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La lettera di

Piero Fassino

Caro Padellaro,

non mi viene in mente nessun Paese democratico, né di quelli governati dai conservatori, né di quelli governati dai progressisti, dove un capo del governo - nel nostro caso direttamente proprietario di un impero mediatico e finanziario - occupi il suo tempo ad attaccare platealmente una testata che non può controllare, né condizionare direttamente o indirettamente.

È un comportamento molto grave che smentisce una volta per tutte la falsa immagine di un leader politico come Berlusconi che vuole presentarsi agli italiani come capo dei moderati. Non c'è nulla di moderato in questo attacco a l'Unità, né nel tentativo disperato di aggredire, offendere, demolire gli avversari politici e gli organi della stampa libera.

Tenete duro, il più grande partito dell'opposizione - e del Paese - è con voi; sono con voi decine di migliaia di cittadini che leggono l'Unità e i tantissimi italiani che trovano incredibile l'aggressione a cui la vostra testata è sottoposta. Continuate nell'opera preziosa di far vivere ogni giorno un'informazione libera e seria.

Nessuna intimidazione vi potrà fermare nel fare onestamente il vostro lavoro e il 9 aprile, ne sono convinto, gli italiani manderanno in archivio Berlusconi e le sue pulsioni autoritarie e populiste.

Buon lavoro.

Perché ci odia

di Antonio Padellaro

Caro Fassino,

Grazie per le tue parole di solidarietà, forti come quelle che in questi giorni abbiamo letto in centinaia di messaggi dei nostri lettori e nelle espressioni dei tanti amici che, domenica, ci aiuteranno a distribuire Unità, con lo stesso slancio ideale che ha segnato i momenti più importanti della storia di questa gloriosa testata. È vero: in nessun Paese democratico c’è un premier che passa il tempo ad aggredire un giornale dell’opposizione. In Francia uno scandalo del genere sarebbe impensabile, ci ha detto Marcelle Padovani, corrispondente in Italia del Nouvel Observateur. Uguale sconcertato stupore abbiamo colto nei giudizi di tante altre firme della stampa internazionale che non sanno più come spiegare questa inarrestabile progressione di minacce e di insulti da parte del presidente del Consiglio.

Due domande ci pongono i nostri colleghi stranieri. Perché Berlusconi odia l’Unità?. Ma, soprattutto: come mai tanto silenzio? Nei loro Paesi, infatti, sarebbe sufficiente un moto d’insofferenza nei confronti di un qualunque giornalista da parte di Chirac o di Blair o di Zapatero o della Merkel per scatenare l’insurrezione di tutti gli altri media. Qui da noi, invece, davanti alle offese e alle intimidazioni che da cinque anni, costantemente, Berlusconi rivolge contro l’Unità (come raccontiamo nel dossier allegato al giornale di domani), praticamente, non si sente volare una mosca. Noi pensiamo che i due interrogativi siano in qualche modo intrecciati poiché scaturiscono da quella grande, devastante, permanente anomalia che è il conflitto di interessi del premier. Che come scrivi, oltre a essere il proprietario dell’impero mediatico e finanziario che sappiamo, controlla, direttamente o indirettamente un’altra larga fetta dell’informazione scritta e radiotelevisiva.

Sia chiaro: nessuno mette in discussione onestà e qualità professionali dei giornalisti che lavorano in quelle importanti testate. Ma, francamente, ci si può aspettare che quei bravi colleghi si mettano a criticare per le accuse rovesciate sull’Unità il loro datore di lavoro? Che è anche il capo del governo. E uno degli uomini più ricchi del pianeta. Dunque, è già molto se dell’argomento evitano di fare cenno.

C’è poi un altro atteggiamento che chiameremo dell’indifferenza voluta e che ritroviamo, spesso, tra le righe di quella libera stampa fortunatamente ancora forte e diffusa nel nostro Paese. È una regola non scritta che suggerisce di non dare troppo spago all’Unità, che resta pur sempre un giornale concorrente. E se Berlusconi insulta il nostro giornale, lo si oscura. Ce lo ha gentilmente spiegato un’autorevole intervistatrice quando le abbiamo domandato come mai davanti all’incredibile accusa del cosiddetto cavaliere di avere noi (comunisti) in qualche modo sobillato un attentato contro la sua persona, lei non abbia replicato alcunché. Risposta testuale: sarebbe stato di scarso interesse per il telespettatori consentirgli di ricominciare daccapo, sempre sul prediletto terreno del «comunismo».

Beh, questa del premier censurato per non fargli dire troppe bestialità la dice lunga sulla credibilità del personaggio; ma anche sul ruolo, qualche volta improprio, giocato dall’informazione. Che in un qualsiasi altro Paese si porrebbe piuttosto il problema di come incalzare il premier; di come replicare punto per punto ai suoi foglietti propagandistici; di come indicarlo esporlo alla pubblica riprovazione nel caso dicesse, mentendo, che un giornale vuole la sua morte.

Ecco che allora Berlusconi ci detesta, non perché siamo comunisti (lo sa bene che è una stupidaggine) ma perché gli mostriamo per intero i suoi fallimenti interferendo con l’inclinazione a falsificare i fatti quando non lo soddisfano. Siamo un’ossessione perché lui legge sull’Unità (la legge eccome) quella evidenza che lo fa soffrire e che gli viene nascosta. Spiega bene lo psicanalista Mauro Mancia che Berlusconi è dominato dall’impulso di manipolare la verità quando è scomoda; di negare la realtà quando non gli piace per sostituirla con una pseudo realtà. Non ci sopporta perchè l’Unità titola che è stato «sbugiardato» sul caso Unipol mentre altrove la figuraccia in procura viene edulcorata. Perché le domande dei giornalisti dell’Unità lo fanno uscire dai gangheri. Perché non abbiamo paura di lui. E forse ci odia perché non lo amiamo.

Questo, caro Fassino, cerchiamo di spiegare ai colleghi della stampa estera quando ci interrogano increduli su quanto ci accade intorno. Fiduciosi con te che tra qualche settimana tutto questo sarà solo un brutto ricordo.

Titolo originale: Bird flu's spread in east Turkey – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

DOGUBAYAZIT, Turchia – Circa tre settimane fa, i polli hanno cominciato a morire in quantità bibliche nella cittadina di Diyadin in Turchia orientale, ha detto lunedì Mehmet Yenigun. In due giorni, racconta l’abitante del villaggio, tutti gli uccelli - migliaia – erano morti.

Gli allevatori allarmati sono corsi dai responsabili locali a riferire della “peste” cercando aiuto e informazioni. Ma uno dei funzionari era in vacanza. Un altro, il veterinario regionale, ha annotato i particolari e risposto che qualcuno sarebbe andato a indagare. Sinora non è arrivato nessuno.

”Potrebbe essere influenza aviaria?” ha chiesto uno degli allevatori. Gli è stato risposto “No, non preoccupatevi di questo”.

Yenigun ha fatto quello che fanno da secoli i contadini in queste alte colline coperte di neve: insieme alla moglie e ai sei figli, hanno macellato e mangiato i loro 12 polli. Ha buttato due piccioni oltre la recinzione. “Non so, forse li hanno portati via i cani” dice. Questo potrebbe aver iniziato a diffondere l’infezione.

Domenica, finalmente, i funzionari riferiscono l’apparire dell’influenza a viaria nella provincia di Agri, che comprende il villaggio di Diyadin, anche se non hanno ancora rilevato il caso di Diyadin stessa.

La lentezza della risposta, dicono gli esperti, ha contribuito al consolidarsi dell’influenza nelle vaste zone orientali del paese. Ha consentito alla malattia di spostarsi da un villaggio all’altro incontrollata e – nell’ultima settimana – di passare dagli uccelli all’uomo. Sinora sono stati confermati quindici casi.

Nessuno dei sei figli di Yenigun si è ammalato. Ma qui vicino a Dogubayazit, Zeki Kocyigit e sua moglie questa settimana hanno seppellito tre dei quattro figli. Tutti morti di influenza aviaria. Il quarto, che si presume abbia contratto l’influenza giocando coi polli della famiglia, è tornato a casa lunedì dopo più di una settimana in ospedale.

”La sfortuna nel caso della Turchia è che le persone hanno iniziato a morire prima che i funzionari scoprissero l’esistenza dell’influenza aviaria nella regione” dice Ahmet Faik Oner, responsabile di pediatria al Van Hospital, che ora sta curando sette persone colpite dall’influenza, e si è preso cura dei tre fratellini morti. “Se lo scoppio della malattia fosse stato identificato prima, e fossero state prese immediatamente le precauzioni necessarie, le cose avrebbero potuto avere sviluppi diversi”.

Nella loro linda casa di cemento di due stanze alla periferia di questa attiva cittadina di confine, mentre aspettava l’arrivo del figlio sopravvissuto, Marifet Kocygit singhiozzava sul letto. Suo marito, Zeki Kocygit, dice che non avevano sentito parlare dell’influenza aviaria alla fine di dicembre, quando loro figlio si ammalò. “Naturalmente i miei figlio giocano coi polli: sono bambini” dice Zeki Kocyigit, disoccupato e che va in città ogni giorno per cercare lavori.

Molti abitanti della regione considerano i bambini come dei martiri le cui morti finalmente hanno attirato l’attenzione sulle loro sofferenze. “È necessario che muoiano dei bambini perché la pubblica amministrazione si occupi di noi?” chiede Yenigun.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che dall’influenza aviaria in Turchia sono state infettate 15 persone. Di questi, cinque casi – riferisce il Ministero della Sanità turco lunedì – sono giudicati “preliminarmente positivi” dato che l’organizzazione non ha ancora ricevuto informazioni sufficienti a riguardo, riferisce Maria Cheng, portavoce della OMS. Un gruppo di lavoro che ha iniziato a indagare si casi ha affermato in un primo tempo che i casi erano causati da “contatto diretto con pollame malato” sostiene Cheng. Ma aggiunge: “Naturalmente stiamo ancora indagando sulla possibilità di trasmissione da umano a umano”.

Il bilancio turco su quante regioni siano state colpite, secondo i funzionari internazionali è incompleto, ma si tratta di quantità in crescita a macchie di leopardo.

La scorsa settimana solo in due o tre località venivano riferiti dei casi. A lunedì, 12 villaggi hanno confermato la malattia, con estensione dalla città di Van nell’estremo oriente sino a Bursa, vicino a Istanbul, a 1.600 chilometri di distanza. Come risposta sono stati abbattuti secondo il Ministreo dell’Agricoltura 106.000 uccelli.

Oltre a questi focolai, ha annunciato lunedì il governatore di Istanbul, Muharrem Guler, è stata diagnosticata l’influenza aviaria su uccelli in tre distretti della città, di 12 milioni di abitanti, anche se non è ancora chiaro se siano portatori della più pericolosa variante H5N1. In queste aree sono già in corso abbattimenti, ha annunciato.

Quando viene individuata l’influenza aviaria, gli animali nella zona colpita devono essere rapidamente eliminati per prevenire la diffusione della malattia. Le persone devono mantenere la massima allerta riguardo ai sintomi della malattia negli animali e prendere precauzioni quando entrano in contatto con essi.

Oltre ai 15 casi confermati, dice il governatore, ci sono oltre 20 persone negli ospedali di Istanbul che potrebbero essere ammalate:tre dei casi sono considerati altamente sospetti dato che le persone colpite sono arrivate da poco in città; avevano avuto contatti coi polli in una zona vicino alla città di Van.

Ma non è chiaro come la malattia si sia estesa in modo così violento nel paese, sostengono i funzionari delle Nazioni Unite. Anche ora, qui nelle aree più gravemente colpite, molti abitanti sostengono che le operazioni di controllo sono ancora casuali.

Mukaddes Kubilay, sindaco di Dogubayazit, dice che i funzionari locali si sono resi conto dell’influenza aviaria solo il 31 dicembre organizzando immediatamente un centro di crisi per coordinare l’abbattimento. Non ci sono più uccelli ora, dice.

In teoria, gli allevatori vengono risarciti per gli animali eliminati: ricevono circa 5 lire turche per ogni pollo, e 20 lire per un tacchino nella provincia di Agri, ad esempio. Ma gli allevatori devono fare richiesta per questi indennizzi dopo che gli uccelli sono stati prelevati, e molti dipendono dai polli per le uova e l’alimentazione quotidiana.

Nella città di Caldiran, alcuni abitanti riferiscono che le persone si tengono i polli nonostante l’ordinanza di abbattimento. “Se si hanno 15 polli se ne danno 10 per far contente le autorità” dice Nesim Kacmaz, che gestisce un negozio per l’alimentazione animale. “Credono ancora che non gli succederà niente”.

Alla realizzazione di questo articolo ha contribuito anche Seb Arsu del New York Times.

here English version

SE SI guarda alla storia del lavoro, i metalmeccanici – le tute blu – non sono una categoria di operai tra le altre. Sono l´Operaio. L´operaio è anzitutto un corpo umano al quale si chiede, da oltre due secoli, di compiere su dei pezzi di metallo alcune operazioni, semplificate al punto da poter essere eventualmente affidate a una macchina. In seguito a ciò diventa possibile costruire una macchina che provvede a render superfluo l'operaio.

Prima dell´operaio - è il caso che riporta Adam Smith in La natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776) - uno spillo veniva fabbricato da un solo lavoratore, il quale stirava il filo d´acciaio, lo tagliava di misura, forgiava la testa dello spillo, appuntiva l´altra estremità, lucidava il tutto e lo incartava. Poi qualcuno scoprì che facendo svolgere ciascuna operazione da un singolo lavoratore la capacità di fabbricare spilli – quella che si sarebbe chiamata produttività – poteva aumentare di centinaia di volte. Con la divisione del lavoro applicata in modo spinto alla fabbricazione di spilli era nato il moderno metalmeccanico.

La macchina che fabbricava da sola gli spilli fu inventata davvero qualche tempo dopo, per cui gli operai del settore persero il lavoro. Successivamente un processo analogo si è ripetuto in molti altri campi. Non solo nella fabbricazione di parti metalliche, ma anche nel loro montaggio o assemblaggio per giungere a un prodotto finito. All´inizio del Novecento un ingegnere statunitense, Frederich W. Taylor, perfezionò la divisione del lavoro nelle officine introducendo un nuovo principio: pensare nuoce alla produttività. Chi usa le braccia per lavorare non deve pensare a quello che fa. Questo compito spetta soltanto alle direzioni d´officina. I loro uffici "tempi e metodi" sono centri di scienza organizzativa, incaricati di studiare come far muovere il corpo e le membra dell´operaio nel modo scientificamente più appropriato, allo scopo di ricavare da esse una maggior produttività.

Poco dopo la sua concezione teorica, la divisione del lavoro di tipo tayloristico, nel duplice senso di scomposizione d´un mestiere in operazioni elementari e ripetitive, e di drastica separazione tra ideazione ed esecuzione, veniva applicata su larga scala nelle officine Ford di Detroit sotto forma di catena di montaggio (1913). L´oggetto in fabbricazione – in questo caso un´auto, ma lo stesso sistema verrà presto adottato in ogni settore produttivo – scorre su un nastro meccanico davanti al lavoratore. Questo non deve far altro che compiere alcuni gesti elementari, purché si muova con la rapidità necessaria a non farsi scappare il pezzo che avanza sulla catena. Per vari aspetti i robot di oggi sono stati prefigurati allora. Le attuali braccia meccatroniche non compirebbero i movimenti sapienti che avvitano e verniciano, posizionano e montano pezzi complicati, se non fossero stati prima concepiti come movimenti delle braccia di operai addetti alle catene di montaggio.

Operai che però hanno anche una mente, la quale non ha mai gradito di venire consultata sul lavoro il meno possibile, perché così le manifatture prosperano di più, né di vedere il corpo che la ospita trasformato, insieme con quello dei compagni, in una parte di una grande macchina. Un´osservazione risalente ad un autore che influenzò non poco Marx, Adam Ferguson, il quale nel Saggio sulla società civile del 1767 denunciava pure la «disparità di condizioni e ineguale coltivazione della mente» che derivava da una avanzata divisione tecnica del lavoro.

Ci hanno provato spesso, i metalmeccanici, a ridurre la disparità di condizioni che deriva dal lavoro suddiviso in fasi insignificanti, e a introdurre in fabbrica una maggior possibilità di coltivare la mente. Lo hanno fatto con gli scioperi contro l´organizzazione parcellare del lavoro, dalla Renault di Billancourt del 1912 sino alla Fiat di Melfi del 2004, uno stabilimento in cui il tradizionale ufficio tempi e metodi che stabiliva imperativamente con quale angolo, e a quale velocità, bisogna muovere il braccio sinistro o la gamba destra, è stato sostituito da un computer; non è chiaro se con un tocco di umanità in più o in meno. Si sono opposti al lavoro insignificante, i metalmeccanici, anche specializzandosi in nuove professioni, come quelle che consistevano nel fabbricare parti dal raffinato e complesso disegno guidando a mano, con l´occhio al centesimo di millimetro, macchine utensili come torni e frese, rettifiche e piallatrici. Oppure, ancor sempre a mano, costruendo al banco, a forza di passaggi con lime e altri attrezzi via via più fini, prodigi di precisione come gli stampi destinati alle presse che ricavano dalla lamiera ogni sorta di sagome.

Sono professioni meccaniche durate una generazione o più, ma via via rese ridondanti, e gli operai specializzati con esse, dall´avvento di macchine sempre più indipendenti dall´operatore. Tornitori, fresatori e compagni sono stati quasi ovunque sconfitti, sin dagli anni ´50 del Novecento, dall´arrivo delle macchine utensili automatiche, poi dalle batterie di teste operatrici a trasferimento automatico, infine dai sistemi flessibili di produzione. Negli anni ´60 i mestieri di aggiustatori e attrezzisti sono stati eliminati dal controllo numerico - macchine che eseguono lavorazioni complicate sotto la guida di un programma elettronico. E per i mestieri restanti sono arrivati i robot.

C´è tuttavia qualcosa, nel corpo e nella mente dei metalmeccanici che hanno reso possibile con i loro successivi adattamenti l´industria moderna, che sembra proprio non possa essere trasferito alle macchine. E che forse spiega come siano ancora tanti, più di un milione e ottocentomila, e producano ancora, in Italia, immense quantità di manufatti all´anno: 27 milioni di tonnellate d´acciaio, oltre 20 milioni di elettrodomestici, 1 milione di auto, decine di migliaia di macchine che sanno fare di tutto, da produrre altre macchine a inscatolare biscotti. Tempo fa vi furono tecnici di produzione che puntavano a realizzare stabilimenti dove non c´era nemmeno bisogno di accendere la luce, perché erano interamente automatizzati. Ma quei pochi che riuscirono a costruire si rivelarono un mezzo disastro, e la maggior parte di simili progetti è stato abbandonato. Perché non c´è robot o automatismo che possa sostituire l´occhio e l´ascolto d´un operaio, allenati a distinguere ciò che a un dato momento funziona bene o male in un impianto in marcia; né la sua manualità che sa individuare e riparare difetti di qualità del prodotto. E meno che mai la sua conoscenza implicita dei mille snodi in cui le parti in produzione, i sistemi automatici, i tempi e i cicli e gli arrivi di materiali giusto in tempo dai fornitori si intersecano e si completano, ma non di rado si complicano e si disturbano a vicenda, sino a che l´intero processo s´inceppa. A meno che non intervenga la capacità del metalmeccanico di turno di capire e rimediare in tempo. Ad onta di chi vorrebbe che la sua mente fosse consultata il meno possibile, o di chi pensa che i metalmeccanici siano figure del passato.

Etichettare avvocati, medici, tassisti, ricercatori e altre categorie scese in piazza per protestare contro le liberalizzazioni e la Finanziaria come altrettante corporazioni, e le loro azioni come corporativismo, viene naturale. Ci si deve tuttavia chiedere se sia la scelta più idonea per spiegare le loro azioni. Ove si risalga al decreto del 1934 che istituiva 22 corporazioni, tra cui una per le barbabietole e i prodotti dello zucchero, e una per i servizi alberghieri, la corrispondenza sembra piuttosto labile. Ogni corporazione includeva infatti sia i lavoratori che i datori di lavoro, e una delle sue principali funzioni doveva essere l´elaborazione dei contratti collettivi di lavoro. Peggio sarebbe risalire al Medioevo, tante sono le differenze tra le organizzazioni professionali di ieri e di oggi.

Un diverso schema interpretativo potrebbe invece vedere in quel che succede una fase di crisi della modernità. Nel duplice senso del venir meno di quella particolare esperienza che consiste nell´essere e sentirsi moderni, e del declino d´una idea della modernità capace di dare profondità e ricchezza a tale esperienza. Essere moderni, scriveva già vent´anni fa un docente newyorkese di Scienza politica, Marshall Berman, «vuol dire trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che, al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo». Simile esperienza materiale e intellettuale di "unità della separatezza" di processi complementari e nondimeno contrapposti entra in crisi quando uno dei due processi viene separato e assolutizzato, nella pratica come nelle idee, quasi che potesse sussistere in modo indipendente dall´altro.

Vari fattori hanno concorso a spezzare tale unità, in Italia come in altri paesi. Fra di essi bisogna porre la visione oleografica della modernizzazione diffusa dalle scienze sociali sin dagli anni Sessanta del Novecento. Stando a essa, tutte le società del mondo sarebbero immancabilmente avanzate, al pari delle società occidentali, verso una condizione in cui le autorità tradizionali di tipo religioso, etnico e familiare vengono soppiantate da autorità razionalmente costituite in base a un contratto politico di natura secolare tra le masse e le classi dirigenti; la partecipazione politica manifesta un grande sviluppo; l´azione sociale viene sempre più guidata da norme secolari-razionali; il carattere delle persone si trasforma in modo da combinare una maggior capacità di auto-realizzazione con una crescente disponibilità a cooperare con altri.

Oggi tale idea della modernizzazione appare penosamente sfocata, punto per punto, a confronto della situazione del mondo. A onta del suo distacco dalla realtà, essa si ripresenta di continuo, ad esempio in varie riforme che le forze politiche dei due schieramenti propongono sovente allo scopo di modernizzare il Paese. Esse disegnano un lungo cammino felice verso una nuova stabilità sociale ed economica, per poco che si seguano le indicazioni dei governi, intanto che le persone sperimentano ogni giorno la distruzione accelerata di rapporti tradizionali, la scomparsa di tratti di cultura, l´erosione di comunità identitarie. Le proposte dimezzate provenienti dalle forze di governo, insieme con le esperienze dimezzate che le persone compiono, in assenza di adeguati schemi pubblici d´orientamento, restringono l´orizzonte delle persone agli interessi privati e accentuano il solco tra le élite e le masse.

Opera qui nello sfondo, fra le élite come fra le masse, una concezione rozzamente individualistica della società. Poche battute sono politicamente più ottuse di quella di Margaret Thatcher, per cui la società non esiste; esistono soltanto gli individui. Quanto invece è acuta e fertile la concezione che vede nella società, nello Stato, un essere umano in grande, e in ciascun essere umano una società in piccolo. È una concezione che risale quanto meno a Platone, ma alla quale è stata data nitida forma da un sociologo tedesco, Georg Simmel, ormai un secolo fa. Scriveva Simmel: «Tutte le fasi di una lotta, l´equilibrio delle forze che paralizza temporaneamente la lotta, la vittoria apparente di un partito che dà soltanto all´altro l´occasione di raccogliere le proprie forze... tutto ciò rappresenta in egual misura la forma del corso dei conflitti sia interni che esterni». In altre parole la società risiede in noi, siamo noi stessi, perché sin dall´infanzia abbiamo interiorizzato le sue tensioni, i conflitti e i mutamenti, le ambiguità e le certezze. Mentre ciò che si svolge all´esterno, sulla scena pubblica, è una lotta di formazioni sociali e di rappresentazioni reciproche che riproduce in grande la nostra stessa molteplicità, ma insieme la complica e la estende.

La comprensione di questa dialettica tra l´interiore e l´esteriore, tra società e Stato e l´individuo, per farne impegno di arricchimento personale e sociale, è l´essenza stessa della modernità. Quando comprensione e impegno vengono meno, com´è accaduto in Italia, si ha la regressione di masse intere negli interessi privati, siano essi materiali o spirituali, lo squilibrio tra ricchezza privata e povertà pubblica. Che è anche squilibrio tra l´azione privata, che bada soltanto alle cerchie più interne del proprio mondo quotidiano, e l´azione pubblica, con la quale l´individuo non si identifica con persone, etnie o gruppi sociali, bensì con sistemi impersonali di regole intese a rendere praticabile la cooperazione con cerchie via via più ampie di estranei.

Allorché ciò accade, non serve limitarsi a gettarne la responsabilità sulle masse, accusandole ritualmente di comportamenti rozzamente corporativi, o di colpevoli ricadute nella cultura dell´Io – anche quando lo meritino. Esse hanno soggettivamente interiorizzato una scena oggettivamente predisposta, nel corso di decenni, dalle élite politiche, economiche e intellettuali. Per dirla con Christopher Lasch, che una decina di anni fa intitolò un suo libro La ribellione delle élite per contrapporlo a La ribellione delle masse di José Ortega Y Gasset: «le élite, che definiscono... i temi del dibattito pubblico, hanno perso il contatto con la gente normale. Il carattere irreale, artificiale, della nostra politica riflette il loro isolamento dalla vita comune, e la segreta convinzione che questi problemi siano insolubili».

FAUSTO BERTINOTTI non si unisce al coro dei preoccupati: il governo - dice nell’intervista all’Unità - durerà cinque anni. E sulla Finanziaria ha parole di apprezzamento anche se avverte il rischio di non rendere visibile la «visione» sociale che essa contiene. E sul Pd: «Attenzione, anche se non lo condivido».

«I regolamenti parlamentari così come sono venuti definendosi - aggiunge Bertinotti - costituiscono un problema per il governo delle istituzioni. Quello attuale è un sistema che penalizza sia la maggioranza che l’opposizione, perché non consente alla prima di esercitare il suo diritto-dovere di decidere e non consente alla seconda di esprimere il suo diritto-dovere di essere influente nel percorso di formazione delle decisioni. Dunque un problema esiste, ma penso che sia impossibile affrontarlo e risolverlo per la legislatura esistente, mentre si può lavorare a una proposta strutturale per il futuro».

Ma intanto? Ancora una volta potrebbe essere posto il voto di fiducia su una Finanziaria.

«È una consuetudine che tutti lamentiamo. Il ricorso al decreto legge e l’utilizzazione della fiducia come derimenti della controversia parlamentare sono due elementi a cui bisognerebbe far ricorso soltanto eccezionalmente, altrimenti diventano una patologia. È evidente infatti che entrambi costituiscono una limitazione del diritto dell’assemblea».

La maggioranza ricorda all’opposizione che lo stesso avvenne nella scorsa legislatura.

«Non ci si può appellare al precedente quando questo in tutta evidenza è la manifestazione di una patologia».

Dov’è allora la via d’uscita?

«Non c’è altra via che quella del consenso. E per quel poco che vale anche la presidenza della Camera nei giorni scorsi si è adoperata in questa direzione, interloquendo con i capigruppo della maggioranza e dell’opposizione».

Risultato?

«Intanto, si è evitata una precipitazione in questa settimana di una conclusione, cioè che si strozzasse il lavoro della commissione, che invece ha avuto il tempo per poter procedere e concludere i suoi lavori ordinatamente. Questo può definire un percorso che seppure con delle criticità sia da parte dell’opposizione che della maggioranza, può consentire una non belligeranza sulla procedura».

Lo giudica un fatto importante?

«Lo è, perché è evidente che un conflitto procedurale rende opaca la questione dei contenuti».

La non belligeranza può darsi solo se l’opposizione non presenta migliaia di emendamenti e se il governo si mostra disposto al confronto, non crede?

«È chiaro, e penso che in questo senso un terreno di ricerca è la valorizzazione del lavoro di commissione. Un reale confronto in questa sede, non strangolato dai tempi, con la maggioranza non impermeabile alle argomentazioni dell’opposizione, può consentire una conclusione certamente non unanime, ma neanche di contrapposizione frontale. In questo caso, nell’impossibilità di giungere a un’approvazione nei tempi utili si potrebbe ricorrere alla fiducia, che interverrebbe però non su un atto di volontà unilaterale del governo ma sulle conclusioni della commissione».

Il ministro per i Rapporti con il Parlamento Chiti aveva proposto alle forze di opposizione di sintetizzare le loro posizioni in pochi emendamenti.

«La trovo una proposta giusta. Ma siccome ho un’interpretazione del ruolo di presidente della Camera che non è quella dello speaker, non mi taccio e dico anche che c’è un simmetrico: il governo a sua volta vari dei provvedimenti che abbiano la stessa sinteticità. Perché non si può presentare una Finanziaria di 217 articoli e poi risultare convincente nella richiesta di selezionare gli emendamenti».

Diceva che un dibattito sulle procedure può mettere in ombra i contenuti di questa manovra. Però non sembra che susciti molti consensi questa Finanziaria.

«Faccio una premessa: essendo la Finanziaria materia su cui decide anche il Senato e la Camera, è evidente che non ho titolo per esprimermi. Però un’osservazione politica generale bisogna farla. Penso che l’impianto sia coerente con il programma del governo e che i primi passi sul terreno della politica economica e sociale, pur senza avere la brillantezza dei primi passi in materia di politica internazionale, sono capaci di attrarre un consenso nel paese».

Cos’è allora che non consente il realizzarsi di questo processo positivo attorno alla Finanziaria?

«Diversi fattori. Primo: la mancanza di una percepibile visione di società. Questo non è un elemento di poco conto. Non essere in grado di far valere nei confronti del paese la visione di prospettiva entro cui sono iscritte delle misure vuol dire amputare la loro capacità di organizzazione del consenso. Specie se si deve, come io credo, fare fortemente leva sui ceti popolari, lungamente penalizzati da una distribuzione del reddito iniqua e da una condizione sociale caratterizzata da una crescente incertezza e precarietà».

Gli altri elementi che impediscono il dispiegarsi del consenso?

«Penso che si sia determinata una tendenza da cui bisogna uscire, quella alla polarizzazione della società attorno alla centralità del governo. Il consenso o il dissenso è nei confronti del governo, con una sostanziale marginalizzazione dei grandi soggetti sociali e politici. I sindacati e Confindustria ce la fanno ancora perché in qualche modo svolgono un ruolo o negoziale o concertativo. Ma i partiti, anche per il forte prevalere del sistema maggioritario e per il peso che ha rivestito Berlusconi, sono venuti affievolendosi nella loro presenza. Per una coalizione riformatrice, la presenza nella società civile del dibattito sulle scelte che si compiono è un punto decisivo».

Finite le ragioni che frenano il consenso?

«C’è n’è un’altra, e sono i tanti elementi di disturbo presenti in una Finanziaria così articolata e complessa. Questi tre elementi hanno secondo me finora oscurato l’impianto principale della Finanziaria. Aggiungo che a rendere poi ancora più difficilmente decodificabile l’impianto principale risultano i tanti conflitti che, trascinati, hanno indebolito la possibilità di organizzare il consenso. L’ultimo è quello sul Tfr. Anche se non do un giudizio di valore, dico che è bene che sia arrivato l’accordo con le parti sociali, ma nel frattempo abbiamo assistito a quindici giorni di bombardamento su un elemento determinante della manovra».

Riassumendo?

«Il deficit è di progettazione politica, non è nelle singole scelte compiute con questa Finanziaria».

Prodi, nell’intervista al Pais, ha parlato di pressioni sulla politica. Il quadro attuale le sembra solido o rischia di sfarinarsi?

«Penso che questo governo durerà cinque anni, che sia come quei malati sempre pieni di problemi che però non muoiono mai. Ma questa non è una buona ragione per non intervenire. Le cose che dice Prodi - per altro un po’ singolarmente, in un’intervista a un giornale straniero - sono meritevoli di una discussione politica aperta. Perché non si deve mettere all’ordine del giorno della coalizione gli argomenti proposti dal presidente del Consiglio? C’è stata una reazione del tutto incomparabile con l’ordine della denuncia, per quale ragione non ci deve essere un luogo della coalizione di centrosinistra che affronti i problemi politici?»

La denuncia del premier è meritevole di discussione, ma anche fondata?

«A me pare evidente che c’è un’insofferenza da parte di ambienti politicamente ed economicamente importanti del paese nei confronti della coalizione di centrosinistra. E questo per i contenuti che essa esprime».

Si parla di un peso eccessivo della sinistra radicale sulle scelte di governo.

«La trovo un’accusa del tutto fuorviante. E tuttavia, senza che sia vero che l’asse del governo sia spostato a sinistra, questi ambienti giudicano inaccettabili e non adeguati alla fase del paese gli elementi presenti nel programma di governo, che dovrebbe invece avere, sostanzialmente, una piattaforma neocentrista. Sanno bene queste forze che il problema di avere una maggioranza è reale e per questa ragione io non penso che ci siano forti propensioni a cambiamenti di maggioranza: perché irrealistici prima di tutto. C’è invece un fortissimo condizionamento sui contenuti per un cambio di asse politico-programmatico del governo».

Questi cosiddetti poteri forti, secondo lei vedono Prodi come un ostacolo al loro progetto?

«Mi pare evidente che sia così. Non perché Prodi sia amico delle sinistre, ma perché Prodi può vivere solo realizzando questo programma. In questo senso viene considerato un ostacolo. Se ne discuta pubblicamente, perché forse ne viene anche un elemento tonico nei confronti dell’azione del governo».

Un elemento tonico secondo lei può avvenire anche attraverso una riorganizzazione delle forze politiche in campo?

«Quello che penso è che siamo alla fine di un ciclo, nell’organizzazione dei partiti italiani, e all’inizio di un nuovo ciclo. Fin qui c’è stata l’onda lunga della pars destruens dei partiti della prima Repubblica. Ora comincia una nuova transizione, però in pars construens. Si possono costruire cioè dei soggetti politici più rivolti al futuro che segnati dal passato».

La sua previsione?

«Che tra cinque anni, alla fine di questa legislatura o poco dopo, avremo un panorama politico-partitico tutta affatto differente da quello attuale. Non sono sicuro, però, che allo stato attuale sia prevedibile lo scenario futuro. Vedo la situazione come un grande cantiere edile, con tanti lavori in corso. Ma per capire che edificio sarà alla fine bisogna aspettare di arrivare al tetto, perché in realtà anche questa pars construens ha tanti elementi di incertezza nelle fondamenta».

Prendiamo il Partito democratico.

«Ho verso di esso un atteggiamento di attenzione, seppure non ne condivida né il progetto né l’impianto. Ne capisco la ratio, per due partiti come i Ds e la Margherita. Debbo dire che non sono neanche così sicuro che si realizzi l’esito atteso. Propendo per un sì, ma propendo. Se devo essere onesto, l’impianto riformistico che dovrebbe presiedere a questa costruzione a me sembra troppo sfocato, cioè non vedo i lineamenti che lo dovrebbero rendere vincente».

Una riorganizzazione dei riformisti apre altri fronti.

«È chiaro. Nella nuova epoca anche le forze della sinistra alternativa hanno il problema di ridefinire cosa è oggi una forza che rimetta all’ordine del giorno la questione della trasformazione. Nella mia esperienza, penso che gli elementi di costruzione di cultura politica fatti da Rifondazione comunista siano rilevanti, dal rifiuto dello stalinismo fino alla nonviolenza, tuttavia anche qui penso sia necessario un salto di qualità, anche in grado di aggregare forze le cui energie sono indispensabili nell’intuizione del Partito della Sinistra europea. E penso sarebbe bene anche l’apertura ad altre forze di cultura socialista».

Marini ha definito urgente una modifica della legge elettorale.

«Secondo me bisognerà nel corso della legislatura porvi mano, ma oggi è totalmente immatura la discussione. E quando la si affronterà, bisognerà sbarazzarsi dell’idea, che è stata foriera di danni enormi, che le leggi elettorali fondano la geografia dei partiti».

L’intitolazione da parte del Prc di una sala del Senato a Carlo Giuliani ha suscitato le critiche del centrodestra.

«Mi pare una polemica sconclusionata. Un gruppo chiama con il nome di un giovane ucciso a Genova una sala, mi pare non sia il caso di discuterne. La vera questione è un’altra, ed è scritta nel programma del governo, che bisognerebbe attuare. Parlo della commissione d’inchiesta sui fatti di Genova. Questo è un tema di discussione che andrebbe messo al centro in queste giornate, dal momento che riguarda il problema di costruire una verità condivisa su un passaggio cruciale degli ultimi anni».

«Un colpo di pistola o di fucile alla testa del governatore » pur di fermare lo scellerato piano paesaggistico ordito ai piani alti di viale Trento contro l’autonomia e il potere sovrano dei Comuni sardi. La minaccia e l'invito a imbracciare le armi, seppure in senso metaforico, arriva dal sindaco di Olbia Settimo Nizzi, fiero oppositore «di quella gabbia di matti che sta amministrando la Sardegna» e del suo «temibile tiranno», il presidente della Giunta Renato Soru. Un'antipatia che il primo cittadino della città portuale gallurese non nasconde dietro giri di parole perché, prosegue, «se anche Soru morisse di morte naturale, non dispiacerebbe a nessuno». Sono le parole tuonate durante un convegno sul Ppr organizzato dai Riformatori sardi. Durante il quale l'ospite Nizzi non ha esitato a scagliarsi contro il governatore, accusato di essere capace, «nel suo fervore assolutista, di mettere la corda al collo» persino a un big della finanza mondiale come Tom Barrack, «costringendolo a tessere le lodi di una politica urbanistica sciagurata, che allontana i turisti e si compiace che le barche non attracchino nei nostri porti».

ACCUSE A RUOTA libera che il leader della Regione preferisce non commentare, ma che nell'aula gremita riscuotono gli applausi scroscianti. Il primo cittadino olbiese sale sulle barricate e chiama a raccolta il popolo del centrodestra per una mobilitazione di massa che scuota dalle fondamenta i palazzi cagliaritani. Invoca, Nizzi, non un semplice “no” alla tanto vituperata normativa salva-coste, ma una rivolta di piazza che porti la gente per le strade a manifestare contro la politica della Regione. L’occasione gliela fornisce un convegno «sulle ragioni del no al piano paesaggistico regionale» organizzato ieri mattina all’hotel Martini di Olbia dai Riformatori sardi. Un simposio con tanti ospiti illustri, dal senatore dell’Udc Massimo Fantola ai tecnici Gianni Contu e Giampaolo Marchi, rispettivamente amministrativista ed esperto di urbanistica. Tutti in prima linea nella battaglia anti-Soru. «Il Piano paesaggistico è completamente illegittimo - attacca il professore di ingegneria - si tratta di uno strumento che usa l’ambiente come un semplice pretesto per governare l’economia e limitare le prerogative degli enti locali». La riprova starebbe nei tempi dettati dalla Regione per l’adeguamento dei Puc, i Piani urbanistici comunali, alla nuova programmazione paesaggistica delle zone costiere. «Sono del tutto inadeguati - accusa Nizzi - in pratica la Giunta ci ha cucito addosso una camicia troppo stretta e con poche pieghe, il Puc ce l’hanno già fatto loro».

Con le furiose proteste di tassisti, avvocati, notai e farmacisti che hanno fatto seguito al decreto Bersani, e con quelle più che probabili di domani, se qualcuno oserà mai toccare i privilegi di altri gruppi e ordini professionali (a cominciare per esempio dai primari ospedalieri e dai giornalisti) dovrebbe essere finita per sempre (forse) la breve vita del mito italiano della «società civile».

Un mito che nacque e furoreggiò, come molti ricordano, a cavallo degli anni '80-'90 — gli anni dell'ultimo craxismo e del Caf, un acronimo che designava l'alleanza Craxi-Andreotti-Forlani — e raggiunse l'acme nella stagione di «Mani pulite». Il contenuto del mito era ed è semplicissimo: da un lato ci sarebbe l'insieme dei partiti, raffigurati alla stregua di un covo di clientelismo, di inefficienza, e soprattutto di politicantismo corrotto (la «partitocrazia»); dall'altro invece, e ovviamente contrapposta ai primi, l'Italia operosa degli «onesti» (un tempo si parlò addirittura di dar vita a un «partito degli onesti»), dei difensori della legalità, pensosi del bene pubblico e di quelle istituzioni che i partiti invece avrebbero occupato come terra di conquista. Quindici anni fa quel mito si mostrò efficacissimo nel distruggere il sistema politico della prima Repubblica con i suoi attori (per primi la Democrazia cristiana e il Partito socialista), e nel produrre o rafforzare all'estremo un sentire antipolitico che da allora non ha smesso di dilagare.

Da allora il mito della società civile non è venuto meno, ma anzi è divenuto parte costitutiva del discorso ufficiale della Repubblica, anche se la sua sempre crescente dose di retorica (e di irrealtà) ne hanno progressivamente ridotto sia l'impatto che l'efficacia. A tenerlo in vita, paradossalmente, sono stati quasi sempre, gli stessi uomini dei partiti, i quali, essendo ormai i partiti stessi sbriciolati, e loro rimasti perlopiù privi di legami con qualsiasi quadro ideologico coerente e definito, nonché alle prese con un elettorato sempre più segmentato, hanno cercato la propria legittimazione affannandosi ognuno a presentarsi come espressione della società suddetta, dei suoi ideali, delle sue esigenze, e naturalmente delle sue intrinseche virtù.

Ma dietro la nascita e la fortuna di quel mito c'è stato qualcosa di più del caso o dell'opportunismo. C'è stato, io credo, il desiderio, in qualche modo radicato nell'inconscio politico del Paese, di vedere finalmente cancellata una sua tara storica, l'oggetto di infinite analisi pessimistiche che da almeno due secoli a questa parte hanno accompagnato la nostra vicenda collettiva. Secondo le quali l'elemento decisivo dell'arretratezza storica italiana sulla via della modernità sarebbe da rintracciare, per l'appunto, nello scarso sviluppo della sua società civile. La mancanza di una società civile con solide radici, ramificata, ricca di iniziative, avrebbe costituito, infatti, con il peso del suo potere vuoi una delle principali cause dei limiti e della debolezza del Risorgimento, vuoi della costruzione, dopo il 1861, di una vita nazionale caratterizzata dal ruolo soverchiante dello Stato e di conseguenza della politica. Un ruolo soverchiante dello Stato nell'ambito economico (si pensi al protezionismo prima, e all'industria pubblica poi), ma soprattutto nel costume e per così dire nella vita morale del Paese.

Qui, con il peso del suo potere e delle sue istituzioni, esso avrebbe ancor più rafforzato la propensione italiana al conformismo, all'ossequio almeno apparente verso i «superiori», a stare stretti al proprio «particulare». «In Italia — scriveva intorno al 1820 Giacomo Leopardi, con parole che sarebbero riecheggiate infinite volte, si può dire fino ai giorni nostri — la società stessa, così scarsa com'ella è, è un mezzo di odio e di disunione (...); la società che avvi in Italia è tutta a danno ai costumi e al carattere morale, senza vantaggio alcuno».

Il mito della società civile diffusosi negli anni '80-'90 e durato fino ad oggi può essere considerato l'ultima versione di quella «riforma intellettuale e morale degli Italiani» che auspicava Gramsci e tanti altri prima e dopo di lui per porre rimedio al principale difetto della nostra storia. Anche questa volta però qualcosa non ha funzionato. Il messaggio trasmesso nelle settimane scorse da tassisti, proprietari di farmacie e avvocati, pronti ad essere imitati domani stesso da moltissimi altri, non poteva, infatti, essere più chiaro: «Del bene generale, della soluzione più razionale e conveniente per tutti, della necessità di rispettare pure nella protesta più accesa le esigenze elementari della collettività, di tutto ciò — ci ha detto quel messaggio — non ci importa un granché. La sola cosa che c'importa è che non vengano toccati i nostri interessi: anche se poggiano su privilegi ingiustificabili». Il che, come si capisce, contraddice alla radice l'idea di società civile; la quale, comunque la si voglia definire nei dettagli, non può però andare disgiunta, secondo tutti i suoi teorici, dall'idea di rappresentare un polo di sostanziale positività, qualcosa che vede sì, magari, la prevalenza degli animal spirits, ma pur sempre tenuti insieme e a freno da qualche forma generalizzata di razionalità e di rettitudine di fondo, di benevolente attenzione per gli altri.

Ma come i fatti hanno mostrato le cose in Italia non stanno per nulla così. Si è visto che quella assenza di società civile che tutta la nostra tradizione si è abituata a lamentare è un'assenza sì, ma a cui corrisponde un formidabile pieno: il pieno delle corporazioni. È questa la vera specificità negativa dell'Italia e della sua secolare vicenda, il peso enorme che da noi hanno tutte le associazioni particolari, dalla famiglia alle molte altre che, a scala sempre maggiore, ne riproducono patologicamente alcuni meccanismi: il carattere originario e obbligatorio del vincolo, il mutuo soccorso sperato e assicurato, la inevitabile limitatezza degli orizzonti. La famiglia (termine non a caso fatto proprio dalla massima associazione criminale del paese), il clan, la comitiva, l'ordine, la corporazione, e poi, e insieme, tutto ciò che ha sapore di «parte», che ha radici nel «locale», nel «paese», negli «amici», nelle cose «di casa»: sono questi da secoli i pilastri poderosissimi intorno ai quali si è costruita la società italiana: ammasso di gruppi organizzati, spasmodicamente presa dai suoi interessi settoriali, avidi ognuno di esclusive e monopoli. La quale società non è in grado di conformarsi ai pii desideri dei teorici della «buona» società civile proprio perché troppo piena di un'altra società, che per il fatto di non piacerci non è per questo meno società dell'altra. Ed è anzi tanto forte, questa seconda, non solo da riuscire ad opporsi vittoriosamente allo Stato e ai suoi poteri, ma da riuscire spessissimo a penetrarlo e a contagiarlo con le proprie logiche, assimilando a sé, al modello familiare-corporativo alcuni degli stessi strumenti della sua modernità democratica, come i partiti e i sindacati.

Anche se forse non è molto di moda dirlo, questa è l'unica, genuina società che c'è oggi in Italia, e sognarne una che non c'è non porta molto lontano; ciò che continua sempre più a mancarci, invece, è uno Stato in grado di fare valere contro di essa l'interesse generale.

L’Italia ha molti guai e tra i suoi guai c’è, senza dubbio, il giornalismo. Nelle democrazie mature d’Occidente, il giornalismo è spesso una parte della soluzione, qui da noi è un problema che rende più arduo venire a capo delle anomalie nazionali. Se questo avviene, un motivo c’è: l’informazione è stata degradata a chiacchiera. In un certo posto, a una certa ora del giorno, qualcuno dice qualcosa. Non è accaduto nulla. C’è uno che ha espresso un’opinione, ma quella diventa la notizia del giorno. Sulla finta notizia si raccolgono pareri, si scrivono editoriali, si titolano le prime pagine, si combinano interviste. Meglio se un tipo del centrosinistra si lancia contro Romano Prodi o uno del centrodestra dà sulla voce a Silvio Berlusconi. Ottimo se in questa routine si possa sistemare, con qualche ghirigoro, un pettegolezzo. Si conoscono tra gli addetti molte frasi famose di questo canone giornalistico. Quella che qui conta suona così: «Non parlatemi di inchieste giornalistiche, ché mi viene l’orticaria».

Un’inchiesta giornalistica è la paziente fatica di portare alla luce i fatti, di mostrarli nella loro forza incoercibile e nella loro durezza. Il buon giornalismo sa che i fatti non sono mai al sicuro nelle mani del potere e se ne fa custode nell’interesse dell’opinione pubblica e anche nell’interesse della politica perché senza fatti la politica annienta se stessa. È per proteggere se stessa che la democrazia prevede nel suo ordinamento costituzionale alcuni «rifugi della verità» garantiti – le università, le magistrature – e difende dai governi la libertà di stampa senza la quale, in un mondo che cambia, «non sapremmo mai dove siamo».

Il giornalismo della chiacchiera e della maldicenza dimentica il suo dovere di raccontare «dove siamo». Non guarda ai fatti, non li cerca, non vuole trovarli, soprattutto non ne vuole tenere conto. Quando si ritrova improvvidamente qualche fatterello tra i piedi, lo trasforma in opinione. Screditata a opinione, la verità di fatto è fottuta perché diventa irrilevante. Ma è appunto in questo "salto" l’astuzia del gioco. Accantonata la realtà, quel che resta si può combinare a mano libera. Ogni cosa è uguale al suo contrario. Ognuno è uguale all’altro. Non contano più comportamenti, responsabilità, abitudini, attitudini, condotte, decisioni, direzioni, orizzonti. Liberatosi dalla inevitabilità dei fatti, questo giornalismo deforme è ora il padrone della scacchiera. Muove torri e pedoni. Nella notte dove tutto è nero, nel vuoto di realtà creato, il lettore è frastornato. «Chi ha fatto che cosa?», non trova mai una risposta.

Accade in queste ore. C’è un giornalista, Renato Farina, sorpreso a trafficare con i servizi segreti che lo pagano con migliaia di euro. Il disgraziato non sa come difendersi. L’ha fatta grossa e lo sa. Ha tradito se stesso, il suo buon nome, l’amicizia di chi lavora con lui, gli appassionati lettori delle sue cronache. Non sa come uscirne con decoro. Gli suggeriscono di lanciarsi all’attacco. Chi se ne importa dei codici deontologici, tu hai combattuto per l’Occidente la IV guerra mondiale. Sei un soldato dell’Occidente cristiano ed ebreo. Sei un crociato. Sei un patriota.

Il disgraziato s’afferra all’argomento come un naufrago al legno. Sistemandosi addirittura accanto a Karol Wojtyla, scrive che ha «cercato di fare di tutto e di più per difendere questo nostro Paese e la sua civiltà cattolica». È la pietosa menzogna di un uomo che prova a proteggersi dal disprezzo. L’espediente miserabile di chi, religiosissimo, vuole rendere accettabile la sua umana debolezza invocando una fede e un’autorità che pure gli dovrebbero essere sacre. Un penoso spettacolo su cui si chiuderebbero volentieri gli occhi. Una brutta cosa che dovrebbe essere relegata in un angolino del discorso pubblico, e presto accantonata. Fino a quando, non sorprendentemente, il direttore del "Corriere della Sera" Paolo Mieli entra nel gioco. Prende sul serio quell’argomento: Farina è un crociato e un patriota. Santifica le ragioni di quel disgraziato addirittura con la legge di Antigone (che Dio lo perdoni). Non giustifica che abbia preso del denaro, ma per tenere a galla l’esercizio deve precipitare nel suo ragionamento, con un venticello calunnioso, anche chi dai metodi di lavoro, la storia professionale, l’opacità morale di Renato Farina è lontano un braccio di mare. La manovra deve accecare il lettore, nascondergli una realtà che, se raccontata, renderebbe l’iniziativa di Mieli un’arlecchinata.

Renato Farina non è stato pagato dal servizio segreto per difendere l’Occidente cristiano o combattere l’Islam radicale. Il Sismi ha chiesto a Farina di mettersi in contatto con un pubblico ministero per carpirgli informazioni e inquinarne il lavoro. Per questo è stato pagato. Il Sismi ha retribuito Farina per vedere pubblicato un dossier falso e screditare Romano Prodi, il candidato dell’opposizione a Palazzo Chigi. Lo ha pagato per spiare gli esiti dell’inchiesta sulle intercettazioni abusive e i dossier illegali raccolti dalla "sicurezza" di Telecom. Le attività di Farina non hanno nulla a che fare con l’Occidente, l’Islam, la civiltà cattolica. Lo si vede a occhio nudo. Le attività di Farina, rivolte contro le istituzioni del Paese (magistratura, governo), sono del tutto anti-italiane, assai poco patriottiche. Se Paolo Mieli non avesse così in uggia il mestiere di informare i lettori che ancora hanno fiducia nel "Corriere della Sera", si rimboccherebbe le maniche anche con l’orticaria per capire perché un’istituzione dello Stato (il Sismi) paga un giornalista (Farina) per mettere a mal partito altre istituzioni dello Stato (Palazzo Chigi e la Procura di Milano). Chiederebbe ai suoi bravi cronisti di raccontare quali interessi nascondono queste manovre oscure. Si sforzerebbe di spiegare ai suoi lettori come, quando e perché questo è avvenuto, e che cosa significa.

Ho lavorato per qualche tempo al "Corriere della Sera" e sono sicuro che un’eccellente redazione saprà riportare nel lavoro quotidiano i fatti là dove oggi ci sono soltanto chiacchiere e maldicenze. Non so se Paolo Mieli l’ha mai saputo, ma so che la sua redazione non ha dimenticato che, senza un’informazione basata sui fatti, la libertà d’opinione è soltanto una beffa crudele.

Per vari motivi il permanere degli incidenti sul lavoro su quote elevatissime - circa 950.000 casi all´anno, che si lasciano dietro 1200 morti e decine di migliaia di persone con invalidità più o meno gravi – è uno scandalo nazionale che non ha attenuanti. Giustamente il Papa e il capo dello Stato hanno richiamato l´attenzione su di esso. È uno scandalo, in primo luogo, perché in merito alle cause materiali degli incidenti si sa quasi tutto. La frammentazione pianificata dei processi produttivi in imprese e squadre di lavoro sempre più piccole, collegate da lunghe catene di esternalizzazioni a cascata e sub-appalti, disincentiva la formazione alla sicurezza. e in molti casi la rende tecnicamente inattuabile. L´elevato numero di datori di lavoro che reclutano masse di lavoratori in nero, connazionali e immigrati, è un altro fattore che dalle due parti fa venir meno la voglia, il tempo, la stabilità dell´occupazione che sono indispensabili per la formazione alla sicurezza. Allo stesso effetto operano i contratti di lavoro atipici, in specie quelli con una durata di pochi mesi. Alle carenze formative si aggiungono i costi dei dispositivi attivi e passivi per la prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro che molte imprese, vuoi perché premute dalle pressioni sui costi provenienti dagli anelli superiori della catena di creazione del valore, vuoi perché nella loro agenda gli investimenti in sistemi di sicurezza non sono una priorità, cercano di limitare il più possibile.

Dal lato delle attività di prevenzione e controllo, un fattore che incide nel mantenere elevato il tasso di incidenti sul lavoro è la perenne carenza del numero degli ispettori del lavoro in servizio effettivo presso il ministero, l´Inail e le Asl. In qualsiasi impresa, un ispettore che non si vede significa, al minimo, uno scarso impegno dei capi nelle misure di sicurezza. Su scala nazionale, gli ispettori del lavoro effettivamente in servizio sono, salvo errore, meno di 2300, a fronte dei quali operano circa un milione e mezzo di imprese non individuali. Ciascun ispettore dovrebbe quindi controllare regolarmente lo stato delle misure di sicurezza in oltre 650 imprese. Poiché una singola ispezione in una piccola azienda prende almeno una giornata, spostamenti compresi, mentre nelle aziende con numerosi dipendenti richiede parecchi giorni, se ne ricava che ogni singolo ispettore può compiere una sola visita approfondita alle "sue" imprese ogni sei anni circa. Pertanto i datori di lavoro non in regola possono, sotto il profilo dei controlli preventivi cui sono esposti, dormire sonni tranquilli.

Alcuni dei fattori che concorrono a mantenere alto il numero degli incidenti gravi sul lavoro potrebbero essere alleviati o rimossi con provvedimenti ad hoc del legislatore. Per dire, mille nuovi ispettori del lavoro potrebbero essere assunti in pochi mesi mediante un decreto. Altri fattori appaiono più ostici nei confronti di un intervento. Non sarebbe facile, ad esempio, invertire la tendenza alla frammentazione dei processi produttivi e delle imprese. D´altra parte tale tendenza è stata accentuata dal decreto attuativo della legge 30, che ha facilitato la cessione di rami d´impresa anche nel caso in cui non erano in precedenza funzionalmente autonomi. Quel che il legislatore ha fatto, il legislatore può disfare o correggere.

Il guaio è che quando si tratta di incidenti sul lavoro il legislatore italiano appare discutere molto, ma concludere poco. Allo scopo di contenere i fattori di incidenti nei luoghi di lavoro occorre una legge complessiva sulla sicurezza del lavoro. La concatenazione di tali fattori ne fa un sistema complesso. Ci vuole quindi una legge di sistema per contrastarli, qualcosa di simile a un ampio testo unico sulla sicurezza del lavoro. Ora, se ben ricordo, di testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro si parlava già verso la fine degli anni ´70 del secolo scorso. Per anni non successe nulla. Verso il 1994, la Commissione europea varò una specifica direttiva su tale tema. Il legislatore italiano si prese qualche tempo per riflettere, e nel luglio 2003 – nove anni dopo, governo Berlusconi in carica – emanava una legge che prevedeva un anno per preparare un decreto in materia di sicurezza dei lavoratori. Una bozza di Testo unico fu effettivamente predisposta dal ministero del Lavoro entro il 2004, ma le critiche al suo carattere regressivo levate dalle regioni, nonché da numerosi giuristi e altri operatori del settore, inducevano il governo a ritirarla poco dopo. In compenso veniva istituita una Commissione parlamentare d´inchiesta sugli infortuni e le "morti bianche" che ha concluso i lavori nell´aprile 2006, ribadendo con voto unanime la necessità, nullameno, di addivenire al più presto alla stesura di un Testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

Siamo così arrivati al governo Prodi. Il nuovo ministro del Lavoro, Cesare Damiano, ha fatto inserire in una legge che tratta in realtà di tutt´altro (la 248 del 4 agosto 2006) un articolo, il 36-bis, il quale contiene misure urgenti per il contrasto del lavoro nero e la promozione della sicurezza nei luoghi di lavoro. Misure apprezzabili, che però si limitano alla repressione dell´impiego di lavoratori irregolari, e soltanto nel settore dell´edilizia – un´area di intervento esigua rispetto all´enorme perimetro del lavoro malsicuro. Il problema è stato però prontamente affrontato dalla Commissione Lavoro della Camera. Già a metà luglio 2006 il suo presidente ribadiva l´esigenza di "un rapido intervento normativo volto all´emanazione di un testo unico in materia di sicurezza del lavoro". I membri della Commissione hanno espresso unanimi il loro consenso. I tempi? Forse un anno, un anno e mezzo, stando a dichiarazioni di alcuni membri e sottosegretari. Se tutto va bene, si arriva dunque a metà 2008 per vedere approvato finalmente un Testo unico. A quell´epoca, ricordano crudamente le serie statistiche, si saranno verificati altri 1800-2000 incidenti mortali sul lavoro. Che nessuno può pensare di azzerare, ma che sicuramente è possibile ridurre di molto con una legge adeguata. Forse è davvero giunto il momento di dare una scossa, almeno in questo campo, al processo legislativo.

Se dici, o peggio ancora scrivi, parole che urtano i miei pregiudizi o i miei interessi, io ti ammazzo. O ti faccio ammazzare dai miei sicari. È l´arcaica, insopportabile sentenza di morte della parola, e dell´uomo libero che la pronuncia, con la quale le società democratiche si erano illuse di avere chiuso il conto. Finché la fatwa contro Rushdie, l´assassinio di Theo Van Ghog e numerose altre azioni del fanatismo islamista hanno riportato nel cuore dell´Europa la questione.

Tra i molti evidenti svantaggi, almeno un vantaggio: rendere più acuta, in noi, una percezione della libertà di espressione quasi opacizzata dal suo uso e fors´anche dal suo scialo. Al punto che oggi – ed era finalmente l´ora – riusciamo a leggere per quello che sono, e cioè attentati alla democrazia, offese letali alla libertà di tutti, anche episodi fin qui pigramente ascritti alla cronaca nera, come le minacce di camorra al giovane scrittore napoletano Roberto Saviano.

Mentre i giornali di tutto il mondo stanno dando enorme rilievo all´assassinio della giornalista russa Anna Politkovskaja, comincia finalmente a prendere corpo anche in Italia, sia pure timidamente e in ordine sparso, la coscienza di un gigantesco e annoso problema di libertà tutto nostro, tutto locale. Le minacce a Saviano, colpevole di avere raccontato Napoli per quella che purtroppo è, e per giunta di averlo fatto in un bel libro, rinverdiscono la tradizione infame di intimidazione, ricatto e assassinio che colpisce chiunque, nel nostro meridione, si ribelli alla dittatura delle mafie. Dalla scomparsa del giornalista De Mauro all´esecuzione del militante politico Impastato, del giornalista Fava, del giornalista Siani, non c´è voce davvero libera che possa esprimersi, nel nostro Mezzogiorno, in legittima libertà e sicurezza. Da più di mezzo secolo, cioè da quando l´Italia è formalmente una democrazia e una Repubblica, pezzi decisivi della Costituzione non sono applicabili in larghe zone del Paese nelle quali la libertà economiche sono sottoposte allo strozzo, al parassitismo e alla violenza delle famiglie mafiose. E la libertà di cronaca e di opinione conta le sue vittime tra i morti come tra i vivi, cioè tra gli zittiti a morte e gli spaventati a vita.

È davvero grave, ripensandoci, che questo particolare aspetto della presenza mafiosa – quello liberticida, che disvela nella mafia la tirannia prima ancora del malaffare – sia stato così scarsamente avvertito, fin qui, dalla classe dirigente così come dall´opinione pubblica. L´allarme di Umberto Eco e di Alberto Scurati, che sulla Stampa giustamente ridefinisce le mafie come antitetiche non solo e non tanto alla legalità, ma addirittura alla libertà, forse è un primo passo per aiutare politici, intellettuali e cittadini a salire di almeno un gradino, quando si parla di mafia, la scala dell´intollerabilità. Parole come oppressione mafiosa, dittatura mafiosa, occupazione mafiosa, rendono molto evidente la necessità non retorica, ma sostanziale, di una vera e propria lotta di liberazione politica, territoriale e culturale. Lo sanno i ragazzi di Locri, lo sa chiunque abbia percepito nella vita quotidiana, nelle strade, nelle case, il plumbeo conformismo dell´assuefazione, che è l´ossigeno che tiene in vita ogni sistema oppressivo.

Oltretutto non guasta, nel mezzo di quel complicatissimo groviglio mondiale che viene convenzionalmente definito "conflitto di civiltà", capire meglio che lo scontro tra arcaismo e modernità (in così larga parte coincidente con quello tra oppressione e libertà) non è certo riducibile alla lotta tra Islam radicale e società secolarizzate (anche islamiche). È presente ovunque logiche di clan, o di tribù, o di cosca, o di conventicola clericale, o di familismo inglobante, tendano a sottomettere i diritti individuali e le libertà formali degli uomini e delle donne, in odio alla libertà dei singoli, alla varietà delle opinioni e delle scelte. Perché i sistemi chiusi, le mentalità arcaiche, sanno benissimo che nessun colpo, per i loro sistemi, è più mortale dell´autodeterminazione delle persone, del loro disporre appieno delle proprie vite e delle proprie parole.

Dire "conflitto di civiltà", dunque, descrive perfettamente luoghi e città di questo nostro Paese nel quale la pubblicazione di un libro costa minacce di morte al suo autore, e giudici, poliziotti, imprenditori, giornalisti e cittadini sono caduti a centinaia perché non volevano vivere sotto la dittatura della malavita, dei suoi sgherri armati, delle sue squadracce punitive.

Per quel poco che vale dirlo, siamo molto vicini a Roberto Saviano, al valore del suo lavoro, all´energia liberatrice delle sue parole. Ci si può anche porre il problema se parlare ad alta voce del suo caso lo aiuti a sentirsi protetto o lo esponga maggiormente. Ma non c´è dubbio che non parlarne esporrebbe tutta Napoli, e tutti gli italiani, al rischio insopportabile dell´indifferenza.

Se Benedetto XVI avesse citato non solo la frase insultante pronunciata dall’imperatore bizantino su Maometto, martedì nella prolusione all’università di Regensburg, ma avesse raccontato come andò l’intero dialogo fra Manuele II Paleologo e il dotto persiano che avvenne una notte d’inverno del 1390-1 o 1391-2, tutto oggi sarebbe un po’ più chiaro, più complicato e forse anche un po’ più triste. Sarebbe più chiaro perché conosceremmo le argomentazioni del Mudarris, il professore teologo musulmano che davanti all’imperatore di Bisanzio difende l’Islam con forza e precisa convinzione. Sarebbe più complicato, perché il dissidio non riguarda tanto la ragione quanto l’essenza della fede, la sua vocazione a sperare, legiferare. Saremmo più tristi, perché in quella notte del XIV secolo il dialogo è una pratica normale, mentre nel secolo nostro non esiste. In quella notte c’è ascolto, voglia d’apprendere, immensa curiosità di conoscere le ragioni dell’altro e di fare in modo che la propria fede prevalga razionalmente anche se molti suoi tratti non sono razionali. Oggi quel dialogo è completamente assente. Se tutti ne parlano, se tanti l’invocano come un valore fine a se stesso che implica nei cristiani dissimulazione della propria identità, è perché tra i due monoteismi il baratro è enorme. Il basileus bizantino non deve scusarsi, il Papa sì.

La lettura dell’intero dialogo fra Manuele e il Persiano ci mostra innanzitutto una cosa: che non sono affatto il logos e l’Ellade a dividere il mondo cristiano dal musulmano. Rifacendosi alla filosofia greca, Manuele denuncia la propagazione delle fede attraverso la spada, vedendo nella guerra santa o jihad non solo un abito «malvagio e disumano» ma un’«assurdità non conforme a ragione», dunque sgradita a Dio «che non si compiace nel sangue». Il Persiano gli risponde che la vera ragionevolezza sta dalla propria parte, essendo l’Islam fondato su moderazione e praticabilità, su misura (métron) e giusto mezzo (mesòtes): categorie aristoteliche centrali. Ambedue sono immersi nella cultura greca. Ambedue si sforzano di poggiare argomentazioni e precetti sulla ragione e su una ragionevolezza «abbordabile». Il disquisire dei conversanti è logico, e in alcuni punti talmente sillogistico da apparire sofistico.

Quel che veramente li divide è in realtà qualcos’altro. Non è la fiducia o non fiducia nella ragione (il dialogo si conclude con la comune constatazione che «la Misura è la migliore delle cose»), ma sono i diversi modi di vivere le leggi, i folli paradossi insiti nella fede e nell’attesa. E la maggior follia non è quella dell’Islam ma del cristiano. Il basileus-imperatore bizantino lo riconosce d’altronde apertamente: in fondo è vero quel che il Persiano rimprovera al credo di Cristo - la sua follia, la non ragionevolezza, la «dismisura», il contraddirsi tormentoso tra poter essere e dover essere. Quel che fin d’allora stupisce più i musulmani - compresi i messianici sciiti - è proprio questa follia cristiana: il credere l’incredibile, il tendere smisuratamente l’anima verso l’alto, il non compromesso con le cose del mondo. Ed è l’insegnamento centrale del Cristo: l’amare il proprio nemico, il porgere l’altra guancia, oltre al disfarsi d’ogni ricchezza e al precetto che ingiunge, se si vuol esser discepoli, di «odiare padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la propria psyche, la propria anima» (Luca 14, 26): «Qual è l’uomo di ferro, di diamante, più insensibile della pietra - così il Persiano - che sopporterà queste cose?».

Manuele Paleologo non dissimula, non sminuisce: è vero che il cristianesimo mostra al credente una strada infinitamente più difficile, come deplorato dal musulmano. Una strada «dura, esagerata, eccessiva», dunque «impraticabile» (la parola greca abatos impiegata dal Persiano è la via che non si può camminare, l’inattraversabile). Impregnato anch’egli di pensiero ellenico, il dotto musulmano cita la «dottrina degli Antichi» e critica una via, quella cristiana, «contraria alla ragione», «pari a una trappola», «fardello violento» (per esempio sulla verginità). Una via «che in un certo modo forza la nostra natura terrestre a montare verso il cielo». Che raccomanda «cose impossibili, disumane».

Il basileus bizantino non nega tutto questo, abbiamo visto. Sì, la via cristiana comporta - quando è perfetta - una scelta deliberata di «soffrire cose penose, quale che sia la loro qualità e quantità»; di «sopportare con mitezza chiunque ci calpesti»; di «percorrere vie dolorose perché ogni strada in salita lo è». Il basileus non nega neppure che ci sia follia, nella religione della croce. Quest’ultima spiritualizza leggi che nell’Islam sono rigide, troppo semplificate e abbordabili, «copiate dalle sorpassate leggi di Mosè». Ma la follia cristiana ha un possente lievito curativo, come contrappeso: l’illimitata speranza, questa follia che guarisce dalla follia. Ha la speranza-certezza che l’incredibile diventi credibile, che l’insperabile sia sperabile, che i frutti della virtù si rivelino dolci pur essendo la loro radice amara. Questo il paradosso che distingue il cristiano: l’attesa di quel che verrà, la promessa del regno celeste, il presagire un futuro non visto ma sentito vicino. Per il Paleologo è vicinissimo, come lo era per Giovanni. Manuele dice: oggi l’aldilà è ineffabile ma «nel secolo a venire» sarà visibile. Gesù confida a Giovanni, in Apocalisse 22, 20: «Sì, verrò presto».

Questa speranza ineffabile e però vicinissima oggi manca, nel cristianesimo. Di speranza si parla anzi poco, come scrive Luciano Manicardi, monaco di Bose, in un bellissimo saggio che uscirà a settembre ne «La rivista del clero italiano»: questa è epoca di «passioni tristi, narcisiste», che ha perso interesse nel futuro, che non prendendo tempo per pensarlo impoverisce il rapporto stesso col tempo. Eppure proprio questo è sperare: «dar forma al tempo». La ragione fatica a combinarsi con lo sperare, e il Persiano non ha torto quando osserva che «vivere con simili speranze non permette di mantenere la misura» ed evitare il peccato d’orgoglio. Se include le domande religiose sull’essere e sul perché esistiamo, la ragione si rimetterà a cercare: in questo il Papa nuota nel profondo e alla ragione apre più vasti spazi. È la follia dell’attesa che nel suo discorso non c’è. Non c’è l’ossimoro che è la speranza nell’insperabile. Non c’è neanche il riconoscimento che jihad è sforzo individuale oltre che guerra: sforzo non diverso dal combattimento spirituale (agone pneumatico) che il Paleologo esalta come cristiano. Questo è segno di intristimento, ma ancor più triste è la sordità dell’Islam alle parole cristiane, e a ogni alterità. La forza del persiano nel dialogo del ’300 è nell’ascolto, ed è una forza che oggi l’Islam non ha. Non è capace di dialogo e di esame della propria storia religiosa perché è come se avesse perso se stesso, e la scelta del Papa di parlare con massima franchezza (è un’altra virtù greca: la parresia) sarà «tragica e pericolosa» come scrive il New York Times, sarà più professorale che politica come dicono alcuni, ma ha la nobiltà politica dell’impolitica, della profezia. La collera nell’Islam nel mondo è diffusa ma esistono anche voci dissenzienti. Il capo della comunità musulmana in Germania, Aiman Mazyek, non scorge attacchi: le parole pontificali contro la violenza sono indirizzate non alla religione, ma a chi trasforma l’Islam in ideologia estremista. «Sono piuttosto un’incitazione a esercitare con più forza l’autocritica nelle nostre comunità», e a «mettere più apertamente in discussione il nichilismo infiltratosi nell’Islam» (Süddeutsche Zeitung, 14-9). In realtà l’Islam è meno forte di quanto sembri credere il Papa stesso in alcuni momenti. In realtà il vuoto lo minaccia.

Proprio questo svuotamento può tuttavia dischiudere porte, inaspettatamente. In un nitido testo pubblicato il 15 settembre sul Corriere, la scrittrice Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) dice: «Vivere nel vuoto (accade nell’Iran del dopo-Khomeini, ndr) è molto meglio che sentirsi intrappolati da ideologie prefabbricate». Vivere nel vuoto - o come scrive Manicardi: nella disillusione, disperazione - apre a quel che Nafisi chiama «l’emergere d’un nuovo linguaggio». Il linguaggio della società aperta, che presuppone in ciascun individuo la coesistenza di molteplici identità: civili, estetiche, etiche, religiose (fra esse l’identità creata dall’arte: «L’arte consente di vivere molte vite», spiega a Nafisi il regista Mohsen Makhmalaf, che a forza di filmare e guardare ha abbandonato il fondamentalismo). Solo la laicità dà questa possibilità, e quando non è convinzione esclusiva ma metodo inclusivo rende obsolete definizioni riduttive come civiltà islamica, o buddhista, o cristiana. È la debolezza e non la potenza dei monoteismi che schiaccia nazioni e cittadini sulla sola appartenenza religiosa, trasformandola in unico cemento politico. Fare il vuoto perché emerga un nuovo linguaggio non esclude il conflitto, non inibisce l’affermazione della propria fede, non è neppure nichilismo: è l’inizio del dialogo, quello vero.

ROMA - «Basta polemiche. Su questo fantomatico muro sono state dette assurdità di ogni tipo. Mi ha chiamato addirittura la Bbc per sapere che cosa stava succedendo a Padova. La risposta è che questa amministrazione vuole smantellare il supermercato della droga che prospera in quell´area. E tra un anno, quando saranno ultimati gli sgomberi del complesso di via Anelli, la recinzione verrà abbattuta». Flavio Zanonato, sindaco diessino della città di Sant´Antonio, parla con la veemenza di chi non riesce a credere di essere accusato di razzismo sia da destra che da sinistra. Al centro della polemica la costruzione, appena ultimata, di una barriera metallica alta tre metri attorno ad un gruppo di palazzine diventate zona franca di spaccio e immigrazione clandestina, per "difendere" così i condomini limitrofi dal dilagare di degrado e micro criminalità.

Sindaco, il muro è stato appena costruito e lei già parla di abbatterlo...

«Prima di tutto smettiamo di chiamarlo muro, perché si tratta di una recizione di lastre di metallo che nulla hanno a che vedere con il muro di Berlino, o addirittura, con il muro che gli israeliani stanno costruendo attorno ai territori palestinesi. Anche di questo sono stato accusato... Quel "muro" è solo una barriera che impedisce agli spacciatori e ai loro clienti di vendere e comprare droga sotto le finestre di cittadini che hanno diritto a tranquillità e sicurezza».

Sì, ma di fatto così lei separa una zona degradata da una zona "normale". Isolando chi resta nelle palazzine a rischio, abitate anche da immigrati regolari, famiglie con bambini.

«Intanto questa barriera non isola nessuno, perché si può entrare ed uscire esattamente come prima. E poi, al massimo nel giro di un anno, tutti questi nuclei familiari che oggi sono costretti a pagare 600 euro al mese per vivere in 28 metri quadrati, riceveranno un alloggio comunale, così come è già accaduto per 120 famiglie, mentre altri 40 nuclei avranno la nuova casa ad ottobre. Il nostro obiettivo è quello di sgomberare e poi riqualificare. Ultimato lo sgombero di tutte le famiglie butteremo giù anche la recinzione».

Però sindaco, dover ricorrere ad un "muro" contro gli spacciatori sembra tanto un provvedimento disperato...

«Non nego che sia una misura forte, ma la situazione è gravissima. A comprare droga lì arriva gente da tutto il Nord. Non hanno bisogno nemmeno di scendere dalle macchine: abbassano il finestrino e gli spacciatori passano la merce. Una follia. Ecco, la barriera obbliga gli spacciatori a disperdersi, impedisce loro di nascondersi, favorisce i controlli delle forse dell´ordine. Io voglio rendere difficile la vita a chi vende la droga. E´ forse razzismo questo?».

E i check point?

«E´ un´altra esagerazione. Trattandosi di una zona ad alto rischio c´è una vigilanza di polizia e carabinieri 24 ore su 24. Ma non mi possono dire che due camionette di carabinieri sono un check point. E sono proprio gli inquilini delle palazzine circondate dalla recinzione, gli immigrati regolari, che ci chiedono di non lasciarli soli tra spacciatori e criminali».

Come si sente ad essere attaccato anche dalla Sinistra?

«Amareggiato, ma sicuro di quello che sto facendo».

Però lei ha già deciso che tra dodici mesi il Muro di Padova cadrà.

«Senza dubbio. Appena tutti i nuclei di immigrati avranno una casa popolare, il complesso di via Anelli verrà completamente smantellato e ricostruito con criteri "umani". E non ci sarà più bisogno della recinzione. Per adesso comunque ci limiteremo a riempirla di murales».

Per quanto si parli di cose serie, drammatiche e addirittura delinquenziali (il sequestro di persona è un reato grave), la faccenda del rapimento dell'imam Abu Omar sembra saltata fuori da una gag di Aldo, Giovanni e Giacomo. La storia è nota: gli amici della Cia, più un po' di amici del Sismi, prelevano un cittadino straniero a Milano per mandarlo in un posto (l'Egitto) dove possa essere comodamente torturato. Sembra «l'ora del dilettante »: si fanno beccare per colpa dei telefonini, si contraddicono, scappano lasciandosi dietro prove evidenti, persino l'ispettore Clouseau avrebbe fatto di meglio. Sistemato l'imam, una parte del Sismi passa a interessarsi di quell'altra parte del Sismi che era contraria al rapimento dell'imam. Oplà: ecco che la lotta al terrorismo internazionale (sic!) diventa faccenda di sgambetti nei corridoi, dispettucci tra colleghi, trasferimenti, gente che vuole un secondo lavoro (alla Cia). Si spiano giornalisti che scrivono sulla faccenda, si attiva l'agente «Betulla», tale Renato Farina, fin lì noto al pubblico come soave baciapile, segno zodiacale ipercattolico, ascendente ciellino, con la luna in Fallaci. Uno tanto devoto, ma tanto devoto, che trovano nel covo degli spioni le sue ricevute di pagamento (il miracolo della moltiplicazione degli stipendi!). A lui sono affidate scottanti missioni come per esempio fare un'intervista al pubblico ministero che si occupa del rapimento dell'imam: l'agente Betulla va da chi indaga sul rapimento con una lista di domande scritte dai rapitori, e ai rapitori telefona subito dopo per dire «...Non sanno niente, tranquilli». Le ultime parole famose. Il pasticcio ha molte letture possibili, una delle quali, sostenuta da Betulla, e sottoscritta da Ferrara Giuliano, pare la più esilarante: sarebbe in corso una quarta guerra mondiale e Farina, parte del Sismi, naturalmente Ferrara e altri eroi, «stanno dalla parte giusta». Ora, è evidente che a questa fregnaccia della quarta guerra mondiale io non ci credo, ma voglio essere generoso e farò finta di accettare l'ipotesi. Proviamo: c'è una quarta guerra mondiale e noi (i buoni) tentiamo di sconfiggere loro (i cattivi) grazie allo straordinario apporto di mister Betulla, vice di Feltri,uomo di fede. In effetti, ce ne vuole davvero tanta, di fede - e pure parecchia fantasia - per digerire una cazzata simile. Meno male che non c'è, 'sta guerra mondiale, sennò, pensate in che mani...

Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini (il titolo è quello originale)

Il cinismo a proposito della politica italiana è facile, ma qualche volta fuori luogo. L’11 novembre Francesco Rutelli, uno dei due vicepresidenti del consiglio nel governo di centrosinistra di Romano Prodi, ha pubblicato un programma di liberalizzazioni. Alcune parti suonano quasi ridicole, come la deregulation degli autobus scolastici, dei pulmini degli alberghi e dei servizi di auto di rappresentanza. Altre sono di campo più vasto: più concorrenza in campo energetico e nelle ferrovie, far sì che i fornitori di pubblici servizi partecipino a un appalto, e valutare la loro produttività sulla base della soddisfazione dei consumatori.

Rutelli è più noto come abile tattico piuttosto che come politico di profonde convinzioni. Nato come radicale anticlericale, è stato un verde prima di spostarsi verso il centro e assumere la leadership della Margherita, un insieme di democratici cristiani progressisti e liberali che è uno dei tre grandi partiti dell’articolatissima coalizione di governo. In quel governo, lui è visibilmente sottoutilizzato, con un portfolio che comprende soltanto cultura e turismo.

Persone vicine al primo ministro commentano che c’è poco, nel piano di Rutelli, che non sia già stato proposto anche da Prodi. Un pacchetto di riforme a luglio, redatto da un altro ministro, Pierluigi Bersani, ha liberalizzato le farmacie, i taxi e le tariffe legali. Prodi ha promesso di più: ci sono già altri due ministri al lavoro su progetti per smuovere il mondo delle amministrazioni locali e delle professioni.

Ma nonostante tutto l’iniziativa di Rutelli conta. In una società dove l’opinione pubblica è stata per lungo tempo favorevole alla regolamentazione e ai monopoli, un politico con un certo fiuto per i consensi sostiene riforme liberali. Anche la reazione alle prime mosse di Bersani è stata positiva. Potrebbe trattarsi di uno spartiacque storico.

Ma i liberalizzatori hanno bisogno di uno sponsor potente. Sinora, è la componente più di sinistra del governo Prodi ad avere più spazio: la bozza di finanziaria per il 2007, ad esempio, è prodiga di aumenti delle tasse, avara di tagli alla spesa. Ma Rutelli segnala che, una volta approvata la finanziaria, si aspetta il sostegno di Prodi.

Chi gestirà le riforme? Prodi sa che il suo compito è di coordinare i ministri. Ma nella sua posizione deve mantenere l’equilibrio di coalizione fra moderati, ex comunisti e chi comunista lo è ancora. Il decreto Bersani si è guadagnato un ampio sostegno nel governo solo perché tocca gruppi non sindacalizzati come i farmacisti, gli avvocati o i taxisti. Se il governo fa sul serio con le riforme, prima o poi dovrà scontrarsi coi potenti sindacati italiani. Anche se il piano di Rutelli offre una rete di protezione a chi è colpito dalle liberalizzazioni, qualcuno dovrà ribadire la determinazione governativa.

Rutelli vuole questo compito. Si è dimostrato uno sfavillante ed efficace sindaco di Roma. Adesso lo chiama il grande compito.

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Presidente Prodi, il centrosinistra governa in Italia e in Spagna. I due modelli politici, però, sembrano piuttosto diversi.

«Perché bisogna sempre parlare di modelli? Ogni Paese ha i suoi problemi, le sue caratteristiche, i suoi momenti storici. È un bene che nell’ambito del centrosinistra convivano diversi modelli. Gli obbiettivi devono sempre essere raggiungere una maggiore uguaglianza, migliorare il sistema dell’istruzione, dare più sicurezza ai cittadini, innovare nel campo delle relazioni umane e proteggere i più deboli. Sotto questo aspetto, le nostre politiche sono analoghe. Ma l’ambiente in cui operiamo in Italia è totalmente diverso da quello della Spagna. Zapatero può contare su un partito che ha una chiara maggioranza in Parlamento, io cerco di costruirlo».

Come sarà il futuro Partito democratico, e quando partirà?

«Il processo è già iniziato. Incontreremo ostacoli, perché in politica è più facile dividere che unire. Già il prossimo anno, i due grandi partiti che costituiranno l’ossatura del Partito democratico, i Democratici di sinistra e la Margherita, terranno i propri congressi per dare il semaforo verde all’unificazione. L’obbiettivo è poter contare su un punto di riferimento per qualsiasi governo riformista».

Dopo il suo primo mandato come presidente del consiglio in Italia, lei passò alla testa della Commissione europea, a Bruxelles. L’incapacità europea di articolare una politica estera efficace deve rappresentare un motivo di particolare preoccupazione per lei.

«Questo è un vecchio problema. Il grande problema dell’Europa. Toccammo il fondo nel 2003, con la crisi irachena. L’Ue subì divisioni terribili. Non sono ottimista, né spero che la situazione migliori rapidamente, anche se questa estate, con l’invio di soldati nel Libano, è stata recuperata l’unità. In qualsiasi caso, la politica estera e la politica di difesa saranno l’ultimo capitolo del processo di unione. Le difficoltà, però, vanno al di là. Dobbiamo affrontare con urgenza il capitolo dell’immigrazione e quello dell’energia, che è gravissimo. L’Europa è molto esposta in questo senso. Non ci rendiamo conto della fragilità della politica energetica europea».

L’Iran rappresenta un problema particolarmente delicato per l’Italia.

«Sì, siamo il principale partner commerciale dell’Iran in Europa. Ma il nostro ruolo politico è per forza di cose secondario, perché non facciamo parte del gruppo di negoziatori e non possiamo assumere iniziative. Appoggiamo Javier Solana e la sua politica di dialogo e di fermezza. Non vogliamo che l’Iran costruisca un ordigno nucleare, ma fino all’ultimo bisogna cercare un accordo».

Ritornando alla politica italiana, perché in Italia sembra essere così difficile fare le riforme?

«È facile farle in Germania? O in Francia? È sempre difficile fare cambiamenti in materia di stato sociale. Ma noi abbiamo già cominciato. Siamo arrivati al govenro lo scorso 17 maggio, abbiamo avuto a disposizione appena cinque messi, con in mezzo le vacanze. E già abbiamo messo in campo il cosiddetto "pacchetto Bersani", per liberalizzare settori come l’avvocatura, le farmacie e i taxi. Guardi, giovedì scorso sono scesi in piazza a manifestare contro le riforme più di 20.000 professionisti. Avremo pur fatto qualcosa per spingere tutta questa gente a scendere in piazza, no? Abbiamo sviluppato uno sforzo enorme per riformare molti settori, e sappiamo che tra gli interessi che sono stati colpiti ci sono anche quelli di molti nostri elettori. Ma il Paese ha bisogno di riforme, soprattutto nel settore dei servizi. Le professioni, l’energia, il sistema energetico, devono trasformarsi. Abbiamo anche firmato un protocollo d’intesa con i sindacati per dare il via a una riforma approfondita delle pensioni. Certo, un protocollo non equivale a una decisione, ma apre la strada per cominciare a lavorarci nella prossima primavera».

Basterà una legislatura per raggiungere questi obbiettivi?

«Deve volerci di meno, perché queste cose si fanno all’inizio della legislatura».

Solo i sindacati applaudono senza riserve la Finanziaria del 2007. Non sono state fatte troppe concessioni alle centrali sindacali?

«Non abbiamo dato niente ai sindacati. Abbiamo dato tutto il possibile alle categorie più deboli del Paese. Onestamente, i più favoriti dal progetto di legge di bilancio sono la Confindustria, gli imprenditori. Le imprese avranno a disposizione 7 miliardi di euro per stimolare l’economia. Guardi, non è possibile cambiare rapidamente la distribuzione del reddito. Per il momento, abbiamo dato il segnale che intendiamo cambiare la situazione italiana, dove la sperequazione nella spartizione della ricchezza raggiunge livelli che non hanno eguali in Europa. I sindacati ci applaudono? Bene. Non sono loro a guidarci, ma la pura e semplice decenza».

Quindi, l’opposizione degli imprenditori va letta in chiave politica.

«In parte sì. Ma c’è un’altra chiave di lettura più profonda. Glielo dico con la massima sincerità: il problema fondamentale è l’evasione fiscale. In realtà le categorie professionali che manifestano protestano contro il pagamento delle tasse. E per me non cambierebbe niente anche se scendessero in piazza a milioni. Nella lotta contro l’evasione, ci giochiamo il futuro del Paese. Il resto è secondario. Il fatto che gli introiti del fisco siano tanto cresciuti negli ultimi mesi, senza che sia entrata in vigore nessuna riforma, è dovuto al fatto che la gente sta prendendo coscienza che dovrà pagare. Riusciremo a mettere fine alle frodi? Le resistenze sono enormi. E negli ultimi anni tutta la struttura della lotta contro l’evasione è stata smantellata».

Al precedente presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, evadere le tasse sembrava normale.

«Esatto. Questo dà la misura della sfida. Gli avvocati e gli ingegneri che manifestavano si opponevano, in fondo, a determinati principi contabili e a certi metodi di pagamento, come i bonifici elettronici, che limitano la possibilità di frode. Si rende conto? È un fenomeno interessantissimo. Non manifestavano per problemi concreti, ma contro l’obbligo di presentare una contabilità chiara e di pagare le imposte corrispondenti ai propri guadagni. Lo stesso Berlusconi stimò in un 40 per cento il volume dell’economia sommersa in Italia. E affermò che quando le imposte superavano un terzo dei guadagni, l’evasione era moralmente lecita. Il mio grande avversario è la cultura della frode. Lei vive qui, percepisce la ricchezza di questo Paese, l’intensità dei consumi, no? Questa situazione è inaccettabile. L’Italia di oggi deve scegliere una volta per tutte: o la cultura della legge o la cultura della disobbedienza e dell’anarchia».

Ma…

«Lei ha seguito il caso delle intercettazioni di massa di Telecom Italia. Una grande impresa, la Telecom, stava facendo quello che più le pareva. Ma hanno spostato l’attenzione da questo scandalo con delle accuse assurde, secondo cui noi volevamo intervenire sulla Telecom. È avvenuto un abuso molto grave, con intercettazioni illegali di massa. Io stesso ero spiato. E nessuno dice niente. Neanche El Pais».

Abbiamo dato un certo spazio alla questione.

«Salvo l’Unità, nessuno segue quello che è il vero scandalo. La stampa italiana tace. Segnale che abbiamo ingaggiato una battaglia importante. In casi del genere, bisogna capire da che parte sta la libertà. Evidentemente, lavorare con i mezzi di comunicazione contro per noi è un problema serio. Il leader dell’opposizione è proprietario del principale gruppo nel settore dei media. Ci sono di mezzo grandi interessi. Quello che è certo è che nessuno può rimproverarmi niente. Io non sapevo nulla del rapporto (elaborato da Angelo Rovati, consigliere personale di Prodi, e in cui si proponeva la rinazionalizzazione della rete di telefonia fissa controllata dalla Telecom, ndr), ma anche se lo avessi saputo? Che importanza aveva? Sono riusciti a spostare il dibattito sulla questione se io sapevo oppure no, se mento o se dico la verità su una cosa senza importanza. Quel documento non aveva nulla di ufficiale. Ma pazienza, alla fine vincerò io. Sa come si fa la mozzarella? Si gira e si rigira con pazienza, fino a formare una matassa. Diciamo che io sto facendo la mozzarella. Se non riescono a farmi fuori adesso, alla fine il Paese capirà le mie ragioni. E non possono mandarmi via perché non saprebbero che fare. Il momento in cui è scoppiato il caso Telecom non è casuale: proprio prima della Finanziaria».

Se lei rimane saldamente al timone del governo, qual è l’obbiettivo di questa campagna generalizzata contro di lei?

«Spingerci a trattare. Il grande problema dell’Italia, un Paese pieno di inventiva e intelligenza, sta nel fatto che la politica deve sempre stare sotto scacco, sotto minaccia. Non si tratta di guerra, ma di guerriglia. È un vecchio schema. Dobbiamo fare i conti con un ginepraio di privilegi radicati. Nel dialogo politico italiano, è difficile distinguere il problema reale, di cui non si parla mai, dal problema fittizio, su cui si combatte con accanimento. In questo momento, il problema reale è la contabilità, la trasparenza».

(Copyright El Paìs-La Repubblica - Traduzione di Fabio Galimberti)

Il papa è riuscito con un sol colpo a compattare l'islam e i fondamentalisti, e a ridare impulso alla «guerra di civiltà» che già tramontava nel sangue delle carneficine medio-orientali. Ci voleva il teologo Ratzinger con il suo disprezzo verso l'occidente laico e illuminista - incapace di far fronte alla forza spirituale del «nemico» - per infiammare l'islam, figlio di un «dio minore». Non è una gaffe quella del papa che fin dall'inizio del suo pontificato ha consegnato la salvezza del nostro mondo consumista e materialista al ritorno di un'identità forte e al primato del Dio cristiano. E il silenzio della comunità politica e laica adesso gli dà ragione così come gli Usa di Bush, che per bocca di John Hanford, responsabile per la libertà religiosa del dipartimento di stato, incassa l'aiuto del Vaticano nella sua guerra permanente e preventiva all'«islamo-fascismo».

La sordina messa dalla stampa alle prime dichiarazioni di Ratzinger si è infranta contro la protesta dei seguaci dell'«irragionevole» profeta con la spada, Maometto, e adesso il senso del discorso di Ratisbona emerge in tutta la sua pericolosità. Dalla Giordania all'Egitto, da Hamas alla Turchia - intenzionata a cancellare il viaggio apostolico di Benedetto XVI - dal Libano agli Ulema iracheni l'islam è in fiamme: «Le parole del papa consentono ai soldati in Afghanistan e in Iraq di sentirsi nel giusto, mentre le loro mani commettono crimini vergognosi nei confronti dei musulmani». Risponde dall'altra parte dell'Atlantico, il presidente degli Stati Uniti, che ieri ha avvertito il Congresso: «Torneranno ancora, ci attaccheranno ancora» e ha chiesto il nulla osta alle leggi speciali contro il terrorismo.

Dov'è finita la cristiana «ragionevolezza»? In che modo Ratzinger interpreta la religione di un Dio che si fa uomo contro un Allah trascendente, intransigente e incapace di coniugare il divino con l'umano? Se c'è una contraddizione in questo papa, è proprio qui, nel suo farsi integralista, interlocutore di altri integralisti, nel promuovere una jihad sotto il segno della croce. E per una cattiva convergenza astrale oggi i giornali celebrano la scrittrice che temeva l'invasione dei topi-arabi, e che per un solo giorno ha mancato il suo trionfo.

BENGODI L’Italia è davvero il Belpaese: barche, auto di lusso e case. Tante case. Meglio se di pregio, circondate dal verde e con vedute mozzafiato. Silvio Berlusconi lo sapeva bene e lo ripeteva ad ogni occasione. Nuovi poveri? Ma dove? Se i ristoranti sono

pieni e i compagni di scuola dei miei figli hanno almeno un paio di telefonini. Vero, tutto vero. Nella Penisola ci sono oltre 7 milioni di auto di lusso circolanti. Negli ultimi mesi sono stati venduti circa 40mila Suv di lusso, 10mila Mercedes, altrettante Audi A6. Dal 2005 ad oggi sono stati venduti 150mila fuoristrada del valore di 50mila euro, di cui 74mila (quasi la metà) nei primi mesi di quest’anno. Se si cambia mezzo di trasporto, le cifre non cambiano di molto. Le imbarcazioni da 17 metri nel 2005 erano 65mila. Ma le vere scintille si vedono nel mercato immobiliare. Altro che barche e Rolls Royce: qui si parla di appartamenti in palazzi d’epoca, ville circondati da parchi, attici panoramici. Nel 2004 ne sono state acquistate 35mila unità. Sotto le Alpi poi una casa sembra non bastare a chi vive nell’agio: le famiglie proprietarie di almeno tre abitazioni sempre due anni fa erano 566mila (mezzo milione).

Questa folta moltitudine di ricchi si incontra al mare sugli yacht ormeggiati nei porti, e in città. In quei famosi ristoranti sempre pieni, per l’appunto, oppure nelle feste degli amici (sai, ho preso l’ultimo modello della Porsche Cayenne....). Gli unici a non intercettarli tanto facilmente sono gli uomini del fisco, se è vero (come è vero) che sono solo 17mila i contribuenti che dichiarano redditi superiori ai 200mila euro. Difficile pensare che ciascuno di loro abbia decine di barche e migliaia di auto. Chiaro che tutto quel Bengodi resta allegramente nelle tasche dei cittadini e non viene neanche leggermente filtrato dallo Stato. Anzi: a quanto pare più si è ricchi più ci si sente legittimati a fare il proprio comodo con i propri (propri?) soldi, senza rispettare le regole e i patti fondamentali del vivere sociale. Tant’è che di fronte ad uno Stato che non riesce a costruire strade, ferrovie, ponti, oberato da un debito pubblico che equivale a oltre il doppio della sua intera ricchezza, affannosamente alla ricerca di un pareggio di bilancio che sembra una chimera, quando il governo ha iniziato a dire di voler fare la lotta all’evasione (controllando i redditi da lavoro dei professionisti, roba dell’altro mondo per l’Italia) si è gridato allo scandalo. Con il decreto Bersani-Visco si dota l’amministrazione di strumenti più moderni. Eppure una certa Italia si è sentita oltraggiata. Si è evocato il grande fratello, anche se nessuna parte delle procedure necessarie per aprire un’indagine è stata modificata. Semplicemente si sono accorciati i tempi per le verifiche grazie a supporti più innovativi. Un passo normale, che nel Paese del liberi tutti (anzi, solo alcuni, perché i dipendenti non lo sono affatto) sembra una rivoluzione.

Eppure l’Istat registra un «nero» che sfonda i 200 miliardi di euro, e che si concentra nell’agricoltura, nelle costruzioni (insieme oltre il 30%) e nel terziario (circa il 20%). Secondo altre stime, il 25% della ricchezza prodotta dal paese resta irregolare: un euro ogni 4. Il tutto nella più assoluta indifferenza della popolazione. Che soffre in silenzio, visto che l’altro primato di questa Italia è l’alto grado di diseguaglianza. Per Bankitalia il 10% dei più ricchi controlla il 43% della ricchezza, mentre sul fronte opposto il 10% dei più poveri non arriva a controllare l’1%.

In una situazione così sorprende la tolleranza generalizzata per l’illecito fiscale. L’amministrazione spesso ha giocato a mosca cieca (parole di Pier Luigi Bersani) con alcuni contribuenti. La prova? Si vedano lr dichiarazioni. Che i ristoratori dichiarino in media quanto i metalmeccanici (circa 20mila euro) fa ridere (o piangere). Stesso dicasi per i dentisti che staccano di poco i docenti universitari (42.800 contro 38.500). Sempre i ristoratori guadagnano meno dei poliziotti. Sarà un caso, ma nell’ultima relazione annuale l’Agenzia delle entrate ha rivelato che oltre il 92% dei controlli è risultato positivo. Come dire: come cercano il nero lo trovano. Ma in giro non si sente aria di ribellione. Anzi, gli sforzi del governo Prodi per recuperare qualche grado di legalità e di equità sono messi all’indice da molte forze politiche come troppo punitive. Significativa l’interpretazione fornita da un’associazione culturale di finanzieri (ficiesse- finanzieri cittadini e solidarietà) in un documento sulla lotta all’evasione. Ecco l’analisi: «La situazione attuale discende dal fatto che in Italia, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, si è gradualmente creato un particolare equilibrio tra categorie produttive per il quale, a fronte delle conquiste ottenute dai lavoratori dipendenti in termini di sicurezza del posto di lavoro, di livelli retributivi e di regimi pensionistici - si legge sul sito www.ficiesse.it - è stato di fatto consentito a imprenditori, artigiani e professionisti di pagare molte meno tasse (o di non pagarle proprio), grazie al ricorso a una molteplicità di meccanismi tra i quali in primo luogo l'evasione fiscale». Insomma, anche l’evasione farebbe parte del «patto». Difficile da digerire un’interpretazione di questo genere, che mischia diritti con reati e illegalità. Tanto più che un equilibrio di questo tipo non ha più le gambe per proseguire. I lavoratori dipendenti non hanno più né sicurezze, né buoni livelli retributivi, né certezze previdenziali. Devono pagare tutto: l’inflazione in aumento, le vicissitudini della precarietà del lavoro e anche una pensione aggiuntiva. Oltre naturalmente alle tasse. Non possono continuare a pagare anche le rendite di chi è «libero» dal mercato e dal fisco.

A indirizzare la spesa in conto capitale in questa direzione sarà il Quadro Strategico Nazionale 2007-2013 (di seguito: Quadro) che l’Italia definirà entro l’estate 2006 anche per accedere all’uso dei fondi europei. La politica regionale di sviluppo delineata nel Quadro sarà diretta a ridurre la persistente sottoutilizzazione di risorse del Mezzogiorno e contribuire alla ripresa della competitività e della produttività dell’intero Paese. Si intende perseguire una “strategia dell’offerta”, che attraverso la realizzazione di infrastrutture materiali e immateriali e il miglioramento dei servizi collettivi conferisca redditività agli investimenti privati. Un aumento della convenienza a investire potrà tradursi in un incremento dell’attività imprenditoriale sia endogena sia esterna ai territori meridionali, con effetti positivi sui redditi e sull’occupazione. Per contrastare il rallentamento della dinamica della produttività nelle regioni del Centro Nord le politiche faranno leva sui punti di forza del sistema produttivo dell’area che, oltre a un settore agroindustriale in rinnovamento, a un settore turistico con rilevanti possibilità di miglioramento, e a produzioni tradizionali con prospettive di crescita dimensionale, comprende medie imprese in grado di affrontare i processi di internazionalizzazione e filiere quali la meccanica, capaci di sviluppare innovazioni sia di processo sia di prodotto e per tale via innescare un processo di modernizzazione utile all’intero Paese.

Sulla base degli impegni europei e dell’Intesa raggiunta da Stato e Regioni nel febbraio 2005, il Quadro conterrà un’indicazione delle priorità, le regole di condizionalità per il trasferimento dei fondi, incluse quelle a tutela del principio di addizionalità dei fondi comunitari, gli impegni finanziari settennali sulle risorse comunitarie e nazionali.

Nel prossimo settennio 2007-2013, in base all’accordo sulle Prospettive finanziarie dell’Unione europea raggiunto nello scorso mese di dicembre, le risorse comunitarie da utilizzare con Programmi nazionali, regionali e interregionali ammontano a circa 29 miliardi di euro. Le risorse nazionali a carico del Bilancio dello Stato richieste per l’accesso ai fondi europei saranno commisurate, secondo una programmazione anch’essa settennale: quanto al cofinanziamento, in base ai tradizionali tassi di cofinanziamento, integrati dalle dovute compensazioni per particolari aree;quanto alle risorse nazionali afferenti al Fondo aree sottoutilizzate, nella misura media dello 0,6 per cento del PIL, in linea con le leggi finanziarie degli ultimi anni. Verranno inoltre garantite, anche partendo dai limiti dell’esperienza passata, condizioni atte ad assicurare requisiti di aggiuntività finanziaria e strategica delle politiche regionali rispetto a quelle ordinarie.

Per quanto riguarda la strategia di assegnazione dei fondi, essa si muoverà sulla base dell’esperienza acquisita con il ciclo 2000-20061 e in linea con quanto prefigurato nella bozza tecnico-amministrativa di Quadro definita dalle Amministrazioni centrali e regionali con il partenariato economico e sociale, che ha identificato dieci priorità.

Quattro sono i principali obiettivi:

1. sviluppare i circuiti della conoscenza;

2. accrescere la qualità della vita, la sicurezza e inclusione sociale;

3. potenziare le filiere produttive, i servizi e la concorrenza;

4. internazionalizzare e modernizzare.



1) Sviluppare i circuiti della conoscenza

All’accrescimento delle conoscenze concorrono le azioni previste nell’ambito delle priorità “miglioramento e valorizzazione delle risorse umane” e “ricerca e innovazione per la competitività”. Si tratta di interventi per la qualificazione delle risorse umane e delle competenze in un contesto in cui, soprattutto al Sud, del tutto inadeguate appaiono le conoscenze diffuse dei giovani (cfr. par. 1). L’impegno finanziario in tema di istruzione andrà decisamente moltiplicato rispetto a quello, ancora insufficiente, destinato negli anni 2000-2006 al Programma nazionale sulla scuola. Va inoltre proseguito, orientato con maggior forza verso l’obiettivo dell’apprendimento lungo l’arco della vita e migliorato nella qualità, l’intervento di formazione, per il contributo che esso può dare alla capacità di inserimento nel mercato del lavoro degli individui e, in particolare, delle donne.

Nel campo della ricerca e dell’innovazione risorse superiori rispetto a quelle assegnate nel periodo di programmazione precedente saranno indirizzate, con criteri fortemente meritocratici a tre linee di intervento: finanziamento di centri d’eccellenza di standard internazionale presenti nel territorio meridionale; meccanismi di “mediazione” tra ricerca e mondo imprenditoriale in grado di valorizzare in termini di innovazione e di produttività i progressi della ricerca nazionale; promuovere la trasformazione della conoscenza in applicazioni produttive, anche valorizzando il ruolo delle tecnologie dell’informazione come fattore essenziale di innovazione.



2) Accrescere la qualità della vita, la sicurezza e l’inclusione sociale

Le condizioni di vita dei cittadini e l’accessibilità dei servizi condizionano la capacità di attrazione e il potenziale competitivo di un’area.

Gli interventi sull’ambiente mireranno, innanzitutto, attraverso un incremento di risorse dedicate, ad accrescere la disponibilità di risorse energetiche mediante il risparmio e l’aumento della quota di energia prodotta da fonti rinnovabili. Per i servizi idrici e della gestione dei rifiuti, saranno effettuati, in continuità con l’impostazione data nel 2000-2006, e con una identificazione di precisi obiettivi di servizio, investimenti rivolti all’efficienza e alla tutela del territorio.

Saranno previsti interventi per il miglioramento dell’accessibilità, con particolare attenzione alla logistica e alla disponibilità e qualità dei servizi sociali. Indispensabili risultano inoltre azioni che, soprattutto in alcune regioni del Mezzogiorno, contrastino e prevengano i fenomeni criminali, ripristinando condizioni di adeguata sicurezza. Esse andranno condotte con un forte impegno sulla qualità delle risorse umane coinvolte e con un legame alle iniziative territoriali, che è finora mancato. A questi obiettivi è rivolta la priorità “Inclusione sociale e servizi per la qualità della vita e l’attrattività territoriale”, con accresciute risorse finanziarie.



3) Potenziare le filiere produttive, i servizi e la concorrenza

Gli interventi previsti in questo ambito si rivolgeranno alla promozione della competitività delle filiere produttive, incidendo sulle posizioni di rendita che pongono un netto limite alle potenzialità di crescita dei territori. Essi saranno integrati con azioni specifiche e modalità volte a incrementare la concorrenza nell’accesso alle opportunità offerte dai programmi, nei mercati dei servizi di pubblica utilità, e alla creazione di esternalità positive per il sistema delle imprese .

Ad aumentare la competitività dei sistemi di imprese contribuiranno anche “progetti integrati locali”, in base alla priorità “competitività dei sistemi produttivi locali e occupazione” e interventi per la mobilità e la logistica. Potranno contribuire anche meccanismi fiscali automatici, come i crediti d’imposta, da finalizzare alla ricerca, alla crescita dimensionale, agli start-up innovativi. A tali azioni si affiancheranno quelle mirate ad aprire spazi alla concorrenza e a ridurre il peso della burocrazia sull’attività imprenditoriale.

Particolare rilievo assumono le potenzialità di alcune filiere produttive:

• l’agro-alimentare potrà avvalersi anche di interventi atti a rendere più accessibili i mercati di sbocco e a rafforzare la logistica (priorità “reti e collegamenti per la mobilità”e “apertura internazionale e attrazione di investimenti, consumi e risorse”);

• la filiera meccanica potrà attivare fra l’altro la necessaria promozione e valorizzazione di produzione di energia rinnovabile;

• la filiera del turismo culturale e ambientale potrà orientare il proprio sviluppo grazie alla concentrazione delle risorse su pochi grandi attrattori culturali e naturali che già beneficiano di flussi di domanda turistica internazionale (priorità “valorizzazione delle risorse naturali e culturali”);

• i servizi avanzati nel campo della scienza, delle nuove tecnologie e della cultura potranno meglio svilupparsi nei sistemi urbani e nelle aree metropolitane grazie a un più elevato sostegno finanziario alle azioni per connettere le città e i sistemi territoriali con le reti materiali e immateriali dell’accessibilità e della conoscenza, al rafforzamento della specializzazione delle funzioni urbane.



4) Internazionalizzare e modernizzare

L’apertura del Mezzogiorno ai flussi di merci e persone, nonché il suo potenziamento quale area di destinazione di investimenti diretti esteri potrà essere favorita da interventi infrastrutturali e logistici destinati a rafforzare la capacità di penetrazione commerciale delle imprese dell’area sui mercati di sbocco e l’attrattività di queste aree per gli investitori. Quest’ultima andrà anche promossa attraverso il rafforzamento di un programma dedicato. Le relazioni internazionali del Mezzogiorno, affiancandosi a un rafforzamento dell’azione di capacity building, accelereranno la modernizzazione complessiva.

Ieri sera allo Spazio Krizia di Milano il Circolo Società civile ha ricordato il suo ventesimo anniversario. Fondato, su impulso di Nando Dalla Chiesa, da 101 cittadini milanesi, professori, giuristi, architetti, artisti, scrittori, giornalisti di gran nome o che un gran nome avranno, il Circolo e il giornale omonimo rappresentarono, alla metà degli anni Ottanta, un vigoroso segno di ripulsa e di ribellione contro la corruzione divenuta soffocante. Ai 101 si aggiunsero via via altri 400 soci: Società civile divenne il concreto simbolo di una vigile opinione pubblica.

Si sapeva tutto o quasi nella «Milano da bere» di quel che stava accadendo nella città craxiana, si conoscevano anche le tariffe del malaffare nel quale erano coinvolti tutti i partiti politici con differenti livelli di responsabilità, democristiani e socialisti in testa. Possedendo le leve del potere erano infatti in grado di distribuire appalti e donativi, ingenti somme per finanziare i partiti, non poco denaro per le tasche di politici corrotti. Fu l’odore della corruzione e la prova della sua esistenza la molla che suscitò la reazione di un gruppo consistente di cittadini. Rappresentavano la borghesia responsabile che rifiutava le pratiche della corruzione istituzionalizzata: la ritenevano deleteria per il bene comune, politicamente, eticamente, finanziariamente.

Il Circolo durò una decina d’anni. Ne facevano parte professori universitari come Valerio Onida, futuro presidente della Corte costituzionale, Guido Martinotti, Raffaella Lanzillo, Giorgio Galli, Alberto Martinelli, Stefano Draghi, Franco Rositi; giornalisti di fama come Camilla Cederna, Giorgio Bocca, Alberto Cavallari, Carlo Rognoni, Giampaolo Pansa, Carlo Stampa, Paolo Murialdi; magistrati come Gherardo Colombo, Edmondo Bruti Liberati, Giuliano Turone, Luigi De Ruggiero, Armando Spataro, Livia Pomodoro, Piercamillo Davigo, Ilda Boccassini e poi Mariuccia Mandelli (Krizia), Franco Parenti, Enrica Domeneghetti, Luigi Santucci, Eolo Mazzotti, padre David Maria Turoldo, Cini Boeri, Alessandro Dalai, Silvio Novembre. E molti altri. Una quantità (e qualità) di persone che adesso sarebbe assai più difficile coinvolgere in un impegno per la comunità.

Il Circolo e il giornale, diretto da Gianni Barbacetto, ebbero con i pochi mezzi a disposizione una funzione importante e al di là delle aspettative: per svegliare le coscienze, per denunziare speculazioni e storture che porteranno, nel 1992, all’inizio dell’inchiesta «Mani pulite» di cui adesso si tenta di dire che nacque soltanto per l’accanimento dei magistrati i quali avrebbero perseguito il progetto di coloro che allora sostennero l’inchiesta della Procura di Milano. Purtroppo la ruberia fu ben reale come lo furono gli imprenditori (e i politici) che si mettevano in coda per confessare ai magistrati le modalità della legge da loro violata.

Circolo e giornale discussero temi spinosi e crudi che gli organi della grande informazione si guardavano bene dal toccare: gli affari e i partiti a Milano e altrove: le tangenti e la pratica amministrativa; il caso Ligresti; la questione morale analizzata non tanto con astratte dichiarazioni d’intenti, ma con specifici e particolareggiati esempi di corruzione.

Il giornale fu anche un laboratorio di scrittura e d’inchiesta. Con Barbacetto uscirono da Società civile eccellenti giornalisti come Mario Portanova, Giampiero Rossi, Mario Calabresi, Umberto Brindani, Sofia Basso, Elena Cosentino, Andrea Riscassi: diede un gran fastidio con le sue indagini sulle connessioni tra politica e poteri criminali nell’hinterland milanese, Bruzzano, Buccinasco, Rozzano, Trezzano - piaghe sempre vive -, con la denunzia delle degenerazioni che riguardavano strati non piccoli della società produttiva, l’ortomercato, il mercato del pesce, le imprese di pulizia, i cantieri dell’edilizia, le aste, i fallimenti di imprese occulte, la diffusione del racket. Senza dimenticare mai che Milano è sempre stata un terminale di affari politico-mafiosi: la mafia ha sempre bisogno, infatti, di una grossa banca per i suoi traffici e dopo la Banca Privata Italiana di Sindona è stata la volta del Banco Ambrosiano di Calvi e, dopo, delle innumerevoli finanziarie dal volto oscuro.

Ma i temi centrali delle discussioni tra i soci di Società civile riguardavano il rapporto tra cittadini e istituzioni, la distanza incolmabile tra Paese ufficiale e Paese reale, la necessità di mutare le logiche politiche. Aveva provocato polemiche l’articolo 5 dello Statuto di Società civile che vietava di associarsi al circolo ai parlamentari, ai consiglieri regionali, provinciali e comunali e anche a quanti svolgevano professionalmente un’attività politica all’interno di un partito. C’era qualche esagerazione, ma la maggioranza dei soci non presumeva una superiorità morale della società civile sulla società politica. Non riteneva che tutto quanto fuori dalla politica fosse di per sé civile. Il Circolo Società civile non nasceva contro i politici i quali non sapevano neppure che quella dizione era vecchia di secoli, risaliva ad August Ludwig von Schlözer (1794) ed era stata discussa da Marx, da Hegel, da Rousseau, da Gramsci.

Bisognava, dopo il craxismo e la degenerazione di quella politica, cercare di spaccare un sistema immobile, bloccato, che impediva di far politica, appunto. Bisognava cercare di discutere in modo non strumentale, non lottizzato, non meccanico i problemi essenziali della vita e della società. Tra gli altri la trasformazione di uno Stato anchilosato, la corruzione ritenuta un costo di produzione, la liberalizzazione dell’informazione, la sua uscita dagli interessi inconfessabili del potere economico e politico. L’esigenza era quindi politica, non di qualunquistico rifiuto della politica.

Il tempo politico è più lungo del tempo reale, se si pensa a quel che è accaduto in Italia e nel mondo dal 1986 a oggi. Ma vent’anni dopo, non pochi di quei problemi posti al centro della discussione dal Circolo Società civile sono di piena attualità. La cancellazione del voto di preferenza unico, la legge elettorale berlusconiana che toglie al cittadino elettore ogni possibilità di giudizio politico, hanno reso ancora più profondo il fossato tra governanti e governati. Il cittadino non sa neppure chi sia il proprio rappresentante in Parlamento. Ha votato come un cieco. Anche per questo è risultato ancora più difficile spiegare l’indispensabilità di una non facile legge finanziaria, come quella attualmente al Senato, da approvare in stato di necessità in nome del popolo italiano.

Tra il castello dei poteri e i cittadini sono saltati i ponti levatoi.

Tutto è relativo, anche la povertà. Non è un caso che l'indagine che ieri ha pubblicato l'Istat si chiama: «La povertà relativa in Italia nel 2005». In un paese ricco, qual è l'Italia, d'altra parte, la povertà non può che essere relativa. Nessun paragone con le centinaia di milioni di persone che vivono con un dollaro al giorno. Ovviamente nessuno accusa l'Istat: le statistiche sulla povertà relative sono standardizzate, svolte con gli stessi criteri in tutti i paesi del mondo. A cominciare dagli Stati uniti, dove la percentuale di poveri relativi è maggiore di quella italiana, ma non di tanto.

In realtà più che la povertà relativa, sarebbe preferibile conoscere con certezza i dati della povertà assoluta partendo da un aggregato statistico certo: un paniere di beni essenziali ai quali ciascuna famiglia o ciascun individuo dovrebbe poter accedere. Ma sono alcuni anni che l'Istat non fornisce questo tipo di informazione, anche se, come sembra, una apposita commissione sta lavorando in questa direzione.

Conoscere la reale entità della povertà assoluta consentirebbe una politica economica mirata; una vera redistribuzione dei redditi a chi ne ha veramente bisogno. Altrimenti tutto diventa casuale. Come nel recente caso del ridisegno delle aliquote Irpef che finiscono per premiare anche lavoratori autonomi onesti (ce ne sono) ma soprattutto i grandi evasori fiscali. Insomma, i ricercatori Istat sono bravi a fare il loro mestiere, ma è difficile credere che quello che non viene dichiarato al fisco, venga con trasparenza raccontato all'Istituto di statistica. In conclusione, questa indagine, ripropone con ancora più forza il problema dell'evasione fiscale di un Italia.

Tuttavia, questa indagine qualcosa dice. Per esempio che in Italia oltre 7,5 milioni di persone vivono al di sotto della soglia di povertà; che oltre 3,5 milioni di cittadini sono sicuramente poveri e che esiste un area grigia di quasi 6 milioni di persone «quasi povere» che da un anno all'altro possono sprofondare in una condizione insostenibile. Dall'indagine emergono anche cose che sapevamo: per esempio che al Sud la «povertà relativa» è infinitamente maggiore (5-6 volte) rispetto al Nord e che per le famiglie numerose essere poveri è una condizione di normalità. L'indagine, però, forse per l'esiguità del campione è eccessivamente aggregata e non fa distinzione tra grandi città e piccoli centri: crediamo che sia soprattutto nei grandi centri che la povertà relativa è più insostenibile, visti i costi dei servizi e delle abitazioni.

I dati italiani sulla povertà sono stati diffusi ieri in contemporanea con la presentazione pubblica del rapporto annuale della Banca mondiale. Un rapporto che andrebbe diffuso nelle scuole visto che ci parla della vita di miliardi di persone, molte delle quali escluse dalla vita. Più di tutti i quasi 1,4 miliardi di giovani che avranno un futuro (ammesso che sopravvivano alle malattie che li sterminano come mosche) forse peggiore del presente. Come dire: tutto è relativo.

Il numero di Internazionale in edicola commemora il quinto anniversario dell'11 settembre 2001 ripubblicando le prime pagine dei principali quotidiani del giorno dopo di tutto il mondo. Tornare a sfogliarle fa bene: riporta a quel primo shock della ragione e dell'inconscio, della parola e dell'immaginario, che prese tutto il mondo di fronte al collasso delle Torri gemelle in diretta tv. E aiuta a rispondere alla domanda che tutte le prime pagine del mondo si pongono in questi giorni, tornando a loro volta a quel «più niente sarà come prima» che si disse allora: che cosa è cambiato in realtà in questi cinque anni? tutto, poco, niente? Le risposte, come sempre, dipendono dal metro di misura. Ed è uno strano metro di misura, iperrealistico, quello di chi sostiene, cifre e macrotendenze alla mano (l'autorevole Foreign Affairs, ma anche e altrettanto autorevolmente, nella pagina qui a fianco, Immanuel Wallerstein), che in verità è cambiato poco o nulla - nel sistema-mondo, nella politica estera americana, nei flussi del capitalismo mondiale, nel rapporto fra il colosso americano e il colosso cinese emergente o fra il nord e il sud del mondo -, e che il grande evento con cui tutt'ora ci troviamo a fare i conti non è tanto l'11 settembre quanto il crollo dell'Urss e dell'ordine mondiale bipolare. Altre cifre crude e altri crudi fatti - le guerre fatte in risposta all'11 settembre e i cadaveri relativi, la centralità conquistata dal mondo islamico, l'inasprirsi del conflitto in Medioriente, i nuovi muri in Palestina e alle frontiere più calde dell'immigrazione, i diritti sacrificati sull'altare della sicurezza - basterebbero a replicare che in realtà molto è cambiato eccome. Ma non è solo questo il punto, perché quello che l'11 settembre ha cambiato non si può misurare solo con il metro, sempre discutibile, dell'oggettività. Per quanto poco o molto l'11 settembre abbia cambiato nel mondo, di certo ha cambiato la nostra percezione del mondo. E accanto alle guerre combattute sul campo, altre ne ha aperte - «guerre culturali» le chiamano infatti - nella nostra interpretazione del mondo.

Per questo fa bene rivedere le prime pagine di cinque anni fa, e ripensare quel «siamo senza parole» che ricorreva nei titoli come nella vita quotidiana, a significare che lo sfondamento delle Torri era anche uno sfondamento dei nostri schemi mentali e delle nostre categorie interpretative. In quei quattro aerei-cyborg nel cielo americano non c'era solo l'attacco inaudito alla grande potenza, la volontà di potenza del terrorismo internazionale, la fine della favola bella della «fine della storia», di una globalizzazione senza conflitti e di una democrazia senza resistenze che era spuntata dalle macerie del mondo bipolare. C'era, in quei quattro aerei così alieni e insieme così familiari, un'improvvisa epifania del mondo globale che ci piombava in casa via tv come un mondo interconnesso ma drammaticamente fratturato, secolarizzato nell'uso della tecnologia e teologico nella deriva apocalittica, multiculturale nei suoi flussi reali (di 63 etnie erano le vittime delle Torri) e identitario nei suoi proclami di guerra. Non eravamo attrezzati a interpretarlo, tutto andava ripensato, le geometrie mentali dovevano aprirsi e adeguarsi a quella nuova geometria non euclidea del mondo globale.

Il seguito è, in larga parte, storia del conflitto fra chi ha lottato appunto per aprirle e chi per richiuderle. La «grande narrazione» dello «scontro di civiltà» che, allestita prima dell'11 settembre, ne ha interpretato il dopo, altro non rappresenta che questo tentativo di riportare il «disordine» del mondo globale al rassicurante ordine del due del mondo bipolare perduto: l'Occidente contro l'Islam, la democrazia contro il Nemico ritrovato, l'identità contro la minaccia dell'alterità e delle diversità. Una litania speculare a quella di Bin Laden, che maschera e ingabbia le fratture reali che lacerano da dentro i due campi , e invalida i legami altrettanto reali che possono fluidificarli. Tutto il resto ne consegue, ed è appunto la posta in gioco - politica, geopolitica, culturale, antropologica - del cambiamento in corso, che dentro la grande e la piccola cronaca di questi cinque anni ha riscritto l'agenda del presente.

Dalla concezione della vita e della morte ai criteri della convivenza internazionale, dalla concezione dell'Occidente a quella della democrazia, dal multiculturalismo ai rapporti fra i sessi nulla ne è rimasto esente. Se la pratica sacrificale del terrorismo suicida ha attaccato alla radice il dispositivo primario della deterrenza, cioè la difesa della propria vita, la dottrina e il dispiegamento della guerra preventiva ha fatto fuori a sua volta il tabù primario della guerra su cui la convivenza internazionale si era retta - non senza infrazioni- dopo la seconda guerra mondiale. Con l'11 settembre il costituzionalismo novecentesco è finito sia nelle relazioni internazionali, sia all'interno degli stati democratici: lo stato d'eccezione è diventato la norma, Guantanamo incombe sulla coscienza occidentale. La democrazia, esportata con la forza fuori dall'Occidente, si svuota nelle società occidentali; i diritti sono le sue munizioni, da imporre agli altri e soprattutto alle altre con il nostro linguaggio e i nostri tempi.

L'Occidente universalistico torna così a mostrare la sua faccia più parziale ed etnocentrica. Il dopo-11 settembre ha inciso potentemente su questo punto sempre in bilico della nostra storia, piegando la società multiculturale americana, e due decenni di «lotte per il riconoscimento, su una concezione tradizionalista, e irrigidendo a loro volta le società europee. Al centro dei conflitti culturali, la libertà femminile e i rapporti fra i sessi sono diventati la posta in gioco dei backlash patriarcali, fuori dall'Occidente e dentro, e dell'espansionismo democratico: non si vede solo dai tentativi di legittimare in nome delle donne le guerre in Afghanistan e in Iraq, si vede dagli ordinari episodi di cronaca che affliggono la nostra provincia, e dalle ordinarie leggi come quella francese contro l'uso del velo in nome della laicità, a sua volta diventata, nella guerra contro il fondamentalismo, un valore aggressivo.

Le cose potevano prendere un'altra piega? Potevano e possono. La fine dell'invulnerabilità americana sancita dall'11 settembre poteva esser letta ed elaborata come un memento dell'interdipendenza, dell'esposizione all'altro, della fragilità che ovunque unifica la condizione umana. Poteva, può derivarne non un arroccamento identitario ma un'apertura alla differenza; non un affossamento ma un ripensamento della democrazia. La storia ufficiale di questi cinque anni dice che non è stato così. La memoria sotterranea del trauma, quella che non passa nei media mainstream ma traspare nei romanzi di Safran Foer e nei film di Spike Lee, può restituire altre impronte e altre soluzioni, e attende ancora di essere ascoltata e rappresentata. Dopo l'11 settembre tutto è cambiato, ma tutto è ancora in gioco.

IERI, subito dopo il Consiglio dei ministri che ha approvato il disegno di legge in favore della cittadinanza più rapida per gli immigrati e per i loro figli nati in Italia, Romano Prodi ha dichiarato: «L’azione di governo comincia a ingranare e andrà sempre più spedita». Era soddisfatto il nostro premier e credo ne avesse buone ragioni. Certo c’è ancora molto da fare prima che la nave Italia – lasciata dal precedente governo con molte falle nella chiglia e molti guasti nella timoneria – possa raggiungere la velocità di crociera, ma la rotta mi sembra quella buona e ci consente di sperare.

L’appuntamento grosso verrà in autunno con la finanziaria, ma il timoniere è esperto e lo stato di necessità del bilancio e dello sviluppo dovrebbero aiutare e aver la meglio sui dissensi, che sono legittimi e possono contribuire alla formazione di interventi equilibrati, nel rispetto di obiettivi inderogabili per l’interesse generale e compatibili con le attese dell’Europa e dei mercati.

In politica estera la linea Prodi-D’Alema è solida e nitida. Purtroppo le soluzioni per la crisi in Medio Oriente non sono nelle nostre mani, ma dipende anche da noi rafforzare la posizione europea e per quella via esercitare una pressione sulla comunità internazionale nel senso del dialogo e della pace.

Perciò aspettiamo con fiducia, pur non nascondendoci la fragilità di un assetto politico che deve essere ogni giorno sorretto con duttile intelligenza accompagnata da coerente fermezza. Fermezza, coerenza, duttilità. Ma soprattutto tenacia. Mai pensare d’essere all’ultima svolta, mai puntare su una sola carta l’intera posta; mai decidere da soli, mai rinviare le decisioni subendo veti e capricciose impuntature.

* * *

Tutto ciò premesso permangono tuttavia alcuni motivi di disagio non marginale che hanno natura etico-politica.

Per dire che non riguardano il piccolo cabotaggio politichese, ma mettono in gioco ragioni profonde e una concezione della politica che ponga in discussione i sentimenti di appartenenza e le ragioni ideali che motivano il voto per una anziché per l’altra delle parti politiche contendenti.

Su questi motivi di disagio bisogna essere molto chiari. Ci sono domande da fare, questioni da discutere, risposte da esigere. Con onestà di intenzioni. Al di fuori delle ipocrisie, delle mezze verità e del tirare a campare.

In un rapporto sincero con la pubblica opinione democratica, strumento prezioso di supporto e di controllo dell’azione politica e delle sue motivazioni ideali.

La prima questione – ai miei occhi quella fondamentale – riguarda il modo di concepire lo Stato come entità ben distinta dal governo. E quindi la qualità della legislazione e dell’amministrazione, i rapporti tra le forze politiche e le istituzioni, il tema della continuità e della discontinuità. La moralità pubblica. L’efficienza. La legalità. La politica delle poltrone.

Il costituendo partito democratico, per la cui nascita si cercano le ragioni necessarie, ha in questo gruppo di problemi la sua motivazione. Ciò che lo rende indispensabile. Senza di che sarebbe una pura invenzione fatta a tavolino, senz’anima e senza quindi alcun reale consenso.

La storia politica dell’Italia gira da molto tempo intorno a questa questione. La debolezza del riformismo è dovuta alla mancata risposta alle domande che abbiamo indicato. La mala pianta del trasformismo rappresenta la controprova delle soluzioni mancate. La stessa fragilità della vittoria elettorale del centrosinistra si deve interamente a questa lacuna. La trappola della pessima legge elettorale con la quale si è dovuto votare ha certamente contribuito a quella fragilità, ma non ne è la vera causa. La vera causa, la causa prima, sta nell’assenza d’una concezione dello Stato e delle istituzioni. Questo avrebbe fatto la differenza tra una destra populista e demagogica e una sinistra democratica e innovatrice.

Se esiste il problema di rafforzare la sinistra in corso d’opera – e dio sa se esiste – quel rafforzamento sarà realizzabile solo facendo emergere nella nuova legislazione e nella nuova amministrazione quella differenza di fondo che con una definizione di scuola si chiama lo stato di diritto, senza il quale il sostantivo democrazia e l’aggettivo democratico non sono che parole vuote, gusci vuoti, castelli di carta esposti ad ogni vento e ad ogni fulmine. Il potere si riduce a sopravvivenza, furberia, corruttela diffusa. Durare per durare. Questo è il peggior andreottismo nelle sue forme minimaliste. E il peggior berlusconismo nelle sue forme roboanti e mediatiche. La peggiore continuità della storia italiana cui fa riscontro simmetrico la retorica massimalista dell’estremismo e la vocazione infantile della pura testimonianza.

La politica non è testimonianza e tantomeno immondezzaio. È scelta di obiettivi, tenacia e fatica per realizzarli, intelligenza e capacità di spiegarli.

Educazione civica da dare quotidianamente con l’esempio.

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La politica delle poltrone, o meglio la politica delle spoglie: ecco una frase che il centrosinistra non dovrebbe né pensare né tantomeno praticare perché è esattamente l’opposto di una concezione democratica dello stato di diritto.

Non dovrebbe esistere una politica delle spoglie. Non dovrebbero esistere i tecnici di area. Non dovrebbero esistere cariche da affidare a candidati sconfitti alle elezioni o ricompense da attribuire a chi fa mostra d’aver indossato i colori della maggioranza di turno o il vessillo del duca e del conte più potenti in un sistema feudale e pre-moderno.

Si parla di modernizzare il paese e lo Stato. In realtà se ne parla da quando questo Stato esiste. Cominciarono a discuterne ai tempi loro Marco Minghetti e Silvio Spaventa. Nientemeno.

Adesso l’accento della modernizzazione è stato messo sulla liberalizzazione dei mercati. Con ragione, perché le forme di oligopolio deformano il mercato, ne rendono difficile l’accesso, premiano le rendite di posizione.

Ma la liberalizzazione dei mercati è solo uno degli aspetti d’una questione molto più vasta perché in un’economia moderna e complessa i punti d’interferenza e le intersecazioni tra potere pubblico e imprenditoria privata sono innumerevoli, inevitabili e perfino necessari per configurare un progetto-paese che orienti, coordini, apra la strada alle innovazioni, alle tecnologie, agli investimenti, alla competitività, alla concorrenza.

Se le istituzioni preposte a questi compiti sono considerate luoghi dove si annida il potere dei partiti, se le "lobbies" alzano il vessillo di questo o di quello, la liberalizzazione dei mercati sarà puramente nominale, le partite saranno sempre truccate come le partite di calcio di Calciopoli.

Le rappresentanze sindacali e sociali dovrebbero essere più interessate alla piena realizzazione dello stato di diritto; troppo spesso invece si iscrivono anch’esse tra le "lobbies" sia pur legittime. Dovrebbero stare molto attente e non sporcarsi anche loro con la politica delle spoglie.

Per non parlare dei partiti, ai quali dovrebbe esser vietato per principio di esprimere, sostenere, impicciarsi di candidature ad enti, banche, imprese concessionarie di pubblici servizi.

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Farò tre soli esempi di questa politica delle spoglie che considero quanto mai nefasta poiché è l’esatto contrario di uno stato di diritto e quindi d’una forte e giusta democrazia.

Il primo esempio riguarda gli organi dirigenti della Rai, società concessionaria d’un pubblico servizio e interamente posseduta dal ministero del Tesoro.

L’attuale consiglio d’amministrazione della Rai, nominato dal precedente governo, è l’esempio peggiore di lottizzazione partitocratica mai visto fino ad oggi. Faccio salva la qualità delle persone che non è eccelsa ma neppure infima. Il punto non è questo, ma la provenienza e quindi la rappresentanza politica che ciascuno dei consiglieri porta con sé, l’intervento diretto delle segreterie di partito e degli apparati di corrente sui quali si sono pedissequamente appiattiti i presidenti delle Camere di allora.

Che cosa ci si aspettava dal nuovo governo? E che cosa ancora ci si aspetta? Che l’attuale consiglio sia rimosso e sostituito non già col criterio del manuale Cencelli perché in tal caso avremmo solo la sostituzione d’una maggioranza con un’altra, bensì col criterio della competenza e dell’indipendenza da fazioni e interessi. Si obietta: la tessera di partito diventa dunque un impedimento? Per cariche di questo genere sì, deve diventare un impedimento.

Può darsi che a termine di legge non si possa costringere il consiglio a dimettersi anzitempo. Non lo so. Ma in tal caso si crei una Fondazione, si passi ad essa il possesso delle azioni della Rai creando in tal modo una novazione strutturale e si affidi ad essa la nomina dei nuovi consiglieri.

Questo ci si aspettava e questo ci si aspetta. Ma non si ha sentore che il governo si stia mettendo su questa strada. Ne saremmo rassicurati se ciò fosse.

Il secondo esempio riguarda Francesco Cognetti, medico e scienziato di fama europea, direttore scientifico dell’istituto Regina Elena di Roma. Da lui portato a punti di eccellenza competitivi con le maggiori istituzioni sanitarie italiane e internazionali.

Sulla base del criterio delle spoglie il ministro della Salute Livia Turco ha decretato la sua sostituzione con altra persona, scientificamente accettabile, ricercatrice ma non medico. Senza valutare i risultati oggettivi e le qualità scientifiche e mediche di Cognetti.

Nonostante che gran parte dei primari del Regina Elena abbiano inviato al ministro una lettera in favore del direttore scientifico e nonostante che molte personalità abbiano fatto altrettanto a cominciare dalla Rita Levi Montalcini, premio Nobel e senatore a vita.

Il ministro della Salute (e il presidente della Regione) dovrebbero quantomeno dare pubblica motivazione di questo provvedimento che suscita profonde perplessità nella pubblica opinione e non giova certo al prestigio del ministro e meno che mai alla persona subentrata nell’incarico.

Infine il terzo esempio altrettanto rivelatore d’una prassi che non esito a definire pessima. C’è da nominare il presidente della Ferrovie. Padoa-Schioppa, d’accordo con Prodi, offre l’incarico a Fabiano Fabiani, attuale presidente dell’Acea e già presidente per molti anni di Finmeccanica. Un manager di tutto rispetto. Non iscritto a nessun partito.

Fabiani viene interpellato. Si riserva di rispondere. Poi invia una lettera al ministro dell’Economia dove pone una sola condizione: che i consigli d’amministrazione delle società controllate dalle Ferrovie siano nominati dal presidente e dall’amministratore delegato della holding senza alcuna interferenza politica e che i predetti consiglieri, se di provenienza da altre cariche delle Ferrovie, riversino alla holding gli emolumenti di spettanza. Aggiunge che per quanto lo riguarda non vorrà alcun emolumento come già accade per lui all’Acea.

Il vicepresidente del Consiglio, Francesco Rutelli, si oppone alla nomina. Prodi gli chiede una rosa di candidati. Rutelli fornisce la rosa. Si aspettano decisioni. Fabiani si è ritirato e resta dov’è (credo che in cuor suo ne sia ben contento). Ma il senso di quanto è accaduto è molto chiaro: Fabiani è stato escluso non per appartenenza politica non gradita, ma per non appartenenza e per desiderio di immettere nelle società controllate amministratori «non appartenenti». Come dovrebbe essere.

Mi permetto di fare una critica al ministro dell’Economia, che stimo molto e di cui sono amico di vecchia data. Se la nomina del presidente delle Ferrovie è di sua spettanza, sia pure concertando col presidente e con i vicepresidenti del Consiglio, dopo il concerto proceda alla nomina se è convinto della sua scelta. Debbo dire: Tremonti ha sempre fatto così, anche in aperto e pubblico dissenso con Fini. Tra le tante pessime cose di cui è responsabile, questa gli va riconosciuta come merito anche perché spesso le sue scelte erano pienamente accettabili.

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Sarebbe motivo di vera speranza e conforto se il governo imboccasse questa buona strada per modernizzare lo Stato e liberare le istituzioni. Ho già detto: aspettiamo con fiducia. Ma presto. Il buongiorno infatti si vede dal mattino. Anche quello

Sta accadendo attorno alla Juve, al Milan, alla Fiorentina e alla Lazio quel che di solito capita nei quartieri pericolosi di Bari, Napoli e Palermo quando arrestano uno scippatore. Reattivamente interi aggregati umani (in inglese, "populace" e, in greco, "ochlos") insorgono a protezione del fuggiasco. Lì si identificano con il delinquente e qui si identificano con Moggi. Lì aggrediscono fisicamente il poliziotto e qui delegittimano moralmente il giudice sportivo.

Questi e quelli, ministri e masanielli, intellettuali e posteggiatori abusivi, contrappongono il loro tribunale, il tribunale della plebaglia, il plebeismo giuridico o calcistico che sia, ai codici istituzionali, a quello penale e a quello sportivo.

Ma c´è il diritto e c´è il tifo. Sempre il diritto ha come antagonista il tifo. E il diritto tifoso è solo un altro degli ossimori italiani, con esempi ancor più demagogici e addirittura sospetti via via che si avvicina la sentenza. Si va da Mastella, insolentemente amico di Moggi e «fraternamente sodale» di Della Valle, fino a Pisapia che confonde la curva nord con i Consigli operai e di fabbrica. Da Cossiga, che scambia Andreotti con Moggi e Giraudo con Contrada, si arriva all´immancabile autoconfliggente Berlusconi. E l´intera Accademia della pedata garantista, convinta che la giustizia nel nostro paese sia sempre "politica", ormai vede Craxi in ogni imputato italiano, si chiami Consorte o Pairetto, e pensa che Paparesta sia un personaggio di Borges, un sequestrato immaginario.

Insomma, qui la figura del delinquente la fa il giudice sportivo e la riprovazione viene scagliata sull´accusatore Palazzi piuttosto che sui corruttori di arbitri e sugli arbitri corrotti. In molti giornali il dibattimento è diventato tout court «il processo farsa». Cossiga dice che i giudici sono «buffoni» e letteralmente invita gli imputati «a mandarli a fare in c...». E Mastella propone l´amnistia senza neppure aspettare la sentenza, si batte perché si vanifichi il processo, stringe di solidarietà la vittoria ai mondiali dei valenti calciatori con i limacciosi imputati, come se in campo invece di Gattuso ci fosse Meani, come se il gol di Del Piero alla Germania l´avesse segnato Moggi. Abbiamo degli ottimi giocatori, forse i migliori del mondo, ma abbiamo anche i dirigenti calcistici più corrotti del mondo. Non c´è alcuna incompatibilità. Premiamo i primi e puniamo i secondi.

E invece, proprio come i plebei dei quartieri popolari, le furie della malafede vorrebbero un calcio codificato e regolamentato dai tifosi, dimenticando che i tifosi fra di loro hanno diritti confliggenti perché il tifo non ammette diritto, non ammette arbitri, non ammette Caf, non ammette moviole e prove televisive, non ammette regole; l´unica cosa ben accolta è la vittoria comunque, in qualsiasi modo procacciata.

Ci sono dimensioni intime e private nelle quali non esiste la norma, dove l´occhio esterno non deve entrare, e dinanzi alle quali i giudici dovrebbero fare passi indietro. Mai i giudici dovrebbero processare la storia e mai dovrebbero far prevalere gli interessi politici di parte, come invece in Italia ancora accade. Ma se c´è un pianeta dove il giudice è ontologicamente indispensabile, ebbene questo è il giuoco. Altrimenti si potrebbe disobbedire all´arbitro e, sarebbe lecito doparsi... Il gioco, il più perfetto, è giustificato dalla regola perché il gioco è sempre gratuito, è alogico. Senza la regola che assegna la superiorità assoluta all´asso il gioco della briscola crolla e i quattro giocatori diventano figure dell´assurdo, che è appunto il gioco senza regole. La comunità senza regole, l´utopia anarchica per esempio, è perfetta proprio perché non ha regole. Ma il gioco è perfetto perché ha regole. Come si può mandare "a fare in c…" l´asso di spade? Solo se vuoi, comunque e sempre, vincere puoi mandare al diavolo le regole o cambiarle unilateralmente o surrettiziamente. O giochi o rubi. E infatti si dice che il gioco d´azzardo è un furto regolamentato, gioco di destrezza sottoposto a regole.

I giudici sportivi e dunque le regole sono la condizione della stessa bellezza del gioco. Nel calcio è punito giocare la palla con le mani. È una regola. Mettete in campo Mastella e Cossiga: a dispetto dell´età e dell´adipe giocherebbero con le mani mandando al diavolo, magari in nome della loro impunibilità parlamentare, anche l´arbitro. E chi andrebbe a vedere una partita con arbitri tifosi come Mastella e Cossiga? E chi darebbe credito a sentenze sportive pronunziate da Mastella, Cossiga, Moggi, Lotito e Berlusconi?

Pare che uno degli elementi inficianti la legittimità del giudizio sia la rapidità della giustizia sportiva. Ma un giudice sportivo deve essere veloce ed efficace come un chirurgo d´urgenza perché, come cantano i Beatles, life is very short and there is no time. È anche la velocità di giudizio che certifica la qualità del giudice sportivo, che non deve cincischiare con la palla della demagogia, non deve fare melina.

Infine, perché Cossiga e Mastella dovrebbero saperne più di Zidane, quali saperi sportivi esprimono se non l´amicizia pelosa con i dirigenti della Juve, della Fiorentina, del Milan e della Lazio? E dove erano quando la giustizia sportiva abbatteva il suo duro maglio sulle squadre provinciali, sul Taranto, sul Palermo, sul Genoa...?

Forse non lo sapete ma in questo momento avete sotto gli occhi un´arma più potente della maggioranza di quelle in dotazione alle forze armate Usa. Una bomba a grappolo è in grado di uccidere o mutilare migliaia di persone ma quest´arma può portare milioni di individui ad acconsentire che i loro governi diano avvio a nuove guerre. Quest´arma si chiama giornale. Al giorno d´oggi la sua azione si esplica per lo più tramite disseminazione sugli schermi elettronici. Le fanno compagnia nel nuovo arsenale la radio, la televisione, i blog, le trasmissioni via internet e gli sms.

La crescita del potere dei media è una delle principali realtà del nostro tempo. I giornalisti si sono tradizionalmente attribuiti un ruolo di vigilanza nei confronti del potere, fosse esso politico, militare o economico. Oggi godono di un potere superiore rispetto a quelli canonici. Rivedendo la sua famosa "Anatomia della Gran Bretagna" a quarant´anni dalla prima pubblicazione, nel 1962, il giornalista Anthony Sampson conclude che «in Gran Bretagna nessun settore ha accresciuto il suo potere più rapidamente dei media». E non solo in quel paese. In tutto il mondo i governi, i terroristi, le grandi imprese e le Ong assegnano la massima priorità alla diffusione del proprio messaggio attraverso i media.

L´11 settembre 2001 i terroristi di Al Qaeda sfruttarono il potere dei media per moltiplicare milioni di volte l´impatto della loro terribile azione. L´11 settembre è diventato l´11 settembre perché mezza umanità ha potuto guardare in diretta il crollo delle torri gemelle in tv e molti hanno potuto rivederlo sugli schermi del computer, replicato 24 ore su 24, 7 giorni su 7 dai media globali su piattaforme multiple. Lo stesso vale per la guerra in Iraq. Il convincimento comune a molti che Saddam Hussein disponesse di armi di distruzione di massa era solo frutto dell´inganno messo in atto dai governi di Washington e di Londra, che "imbastendo" e diffondendo informazioni distorte per il tramite del New York Times e di altri media di consolidata reputazione, normalmente credibili, fecero passare il falso per vero.

Per i media come per gli armamenti l´accresciuta potenza è frutto dell´innovazione tecnologica. Nel giornalismo come in guerra le nuove tecnologie danno luogo a opportunità senza precedenti, e a rischi altrettanto imponenti.

Quando, trent´anni fa, iniziai la mia carriera di giornalista come inviato in una Berlino divisa, avevo a disposizione una penna, un taccuino e una macchina da scrivere manuale. Per mandare il pezzo dovevo raggiungere un ufficio telex, punzonare o far punzonare un nastro telex e introdurlo in un macchinario scoppiettante. Le possibilità di ritardo, di errori di comunicazione e di incorrere nella censura locale erano innumerevoli. Oggi gli inviati multimediali del Guardian o della Bbc possono mandare un videoreportage digitale pressoché in tempo reale e senza censure dalle vette dell´Hindu Kush, via laptop e telefono satellitare, quasi direttamente sul vostro schermo. Oggi si ha la possibilità di fare cronaca direttamente dal luogo degli eventi con un´immediatezza e una precisione che prima i corrispondenti dall´estero potevano solo sognare.

Ma con altrettanta facilità si possono diffondere notizie false o esagerate e falsificare le immagini digitali. Esistono possibilità di manipolazione, distorsione e istigazione che trent´anni fa non c´erano. Pensate al ruolo dei siti web jihadisti radicali nel reclutamento dei terroristi locali in Europa.

Più che mai conta come queste armi straordinariamente potenti vengono utilizzate, per illuminare le masse, per ingannarle o per stimolarle, e questo dipende dai valori che guidano chi le maneggia. Sul fronte dei valori questa settimana si sono registrati due incoraggianti sviluppi. Li chiamerò per brevità Al Jazeera e Oxford. Forse l´accostamento vi lascerà sconcertati, un po´ come accoppiare semtex e sherry, ma forse è perché avete un´immagine superata e distorta di entrambi, per cui Al Jazeera evoca echi di Al Qaeda e Oxford una torre d´avorio con docenti universitari che tracannano porto. (Ma chi è che perpetua queste immagini? Continuiamo a dare la colpa ai media…)

A mezzogiorno di mercoledì della scorsa settimana stavo guardando in tv la prima ora di trasmissione del notiziario di Al Jazeera English, il nuovo canale in lingua inglese di Al Jazeera. È chiaro da tempo, data la qualità dei giornalisti soffiati a Bbc, Itn, Cnn, Sky, Reuters e altre emittenti, che Al Jazeera ha intenzione di battere i principali media giornalistici occidentali con le loro armi. Il codice deontologico di Al Jazeera, pubblicato sul sito web dell´emittente, è positivamente irto di rassicuranti termini simil-Bbc: «correttezza, equilibrio, indipendenza, credibilità», «fedele ricostruzione dei fatti» distinguendo le notizie dalle opinioni e così via. Anche la costituzione dell´Unione Sovietica era colma di nobili promesse. Ma, come si dice dalle mie parti, il budino va mangiato per sapere se è buono.

Il primo assaggio è stato appetitoso. L´intento dichiarato di Al Jazeera di «dare un ordine di priorità alle notizie» si è manifestato attraverso la scelta e l´ordine di presentazione dei servizi piuttosto che tramite un approccio preconcetto: primo la striscia di Gaza, secondo il Darfur, terzo l´Iran, quarto lo Zimbabwe. In altre parole si è deciso di attirare la nostra attenzione sistematicamente sulle sofferenze e le esperienze del mondo in via di sviluppo e soprattutto sul medio oriente. Lo stile era più quello di Bbc World che di Fox News, per non parlare di esempi di propaganda più rudimentale. A condurre il servizio sull´esordio dell´emittente era Mike Hanna, veterano corrispondente britannico e nel corso dell´ora si sono sentite altre voci conosciute. (Persino le previsioni del tempo erano affidate ad una briosa conduttrice britannica che prometteva sole in Medio Oriente). Nel corso del notiziario si è insistito molto sulle sofferenze dei palestinesi nella Striscia di Gaza, ma ce n´è ben donde, e a fondo schermo scorreva un flash di agenzia che con precisione e correttezza riportava: «Donna israeliana uccisa da un missile palestinese».

Nel complesso è stato un esordio eccellente, a dire il vero una delle cose più incoraggianti scaturite dal Medio Oriente da qualche tempo. Ma il banco di prova si avrà quando verrà il momento di trattare dei disordini in Arabia Saudita e riportare giorno per giorno il malcontento nei confronti di altri regimi arabi. Sarà solo uno scrutinio paziente spassionato ed analitico delle trasmissioni di Al Jazeera paragonandole con imparzialità a quelle di altre emittenti internazionali a stabilire se il nuovo canale è all´altezza delle sue lusinghiere aspirazioni.

E qui entra in campo Oxford. Lunedì scorso è stato inaugurato il nuovo Reuters Institute for the Study of Journalism presso l´Università di Oxford, nel corso di una cerimonia che vedrà la presenza dell´executive editor del Washington Post, del responsabile per la cronaca della Bbc e del direttore generale di Al Jazeera impegnati in un dibattito sul tema del giornalismo del dopo-Iraq. Quello che noi dell´Istituto Reuters cerchiamo di fare (dico noi perché in qualche modo sono coinvolto nell´iniziativa) è proprio mettere in rapporto lo scrutinio paziente, spassionato, analitico con quella che si può forse definire la superpotenza meno conosciuta del mondo. Superando le tradizionali barriere di lieve diffidenza che separano accademici e giornalisti, l´istituto di Oxford si pone l´obiettivo di studiare l´effettivo operato dei giornalisti in media e paesi diversi con rigorosa scientificità attraverso una costante comparazione internazionale.

Nel mio duplice ruolo di accademico e di giornalista credo che i giornalisti dovrebbero continuare a considerare un importante componente della loro missione l´impegno di «testimoniare la verità di fronte al potere». Ma se il giornalismo stesso è diventato un potere, ha anch´esso bisogno di verità. Il modo più certo di scoprire questa verità è di coniugare il meglio dell´operato dei giornalisti e degli accademici. Allora Al Jazeera potrà venire a dirci in che cosa, a suo giudizio, stiamo sbagliando.

Traduzione di Emilia Benghi

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