la stretta finan­zia­ria ha allun­gato le mani sul collo dei mar­gi­nali, e poi sem­pre più forte, e sem­pre più in alto.
Non è bella a vedere, que­sta seconda società riaf­fio­rata alla super­fi­cie all’insegna di un sim­bolo tre­men­da­mente obso­leto, pre-moderno, da feu­da­lità rurale e da jacque­rie come il “for­cone”, e insieme por­ta­trice di una iper­mo­der­nità implosa. Di un ten­ta­tivo di una tran­si­zione fal­lita. Ma è vera. Più vera dei riti vacui ripro­po­sti in alto, nei gazebo delle pri­ma­rie (che pure dice­vano, in altro modo, con bon ton, anch’essi che “non se ne può più”) o nei talk show tele­vi­sivi. E’ sporca, brutta e cat­tiva. Anzi, incat­ti­vita. Piena di ran­core, di rab­bia e per­sino di odio. E d’altra parte la povertà non è mai serena.

Niente a che vedere con la “bella società” (e la “bella sog­get­ti­vità”) del ciclo indu­striale, con il lin­guag­gio del con­flitto rude ma pulito. Qui la poli­tica è ban­dita dall’ordine del discorso. Troppo pro­fondo è stato l’abisso sca­vato in que­sti anni tra rap­pre­sen­tanti e rap­pre­sen­tati. Tra lin­guag­gio che si parla in alto e il ver­na­colo con cui si comu­nica in basso. Troppo vol­gare è stato l’esodo della sini­stra, di tutte le sini­stre, dai luo­ghi della vita. E forse, come nella Ger­ma­nia dei primi anni Trenta, saranno solo i lin­guaggi gut­tu­rali di nuovi bar­bari a incon­trare l’ascolto di que­sta nuova plebe. Ma sarebbe una scia­gura – peg­gio, un delitto – rega­lare ai cen­tu­rioni delle destre sociali il mono­po­lio della comu­ni­ca­zione con que­sto mondo e la pos­si­bi­lità di quo­tarne i (cat­tivi) sen­ti­menti alla pro­pria borsa. Un enne­simo errore. Forse l’ultimo

Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato e si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale».

connessioniprecarie.org, 2 luglio 2017 (c.m.c.)

L’intervista è stata realizzata mercoledì 28 giugno a Bologna, dove Judith Butler si trovava come promotrice della conferenza internazionale «The critical tasks of the University» e per partecipare alla Summer School «Sovereignty and Social Movements» organizzata dall’Academy of Global Humanities and Critical Theory (Duke University, University of Virginia, Università di Bologna).

La scorsa settimana hai promosso a Bologna un convegno internazionale sul ruolo critico delle università, che in questo momento negli Stati Uniti, dichiarandosi santuari per i migranti senza documenti, si stanno attivamente opponendo alle politiche di deportazione di Trump. Pensi che anche questo tipo di iniziativa rientri nel loro ruolo critico e come sarà colpita dalla riorganizzazione dello Stato pianificata da Trump e Bannon e dall’azione sempre più arbitraria della polizia?
È molto importante che le università dichiarino lo status di «santuari». Manda un segnale forte al governo federale dichiarando che le università non applicheranno le politiche di deportazione. Il programma di Trump non è ancora effettivo, ma i funzionari dell’immigrazione e incaricati delle deportazioni possono agire autonomamente in modo più aggressivo, perché non c’è una politica federale chiara, il presidente dice una cosa, le corti di giustizia vanno in un’altra direzione, cosicché i funzionari decidono in modo discrezionale di andare nelle scuole o nelle case per cercare le persone senza documenti. Le università però hanno il potere di decidere se consegnare ai funzionari i nomi di quelli che non hanno documenti o se resistere alle loro richieste. Hanno il potere di bloccare l’implementazione dei piani di deportazione e questo significa che possiamo diventare parte di un più vasto network che resiste all’applicazione delle politiche federali.

Anche alla luce di questo tipo di resistenza, alcuni vedono nell’elezione di Trump un’opportunità per i movimenti sociali. Condividi questa prospettiva?
Ci sono due modi di leggerla. C’è chi crede in una concezione dialettica della storia per cui un movimento di resistenza, per crescere, ha bisogno di un leader fascista, sicché dovremmo essere contenti in questa circostanza. Da parte mia non sarò mai contenta di avere un leader fascista, o neofascista, o autoritario… stiamo ancora cercando di capire come descrivere questo potere. Spero che i movimenti sociali non abbiano bisogno di questo per essere galvanizzati. C’è però un secondo modo di vederla, e che sono più disponibile ad accettare, per cui il trionfo della destra negli Stati Uniti ha reso imperativo che la sinistra si unisca con una piattaforma e una direzione davvero forti. Non è chiaro se questo possa accadere attraverso il partito democratico, o se ci debba essere un movimento di sinistra ‒ il che non coincide necessariamente con una politica di partito ‒ che sappia che cosa sta facendo e come e, su questa base, possa decidere se accettare un partito, o se avanzare le proprie rivendicazioni a un partito. Ma non è detto che si debba cominciare dall’essere un partito politico. A volte è positivo che i movimenti sociali diventino un partito politico, non è necessariamente qualcosa a cui opporsi, ma non dobbiamo accomodarci in una distinzione o situazione esistente, per cui ci sono i democratici, i repubblicani e tutto il resto è considerato una minoranza radicale senza potere. È il tempo che i movimenti sociali si coalizzino per formare un movimento forte, che abbia idee molto chiare sull’uguaglianza, sull’economia, sulla libertà, la giustizia, e questo significa avere ideali e piattaforme separate dalla politica di partito. Solo a questo punto un movimento sociale è nella posizione di negoziare.

In che modo la campagna elettorale, e in particolare l’apertura di Sanders verso i movimenti sociali ‒ che è stata spesso contraddittoria e incapace di raccogliere le loro istanze ‒ può offrire indicazioni rispetto a come strutturare l’opposizione a Trump nei termini che hai appena descritto?
La corsa di Sanders alla presidenza è stata molto interessante, perché ha messo insieme molta gente ed è stata molto più popolare di quanto Clinton si aspettava che fosse, conquistando alle primarie anche Stati che si pensava avrebbero sostenuto Hillary. Ma è stato anche frustrante, perché non era chiaro se Sanders sapesse come rivolgersi agli afroamericani, sembrava che pensasse che quella di classe fosse l’oppressione primaria e quelle di razza e genere fossero secondarie, e questa è una prospettiva che abbiamo combattuto negli anni’70 e ’80. Da una parte si è vista una sinistra capace di attrattiva, e questo è stato interessante, ma forse non lo è stata abbastanza. Forse è necessario distinguere Sanders dall’«effetto Sanders», che sta coinvolgendo molti più gruppi permettendo loro di pensare che possono avere un po’ di potere. Sanders si è definito socialista, anche se in una versione soft, ma un partito socialista non c’è ancora anche se alcuni si sono appellati a lui per uscire dal partito democratico e costituirne un altro. Vedremo se può succedere negli Stati uniti, sarebbe degno di nota.

I migranti sono stati protagonisti negli ultimi anni di importanti movimenti sociali e sono tutt’ora impegnati nell’organizzazione dell’opposizione al razzismo istituzionale di Trump. Nel tuo lavoro hai molto insistito sulla loro posizione, sottolineando il modo in cui hanno esercitato performativamente un «diritto ad avere diritti». Ma possiamo considerare i migranti non solo come una figura dell’esclusione da «noi, il popolo», ma anche come una prospettiva che ci permette di capire le trasformazioni contemporanee della cittadinanza e del lavoro nel suo complesso. Come fai i conti con queste trasformazioni nella tua teoria della precarietà?
Forse non ho una teoria della precarietà, ti posso dire che cosa sto facendo adesso, perché ho scritto Vite precarie dopo l’11 settembre per rispondere a quelle circostanze storiche, ma in altri libri sono emerse altre circostanze e magari si possono adattare ad alcune persone e ad altre no. Nel bene e nel male, il mio è un pensiero vivente e può cambiare, non ho una singola teoria che si adatti a tutte le circostanze, posso modificare la mia teoria, questo è il modo in cui lo descriverei. Quello che posso dire è che io vivo nello Stato della California e l’agricoltura lì si basa fondamentalmente sul lavoro migrante, se Trump fosse in grado di deportare migranti messicani senza documenti, costruire muri e bloccare l’afflusso di nuovi messicani, i principali interessi economici che lo hanno supportato sarebbero immediatamente in difficoltà. Di fatto l’economia della California funziona con i migranti senza documenti, non ci sono dubbi. E se andiamo indietro nella storia della California, vediamo che le ferrovie sono state costruite dai migranti cinesi. Molti di noi sono stati migranti, mia nonna non parlava nemmeno bene l’inglese, siamo arrivati, siamo andati a scuola, ci siamo dimenticati di essere migranti, pensiamo che i migranti siano sempre gli altri. Ma chi non è un migrante? Questa dimenticanza è parte della formazione del soggetto americano ed è diventata davvero pericolosa nel momento in cui abbiamo deciso che i migranti sono esterni a quello che siamo. Sono parte di quello che siamo, ci basiamo sul loro lavoro, siamo il loro lavoro.

Contro questa condizione, i migranti – non solo negli Stati Uniti ‒ hanno scioperato, e l’8 marzo di quest’anno c’è stato uno sciopero transnazionale delle donne. Nel tuo ultimo libro (Notes toward a Performative Theory of Assembly, nella traduzione italiana L’alleanza dei corpi) tu includi lo sciopero tra i modi in cui è possibile ‘assemblarsi’. Lo sciopero non è solo un modo di convergere, ma stabilisce anche una linea di opposizione nella società, una linea lungo la quale si pratica l’interruzione di un rapporto sociale di potere. La tua riflessione sulle assemblee articola la necessità o la possibilità di questo tipo di linea di conflitto come condizione stessa dell’assemblea?
Spesso, quando i sindacati vogliono unirsi per discutere le condizioni del loro lavoro, assistiamo a tentativi disperderli o negare il loro diritto di riunirsi in assemblea. Almeno nel diritto degli Stati Uniti e in qualche misura in quello internazionale, questo diritto nasce anche dalle assemblee sindacali, fatte per discutere le condizioni di lavoro o per decidere di scioperare. Ci sono modi di riunirsi in assemblea là dove c’è uno sciopero. Ma nell’era di internet possiamo entrare in rete nel web e decidere uno sciopero senza riunirci di persona. La vera domanda diventa allora come il modo tradizionale di funzionamento dell’assemblea, per cui i corpi si assemblano nello stesso spazio, sta in relazione con il networking digitale, o con una modalità politica di mettersi in rete che può anche essere la base per lo sciopero. Non intendo dire che nella vita contemporanea non c’è assemblea senza un insieme di connessioni digitali, o che non sappiamo nemmeno di essere assemblati se non mandiamo un messaggio che lo comunica. Tuttavia, l’assemblea può dare voce a certe rivendicazioni che devono essere comunicate attraverso il web. Di solito gli scioperi, soprattutto quelli internazionali, che sono molto interessanti, sono principalmente forme di messa in rete per la resistenza. Si tratta di una forma tra le altre possibili di associazione e alleanza tra gruppi, una forma che è legata all’assemblea anche se non sono esattamente la stessa cosa. Non c’è un’unica sfera pubblica per tutti, nemmeno internet è la stessa sfera pubblica per tutti, non tutti ce l’hanno e non tutti comunicano, non c’è un’unica sfera pubblica globale, non c’è una piazza mondiale. I media aiutano a fare in modo che succeda, quando succede. L’anno scorso coloro a cui non è assolutamente permesso di assemblarsi, i detenuti nelle prigioni palestinesi, negli Stati uniti e in altre parti del mondo, hanno fatto uno sciopero della fame. Molte persone che si opponevano alla pratica carceraria dell’isolamento sono andate in sciopero della fame e lo hanno fatto esattamente nello stesso momento. Hanno comunicato attraverso le reti di sostegno dei prigionieri, hanno creato un network internazionale senza bisogno di un’assemblea, hanno scioperato nello stesso momento per attirare l’attenzione dei media sul fatto che l’isolamento è una pratica disumana a cui tutti insieme si stavano opponendo. Alleanze a rete di questo tipo sono precisamente quello che è necessario per portare una questione al centro dell’attenzione politica. Anche lo sciopero delle donne è molto interessante perché non ha un solo centro, ed è accaduto in tutto il mondo in modi e luoghi diversi.

Infatti, lo sciopero dell’8 marzo è stato lanciato dalle donne argentine di Ni una menos con un appello internazionale che ha avuto un’incredibile risonanza in tutto il mondo. Non si è trattato di uno sciopero tradizionale, inteso come strumento di contrattazione sindacale, ma è stato un modo per rifiutare una condizione di violenza e oppressione che assume molte forme
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Lo sciopero della fame e quello delle donne non sono scioperi tradizionali, di tipo sindacale, ed è importante che siano accaduti. La cosa che mi pare più interessante sono i network che li hanno resi possibili e che hanno permesso che accadessero, perché questi network possono comporre movimenti globali di solidarietà. Se però si riducono a uno sciopero che dura per un certo numero di ore per un giorno solo, questo non è abbastanza, perché un’azione simbolica. Ma anche un’azione simbolica può aiutarci a vedere quali sono i network, chi sono le persone che ne fanno parte in Argentina, qual è la loro relazione con la Turchia, con Bologna o con il Sudafrica. Il punto è usare l’occasione dello sciopero simbolico per solidificare reti internazionali che possano poi produrre effettivamente un senso più forte della sinistra femminista transnazionale o dell’opposizione transnazionale alle condizioni inumane nelle prigioni.

Forse però ci sono delle differenze tra lo sciopero della fame in prigione e lo sciopero delle donne o quello dei migranti. In prigione diventa un modo di conquistare in primo luogo quello che chiami un «diritto di apparire» per mettere sul tavolo rivendicazioni che altrimenti sarebbero inascoltate. Lo sciopero delle donne e quello dei migranti hanno stabilito una linea di conflitto, nel caso dell’8 marzo la linea in cui si mostra che la violenza patriarcale è la base per la riproduzione di rapporti sociali di potere su scala globale. Da questo punto di vista è interessante che lo sciopero sia stato proposto in Argentina, dove la violenza contro le donne sta diventando un’arma sistematica del governo neoliberale.
Penso che anche lo sciopero della fame in prigione stabilisca una linea di opposizione, perché in prigione tu non comunichi, non ti riunisci in assemblea, non avanzi rivendicazioni soprattutto se sei in isolamento. La voce dei detenuti non si sente, hanno bisogno di altri che possano articolare la loro posizione, che parlino per loro, e attraverso quel network hanno trovato il modo di articolare una rivendicazione che altrimenti non sono nella condizione di avanzare e che riguarda la violenza strutturale delle prigioni, che è anche un confronto frontale con quella violenza strutturale. Osservando il modo in cui le prigioni funzionano in Brasile o in Argentina, diventa evidente la relazione delle prigioni con la violenza della polizia, con il femminicidio, possiamo trovare una violenza strutturale che le connette. Angela Davis lavora sulle prigioni negli Stati uniti e in Brasile e sostiene che la violenza delle prigioni si manifesta attraverso un razzismo che colpisce i poveri e le donne in modo strutturale, una violenza dello Stato che articola disuguaglianze sociali fondamentali. D’altra parte dobbiamo considerare che i media hanno i loro cicli. Quanto più ci appoggiamo ai media per creare connessioni transnazionali, tanto più dobbiamo stare attenti al modo in cui il ciclo dei media ci fa diventare una notizia che un attimo dopo scompare. C’è un momento in cui siamo in sciopero e poi chi se ne ricorda? Che cosa succede poi? Come si traduce questo in pratiche o nuovi network, in nuove possibilità per i movimenti? Il modo in cui i media gestiscono lo sciopero di un giorno può dargli vita per un momento e poi estinguerlo. Dobbiamo trovare modi per lavorare contro questa temporaneità dei media per sostenere le nostre connessioni politiche.

Il problema riguarda però la capacità di accumulare sufficiente potere da forzare i media a dare conto di quello che accade. Lo sciopero è precisamente un modo di dare prova di un potere, che è in primo luogo il potere di non essere vittime, di rifiutare una condizione di oppressione.
Sono d’accordo. Dire, come spesso fanno i media, che le donne non si mobilitano o che siamo ormai post-femministe per me non è altro che una barzelletta. Non sarò mai post-femminista. È grandioso avere un momento globale in cui le donne emergono in marcia, come è successo a Washington e in tutto il mondo il 21 gennaio, ma questo deve continuare a succedere, e abbiamo bisogno di scioperi e manifestazioni che abbiano le loro infrastrutture, i loro network, i loro modi di sviluppare fini e strategie e forme di resistenza. Dobbiamo costruire queste connessioni.

La marcia del 21 gennaio e lo sciopero dell’8 marzo hanno visto le donne protagoniste ma hanno coinvolto moltissimi altri soggetti. Le donne in queste occasioni hanno posto una questione generale, ad esempio rifiutando le politiche neoliberali che smantellano il welfare e che impongono proprio alle donne di farsi carico del lavoro riproduttivo e dei servizi che non sono più erogati dal pubblico. A questo riguardo, pensi che le donne, in virtù della loro posizione materiale e simbolica, possano avere anche una posizione specifica nella lotta contro le relazioni neoliberali di potere su scala globale?
Io penso che le donne debbano assumere una posizione politica specifica per via del fatto che sono prioritariamente responsabili di relazioni di cura nei confronti dei bambini o degli anziani, e quando i servizi dello Stato e pubblici sono distrutti dal neoliberalismo o dal fallimento di altre infrastrutture, penso che questo ponga su di loro un carico ulteriore che ha effetti anche sul lavoro produttivo. Vorrei dire anche, però, che è estremamente importante includere tra le donne anche le donne trans, che dobbiamo avere una visione più ampia di che cosa significa essere una donna, una visione che includa anche le donne che non prendano parte alla riproduzione o al lavoro domestico, che hanno scelto di non essere o semplicemente per altre ragioni non sono sposate, che hanno altre alleanze sessuali e sono senza figli. Le donne ora vivono forme sociali molto diverse che includono e devono includere anche le donne trans. Uno dei problemi che ho con l’idea che le donne siano completamente identificate con la sfera riproduttiva è che in questo modo si operano delle restrizioni. Se, nel cercare di dare una specificità e una visibilità alle condizioni materiali delle donne, stabiliamo una specifica comprensione simbolica di che cosa la donna è, tutte le donne ne sono colpite, diventa un limite.

Sono completamente d’accordo, e il punto mi sembra precisamente la possibilità di rifiutare quel modo di essere identificate come donne. Si tratta di rifiutare la divisione sessuale del lavoro che costringe le donne a occupare certi ruoli, proprio questo rifiuto diventa politicamente rilevante oggi. Ma allo stesso tempo l’idea di includere le persone trans nella categoria delle donne non rischia di limitare la possibilità di questo rifiuto, esattamente perché presuppone una definizione identitaria di che cosa sia «donna»?
Non credo. Sta già succedendo. Ci sono persone che vivono come donne, senza essere riconosciute come tali. E ci sono persone riconosciute come donne che non si pensano affatto come donne. Dobbiamo accettare che spesso la percezione sociale non corrisponde all’esperienza vissuta delle persone. Non è solo una questione identitaria perché riguarda il modo in cui sei trattata a casa, a scuola, nelle istituzioni religiose, nel lavoro, se sei chiamata nell’esercito, quale bagno usi… ci sono un sacco di questioni pratiche che dipendono dalla designazione di genere, che può anche avere implicazioni concrete sulla vivibilità o invivibilità della vita. Se qualcuno mi interpella come donna in un certo modo e si aspetta che io viva in quel modo, in certe circostanze sociali, non potrei vivere in quella società, dovrei andarmene, ci sono implicazioni concrete e materiali che seguono a questo tipo di designazione e penso che se ci limitiamo a parlare di questioni di identità ‒ come ti definisci, qual è il tuo pronome, se è una questione di scelta individuale e di nominare se stessi – ci sfugge il fatto che spesso si tratta di una questione di vita o di morte.

Capisco il punto ma mi piacerebbe insistere. Da una parte sostieni, e sono d’accordo, che sia necessario rifiutare l’identificazione delle donne con le loro funzioni riproduttive, con i ruoli di madre, moglie, di coloro che sono ‘naturalmente’ deputate alla cura. In questo senso non si tratta semplicemente di una scelta individuale, ma di contestare l’imposizione di un ruolo e di una posizione sociale e la riproduzione di un rapporto di potere che presuppone quel ruolo e quella posizione. Dall’altra sostieni che altre soggettività di genere dovrebbero essere considerate donne, perché questo colpisce materialmente la loro possibilità di vivere. È indiscutibile che sia necessario allargare il riconoscimento di diritti civili e sociali, ma non c’è una qualche contraddizione tra il primo e il secondo punto, nella misura in cui il primo implica il rifiuto di una definizione che comporta anche l’imposizione di un ruolo, mentre il secondo la presuppone?
Questo mi permette di chiarire quello che intendo. Penso che ci siano molte donne che vogliono essere e sono madri e questo significa molto per loro, e non dovrebbero rifiutarlo, è grandioso che siano madri, hanno un grande piacere a essere madri e a vivere come vogliono vivere, e ci sono donne che vogliono essere sposate ed essere sposate con uomini. E se lo vogliono e questo le soddisfa è giusto e non devono rifiutarlo. Ma dare una definizione di donna che valga per tutti è un errore. Perché questo limita le possibilità all’interno dello spettro di che cosa significa essere una donna. Ci sono altre che non vogliono essere madri ma si pensano nonostante tutto come donne, che hanno relazioni di convivenza senza essere sposate e non intendono farlo, e questo è un altro spettro di possibilità in quello che chiamiamo essere donna. E ci sono donne trans che sono donne in molti modi, che sentono con forza che questo è esattamente ciò che sono socialmente e psicologicamente, e vogliono vivere in quella categoria ma non hanno lo spazio di farlo. Non penso che quelle che sono sessualmente donne debbano rifiutare di fare figli o di sposarsi, non lo direi mai, ma ci sono lesbiche che vogliono sposarsi e questo va bene, e ci sono trans che vogliono avere figli e sposarsi e questo va bene, e se non vogliono sposarsi e avere figli potrebbero comunque essere coinvolte nella cura dei figli con altre persone, non dobbiamo prendere una sola scelta e renderla una norma per tutti, questa sarebbe una forma di violenza simbolica.

Lo sarebbe senz’altro. Ma non bisognerebbe perdere di vista una critica della famiglia come luogo in cui si organizzano rapporti di oppressione e di dominio. Se guardiamo la cosa dal punto di vista della libertà individuale è certamente necessario mantenere l’apertura che hai appena descritto. Ma istituzioni come il matrimonio e persino la scelta, certamente personale, della maternità vanno anche pensate in relazione al loro significato sociale, ai ruoli che prescrivono alle donne ed è in questo senso che sono state oggetto della critica femminista. Proprio questo cercavo di dire all’inizio: le donne in un certo modo hanno la possibilità, proprio perché si suppone che occupino certe posizioni, di criticare quelle istituzioni in quanto riproducono rapporti sociali di potere.
Capisco questo, ma penso che le istituzioni abbiano una storia, non sono le stesse in ogni cultura e contesto storico. Per esempio, se il femminismo vuole essere globale è estremamente importante che veda che non tutte le donne si muovono in una cornice di libertà individuale come in Europa, che ci sono diversi rapporti di connessione familiare e parentela che allargano la famiglia, e che questa non ha solo la forma della famiglia nucleare. Se pensiamo alla parentela e alla famiglia nucleare come una modalità di parentela tra le altre, e a relazioni di sostegno diverse dalla famiglia nucleare, partire da un modello occidentale è un’ingiusta imposizione culturale. Non mi interessa la questione della scelta personale e individuale, mi interessa di più che cosa è invivibile, è una cornice diversa, perché per alcune persone non sarebbe vivibile la struttura familiare o la struttura di parentela allargata, mentre per altre persone è l’unico modo per sopravvivere e fiorire, e altre persone vivono forme di ambivalenza fortissime nella struttura familiare, come uomini che si prendono cura della casa o curano i figli o sono in rapporti che non dipendono dalla divisione sessuale del lavoro. Ci sono alcune persone che stanno attivamente ristrutturando questi rapporti e ci stanno riuscendo in qualche misura, le famiglie lesbiche e gay non sono famiglie tradizionali, sono famiglie miti, ci sono madri dal primo matrimonio o dal secondo matrimonio, con un padre gay, le relazioni di amicizia possono dare strutture di parentela più elaborate. Non penso che possiamo risalire a Engels per trovare la famiglia come una struttura oppressiva che rimarrà sempre tale, l’analisi strutturalista non ci permette una concezione storica della famiglia, e io penso che ci serva un’analisi che ci permetta di capire come questa istituzione funziona.

Sono d’accordo che non si possa prescindere dalle condizioni storiche in cui si articola la critica alla famiglia. Ma mi pare anche piuttosto chiaro che nelle condizioni attuali, in Europa e non solo in Europa, il neoliberalismo sta riportando al centro una concezione tradizionale della famiglia, e quindi prescrivendo alle donne una specifica posizione, perché si tratta di una struttura fondamentale di riproduzione della società, tanto più in un contesto in cui la fine di ogni politica sociale impone un’assoluta individualizzazione delle responsabilità per la propria vita come quella che tu stessa descrivi nella tua riflessione. Mi pare che questo renda necessaria una critica femminista della famiglia e non solo l’idea che debba essere allargata a figure che non rientrano nel suo modello.
Capisco quello che dici e possiamo complicare ancora di più questa situazione perché abbiamo un femminismo neoliberale, abbiamo Hillary Clinton, lei si è fatta da sola, è un autoimprenditrice, vuole che le donne avanzino negli affari, che facciano le piccole imprenditrici, si è forse preoccupata se la cura dei figli sia finanziata e non sia soggetta a tagli e coinvolta in politiche di austerità? Avrebbe dovuto! E invece è con i Clinton che sono cominciati i tagli ai welfare e l’abbattimento di tutto quello che è rimasto della socialdemocrazia negli Stati uniti. Molte donne non hanno votato per lei, molte donne nere non si sono sentite rappresentate da lei, molte donne bianche povere non si sono sentite rappresentate da lei, il suo femminismo è completamente centrato sull’autoavanzamento e questo è l’obiettivo neoliberale.

Questo è stato un punto ampiamente dibattuto nell’accademia negli Stati uniti quando Nancy Fraser ha sostenuto che il femminismo è diventato l’ancella del neoliberalismo, e che questo è accaduto nel momento in cui le identity politics hanno preso il posto delle istanze di redistribuzione della ricchezza durante gli anni ’80.
Penso che anche qui dobbiamo distinguere il femminismo che è diventata una politica ufficiale di Stato, anche se per certi versi non lo è più, non abbiamo più femminismo nelle istituzioni e nemmeno donne, è stato un colpo di coda durissimo. Ma molti aspetti del femminismo socialista, del movimento delle donne contro la violenza, o dei movimenti contro la povertà che in modo sproporzionato colpisce le donne non sono stati ascoltati dal femminismo ufficiale. Ed è una pena vedere come il femminismo sia stato incorporato, ne saranno forse contente le femministe liberali, che sono soprattutto o esclusivamente bianche, ma la critica del liberalismo o del neoliberalismo non è certo esaurita.

Questo ci riporta alla capacità dei movimenti di consolidarsi. Nelle tue note sulle assemblee hai molto insistito sul fatto che le assemblee sono temporanee, contingenti, e sottolinei che ciò non è necessariamente un limite perché possono accadere in ogni momento. Questa idea di contingenza o transitorietà come si confronta con il problema della continuità e dell’organizzazione delle assemblee? Se la contingenza è il modo di essere delle assemblee, non c’è il rischio che solo la loro rappresentazione nelle istituzioni possa dare loro continuità?

Oltre alla temporaneità io ho sottolineato che le assemblee possono articolare un certo tipo di critica. Per esempio anche lo sciopero delle donne dell’8 marzo ha articolato dei principi, per cui il punto diventa come quei principi sono tradotti in pratiche e organizzazione e movimento. Penso che il grande momento pubblico abbia un’importanza quando i principi che annuncia sono raccolti da altri tipi di movimento che magari non sono così spettacolari e pubblici. Ma c’è un altro punto che mi interessa sottolineare: un’assemblea che dura molto tempo diventa un accampamento, o magari un’occupazione, che dura più tempo o si allarga e può diventare un movimento sociale e anche una lotta rivoluzionaria. A seconda da quanto spesso accadono, da quanto grandi diventano, da quanto a lungo durano, puoi tracciare il modo in cui ciò che comincia come un piccolo gruppo di persone che si riunisce può trasformarsi nel tempo e nello spazio in un più largo e sostenuto movimento sociale. Questo mi interessa e mi porta a pensare allo sciopero generale, non uno sciopero per un giorno, non «oggi non lavoriamo», ma «non lavoreremo più finché non cambiano le condizioni», non solo questo giorno ma ogni giorno finché queste condizioni sono mantenute. Lo sciopero generale è il rifiuto di un regime, di un’intera organizzazione del mondo, della politica, di un regime di apartheid, di un regime coloniale, li abbiamo visti abbattuti dai movimenti di massa. So che la gente dice che i movimenti non possono fare niente, invece lo fanno, sbagliamo a sottovalutare il potere dei movimenti di massa, ma ci vuole tempo per accumulare e la gente deve avere più di qualche slogan per andare avanti, devono sapere che ci sono principi, un’analisi, per potersi considerare parte di quello che sta succedendo e che quello che accade in una parte del mondo è connesso a quello che succede da un’altra parte. Se pensiamo alle popolazioni che sono rese precarie dalle politiche economiche neoliberali, o da governi autoritari, o dalla decimazione dei beni pubblici, dei sussidi, dell’educazione, della salute, ci sentiamo molto soli finché non realizziamo che altri stanno facendo esperienza dell’accelerazione e intensificazione della povertà o dell’abbandono o della perdita del lavoro. Deve essere chiaro che questo accade sul piano transnazionale e deve essere messo in termini che la gente possa capire, perché possa riconoscere l’ingiustizia della propria sofferenza. C’è il pericolo che la gente pensi che la propria situazione è solo un problema locale, quando invece ha una dimensione transnazionale. E se possiamo tornare indietro alla lotta al femminicidio, quella è un’enorme ispirazione per me, perché ci sono statistiche terribili su quante donne e quanti trans sono uccisi in un posto come l’Honduras, che forse ha le statistiche peggiori, in Brasile in Argentina, sono statistiche sconcertanti, ma lo sforzo di costruire network tra le donne e quelli che si oppongono ai femminicidi è impressionante. Mi rendo conto di quanto duro debba essere leggere quelle statistiche, riunirsi e fare un’analisi che la gente possa accettare e quanto è stato importante per quel movimento essere prima di tutto interamericano, e che i tribunali abbiano dichiarato il femminicidio un crimine. Il problema è che la polizia in tutti quegli Stati non ha nessuna intenzione di farsi carico del crimine e riconoscerne l’importanza, e spesso arrestano le donne che denunciano, è un terrorismo di Stato inflitto a coloro che portano questo problema in pubblico, perché la struttura del patriarcato locale e le alleanze patriarcali tra la polizia e lo Stato sono molto forti. Il modo in cui le reti delle donne stanno andando fuori dalle strutture dello Stato, in cui si mettono in relazione con le organizzazioni per i diritti umani e si rivolgono alle corti interamericane e producono alleanze transnazionali non dipende dal potere dello Stato, ma chiede conto allo Stato della sua complicità. Penso che questo sia enormemente interessante, è una mobilitazione che è oltre e contro lo Stato ed è transnazionale, quindi penso che dovremmo studiare questi movimenti e trarne ispirazione. Forse non sono ancora riusciti a porre fine a questa pratica atroce, ma hanno allargato la possibilità di farsi ascoltare, ora il mondo sa che cosa accade, e hanno prodotto network per supportarsi e sviluppare impressionanti pratiche di resistenza.

«Micromega, 10 dicembre 2013
È sempre difficile, nelle analisi storiche, individuare le discontinuità nella linea del tempo: le rotture, i punti di non ritorno, insomma svolgere quel lavoro, che pure è fondamentale per chi faccia professione di storico, che si chiama periodizzazione. Esistono, certo, processi di lunga durata, e di breve periodo; ma la nostra capacità, mentre li ricostruiamo, deve essere quella di individuare delle cesure all'interno di quei processi. E giustificarle, spiegarle, o almeno tentare di darne ragione, per quanto sia possibile, ricordando sempre che nella storia agiscono tre fattori: le scelte degli individui, i contesti e il caso.

Tutta questa premessa è per arrivare a dire che non è semplice capire come nasca Matteo Renzi, che giunge oggi alla guida del Partito Democratico. Quello che mi pare chiaro è che Renzi è, per ora, il punto terminale di un tragitto costellato di vicende delle quali sono stati protagonisti, comprimari o comparse vari personaggi, figure e figuri, ora semplicemente inetti, ora più o meno squallidi, talvolta peggio.

A me pare sicuro che l'8 dicembre 2013 sarà una data periodizzante, nella futura ricostruzione storica del Pd, ma avrà dei riflessi non da poco sulla scena nazionale, altrimenti forse non varrebbe neppure la pena di discuterne tanto, come si sta facendo: purtroppo, aggiungo. Ebbene, mi pare che con Renzi, si sia compiuta definitivamente, la mutazione genetica del "partito della classe operaia", del partito che ha guidato l'opposizione al fascismo prima, la Resistenza al nazifascismo dopo, del partito che più di ogni altro ha contribuito alla identità della Repubblica a cominciare dalla stesura della sua Carta costituzionale, del partito che ha difeso i ceti subalterni, del partito che ogni volta si è battuto per frenare le derive autoritarie della DC, o di contrastare l’altra deriva, quella terroristica, del partito che di fatto ha svolto il compito di una onesta classe dirigente democratica, quel compito che i democratico-cristiani con la pletora di partiti e partitini satelliti non ha mai pienamente saputo svolgere, anzi, sovente cedendo a tentazioni di tutt’altro genere.

Insomma, la mutazione politica, culturale, sociale (ossia dei ceti di riferimento), e, persino, antropologica, è compiuta, è arrivata a una meta. Diceva Walter Veltroni, in un memorabile (in senso negativo) discorso del 2000, in occasione dei cinquant’anni della Fondazione intestata ad Antonio Gramsci: “Noi non siamo più a metà del guado, la nostra traversata è compiuta. Gramsci non ci appartiene più: siamo arrivati a Rosselli”. Al di là dell’ignoranza del poveretto (nel ’37, quando morirono entrambi, variamente uccisi dal fascismo, Rosselli era, in certo senso, persino più a sinistra di Gramsci!), non c’è dubbio che Gramsci non appartenga più ai suoi pretesi eredi: e per fortuna! Del partito di Gramsci (e di Bordiga, non dimentichiamolo!), di Togliatti, di Berlinguer, nel PD che oggi viene consegnato, a furor di popolo, all’oscuro Matteo Renzi, non rimane alcunché. La “trasformazione” è compiuta.

Ora si provvederà alla “rottamazione”, in nome di inquietanti e ambigue parole d’ordine che richiamano il giovanilismo fascistoide, ma anche il “novitismo” dei forzitalioti, e di tutti i loro sodali politici, e dei loro tristi ideologi che per decenni hanno cantato le lodi del cambiamento: oggi, ricordiamolo, la destra è per il cambiamento. È una destra all’attacco, con vesti diverse, ma la sostanza è la stessa: cancellare il welfare state, rimovendo ogni ostacolo sul cammino che conduce a tanto nobile obiettivo: e la Costituzione è l’ostacolo n. 1.

La creazione del PD, dopo la "svolta" nefasta della Bolognina (e non c’è dubbio che quell’atto, di cui non era a conoscenza praticamente nessun dirigente del Pci), guidata dall'improvvido nocchiero Achille Occhetto (vi ricordate di lui?), con il grottesco abbraccio con i resti della DC e delle frattaglie residue del PSI (una parte), fu l'esito di un processo di metamorfosi il cui risultato estremo, dopo gli ulteriori guasti compiuti da D'Alema, Fassino, Veltroni (soprattutto), Bersani, e l'imbarazzante, ultima gestione di Epifani, è il Pieraccioni della politica, il berluschino Renzi.

Che vincesse era scontato; che stravincesse no. E nella sua vittoria hanno giocato non soltanto le miserie della classe politica (specie quella nuova, devo dire) del PD, ma i cambiamenti stessi della politica, sempre all’insegna della modernizzazione e del “cambiamento”. Del “nuovo”: e Renzi, occorre riconoscerlo, ha saputo perfettamente interpretare il ruolo.

Populismo di tipo modernizzatore, a differenza di quello volgare di un Grillo (ma la sostanza non cambia), aderenza alle posizioni confindustriali su economia, scuola, diritti del lavoro, welfare, immigrazione, sistema elettorale (basti pensare all’apologia del “maggioritario”), eccetera. In realtà Renzi di programmi non ne ha: parla molto per non dire nulla, ma quel nulla lo dice bene, in modo che piaccia al suo popolo, ma non dispiaccia ai ceti dominanti e alle loro agenzie di comunicazione. Il suo è lo smalto sul nulla per citare un verso di Gottfried Benn.

Ma ora la sinistra, quel che ne rimane, dovrà pure fare una riflessione seria, che, oggi, appare drammaticamente urgente. E tentare di ripartire, se ne ha le forze, subito. Un lato positivo, peraltro, forse c'è: che farà quel 30% del PD che non è per Renzi? A chi mi accuserà di rimpiangere il bel tempo antico, replicherò, come la mitica Edith Piaf: “No, non rimpiango nulla”. Invece, constato l'ennesimo atto di una catastrofe. Ma come ci insegna la tragedia greca dalla catastrofe si può rinascere.

Le condizioni virtuose per una buona legge elettorale. La Repubblica, 12 dicembre2013

È responsabilità della politica ridare fiducia nelle istituzioni. Mettendo fine a comportamenti che calpestano la moralità pubblica (il misuso e l’abuso delle risorse pubbliche) e all’impotenza a decidere. Quest’ultimo è il caso della mancata riforma elettorale. Non c’è più spazio per i tentennamenti; la crisi sociale che attanaglia il paese da Nord a Sud è di tale gravità da non consentire tempi supplementari. Superare l’impotenza è un dovere e una necessità. Un’impotenza della politica che è il residuo dell’erosione della fiducia che si è accumulata nel ventennio berlusconiano e che ha minato la capacità cooperativa tra avversari e perfino tra i membri di uno stesso partito. Uno stato di discordia sulle regole e quindi di impotenza a prendere decisioni che non ha precedenti nella storia repubblicana. Sembra che ci sia una resistenza programmata a non voler trovare il bandolo della matassa dal quale ripartire per ricostruire il tessuto politico della nostra democrazia. Questa mancanza di virtù politica decisionale non è ulteriormente tollerabile. La politica deve rompere questo incantesimo negativo e dare ai cittadini uno strumento elettorale che consenta loro di andare a votare con la certezza di poter usare un metodo equo e funzionale.

Certo, la cancellazione del Porcellum da parte della Consulta crea problemi di legittimità decisionale di questo Parlamento come ha messo in luce Gustavo Zagrebelsky nella sua recente intervista a Repubblica. Ma una classe politica che voglia acquistare autorevolezza presso i cittadini lo fa anche dimostrando di essere in grado di uscire dall’impasse con gli strumenti che la Costituzione le dà.
Una buona legge elettorale deve conciliare le tre promesse che il sistema rappresentativo fa: che la maggioranza abbia il diritto di governare; che l’opposizione non si senta ingiustamente trattata; e che i cittadini si percepiscano come parte del gioco, coinvolti nella scelta dei candidati cosicché il loro suffragio non sia un plebiscito ma una scelta elettorale di chi dovrà far parte dell’organo (il Parlamento) che ha il potere di legiferare.
Tra le virtù di un buon sistema elettorale ce n’è una particolarmente importante: far sentire a chi perde le elezioni di non avere subito ingiustizia e di continuare a fidarsi di chi ha vinto. Neutralizzare le passioni negative. Il sistema elettorale ha tra le altre cose il compito di alimentare quelle emozioni di cui la competizione politica ha bisogno, come la delusione per una sconfitta e la determinazione a rimontare la china. Lo scopo della democrazia elettorale è di minimizzare la diffidenza. L’aritmetica applicata alla politica ha la capacità di sedare la passione del risentimento e di tonificare le energie per la lotta di domani. Tenendo a mente queste condizioni virtuose si dovrebbe riflettere sul sistema elettorale migliore.
Nel presente dibattito il maggioritario sembra godere di più ampio consenso. I suoi sostenitori si suddividono in due gruppi: coloro che vogliono ancora ricorrere al premio di maggioranza (bocciato dalla Consulta nella forma abnorme in cui il Porcellum l’aveva concepito) e coloro che vogliono il doppio turno, conosciuto anche come modello francese. Indubbiamente il primo dei due ha controindicazioni evidenti in quanto lavora contro la ricostruzione della fiducia contenendo un elemento di arbitrarietà (il premio).
L’altro metodo, quello del doppio turno, ha il merito di creare solide maggioranze. Dall’altro canto, però siccome esso riduce il peso dell’opposizione, se non è incastonato in un sistema politico retto su un forte senso di sovranità del corpo nazionale può non essere in grado di cementare la fiducia. Si cita la Francia come modello ma si trascura di dire che la Francia è per tutti i francesi “La France”, il popolo- re-uno-indiviso al quale presidenti e maggioranze eletti si inchinano, prima che al loro partito.
Dove c’è, come in Francia, una sovranità forte e indiscussa le maggioranze sono comunque una parte rispetto alla quale il tutto ha preminenza indiscussa di riferimento e di limite, per chi vince come per chi perde. Questo non pare sia il nostro caso. Certo, noi abbiamo già una forma di maggioritario nel modo di eleggere i sindaci. Ma i sindaci operano nella sfera amministrativa nella quale la debolezza del consiglio comunale che questo sistema comporta non è un serissimo problema. Ma lo sarebbe se applicato a livello nazionale poiché il parlamento fa leggi e non è desiderabile un sistema che rende il collettivo deliberante più debole dell’esecutivo.
Un’ultima osservazione, dovuta, riguarda l’uso dei “modelli”. Noi siamo spesso troppo attratti dal seguire modelli che altri hanno creato sulla propria esperienza. Anche noi dovremmo fare altrettanto. L’Italia è plurale, spesso divisa, con un forte senso della complessità di appartenenza nazionale e quindi ha bisogno di rappresentare il pluralismo e cercare strategie per la cooperazione invece che imporre semplificazioni procustee nel tentativo di dar vita a un bipolarismo perfetto. Si deve poter trovare una mediazione tra garantire la pluralità e formare maggioranze non aleatorie. Un sistema elettorale che sia ragionevolmente rappresentativo della diversità senza consentire che la pluralità diventi frammentazione.

Che cosa c’è sotto la schiuma della vittoria di Matteo Renzi. La Repubblica, 11 dicembre 2013

PRIMA ancora che Matteo Renzi vincesse le primarie, era chiaro che la stabilità intesa come valore assoluto era una cornice vuota, senz’alcun dipinto dentro. Giaceva a terra, come il potere dei vecchi regimi che i rivoluzionari raccattano facilmente. Il nuovo segretario del Pd gli ha assestato il colpo di grazia, domenica a Firenze («ai teorici dell’inciucio diciamo: v’è andata male») e in un baleno il mondo di ieri è apparso ingrigito, obsoleto.

È così anche se Renzi non sarà che schiuma delle cose. Già da tempo in Europa son fallite le strategie anticrisi che come fondamento hanno scelto la sospensione della democrazia e dell’idea stessa di conflitto, sociale o politico. Anziché spegnersi, la crisi s’è acuita. Perfino il Wall Street Journal,in nome dei mercati, ha scritto il 24 novembre che i toni sempre bassi, i compromessi tra oligarchi, la pacificazione come dogma, prefigurano la «stabilità dei cimiteri». Continueranno a prefigurarla se Renzi non oserà un’autentica resa dei conti con Letta, e si consumerà in trattative, rinvii presto sgualciti, fiducie concesse avaramente, ma pur sempre concesse.Il suo tempo è brevissimo, perché enorme è la forza d’inerzia dei vecchi regimi, anche se incartapecoriti. Possiedono l’energia del corpo che non cessa di gorgogliare anche dopo morto, come nell’Illustre Estinto di Pirandello: sottosegretari deputati e curiosi s’affollano nella camera ardente, e nel silenzio quasi sacro della scena può accadere l’inatteso: «Un improvviso borboglìo lugubre, squacquerato, nel ventre del cadavere, che intronò e atterrì tutti gli astanti. Che era stato? —Digestio post mortem,— sospirò, dignitosamente in latino, uno di essi, ch’era medico, appena poté rimettersi un po’ di fiato in corpo».

Il che vuol dire: nel ventre d’Italia tutto è ancora possibile, anche il borboglìo squacquerato che inneggia alla stabilità degli inciuci, e questo per il semplice fatto che il Paese vi sta rannicchiato da anni. Dante avrebbe detto, con i suoi magnifici neologismi: s’è in-ventrato nella stabilità oligarchica. Con linguaggio più moderno l’ultimo rapporto del Censis — presentato il 6 dicembre — usa metafore identiche. Narra un’Italia imbozzolata, senza «sale alchemico»: «sciapa, infelice », cerca riparo nella Reinfetazione.Reinfetazione è quando ti rifai feto: torni nella pancia, il cordone ombelicale ti tiene al guinzaglio.Finché non nasci, resti stabile tu e anche chi comanda: «Con annunci drammatici, decreti salvifici, complicate manovre, la classe dirigente si presenta come l’unica legittima titolare della gestione della crisi» (Censis). È il dispositivo, al tempo stesso disciplinatore e rasserenante, che il pacificatore Napolitano coltiva da anni.

Nella reinfetazione,scrive De Rita nel suo 47° rapporto, tutti i soggetti politici, i rappresentanti, le forze sociali, vivono «in stato di sospensione nelle responsabilità del Presidente della Repubblica». Vogliose, ma incapaci di «tornare a respirare».Questo teorema avvizzisce d’un colpo: in realtà la reinfetazione«riduce la liberazione delle energie vitali. Implica il sottrarsi alle proprie responsabilità dei soggetti». Usa crisi e paure per salvaguardare il potere di poche, chiuse cerchie. Riduce e demonizza il conflitto, quando dovrebbe invece considerarlo sale della rinascita. Tradisce le speranze in Rodotà o Prodi. È probabile che gran parte degli elettori, votando Renzi e anche Civati (82%, insieme), più che un nuovo capopopolo abbia cercato precisamente questo: uscire dal ventre, chiudere l’era fetale, e fatale, cara a Napolitano. Riabilitare il conflitto, a cominciare da quello contro le larghe, strette, o larvate intese. Non sappiamo fino a che punto Renzi ne sia conscio. Se non lo è non gli basterà la veduta lunga consigliata da Fabrizio Barca. Entro un anno sarà sfinito.
Il rapporto del Censis non è stato il solo segno precursore. Non avremmo i sussulti odierni, senza la scossa di 5 Stelle. E anche la Corte costituzionale ci ha messo del suo, il 4 dicembre, abolendo un Porcellum carezzato per 8 anni dalla classe politica. È vero, nel gennaio2012 proprio la Consulta bocciò il referendum col ritorno al Mattarellum chiesto da 1,2 milioni di cittadini. È innegabile, essa ci restituisce il grado zero della democrazia (la proporzionale). Ma mette i politici davanti alla verità e dice: volutamente avete preferito regole che hanno promosso i rappresentanti dei partiti anziché dei cittadini, allargando la faglia tra voi e loro, e questo lo dichiariamo illegittimo. Se non vi date da fare, avrete il proporzionale come nella Repubblica di Weimar. Una iattura? La questione è controversa, tra gli storici tedeschi: se Hitler vinse, sostengono molti, la colpa non fu solo del proporzionale.
Zagrebelsky ricorda giustamente che lo Stato continua,dopo la sentenza. Ma Stato non è sinonimo di governo. E il Parlamento attuale, pur non annullato, di fatto è «delegittimato dal punto di vista democratico»(Repubblica 8-12). Si è delegittimato lasciando che il gong, ogni volta, venisse suonato da fuori: da outsider come Grillo, i magistrati della Consulta, gli elettori dei referendum. Anche qui il Censis parla chiaro: la salvezza, anche economica, verrà dagli esterni. Dagli immigrati che si fanno imprenditori con più lena degli italiani, dalle donne che fondano aziende, persino dai giovani che fuggono all’estero e si riveleranno una risorsa. Tutti costoro, e tutti i movimenti cittadini di protesta, sono come un esercito straniero di liberazione: pronti ad approdare in Italia come le truppe anglo-americane in Sicilia e Calabria nel luglio e settembre ’43.È uno sbarco generalizzato - Grillo ha dato il via, poi son venute la Consulta, le parole del Censis, le euforiche primarie - e per forza il popolo è «allo sbando», come l’8 settembre ’43 all’armistizio.

Colpisce che l’espressione - Paese sbandato - appaia in tanti commenti di questi giorni. L’aveva usata Elena Aga Rossi, nel bel libro sulla fine della guerra (Una nazione allo sbando,2003). Furono anni di viltà, doppiezze furbesche: così affini agli anni presenti. Il governo Badoglio ordinò la resa agli alleati, ma senza rompere l’inciucio col socio nazista. Il giorno dopo fuggì col Re consegnando ai tedeschi due terzi dell’Italia, Roma compresa. Seguì una reazione disperata del Paese, caotica. I più tornarono a casa senza battersi, e però la patria non morì: il 9 settembre nacque il Comitato di liberazione, e furono tanti i militari che rifiutando la doppiezza combatterono Hitler. Tuttavia il caos poteva esser risparmiato, se la rottura con il fascismo fosse stata netta. Se non fosse perdurata l’abitudine a restare nel suo ventre, a reinfetarsi.Ne nacquero film come Tutti a casa di Luigi Comencini, o ancor più Vita difficile di Dino Risi. Il protagonista di quest’ultimo - impersonato da Sordi - senza fine narra il nostro sperare e disperare, credere e sbandare. I suoi urli d’ira sulla litoranea di Viareggio, contro il Paese che ha tradito lui e la Resistenza, esplodono tali e quali in questi anni, questi giorni.

Il voto a Renzi è l’ultimo della serie.È una vittoria che molti (Renzi stesso, magari) vorrebbero usare a piacimento: per emarginare e silenziare le grida di cui è figlia. Troppo presto forse Enrico Letta ha detto: «Non è un voto contro di noi. È un argine contro il populismo e la deriva distruttiva, estremista» di Grillo, più che di Berlusconi. Il senso del voto è in mano a Renzi. Non mente quando dice: l’urlo dei Vday è altro dalle primarie. Ma nella sostanza è simile quel che muove ambedue: la rabbia, la sete di rigenerazione. Ignorarlo è rischioso, non solo per lui.È rischioso anche per l’Europa, bisognosa di scosse simili. Non per scaricarla (lo Stato del tutto sovrano è imbroglio) ma per edificare, questo sì, una vera Comunità.
«Il paradosso è questo: mentre diventa diverso da sé (rinnovandosi), il Pd diventa sempre più uguale agli altri, al pensiero unico corrente, alle ricette note, ai discorsi già sentiti, ed alcuni, addirittura, sentiti in Europa venti e più anni orsono – e in larga parte falliti».

AR alessandro robecchi, blog, 9 dicembre 2013

Dunque, i dati prima di tutto. Un’affluenza altissima alle Primarie del Pd e un’affermazione mastodontica del nuovo segretario, Matteo Renzi. Due dati che non consentono scorciatoie né letture furbette: al netto delle piccole e grandi polemiche (il voto degli esterni, la grandinata di presenza televisive, la simpatia dei grandi media, anche non di sinistra), Matteo Renzi si prende il Pd con l’appoggio massiccio della base, con una procedura democratica e con pieno merito rispetto agli sfidanti. Gli elettori del Pd, in larga maggioranza gli danno fiducia e gli chiedono di guidare un partito che non ne azzecca una da anni, appesantito da un apparato vecchio e inefficiente (e non parlo solo dei soliti nome-parafulmine, i D’Alema, le Bindi, eccetera, ma del corpaccione del partito, specie nelle realtà locali) e indeciso a tutto.Dunque, ora non resta che vedere.

Non mancano molti elementi di “antipatia” (categoria non solo politica, a dire il vero), che non varrebbe nemmeno la pena di elencare. L’aplomb da “rampanti” di una parte della sua base militante, per dirne una. Le lodi al decisionismo che ricordano un po’ il craxismo dei primi tempi, la capacità mimetica di un leader che si è saputo vendere come nuovo e viene dritto dritto dallo stesso apparato che dice di voler abbattere. Eccetera. Aggiungo: un sapiente capitalizzare le energie delle generazioni deideologizzate, quelle cresciute nell’era del berlusconismo, quelle convinte che siano state le generazioni prima a rovinargli la vita e non invece la vittoria senza se e senza ma delle politiche liberiste. E’ questo – solo questo, ma non è poco – il “berlusconismo” renziano che a volte si evoca. Oltre, s’intende, ad intendere "nuovo" come sinonimo di "migliore", che non è vero quasi mai, specie se non è nemmeno tanto nuovo.

Insomma, un bel mix che andrà controllato passo passo. Basti dire che c’è oggi tra chi esulta per Matteo Renzi, gente che sperò nella riforma Fornero (uh, vedrai… i precari… lasciamola lavorare…), che sorrise nei primi tempi di Monti, eccetera eccetera. Inesperienze da perdonare. Così come sono comprensibili, anche se non ammirevoli, certe esagerazioni nei toni: un’aspirante classe dirigente che sgomita e aspira ad occupare i posti evacuati dai “rottamati”, a piazzarsi, a far parte dell’onda perché in cima all’onda c’è odore di incarichi e di carriera.

Tutto normale, già visto in altre circostanze e in qualche modo comprensibile. Aggiungerei una componente che ha, nel successo di Renzi (il renzismo verrà), un peso notevole, ed è l’irresistibile fascino della vittoria. Dopo tante delusioni, e pareggi stiratissimi, e sconfitte a iosa, vincere non pare vero, tanto che il “vincere perché”, il “vincere per far cosa” sembra passare in secondo piano. Il leader del primo partito della sinistra italiana è costretto a urlare nel suo discorso di insediamento che “la sinistra non finisce”, come a convincere e a convincersi, bizzarra puntualizzazione, parole dal sen fuggite. E si capisce anche perché, visto che i discorsi sulla tattica impongono ora di verificare lo scontro tra un capo del governo (Letta, Pd, area cattolica, Margerita, Dc) e un capo del partito (Renzi, Pd, area cattolica, Margherita, Dc).

Ma la strategia è quello che più interessa. Le politiche di Renzi sono state largamente annunciate. A cominciare dall’ideologo finanziere Davide Serra, per proseguire con l’appoggio di vecchi apparati di lungo e lunghissimo corso, per contiuare, come corollario, anche alcune gaffes o fughe in avanti (o indietro?) di certi suoi ultras (Blair, la Thatcher…).

Insomma, il disegno non è ancora chiarissimo, ma si vede in filigrana la trama portante: un liberismo con la faccia più buona, la sostituzione di una lotta generazionale alla lotta di classe (ne ho scritto su Micromega), l’assenza quasi totale di discorsi sulla redistribuzione del reddito e, invece, un ditino alzato verso quelle componenti della società (i pensionati, per dirne una) considerate una zavorra. La meritocrazia senza uguaglianza, cioè di fatto la promessa alle classi dirigenti attuali che a dirigere saranno ancora e sempre loro. Niente di nuovo, a parte i toni, i colori e il linguaggio (non nuovissimo nemmeno quello, peraltro, come dimostra l’ampio uso di stilemi pubblicitari e a volte addirittura veri e propri spot commerciali di grandi marche).

Dunque il paradosso è questo: mentre diventa diverso da sé (rinnovandosi), il Pd diventa sempre più uguale agli altri, al pensiero unico corrente, alle ricette note, ai discorsi già sentiti, ed alcuni, addirittura, sentiti in Europa venti e più anni orsono – e in larga parte falliti (penso alle ricette blairiane, per esempio).

Del discorso primo e sostanziale che un partito di sinistra dovrebbe fare (vorrei dire: sarà prima o poi costretto a fare) non c’è traccia. Non c’è traccia di un programma che punti a stringere un po’ quella forbice tra lavoro e rendita, tra produzione e finanza, tra poveri e ricchi, che in questi ultimi trent’anni si è invece costantemente allargata. Meno poveri e meno ricchi, più garanzie e meno privilegi. Di più per tanti e meno per pochi. Di questo non c’è traccia. Nemmeno un minimo sindacale. La Cgil, per dire (che ha un milione di difetti, si sa, e si vedano gli ultimi discorsi autocritici di Landini sulla necessità di dare rappresentanza ai milioni di lavoratori precari che non ce l’hanno) è stata attaccata nella campagna di Renzi più della classe imprenditoriale e delle politiche che l’hanno favorita , più dei grossi finanzieri (che lo guardano con simpatia, tra l’altro); più dei poteri forti (che ne seguono attentamente le mosse, spesso applaudendo).

Sul palco di Renzi abbiamo visto imprenditori (tanti), finanzieri, “affluenti” delle professioni, ma lavoratori zero. I piccoli passi nel senso di una maggiore giustizia sociale sono vaghi (persino il finanziere Serra parla di aumentare le tasse sulle rendite finanziarie, ma non dice come, né di quanto, né quando, mentre sulle pensioni su fa assai preciso: da lì si aspetta di prendere 10, 15 miliardi, un’enormità, e non parla di pensioni d’oro).Ora, dunque, buon lavoro.

E ora, che (cazzo) fare? Per chi da una sinistra moderna spera altre cose è un momento al tempo stesso delicato ed entusiasmante. Delicato perché alternative in giro (sul mercato della politica, dicono quelli che hanno del mercato una venerazione) non se ne vedono. Sel non pare in grado, la paccottiglia nostalgica dà la nausea e le idee forti non si vedono. Entusiasmante, perché cade finalmente (era ora!) il grande equivoco: la sudditanza emotiva, affettiva, politica al Pd come naturale erede del vecchio (anche odioso, anche ingombrante, anche paternalista) Pci non ha più motivo di esistere. Non c’è più. Il Pd è oggi un partito del grande gioco, si misura con enormi differenze dal populismo furbetto e aggressivo di Grillo e dal partito personale e personalissimo di un Berlusconi agli ultimi atti della sua farsa. Ma il disegno grande, quello complessivo, quello che può cambiare la società italiana, non pare così diverso: mercato, mercato e mercato. Ci penserà lui, come ci ha pensato (e si è visto) negli ultimi decenni.

Dunque, liberi tutti. E trovo ci sia in questo davvero un senso di liberazione, il sospiro di chi si libera di un fardello. Il poco e pochissimo collante ideologico che ancora legava certi “liberi di sinistra” al Pd non c’è più, nemmeno in lontananza.

Si dirà che non è bello essere senza rappresentanza politica, e c’è del vero. Ma tocca anche dire che quando mai c’è stata? Nel Pd dei D’Alema e dei Veltroni? Non direi. Dunque, cade soltanto un equivoco. Sarà bello vedere l’entusiasmo di oggi alla prova dei fatti, sarà istruttivo controllare tra uno, due, tre anni, se chi sta male oggi starà meglio nelle sue condizioni materiali e immateriali. Siccome non c’è una ricetta che prometta di arginare le forze liberiste del mercato (e anzi si promette loro un ritrovato efficientismo), la risposta c’è già. Ma vederla sarà diverso che intuirlo.

Dunque, auguri a chi ci crede e ci ha creduto, sarà piacevole riparlarne quando le parole lasceranno il posto ai fatti, quando saranno finiti gli spot e comincerà il programma. Quando la nuova classe dirigente che ora grida alla vecchia “tutti a casa” (con toni assai grillini, in qualche caso) avrà preso il comando. Mi siedo qui, guardo lo spettacolo, aspetto, osservo il filmino della vittoria odierna, che somiglia al seme di una vecchia, e ben nota, sconfitta.

«Quella che arri­verà sta­notte nel Pd sarà un’altra "ultima svolta". Con Renzi nei panni del "nuo­vi­sta", Cuperlo in quelli del rinnovatore-conservatore, Civati che tenta la via di una sini­stra di con­fine con i movi­menti: no Tav, via Mae­stra, acqua pub­blica». Il manifesto, 8 dicembre 2013

È esa­ge­rato farsi tor­nare in mente la Bolo­gnina, l’ultimo con­gresso del Pci, le lacrime di Occhetto, il «resto nel gorgo» di Ingrao e la scis­sione di Cos­sutta. Ma quella che arri­verà sta­notte nel Pd sarà un’altra «ultima svolta». Con Renzi nei panni del «nuo­vi­sta», Cuperlo in quelli del rinnovatore-conservatore, Civati che tenta la via di una sini­stra di con­fine con i movi­menti: no Tav, via Mae­stra, acqua pub­blica. Sta­volta non ci saranno scis­sioni, ma non si può esclu­dere il rischio di quella che D’Alema defi­ni­sce una «scis­sione silen­ziosa di militanti».

Qual­che set­ti­mana fa del resto Mario Tronti — pre­sti­gioso padre dell’operaismo, pre­si­dente del Crs e oggi sena­tore del Pd — ha par­lato di que­sto pas­sag­gio come l’eventualità per il Pd «dell’uscita defi­ni­tiva dalla sto­ria della sini­stra ita­liana» e del rischio della sini­stra di diven­tare «una mino­ranza nean­che poli­tica, ma intel­let­tuale». Già un anno fa, alle pri­ma­rie di coa­li­zione, Euge­nio Scal­fari aveva par­lato della «muta­zione antro­po­lo­gica» del Pd nel caso avesse vinto Renzi. Quest’anno, di fronte alla quasi-certezza che Renzi sia segre­ta­rio parla di un’« avven­tura» e «in poli­tica le avven­ture pos­sono gio­vare all’avventuriero ma quasi mai al paese che rappresentano».

È inu­tile girarci intorno, lo scon­tro di oggi - da una parte Renzi, dall’altra Cuperlo e Civati - non è sulle prime pagine dell’agenda che il nuovo segre­ta­rio si tro­verà davanti - lar­ghe intese, legge elet­to­rale, ricon­trat­ta­zione dei vin­coli euro­pei - sulle quali i tre si equi­val­gono nella sostanza, tranne Civati che rom­pe­rebbe le lar­ghe intese subito. Il nodo di oggi il cam­bio di natura di un Pd che fin qui ha guar­dato al cen­tro ma si è tro­vato «a svol­gere, quasi di mala­vo­glia, una fun­zione di sini­stra», per dirla con un for­mi­da­bile sag­gio di Wal­ter Tocci, schie­rato con Civati (Sulle orme del gam­bero, Don­zelli), un vade­me­cum per la let­tura del fal­li­mento della gene­ra­zione che oggi passa la mano. E del par­tito che lascia in ere­dità, «da un lato lea­der media­tici e dall’altro nota­bili ter­ri­to­riali sono tenuti insieme da una sorta di patto di fran­chi­sing, in cui i primi si occu­pano della cura del brand e i secondi dell’organizzazione del con­senso». Il «par­tito in fran­chi­sing» lo abbiamo visto ai con­gressi, segnati male dal voto aperto fino all’ultimo (voluto da Renzi), dalle lotte fra clan fino alle incur­sioni dei pm, com’è suc­cesso a Salerno.

Cuperlo nella sua sto­ria ha avuto qual­che incer­tezza sulla bontà delle pri­ma­rie. Renzi ha costruito un muro di ghiac­cio con la Cgil, che pre­sta l’attuale segre­ta­rio e cen­ti­naia di qua­dri al Pd, per non par­lare dei voti (la segre­ta­ria dello Spi Carla Can­tone è can­di­data nelle liste di Cuperlo). Cose che hanno a che vedere appunto con la natura del Pd. Non a caso ieri Cuperlo ha ripe­tuto che «è in gioco l’autonomia della sini­stra». Un con­cetto che ieri a Empoli si è incar­nato in una scena all’ultimo comi­zio di Renzi. È com­parsa una vec­chia ban­diera del Pci, por­tata in piazza da un mili­tante set­tan­tot­tenne che l’aveva rice­vuta dal padre par­ti­giano. L’ha voluta por­gere - senza rega­larla - a Renzi, gio­vane ram­pollo della genea­lo­gia cen­tri­sta ita­liana. Il gesto aveva tutta la forza di un pas­sag­gio sim­bo­lico. Senza un affi­da­mento defi­ni­tivo, però.

Fuori dai sim­boli, le dif­fe­renze fra i tre sono chiare: tutti chie­dono la ricon­trat­ta­zione dei vin­coli euro­pei. Cuperlo ha un clas­sico pro­filo labu­ri­sta (piano straor­di­na­rio per l’occupazione), Renzi ha rispol­ve­rato i libri del giu­sla­vo­ri­sta Pie­tro Ichino, già suo sug­ge­ri­tore (poi pas­sato con Monti), con­tratto unico a tutele pro­gres­sive e can­cel­la­zione defi­ni­tiva dell’art.18. Cuperlo e Civati sono con­tro le pri­va­tiz­za­zioni, Renzi è più ’laico’ (il suo eco­no­mi­sta di rife­ri­mento Gut­geld pro­pone la pri­va­tiz­za­zione di Rai e Poste). Civati e Renzi sono con­tro il Tav, Cuperlo ha fra i suoi i soste­ni­tori delle tri­velle in Val di Susa. Sui diritti, Civatiè a favore dei matri­moni gay e per le ado­zioni, Cuperloè fermo ai matri­moni civili e Renzi alla «civil partnership».

Quanto all’idea dipar­tito, Renzi pre­para il suo Pd di «cir­coli, ammi­ni­stra­tori,par­la­men­tari». Civati chiede refe­ren­dum con gli iscritti, Cuperlocon­te­sta l’idea di un par­tito degli ammi­ni­stra­tori e che nondistin­gua fra se e il governo. Dif­fe­renze pro­fonde, ben al di là delleliti di con­do­mi­nio emerse in que­sti giorni. Che potreb­bero tro­vare unamag­gio­ranza, ma non una sin­tesi, visto che una fetta di mili­tantiper­ce­pi­sce il pro­ba­bile segre­ta­rio Renzi come uno dei tanti lea­der dipas­sag­gio che ha avuto il Pd, in attesa della corsa per Palazzo Chigi. Il chericon­se­gne­rebbe il Pd all’insostenibile pro­filo irre­so­luto di oggi,e di sempre.

L'ignoranza della legge non è una scusa per i legislatori imcompetenti. Soprattutto se la legge ignorata è la Costituzione. Vadano a casa e ci facciano sostituirle con una lrggr costituzionalmente legittima. La Repubblica

La sentenza della Corte? «Ci riporta alla Prima Repubblica». Il Parlamento attuale? «È delegittimato, ma non annullato». I 148 deputati ancora non convalidati? «Possono sperare». Grillo? «A lui si è data materia, ma non ha ragione ». C’è stato uno schiaffo della Consulta al Parlamento? «Sì, ma forse finirà tutto lì».

Il professor Gustavo Zagrebelsky con Repubblica riflette sulla sentenza della Corte sul Porcellum e sulle sue conseguenze. Grande caos. Grillo impazza. Vuole fuori dalla Camera i 148 “abusivi”. In realtà, vuol far fuori tutti. La sentenza della Corte cancella la storia d’Italia a partire dal 2005, quando è stato votato il Porcellum?

«Un’osservazione sul “grande caos”. Ci si è cacciati in un vicolo cieco, del quale è difficile vedere l’uscita. Possiamo prevedere che ci sguazzeranno a lungo politici, politicanti, giuristi, azzeccagarbugli. Cerco di non far la fine di questi ultimi. Siamo forse alla fine di un ciclo. Se una lezione siamo ancora in tempo a trarre per l’avvenire è che ogni piccolo cedimento quotidiano, alla fine produce una valanga che ci travolge tutti».

A proposito di Grillo, che impressione le fa l’attacco alla collega dell’Unità Maria Novella Oppo? «Le liste di proscrizione ci riportano a un periodo buio. Una cosa è la polemica sulle idee, che può essere accanitissima, un’altra l’attacco alle persone. Le idee si discutono e si contestano, le persone si rispettano ».
Torniamo ai travolgimenti, la sentenza travolge o no 7 anni di storia costituzionale? «No. Per il principio di continuità dello Stato: lo Stato è un ente necessario. L’imperativo fondamentale è la sua sopravvivenza, che è la condizione per non cadere nell’anomia e nel caos, nella guerra di tutti contro tutti. Perfino nei cambi di regime c’è continuità, ad esempio dal fascismo alla Repubblica, o dallo zarismo al comunismo. Il fatto stesso di essere costretti a ricordare questo estremo principio significa che siamo ormai sull’orlo del baratro».

Dunque, questa sentenza non è retroattiva?

«Se si applicano le regole comuni, e se la Corte non si inventa una qualche diavoleria, la situazione in termini giuridici è la seguente: dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza (non del comunicato, ma delle motivazioni, ndr.) la legge dichiarata incostituzionale non può più essere applicata».

Quindi esiste o non esiste il problema dei 148 eletti col premio di maggioranza? Propaganda politica a parte, vanno convalidati prima, vanno sostituiti, possono stare tranquilli?

«Su questo i giuristi scateneranno la loro fantasia e possiamo aspettarci le tesi più diverse e contraddittorie. Si può ragionare così: l’elezione di febbraio è un fatto concluso, sotto la vigenza di quella legge. Quindi la giunta per le Elezioni non dovrebbe fare altro che trarre le conclusioni di quella elezione. Portando a termine la vicenda elettorale, secondo la legge vigente allora. Oppure si potrebbe dire che la giunta, nel convalidare o non convalidare, non può applicare la legge vecchia e deve tener conto di quella nuova. Questa seconda soluzione porterebbe al caos, anche perché i deputati non convalidati non potrebbero essere sostituiti da altri tra quelli non eletti, perché anche la loro elezione sarebbe illegittima. Ma è proprio qui che dovrebbe valere il principio della continuità dello Stato».

Nel suo comunicato la Corte dice che il Parlamento può fare la legge elettorale che crede. Secondo lei, oltre ogni ragionevole dubbio, sta parlando di “questo” Parlamento?

«Vede bene... a che punto siamo giunti: in nome della salus rei pubblicae ci dobbiamo tenere istituzioni parlamentari che solo un cieco non vedrebbe quanto la attuale vicenda abbia delegittimato dal punto di vista democratico. L’incostituzionalità della legge elettorale del 2005 deriva dalla violazione dei principi che riguardano il diritto di voto. Se anche nulla accadrà giuridicamente, i nostri governanti si rendano conto che molto deve cambiare politicamente. Quello che è accaduto rischia di essere un colpo mortale alla credibilità delle istituzioni».

Ma lei che giudizio dà della sentenza della Consulta? «È forse la decisione più legislativa che la Corte abbia mai pronunciato. Apparentemente elimina pezzi della legge, in realtà vale come ribaltamento della sua logica perché sostituisce un sistema maggioritario con uno puramente proporzionale. A mia memoria, un’operazione del genere non era mai stata tentata».
Sarebbe stato meglio azzerare tutto e ripristinare il Mattarellum? La corte avrebbe potuto farlo... «Avrebbe potuto ammettere il referendum di due anni fa facendo “rivivere” il Mattarellum. A maggior ragione avrebbe potuto farlo in questa occasione. Ma la storia non si fa con i se».

Che succede adesso? Se, per assurdo, si votasse domani, con che legge si voterebbe? E cosa succederebbe dopo l’uscita delle motivazioni? «Domani, si voterebbe con la vecchia legge. Dopo le motivazioni con una proporzionale ».

E come la mettiamo con il voto di preferenza? La Corte dice che il cittadino elettore ne deve esprimere almeno una. Questo non annulla tutti gli eletti attuali che non sono stati frutto di una preferenza e che succederà per quelli futuri?

«Per la prima parte, se vale, vale il principio di continuità. Per il futuro è onere della Corte rispondere nella sua sentenza. La legge che ne risulta deve essere di per sé funzionante e spetta a lei dirci come ».

Lei ha criticato il Porcellum tante volte. Adesso, se dovesse dare un consiglio ai nostri legislatori, cosa gli direbbe? Di lasciarlo com’è dopo la “cura” della Corte, di integrarlo, di buttarlo via tutto?

«È una domanda strettamente politica perché le opzioni possibili sono le più diverse ».

Sì, ovviamente. Ma cosa sarebbe più utile per il nostro Paese?

«Come le opzioni, anche le opinioni sono le più diverse. Si possono lasciare le cose così come staranno dopo la sentenza della Corte. Da giurista, dico che il proporzionale è un sistema altrettanto degno quanto il maggioritario, quindi non è affatto obbligatorio che il Parlamento intervenga per modificare la legge in questa direzione. Se si vuole farlo, lo si può fare. Ogni sistema elettorale, purché non pasticciato, ha la sua dignità, i suoi pregi e i suoi difetti. Ma qui dovrebbero entrare valutazioni di politica istituzionale. Purtroppo non c’è materia come quella elettorale in cui prevalgono gli interessi immediati dei partiti politici. Da questo punto di vista, non vedo per quali ragioni si dovrebbe trovare oggi quell’accordo che per tanto tempo non è stato possibile raggiungere».

La sua previsione?

«Che ci terremo la proporzionale e si continuerà a dire che la si vuol cambiare per guadagnare tempo e lasciare le cose come stanno».

L’Italia non può pensare nemmeno lontanamente di uscire dall’Europa, ossia dall’Unione Europea. Noi crediamo in una Europa unita, però non nella forma attuale. Dobbiamo continuare a credere in un’Europa dove l’immensa maggioranza di quelli che non contano niente possano contare qualcosa.

La Repubblica, 6 dicembre 2013

Il Commissario europeo per gli affari economici, Olli Rehn, ci dedica da tempo rimproveri giornalieri circa il fatto che dovremmo fare di più e meglio in tema di riforme del lavoro e delle pensioni, di privatizzazioni, rispetto del patto fiscale e, perfino, organizzazione della giustizia. Il suo atteggiamento censorio è fuori luogo e ci sono molte ragioni per sostenerlo. Prima di tutto Rehn non è stato eletto e non ci rappresenta in nessun modo. Questo fatto lo percepiamo di per sé come una grave deviazione dal pensiero politico dei padri fondatori dell’Europa, tra i quali spiccano alcuni italiani (Altiero Spinelli e Alcide de Gasperi).

Nei documenti che avviarono la discussione per costituire una Europa unita si parlava di organi di legislazione e di controllo fondati sulla partecipazione diretta dei cittadini e non di rappresentanze decise dagli Stati membri. Sappiamo bene che non soltanto Rehn, ma tutti i dirigenti della Comunità europea, e con essi gli organi della Bce, del Fmi e della Corte di Giustizia europea non sono stati eletti, ma nominati. In secondo luogo le politiche di austerità che da qualche anno sono richieste dai suoi messaggi al nostro governo appaiono ormai manifestamente sbagliate, persino agli occhi di vari economisti ortodossi che pure le avevano suggerite anni fa. Appaiono sbagliate per almeno due ragioni. Anzitutto sul piano dei risultati. Si veda la sua lettera inviata al nostro ministro dell’Economia nel novembre 2011, con allegato questionario che sebbene in forma interrogativa esigeva perentoriamente di introdurre drastiche riforme in tema di pensioni, mercato del lavoro, imposte dirette e indirette, pubblica amministrazione. Quelle riforme, subito attuate dal nostro ossequioso governo, hanno avuto — come è successo in altri paesi in cui la CE era intervenuta — risultati semplicemente disastrosi.

I disoccupati sono cresciuti di almeno un milione; i precari sono arrivati a quattro milioni; la disoccupazione tra i giovani supera il quaranta per cento; il Pil ha perso altri punti rispetto al 2007 (siamo a meno 6); l’industria ha perso un quarto del suo potenziale produttivo. Per di più il debito pubblico che nel 2009 era del 106 per cento sul Pil, quest’anno è balzato al 134 per cento.

Dal punto di vista delle istituzioni la Ue sembra davvero un edificio sgangherato. Avrebbe quindi bisogno di meccanismi istituzionali di compensazione degli squilibri di produttività, del valore reale dell’euro nei diversi paesi, del costo del lavoro, di legislazione fiscale. E di una banca centrale che fosse una vera banca centrale, in luogo di essere un istituto finanziario che si preoccupa per statuto solo della stabilità dei prezzi. La Comunità europea, invece, si limita a insistere sull’emanazione senza tregua di nuove regole. Siamo al punto che mentre l’intero edificio della Ue rischia di crollare, Bruxelles si preoccupa soltanto delle finestre che non chiudono bene.

Le politiche sbagliate, nel nostro paese come in altri, hanno causato grandi sofferenze a molte persone. Sarebbe normale che chi ha contribuito a causarle fosse chiamato a risponderne. Un ministro che compie errori analoghi prima o poi perde il posto (forse non in Italia, ma da altre parti sì). Un macchinista viene citato in giudizio. Un funzionario di banca viene licenziato. Ma grazie al modo in cui i trattati Ue sono stati redatti, Rehn e i suoi colleghi, a fronte dei gravi errori commessi, non rischiano nemmeno un modesto taglio alla tredicesima.

L’Italia non può pensare nemmeno lontanamente di uscire dall’Europa, ossia dall’Unione Europea. Noi crediamo in una Europa unita, però non nella forma attuale. Dobbiamo continuare a credere in un’Europa dove l’immensa maggioranza di quelli che non contano niente possano contare qualcosa.

Servirebbe un trattato Ue ampiamente riveduto che invece di assomigliare, come quello attuale, all’ordinamento di una società per azioni, dove la parola “concorrenza” ricorre una trentina di volte e “democrazia” non più di quattro o cinque, si configuri come un genuino documento politico.

Un documento nel quale trovino ampio spazio le idee dei padri fondatori in tema di uguaglianza; di giustizia non riservata solo a chi può pagare gli avvocati più costosi; di libertà intesa come un bene comune non accessibile soltanto a privilegiati; di partecipazione dei cittadini alle decisioni; di stato sociale; di cooperazione sociale ed economica tra gli stati membri, in luogo del

mors tua vita mea

in cui si compendia la cosiddetta competitività.

L’articolo 10 del trattato Ue stabilisce che “ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione. Le decisioni sono prese nella maniera il più possibile aperta e vicina ai cittadini”. Ma i dettati economici e sociali che Rehn e i suoi colleghi della Ce, della Bce e del Fmi ci trasmettono ogni giorno da anni mostrano come nelle politiche reali perseguite dalla Ue l’articolo 10 sia totalmente disatteso. Ci piacerebbe, tra tutti gli articoli del trattato che parlano solo di mercato, che almeno questo fosse applicato. In attesa che una nuova “Carta” ci sappia restituire, a noi semplici cittadini europei, non una democrazia conforme al mercato (un concetto purtroppo condiviso da molti governi europei a cui la Ue va bene così com’è), ma un mercato conforme alla democrazia.

Pesanti accuse del Censis sulla classe politica italiana nel rapporto annuale.

Il Fatto quotidiano, 6 dicembre 2013

Fare leva sulle difficoltà degli italiani per salvare le poltrone. E’ l’accusa rivolta dal rapporto annuale del Censis alla “classe dirigente italiana”, che “tende a ricercare la sua legittimazione nell’impegno a dare stabilità al sistema, magari partendo da annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre che hanno la sola motivazione e il solo effetto di far restare essa stessa la sola titolare della gestione della crisi“. Negli ultimi mesi si sono imposte così nella dialettica sociale e politica “tre tematiche che sembrano onnipotenti nello spiegare la situazione del Paese: la prima è che l’Italia è sull’orlo dell’abisso, la seconda è che i pericoli maggiori derivano dal grave stato di instabilità e la terza è che non abbiamo una classe dirigente adeguata a evitare il pericolo del baratro”. Criticità che sono confermate all’interno del dossier sulla situazione sociale del Paese, con dati allarmanti su tutti i fronti, dalla disoccupazione record ai consumi tornati indietro di dieci anni.

Italiani infelici, mentre la furbizia è generalizzata
“Non si illumina una realtà sociale con questi atteggiamenti ed è impossibile pensare a un cambiamento”, precisa il rapporto, perché “la classe dirigente non può e non vuole uscire dalla implicita ma ambigua scelta di drammatizzare la crisi per gestirla: una tentazione che peraltro vale per tutti, politici come amministratori pubblici, banchieri come opinionisti”. Un atteggiamento che porta a uno “sconforto continuato” tra gli italiani, con conseguenze dirette sulla società, sempre più “sciapa“, dove circola “troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro ed evasione fiscale” e dove si diventa “malcontenti e infelici”, sotto il peso di un “inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali“.

Il rapporto del Centro studi investimenti sociali, guidato da Giuseppe De Rita, dedica un passaggio alla “coazione alla stabilità”, che “non può certamente coprire lo sconforto collettivo di fronte al permanere dei pericoli di catastrofe” e che ha portato in un momento critico “a una tale paura del conflitto da sfociare in una ‘reinfetazione’ delle forze politiche nelle responsabilità del presidente della Repubblica”, anche se “non si è avuta adeguata coscienza” che una mossa di questo tipo fosse “un grande incubatore di disturbi essenziali e di sistema”. Di fronte a uno scenario simile, in altri periodi sarebbe scattato l’orgoglio dei cittadini che si ponevano come “soggetto di autonoma responsabilità collettiva”, ma questa volta “sempre più in ombra appare la società civile che verosimilmente ha consumato il suo orgoglio in illusorie ambizioni di una superiorità morale utilizzata come strumento politico”.

L’avvitamento della politica nella spirale della crisi
Il rapporto dedica un paragrafo all’”avvitamento della politica“, sottolineando che “negli ultimi 12 mesi i governi che si sono avvicendati hanno emanato oltre 660 provvedimenti di attuazione delle varie leggi di riforma, mentre la quota di quelli effettivamente adottati è stata pari a circa un terzo”. Il dossier arriva così alla conclusione che “il paradosso della moltiplicazione degli interventi di riforma, cui però si associa la percezione di un’insufficienza di tali provvedimenti rispetto alla spirale drammatica della crisi economica e sociale, è il segnale di un’incompiuta riconfigurazione della scala e della dimensione d’intervento fra i diversi livelli di governo”. Non sorprende quindi che “gli italiani sono sicuramente molto meno attivi della media dei cittadini europei per quanto concerne il coinvolgimento nei processi decisionali pubblici”, al punto che “più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica”.

Le spese delle famiglie tornano indietro di dieci anni
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Nel 2013 le spese delle famiglie sono tornate indietro di oltre dieci anni. I tagli sono evidenti soprattutto al supermercato: il 48,6% dei cittadini dichiara di avere mutato intenzionalmente le abitudini alimentari cercando di risparmiare. E il paragone con gli altri Paesi europei è evidente: il 76% degli italiani dà la caccia alle promozioni, contro il 43% della media europea. Risparmi anche sulla benzina. Oltre il 53% ha ridotto gli spostamenti in auto e moto in 24 mesi e il 68% ha dato un taglio a cinema e svago. Ma i risparmi non bastano ad affrontare neanche le spese più essenziali. Per il 72,8% delle famiglie un’improvvisa malattia sarebbe infatti un grave problema da finanziare, mentre il pagamento delle bollette mette in difficoltà oltre un italiano su cinque.

Il rapporto del Censis conferma che il nodo principale resta l’occupazione. “Il 2013 si chiude con la sensazione di una dilagante incertezza sul futuro del lavoro in Italia”, spiega il dossier, sottolineando che un quarto degli occupati è convinto che nei primi mesi del 2014 la propria condizione lavorativa peggiorerà, il 14,3% prevede un taglio della busta paga e un altro 14% teme di perdere il posto. Il trend, d’altronde, è già evidente. Sono quasi 6 milioni gli occupati che nell’ultimo anno si sono trovati a fare i conti con “situazioni di precarietà lavorativa“, un’area di disagio che rappresenta oltre un quarto della forza lavoro. A farne le spese sono soprattutto i più giovani, ma anche la fascia compresa tra i 35 e i 44 anni.

Boom di imprenditori immigrati, mentre gli italiani si fanno da parte
Per uscire dalla spirale della crisi il Censis invita a riconsiderare il ruolo degli immigrati, definendoli “un volano”. “Di fronte alle difficoltà di trovare un lavoro dipendente, costretti a lavorare per restare in Italia, gli stranieri si assumono il rischio di aprire nuove imprese“, spiega il rapporto, sottolineando che gli imprenditori italiani sono calati del 4,4% dal 2009 al 2012, mentre i titolari d’impresa nati all’estero sono aumentati del 16,5 per cento. Sempre per quanto riguarda gli immigrati c’è poi un dato che invece preoccupa il Censis. Gli extracomunitari di età superiore ai 64 anni sono aumentati del 91% negli ultimi otto anni. Ora rappresentano solo lo 0,7% del totale degli anziani che vivono all’interno del Paese, ma lo scenario è destinato a cambiare: nel 2020 saranno il 4,4% del totale e nel 2040 saranno oltre un milione e mezzo, portando una “significativa richiesta di servizi sociali“.

Cambia quindi la situazione degli immigrati, mentre i problemi del Paese restano i soliti. A partire dall’istruzione. “L’affanno che gli atenei mostrano nei confronti internazionali è la conseguenza di un sistema universitario per certi versi troppo provinciale”, avverte il dossier. “Le università italiane stentano quindi a collocarsi all’interno delle reti internazionali di ricerca”, poiché la “prevalente connotazione locale” pesa sulla “reputazione internazionale”. Non c’è da stupirsi, quindi, se i dati sull’istruzione continuano a preoccupare, con il “21,7% della popolazione italiana oltre i 15 anni che ancora oggi possiede al massimo la licenza elementare”.

Nel frattempo la “fuga” degli italiani all’estero non conosce soste: nell’ultimo decennio il numero di chi ha trasferito la residenza è più che raddoppiato, da 50mila a 106mila. Ma è stato soprattutto nel 2012 che l’incremento ha visto un boom: +28,8% tra il 2011 e il 2012. Sono soprattutto giovani: il 54,1% ha meno di 35 anni.

I problemi irrisolti: dal Meridione ai grandi progetti urbani
Un problema che rimane “irrisolto” è anche quello del Meridione. “Forte è l’impressione che da ogni programma politico la questione meridionale sia stata di fatto derubricata”, avverte il report. I dati parlano chiaro: l’incidenza del Pil del Mezzogiorno su quello nazionale è scesa di un punto percentuale dal 2007 al 2012, così come i dati occupazionali restano sensibilmente inferiori al Sud, dove sono a rischio povertà 39 famiglie su 100 a fronte di una media nazionale del 24,6 per cento. Al punto che “l’Italia appare tra i sistemi dell’Eurozona quello in cui sono più rilevanti le disuguaglianze territoriali“. Resta poi il problema del “lungo travaglio dei grandi progetti urbani“, poiché “la difficoltà di portare a realizzare alcune grandi operazioni progettate ormai in un’altra fase storica” costituisce “senza dubbio” una componente importante della fase critica che stiamo attraversando.

Non bisogna infine trascurare il vizio delle mazzette. “l’indice di Transparency International, che misura la percezione della corruzione nel settore pubblico e politico, posiziona l’Italia al 72esimo posto nel mondo su 147 Paesi”, ricorda il rapporto, “e se guardiamo all’Europa l’Italia è in fondo alla classifica, davanti alle sole Bulgaria e Grecia”. Con un impatto “devastante” anche sull’economia. Secondo la Banca mondiale nel mondo ogni anno vengono infatti pagati più di mille miliardi di dollari in tangenti, una cifra che è di 50-60 miliardi per quanto riguarda l’Italia.

«La Corte ha rifiutato d’essere normalizzata, d’essere risucchiata nelle logica delle convenienze e dei rinvii, d’essere considerata parte di un sistema che sfugge regolarmente le proprie responsabilità. Ha così dato un buon esempio di autonomia, mostrando come ogni istituzione possa e debba fare correttamente la sua parte».

La Repubblica, 6 dicembre 2013
SONO francamente incomprensibili alcuni attacchi alla Corte costituzionale, la cui unica colpa è quella di aver toccato un nervo da troppo tempo scoperto di una politica che ha perduto la dimensione istituzionale. La Corte ha rifiutato d’essere normalizzata, d’essere risucchiata nelle logica delle convenienze e dei rinvii, d’essere considerata parte di un sistema che sfugge regolarmente le proprie responsabilità. Ha così dato un buon esempio di autonomia, mostrando come ogni istituzione possa e debba fare correttamente la sua parte.

La vera decisione “politica” sarebbe stata quella di piegarsi alle richieste di ritardare la sentenza, per dare al Parlamento altro tempo oltre quello che già gli era stato generosamente concesso. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che la Corte aveva segnalato fin dal 2008 (e con ben tre sentenze) il fatto che la legge elettorale conteneva un vizio di incostituzionalità. Lo aveva fatto con un linguaggio prudente, ma assolutamente chiaro: “l’impossibilità di dare un giudizio anticipato di legittimità costituzionale non esime questa Corte dal dovere di segnalare al Parlamento l’esigenza di considerare con attenzione gli aspetti problematici di una legislazione che non subordina l’attribuzione di un premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti e di seggi”. Queste parole erano state scritte dall’attuale presidente della Corte, Gaetano Silvestri, che all’indomani del suo insediamento, nel settembre di quest’anno, aveva voluto ribadire una volta di più la necessità di un intervento parlamentare che ci liberasse da una legge costituzionalmente viziata. Lo aveva fatto anche il suo predecessore, Franco Gallo.

La sentenza appena pronunciata, dunque, era assolutamente prevedibile, e nessuno nel mondo politico può dire d’esser stato colto di sorpresa. Ma proprio questa sua prevedibilità rende ancora più pesante la responsabilità di un Parlamento che è andato avanti per cinque anni come se nulla fosse, portandoci addirittura a nuove elezioni con una legge incostituzionale proprio nel suo punto più significativo, quello della composizione della rappresentanza, radicalmente distorta da un abnorme premio di maggioranza. Il punto chiave è proprio questo. In una democrazia rappresentativa vi è una soglia oltre la quale la manipolazione delle regole finisce con il vanificare il valore del voto espresso da ciascun elettore. E probabilmente è anche questa la preoccupazione che ha indotto la Corte a dichiarare illegittime le norme che, escludendo la possibilità di esprimere preferenze, privano i cittadini della possibilità concreta di scegliere i loro rappresentanti.

La legge Calderoli ci aveva trascinato fuori dalla logica rappresentativa, e ci aveva abbandonato in una sorta di vuoto dove la logica costituzionale era stata sostituita dal potere assoluto di oligarchie ristrettissime (venti, trenta persone) di scegliere arbitrariamente 945 parlamentari. E tutto questo era avvenuto all’insegna della pura “governabilità”, parola che aveva cancellato, con una evidente e grave forzatura, il riferimento alla rappresentanza.

Bisognerà attendere le motivazioni della sentenza per valutarne tutte le conseguenze. Ma l’attenzione oggi deve essere rivolta proprio a questi temi generali, senza introdurre argomentazioni improprie come quelle riguardanti il fatto che la Corte ci riporterebbe alla Prima Repubblica. Qual è il senso di questa critica? La Corte avrebbe dovuto evitare di fare il proprio dovere? O doveva addirittura manipolare la legge vigente in modo da renderla gradita a quanti oggi immaginano questa o quella riforma elettorale alla quale affidare equilibri e dinamiche politiche? Davvero in questo modo la Corte si sarebbe sostituita impropriamente alla politica, alla quale invece è stata restituita la responsabilità della decisione. Questo è un segno ulteriore del rigore con il quale la Corte si è mossa, eliminando il vizio rappresentato dal premio di maggioranza, senza cedere ad alcuna tentazione di

interventi manipolativi. I critici dovrebbero essere consapevoli di tutto questo.

Nell’esercitare il potere di approvare una nuova legge elettorale, al quale fa esplicito riferimento il comunicato ufficiale della Corte, il Parlamento dovrà tuttavia tenere ben fermi alcuni vincoli che già emergono con grande nettezza. Il primo riguarda il fatto che, legiferando nella materia elettorale, il Parlamento si era finora sostanzialmente ritenuto immune dal controllo di costituzionalità, per la difficoltà tecnica di far arrivare queste leggi davanti alla Corte. Così che proprio le norme fondative della rappresentanza politica avevano finito con il costituire una categoria a sé, autoreferenziale, una zona franca, un territorio dove nessuno poteva penetrare, con effetti negativi per la generalità dei cittadini. Ora questo non sarà più possibile, e la legalità costituzionale potrà ovunque essere ricostruita. Il secondo

tipo di vincolo riguarda l’illegittimità costituzionale di meccanismi che alterano il rapporto tra voti e seggi attraverso forzature maggioritarie. In questo modo è possibile restaurare quella democrazia perduta negli anni tristi del Porcellum.

La sentenza non travolge formalmente il Parlamento. Ma sicuramente incide, e profondamente, sulla sua legittimazione politica. Ferma la possibilità di approvare una nuova legge elettorale, comunque rispettosa del contesto ridefinito dalla Corte, davvero non sembra possibile che un Parlamento con un così profondo vizio d’origine possa mettere le mani sulla Costituzione. Fino a ieri questa poteva essere considerata una presa di posizione polemica di qualche politico o studioso. Ora è un dato istituzionale, ineludibile per tutti.

La Costituzione è tornata, e dobbiamo tenerne conto.

Due commenti sulla sentenza della Consulta, che tenta ancora una volta a raddrizzare le gambe ai cani (con rispetto parlando). Articoli di Piero Ignazi e di Andrea Fabozzi, rispettivamente su

la Repubblica e il manifesto, 5 dicembre 2013

La Repubblica
UNO SCHIAFFO AGLI STREGONI
di Piero Ignazi

UNA delle peggiori leggi elettorali delle democrazie occidentali, distillata dall’ingegno dei quattro saggi di Lorenzago, guidati dal dentista leghista Roberto Calderoli, è stata stracciata dalla Corte Costituzionale. Va finalmente al macero il sistema elettorale con il quale siamo stati condotti alle urne per ben tre elezioni, dal 2006 adoggi.Un sistema che era stato studiato per evitare che il vincitore annunciato alle elezioni del 2006, il centro sinistra guidato da Romano Prodi, potesse insediarsi a Palazzo Chigi forte di una maggioranza omogenea tra Camera e Senato. Inventando un premio di maggioranza che distorce in maniera clamorosa il principio di rappresentanza, differenziando la sua applicazione tra Camera e Senato e adottando le liste bloccate, gli apprendisti stregoni del centrodestra hanno portato al voto gli italiani in condizioni di “minorità democratica”.

Questa menomazione dei diritti deriva, come sottolinea la Corte, dal premio di maggioranza e dalle liste bloccate che vengono quindi considerate gravi violazioni della possibilità di determinare, attraverso il principio di “un uomo un voto”, la volontà dei cittadini.

La Corte Costituzionale ancora una volta interviene a supplenza della politica, come da ormai lunga tradizione (basti ricordare le sentenze della Corte guidata da Giuseppe Branca negli anni Settanta che aprirono la breccia alla stagione dei diritti civili). Il suo schiaffo all’inerzia parlamentare è sonoro. In nove mesi non è stato partorito nulla e i partiti si sono spesi inballon d’essaieproposte alambiccate. Ora non ci sono più scuse, e non c’è nemmeno più tempo. Le Camere devono produrread horasuna nuova legge che dovrà necessariamente tener conto delle indicazioni fornite dalla sentenza di ieri.

Anche perché il rischio è che si vada a votare con la proporzionale. Un rischio da evitare assolutamente.Il compito di elaborare dovrà impegnare a tempi serrati tutto il Parlamento. Però questa sentenza “delegittima” gli esponenti del centrodestra di allora, ideatori del Porcellum, da Bossi a Casini, da Berlusconi allo stesso Alfano: tutti corresponsabili di questomonstrum premiale, disomogeneo e bloccato.

Spetta agli oppositori del Porcellum, peraltro troppo acquiescenti e troppo a lungo silenziosi, proporre una nuova legge elettorale dato che Lega e Forza Italia (ma anche il Nuovo Centro Destra) hanno oggettivamente perso voce in capitolo.Il Pd diventa il master del gioco. E allora deve fare piazza pulita di formulette e giochini al ribasso e puntare alla chiarezza e alla semplicità. Gli elettori hanno diritto di poter decidere tra alternative chiare e ben visibili,sapendo bene qual è il reale peso del loro voto. Soprattutto devono vedere in faccia il loro eletto. A questo punto al Pd non rimane che ritornare alla sua opzione originaria, sempre recitata come una giaculatoria salvifica e poi sacrificata sull’altare della responsabilità e della concertazione: il doppio turno.Quello adottato in Francia per le elezioni legislative rappresenta un modello sperimentato che ha consentito nel tempo la riduzione della frammentazione, la formazione di coalizioni alternative e la governabilità. Poi si possono studiare anche altre varianti, purché gli obiettivi rimangano gli stessi. Infatti il doppio turno riporta nelle mani dei cittadini la scelta del loro eletto, e consente di riallacciare un rapporto fiduciario tra cittadini e rappresentanti, finora segregato dalle liste bloccate.L’antipolitica montante di questi ultimi anni è stata alimentata anche dalla distanza, anzi dalla barriera, che separava elettori ed eletti. Ridurre questa separazione, mantenendo le condizioni per il bipolarismo, è un imperativo. E per rispondervi non è rimasta che questa strada.

Il manifesto
UNA SENTENZA RI-COSTITUENTE
di Andrea Fabozzi

Un’ora prima che la Corte Costituzionale demolisse la legge elettorale facendo quello che tutti i partiti (anche gli autori del misfatto) dicono di voler fare da sette anni, una commissione di senatori giurava di aver trovato la strada per cambiare finalmente il Porcellum. O almeno fare una proposta. Subito, quasi subito, in due mesi al massimo. A tale livello di grottesco era arrivata la politica, foresta pietrificata sulla quale si è abbattuta l’ennesima supplenza giudiziaria. Ancora una volta obbligata e stavolta benvenuta. La Consulta, che non a caso è rimasta sotto attacco per tutto il ventennio berlusconiano assieme agli altri poteri di garanzia, ha rimesso la chiesa al centro del villaggio. La rappresentanza nel cuore del sistema elettorale. I cittadini elettori alla base della legittimazione dei rappresentanti. Non è detto che basterà per avere un buon sistema elettorale. Ma potrà solo essere migliore.

La Corte Costituzionale, evitando ogni tentazione di rinvio, ha dichiarato l’illegittimità del premio di maggioranza senza limiti, quello che dal 2005 consente a chiunque vinca le elezioni, anche solo di un voto e con qualsiasi percentuale, di conquistare 340 deputati, la maggioranza assoluta. Anche la legge Acerbo approvata durante il fascismo prevedeva una soglia minima di voti per aver diritto al premio. Ma la Corte è andata oltre accogliendo anche la seconda questione di costituzionalità che gli era arrivata dalla Cassazione e bocciando il meccanismo delle liste bloccate. L’ispirazione è la stessa: restituire ai cittadini il potere di scegliere i propri rappresentanti. Bisognerà leggere le motivazioni che arriveranno tra qualche settimana, ma il principio sembra quello già anticipato in precedenti (ma non cogenti) pronunce della Consulta: la rappresentatività può essere sacrificata alla governabilità solo nel rispetto della ragionevolezza. Nel caso del Porcellum il sacrificio è (era) enorme e il vantaggio nullo, come prova il fatto che i vincitori per governare si sono dovuti alleare con gli sconfitti nel governo delle larghe intese.

Quella di ieri è una sentenza certamente politica, quasi costituente o meglio «ri-costituente» visto che mette in crisi il totem del premio di maggioranza attorno al quale ha ballato tutta la «seconda Repubblica». Lo si capisce benissimo non solo dalle conseguenze, ma anche dalle parole condiscendenti che i giudici hanno voluto rivolgere ai politici. «Resta fermo — si legge in conclusione del

comunicato all’esito della camera di consiglio — che il parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali». Una precisazione, quasi una scusa, non richiesta e che però dà il senso della consapevolezza dei giudici costituzionali di addentrarsi in un terreno delicato. Del resto non erano poche le pressioni perché le questioni fossero semplicemente dichiarate non accoglibili, e neppure i precedenti. Invece dopo sei anni durante i quali si sono trovati contro in tribunale tre diversi governi (non quello in carica, non a caso) hanno avuto ragione l’avvocato Bozzi e quei 27 cittadini milanesi che hanno combattuto il Porcellum con le armi del diritto. Ma se la Consulta non avesse ammesso le questioni di costituzionalità accolte e rilanciate dalla Cassazione avrebbe finito col mettere al riparo ogni legge elettorale, anche la peggiore (e la legge Calderoli è la peggiore), dalla verifica di legittimità.

In attesa delle motivazioni, la legge elettorale che viene fuori dalla sentenza di ieri è un proporzionale puro come ai tempi della Costituente (e allora sì che un parlamento eletto con questo sistema avrebbe una legittimazione in più per fare le riforme). È il sistema più in grado di garantire la rappresentatività delle forze politiche, ma anche quello che nel quadro politico attuale aprirebbe le porte alla stabilizzazione delle larghe intese. E al tramonto di quel bipolarismo che appare esaurito nei fatti e solo a fatica può essere creato in vitro dalle leggi elettorali.

Vent’anni dopo può forse chiudersi il ciclo dominato dalla religione del maggioritario. Ed è significativo che le parole di rispetto per il parlamento usate ieri dalla Consulta siano le stesse che erano contenute nelle sentenza che nel 1993 ammise il referendum sul sistema di voto del senato, aprendo la porta al Mattarellum e alla riforma istituzionale per via elettorale. Anche allora, come ieri, si volle riconoscere alle camere l’ovvio diritto di scrivere una nuova legge elettorale.
Ma il parlamento di oggi si è messo fuori gioco da solo. E potremmo persino assistere allo spettacolo dei deputati che corrono a farsi convalidare la nomina prima che arrivino le motivazioni della sentenza di ieri. Una preoccupazione scomposta e probabilmente superflua, ma il giusto compendio di un’istituzione mortificata.

L’Unità,3 dicembre 2013

Con l’espulsione di Berlusconi dal Parlamento e l’uscita dal governodell’ala estremista del suo vecchio partito si sono aperti nuovi scenari. Lasinistra ne dovrebbe approfittare per riflettere sulla sua esperienza digoverno con un po’ più di respiro. L’emergenza non è finita, dalla crisi nonsiamo ancora usciti, e ciò per tante ragioni. Molte riguardano la necessità diquel «cambio di passo» di cui parla Enrico Letta. Però io vorrei attirarel’attenzione sul fatto che nodo politico principale, in ultima istanza, è ilpesante interrogativo sul dove va l’Italia se il cammino dell’Europa resta cosìincerto.
Siamo seri, il cuore delle riforme è questo. È il rapporto tra un grandePaese come il nostro che non riesce a riformare il complesso del suo«organismo» (il nesso tra Stato e società) e una moneta unica che continua anon avere un sovrano, e che quindi non dipende da un potere collettivo,condiviso, bensì da vincoli in larga parte imposte dalle scelte del Paese piùforte. Il problema, a questo punto, non è più soltanto economico. Io credo siamatura una riflessione sulle forme del potere in un mondo globalizzato. È quiche si gioca la partita della democrazia. Pongo questo problema alla vigiliadelle primarie del Pd. Lo faccio per l’enorme responsabilità che pesa su questopartito e, nella convinzione che chiunque sia il vincitore molto dipende dallacoscienza di sé e del ruolo che è in grado di esprimere quell’insieme dibisogni, di culture e di speranze che mi ostino a chiamare la «sinistra», e chenon accetterà mai di farsi emarginare, essendo un fattore costitutivo del Pd.So che la parola «sinistra» turba alcuni nostri amici. Ma forse non si è capitoche con essa non si intende evocare storie e attori del passato. Al contrario,si cerca di misurarsi con le nuove dimensioni dei problemi e, quindi, dellapolitica.
L’avanzata delle destre in tutta Europa non è leggibile (solo) concategorie sociologiche (i ricchi, i poveri, gli emarginati, i nuovi ceti) né(solo) con le tradizionali categorie politiche. Per capire cosa sta succedendodobbiamo partire dalla nuova dimensione, ormai mondiale, dei processi politicie sociali essendo questi essenzialmente questi che ridefiniscono i termini deiconflitti e dei nuovi bisogni. È giusto condannare quella falsa risposta che èil «populismo». Ma la sinistra rischia davvero di ridursi a una èliteminoritaria, se non capisce che dietro il «populismo», cioè dietro l’appellodiretto e demagogico al popolo in contrapposizione al sistema politico eistituzionale democratico (comprese le leggi e i tribunali, nel caso delladestra italiana) non c’è solo il vecchio qualunquismo. C’è il fatto che ilcentro di gravità del potere risiede sempre meno nelle istituzionirappresentative. È anche a causa di ciò che si è creata quella profondafrattura tra dirigenti e diretti che quasi ovunque si manifesta. Il popoloemerso dalla vecchia società non capisce più chi lo rappresenta, sente lavacuità della vecchia politica e finisce col condannare tutto e tutti. Possiamodisprezzare i demagoghi che ne approfittano, ma la sinistra riformista sbagliase non capisce che dietro tutto questo c’è la necessità di ridefinire il sensoe la ragione effettiva del riformismo nel mondo globale.
Dobbiamo uscire da una grande contraddizione. Siamo e restiamo convinti cheuna prospettiva di sviluppo dell’Italia non è pensabile se finiamo ai marginidell’Europa. Ma, al tempo stesso, non possiamo accettare i diktatdell’oligarchia dominante. Perché è vero che non è la signora Merkel ma sono inostri sprechi e le nostre rendite più o meno malavitose che hanno accumulatol’enorme debito pubblico. Ma il rischio che il debito italiano diventiinsostenibile resta, e tale resterà fino a quando ci viene imposta una linea dipolitica economica in cui il «rigore» si mangia le risorse per lo sviluppo e incui i profitti finanziari si formano a scapito dell’occupazione, dei servizisociali e degli investimenti produttivi.
Come ne usciamo? La mia tesi è che l’alternativa, in realtà, non è cosìsecca: o mangi questa minestra o salti dalla finestra; o esci dall’Europa o cistai dentro in questo modo. Bisogna mettere in campo la grande politica, unanuova soggettività. Non bastano i «numeri» dei centri studi, ci vogliono nuovealleanze, politiche e sociali. Sarebbe semplicemente stupido non tener contodei numeri che riflettono la realtà e i suoi vincoli. Ma cos’è la realtà? Non ècosì banale e così ovvio ricordare che la realtà siamo anche noi, non sono soloi fattori esterni a noi. La realtà sono anche gli italiani: la volontà e ipensieri di sessanta milioni di persone, un quinto degli europei. La realtà nonsono solo i pochi che contano.
Mi chiedo, a questo proposito, noi oggi inItalia chi rappresentiamo, e chi, di fatto, abbiamo rappresentato in tuttiquesti anni di governo. Ce la poniamo questa domanda? Dopotutto i popoli esistonoe alla fin fine ciò che decide è il loro modo di pensare, di schierarsi, diunirsi o di dividersi. Non si capisce perché la loro voce non può diventarequella di una nuova domanda di democrazia invece di quella della protestaeversiva, senza sbocco. Forse pesa anche il fatto che il nostro linguaggioè troppo simile a quello felpato dei ministri. Certo è che la costruzioneeuropea non regge se consiste solo in un interminabile negoziato quasiincomprensibile e riservato a vertici ristretti. Non è realistico. Non èpossibile misurarsi con la complessità dei problemi e dei poteri di un insiemevariegato di Stati se non si mette in campo la forza di un grande e chiarodisegno politico alternativo, sia pure a medio termine, cioè con l’idea di unaEuropa diversa e messa sulle gambe di un movimento reale; democratico e disinistra.
Io inviterei a riflettere bene sulla grande questione che sta venendoall’ordine del giorno. La questione della democrazia e della sovranità in uncontesto sovranazionale. E inviterei tutti noi gli anziani ma anche i giovani asmetterla di pensare la politica solo nell’ambito del breve periodo. Governarenon significa solo stare al governo, significa anche mettere in campo un grandedisegno politico capace di parlare a trecento milioni di persone, tra le piùcolte e le più ricche del mondo, le quali non possono stare alla mercè di unpugno di eurocrati, se non peggio. Che prospettive ha la sinistra se nonaffronta questo problema?
Vorrei concludere con le parole di un autentico statista europeo, l’excancelliere Helmut Schimt. «Ci troviamo di fronte a uno scenario in cui alcunemigliaia di speculatori finanziari e qualche agenzia di rating americane hannopreso in ostaggio i governi europei». E così concludeva: «Se gli europeiavranno la forza e il coraggio di imporre una drastica regolamentazione delmercato finanziario potremmo pensare di diventare una zona essenziale perstabilizzare il mondo. Se falliremo, il peso dell’Europa continuerà a diminuiree il mondo si avvarrà avvierà verso un duopolio Washington-Pechino».

«il manifesto, 3 dicembre 2013

«Abbiamo il debito pubblico più pesante d'Europa. E' la nostra debolezza, ma paradossalmente la nostra forza. I default della Grecia o del Portogallo o perfino della Spagna , semmai dovessero verificarsi...sarebbero certamente sgradevoli ma sopportabili dall'Europa. Un default dell'Italia no, sconquasserebbe l'Europa intera con conseguenze negative non trascurabili perfino in Usa: il sistema bancario europeo (e non soltanto) ne sarebbe devastato...è questa la spada di Brenno che Letta può gettare sul tavolo della discussione con gli altri membri dell'Unione a cominciare dalla Germania».

Queste parole di Eugenio Scalfari (Repubblica, 1-12) segnano, se prese sul serio, una svolta radicale nella linea politica di questo giornale che dal giorno della "salita" al governo prima di Monti e poi di Letta è stato, al livello delle opinioni che contano, il principale puntello di quei due governi e dei relativi presidenti del consiglio, che hanno fatto dell'accettazione incondizionata dei diktat economico-finanziari di Germania, Bce e Unione europea la ragione della loro esistenza e legittimazione. Massacrando la popolazione che avrebbero dovuto guidare fuori dalla crisi, rivelandosi tanto ridicoli quanto inetti (con il dramma degli esodati il primo, la farsa dell'Imu il secondo...).

Ora Scalfari ci spiega una cosa che già sa uno studente del primo anno di economia o un bancario a inizio carriera: quando il debito è consistente, il coltello dalla parte del manico (la «spada di Brenno») ce l'ha il debitore e non il creditore. A condizione di saperlo/a e volerlo/a usare. Con l'Europa la posta in gioco è alta: si tratta di rinegoziare radicalmente i trattati dell'Unione e gli accordi della zona euro per riformare la Bce (e farne un prestatore di ultima istanza), azzerare il fiscal compact (eliminando l'obbligo di far rientrare il debito pubblico al 60% del Pil in vent'anni), il pareggio di bilancio (e qui la spada di Brenno andrebbe rivolta contro i parlamentari italiani che l'hanno votato), la mano libera alla finanza (vietando il traffico di derivati di ogni genere non sostenuti da adeguati sottostanti), la "libera" circolazione dei capitali (con una vera tassa sulle transazioni finanziarie), rivedere l'unione bancaria (introducendo il vincolo della separazione tra banca commerciale e banca d'affari) e sostituire alla moneta "unica" una moneta "comune" (con flessibilità interna tra i vari Stati); e molte altre cose ancora. Altrimenti, kaputt.

Una minaccia che all'Italia costerebbe ben poco, perché è comunque il destino a cui le politiche, in successione, di Tremonti, di Monti e di Letta - cioè della Bce e, per suo tramite, dell'alta finanza internazionale - l'hanno condannata da tempo; come hanno fatto con la Grecia e con gli altri nostri compagni di sventura: Spagna, Portogallo, Bulgaria, oggi; e domani Francia, Ungheria e via andando.

Se la "svolta" di Scalfari segnala che alla fine anche un elementare buon senso si vede ormai costretto a prospettare soluzioni radicali, fino a oggi esecrate come la più irresponsabile delle ipotesi - «pericoloso anche solo nominarla»: così, per esempio, Felice Roberto Pizzuti - è però altamente improbabile che qualcuno dia seguito a quel suo consiglio: Letta non ha la tempra né la cultura per farlo; non ha una forza politica che lo sorregga in un passo di questa portata, avendo abbracciato - su indicazione di Napolitano - la strada del galleggiamento giorno per giorno; ma soprattutto non ha a disposizione un "piano B": un'ipotesi per affrontare i problemi nel caso che le controparti rispondano picche al suo ricatto (perché di ricatto si tratta, anche se sarebbe una mossa sacrosanta).

Sulla tempra e la cultura di Letta (come su quelle di Monti, un "tecnico" portato in palma di mano da mezza Europa - la sua - e da tutto l'establishment italiano, e rivelatosi poi, insieme al cagnolino Empy, una mezza calzetta), sorvoliamo. Sulla sua forza politica, anche: i partiti delle larghe intese - ora ridotte a intese molto strette - non sanno nemmeno come si chiameranno domani, né se esisteranno ancora. Quanto al "piano B", non si tratta di bazzecole, o di misure che possano essere affidate a un consulente esterno qualsiasi, come un Bondi o un Cottarelli sulla spending review; o a ministri che non sono stati nemmeno capaci di calcolare il reddito medio dei deputati europei, avendo alle spalle tutto il personale tecnico dell'Istat, come Giovannini; o l'impatto dell'abolizione dell'Imu, come Saccomanni, che pure ha diretto per anni, chissà come, la Banca d'Italia.

Il "piano B" è una strategia che richiede studi, confronti, verifiche e soprattutto consenso: tutte cose che l'attuale compagine di governo non ha la minima idea di che cosa siano. Ma che mancano anche a chi ricorre alla formula semplicistica e demagogica di "uscire dall'euro", quasi che si potesse tornare alle cose di una volta: quando bastava svalutare la moneta per recuperare competitività e mercati di esportazione. Quella convinzione rappresenta in realtà la quintessenza del liberismo: l'idea che sia il mercato a regolare l'economia e che una variazione dei prezzi internazionali basti per rilanciare lo sviluppo. Un "piano B" invece non può che essere una strategia. Una strategia che deve poter funzionare tanto nel caso, assai improbabile, che l'Italia venga esclusa o si autoescluda dall'euro, o in quello, assai più verosimile, che l'euro si dissolva - nel caos di una serie di default incontrollati - per le sue contraddizioni, quanto nel caso che tutte o le principali richieste su una rinegoziazione dei trattati venissero accolte: perché il riordino del sistema finanziario che detta legge in Europa e nel mondo è sì necessario, ma di sicuro non sufficiente.

Al suo fianco ci vuole un programma per rimettere in piedi l'economia reale, cioè reddito, occupazione e servizi sociali; che non vuol dire rilanciare l'araba fenice della "crescita", ma valorizzare le competenze umane e il patrimonio di impianti, di know-how e di risorse materiali e ambientali che il trend economico sta mandando in malora a livello locale, nazionale, europeo e mondiale.

Vaste programme, avrebbe detto de Gaulle. Si dia il caso, però, che quello a cui né Letta, né Monti, né Tremonti, né Scalfari non hanno mai pensato, sia invece da anni - anzi, da decenni - al centro della riflessione, delle buone pratiche, e dei dibattiti che coinvolgono milioni di donne e di uomini riuniti in comitati, movimenti, associazioni, forum e reti di varia natura e impegnati, anche se nessuno ne parla, in lotte, anche durissime e a volte mortali, in tutti gli angoli del pianeta, Italia compresa.

E' un programma di radicale conversione ecologica dell'apparato economico e degli stili di vita (ovvero dei modelli di consumo) teso a salvare il pianeta dalla catastrofe ambientale e dai mutamenti climatici in corso (ciò di cui, ancora una volta, si è fatto beffe il vertice Cop19, riunito a Varsavia dal 23 al 29 novembre con i delegati di tutti i "governi Letta" del mondo) e, al tempo stesso, teso a valorizzare al massimo le risorse umane, materiali, ambientali e tecnologiche di cui l'umanità può disporre per rendere meno iniqua la distribuzione del potere e della ricchezza e più accettabile la condizione umana per tutti.

Non si tratta di utopie astratte, ma di progetti concreti, alla portata di tutti, perché imperniati su una partecipazione attiva (da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni) e sulla ri-terrritorializzazione dei processi economici: cioè sul riavvicinamento sia fisico che organizzativo tra produzione e consumo; tutto l'opposto dell'accentramento politico e finanziario in corso e della globalizzazione dei mercati che mette in concorrenza miliardi di individui, di cui si sono nutriti tanto lo "sviluppo" degli ultimi decenni, quanto le politiche di risanamento che hanno ridotto, oggi la Grecia e domani l'Italia, a una condizione peggiore di quella di un paese devastato dalla guerra.E' un programma che non può essere perseguito a livello nazionale, perché è al tempo stesso locale - le cose vanno fatte innanzitutto là dove tutti possono partecipare alla loro realizzazione - e sovranazionale: i problemi di fondo sono quasi ovunque gli stessi, come uguali per tutti sono i poteri da abbattere o da riformare.

Per questo la partita fondamentale per tutti noi si giocherà nel prossimo futuro a livello europeo: proprio come dice Scalfari. Ma a giocarla dobbiamo essere noi tutti, trovando la strada per far sentire la nostra voce; e non Letta e i suoi pari, che non ne saranno mai capaci.

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