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The Guardian

Gli Stati Uniti hanno deciso ieri di uscire dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite per il suo “continuo pregiudizio” nei confronti d’Israele. Ad annunciarlo è stato la rappresentante statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley. “Compiamo questo passo perché il nostro impegno non ci permette di essere parte di una organizzazione ipocrita, che pensa solo a sé stessa e che si fa beffa dei diritti umani” ha spiegato Haley nel corso di una conferenza stampa dove era presente anche il Segretario alla difesa Usa Mike Pompeo.

Haley ha poi subito precisato che la scelta degli Usa – che giunge a suo dire dopo i tanti sforzi americani volti a riformare il Consiglio – “non significherà che verremo meno agli impegni presi nel campo dei diritti umani”, ma è figlia delle posizioni del Consiglio che “protegge chi viola i diritti umani ed è una fogna di pregiudizio politico”. “Guardate i suoi membri e vedrete una sconcertante mancanza di rispetto per i diritti umani basilari” ha poi aggiunto citando il Venezuela, la Cina, Cuba e la Repubblica democratica del Congo.

La decisione è stata criticata dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad al-Hussein, che ha parlato di annuncio “deludente anche se non così sorprendente”. “Visto lo stato dei diritti umani nel mondo oggi – ha detto al-Hussein – gli Usa dovrebbero incrementare [il loro contributo], non fare passi indietro”.

Duro è anche il commento di Human Rights Watch (HRW): “Il ritiro dell’Amministrazione Trump riflette tristemente la sua politica unidimensionale sui diritti umani: difendere gli abusi israeliani dalle critiche ha la precedenza su tutto” ha detto il direttore esecutivo della ong statunitense, Kenneth Roth.

La decisione di Washington – senza precedenti nei 12 anni di storia del Consiglio – giunge dopo che a metà maggio il Consiglio dei diritti umani dell’Onu aveva votato per indagare sulle uccisioni compiute da Israele contro i manifestanti palestinesi nella Striscia di Gaza e aveva condannato Tel Aviv per aver usato eccessiva forza per reprimere le “proteste del ritorno” gazawi. Allora gli Usa e l’Australia scelsero di non votare, schierandosi con Israele che accusò il Consiglio di “diffondere bugie contro lo stato ebraico”.

La scelta americana giunge però anche dopo le dure critiche che l’Amministrazione Trump ha ricevuto in questi giorni per aver separato i bambini migranti dai loro genitori al confine tra Messico e Usa. Proprio al-Hussein aveva invitato lunedì Washington a rivedere questa sua decisione: “Il pensiero che uno stato possa cercare di scoraggiare i genitori infliggendo tali abusi ai bambini è immorale”. L’uscita americana dal Consiglio dei diritti dell’Onu rappresenta il terzo ritiro americano da impegni multilaterali dopo l’abbandono dell’accordo climatico di Parigi e l’intesa sul nucleare iraniano.

Il rapporto tra l’organismo internazionale e Washington è sempre stato conflittuale. Quando il Consiglio fu stabilito 12 anni fa, il presidente americano Bush decise di boicottarlo per tre anni per gli stessi motivi addotti ieri da Haley. Allora a convincere Bush fu John Bolton, all’epoca rappresentate degli Usa all’Onu e oggi scelto da Trump come Consigliere nazionale per la Sicurezza. Washington si sarebbe unito all’organismo tre anni dopo (nel 2009) quando alla Casa Bianca fu eletto l’ex presidente Barack Obama e ne fece parte, come regolamento prevede, per due termini consecutivi (ciascuno della durata di tre anni). Dopo un anno di stop, gli Usa sono stati rieletti nel 2016. Il Consiglio è formato da 47 membri eletti dall’Assemblea Generale dell’Onu. Un numero specifico di posti è riservato per ogni area del mondo.

Il ritiro americano giunge mentre si è registrata una nuova notte di tensione a Gaza dove l’aviazione israeliana ha sapere di aver colpito 25 “obiettivi di Hamas” in risposta al lancio palestinese di colpi di mortaio e 30 missili (7 dei quali intercettati dal Sistema difensivo israeliano Iron Dome). Secondo fonti locali, due agenti della sicurezza di Hamas sarebbero rimasti leggermente feriti in uno dei raid israeliani nel sud della Striscia. Le sirene di allarme sono risuonate nelle cittadine israeliane a confine con la piccola enclave palestinese assediata da Tel Aviv da oltre 10 anni.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

il Fatto Quotidiano,

In queste settimane, i media hanno fatto il punto su un anno di Trump (in realtà il suo mandato è iniziato solo a gennaio 2017). Sto scrivendo dall’America e mi ha stupito che ancora ci si chieda come sia stato possibile.
Ci avevano spiegato che gli elettori dell’uomo dal ciuffo color zenzero erano stati in maggioranza bianchi, poveri, blue collar, conservatori e repubblicani. Adesso, invece, l’American National Election Study rivela che almeno due terzi sono elettori di varie classi sociali, benestanti, con un reddito spesso superiore ai 100.000 dollari, molti dei quali provenienti dal Partito democratico, in odio a Hillary Clinton.
Sono in giro con un accompagnatore d’eccezione, Mario Capecchi. Con lui mi accingo a raccontare in un film la sua incredibile storia di quando, sotto la guerra, viene abbandonato bambino nelle montagne del Nord Italia. Emigra a dieci anni in America, dove lo considerano irrecuperabile perché selvaggio e analfabeta. Lottando, otterrà il premio Nobel per la Medicina. Stiamo visitando la comunità quacchera in Pennsylvania dove è cresciuto e dove al nome di Trump tutti alzano gli occhi al cielo inorriditi.
Trump ha vinto perché ha saputo parlare al ventre del Paese, stanco di un presidente dalla pelle nera, la cui elezione era stata uno choc mai elaborato. Quella parte degli Stati Uniti non poteva digerire un secondo affronto, mandando alla Casa Bianca una donna. Trump è bravo a spargere illusioni: “Sapendo fare perfettamente i miei affari, posso fare lo stesso con i vostri”. Parla come i salesman e in questo somiglia al nostro Silvio Berlusconi. Per capire cosa sta accadendo, consiglio di leggere Between the world and me, dell’afroamericano Ta-Nehisi Coates, che si rivolge al figlio 15enne per attrezzarlo a vivere in un Paese destinato al peggio. Già l’idea di erigere una muraglia ai confini del Messico per impedire a un fiume di disperati di guadagnare qualche dollaro, sfruttati come sotto lo schiavismo, dimostra le idee dell’uomo della Casa Bianca. Per fortuna la costruzione, lunga 650 miglia, il cui costo è di 40 miliardi di dollari, è rimandata perché non ci sono i soldi. Trump li ha chiesti al presidente messicano, che ha risposto con una risata. Il Trumpworld è un regno che somiglia a Disneyland. Abituato alle porte d’oro massiccio della sua magione di New York, quando Trump jr., 11 anni, è entrato alla Casa Bianca ha chiesto: papà, ma siamo diventati poveri? È questo il mondo in cui si muove il presidente. Lo hanno votato un gran numero di diseredati, senza capire che avrebbe fatto diventare i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Vedi l’annunciato taglio delle tasse dal 35% al 20%, che favorirà soprattutto corporation e i magnati.
Dobbiamo però ammettere che l’America di Trump sta correndo verso un benessere insperato. L’economia tira, la disoccupazione è scesa al 4,1%, la più bassa da 17 anni, la Borsa macina ogni settimana plusvalenze, sono stati promessi 25 milioni di nuovi posti di lavoro. Dunque tutto bene? Quando i media pensavano che Trump non ce l’avrebbe fatta gli sparavano contro, adesso che l’economia tira persino il New York Times s’è fatto rispettoso. Chiedo a Wilder Knight, un avvocato di Wall Street che ha lavorato con Trump, ma non l’ha votato, cosa pensa di questa euforia. La sua risposta è netta: il presidente sta promettendo la luna, come la sparata di investire 1.000 miliardi di dollari in infrastrutture. Per farlo dovrà indebitarsi. Trump sta amministrando l’America come uno dei suoi casinò. Un costruttore importante, Michael J. Kosoff, prevede che di questo passo, da qui a tre anni, ci sarà un nuovo crac finanziario, come quello del 2007. Quando pensiamo alla crisi che ancora paghiamo di tasca nostra, pochi ricordano che è iniziata in America con la bolla immobiliare, dunque non per colpa nostra. Solo che gli americani si sono ripresi, noi invece siamo ancora a leccarci le ferite.
Betty Lou, una insegnante di high school, mi racconta che il Trumpworld è un Paese dove c’è un riccone che ha pagato 17 milioni di dollari all’asta per il Rolex d’oro di Paul Newman. È il Paese dove in una città come Chicago c’è una sparatoria ogni 2 ore, con oltre 8.000 morti in 6 anni. È il Paese dove puoi comprare per strada un fucile a pompa a 75 dollari, coi risultato che si vedono. È il paese dove in California a spegnere gli incendi assoldano i detenuti e li pagano un dollaro all’ora. È la terra dove negli ultimi 12 mesi sono stati registrati 64.070 decessi di overdose per lo più giovani. Ed è il Paese dove il Ku Klux Kan ora che c’è Trump accorre ai suoi comizi e applaude imbracciando le armi di fronte a centinaia di poliziotti che restano a guardare. Sento il mitico Harry Belafonte, che da poco ha compiuto 90 anni. È figlio di emigrati giamaicani e forse esagera, ma secondo lui “Hitler non è così lontano da casa nostra”. Per Daniel Radcliff, il protagonista di Harry Potter, Trump ricorda Lord Voldemort, il mago della saga dal volto sfigurato.
In questi giorni Trump, tornato dalla Cina, gode alla grande vedendo al tappeto i divi di Hollywood, che gli è sempre stata contro, annichiliti dal caso Weinstein. Molti sperano che l’uomo non duri, raggiunto da un impeachment per le sue connessioni elettorali con la Russia. Non so se sperarlo, considerando che al suo posto salirebbe l’attuale vice, Mike Pence, ancora più reazionario, uno che se potesse metterebbe in galera i gay e i medici abortisti. Se le cose si mettessero davvero male, credo che per restare in sella Trump tirerebbe fuori l’asso dalla manica di un bombardamento sulla testa di Kim, il pazzo nordcoreano. Un po’ come fece Bill Clinton quando, nel 1998, due giorni prima della richiesta di dimissioni per aver mentito sulla sua relazione con Monica Lewinsky, si salvò bombardando l’Iraq. A Berlusconi, che si lamenta di essere perseguitato dai giudici, può far piacere sapere che Trump è già stato citato in giudizio 134 volte. Se il presidente teme la magistratura, non è che Hillary Clinton stia molto meglio. Viene accusata di avere pagato agenti segreti per infangare il rivale, costruendo dossier. Non riesce a difenderla il Partito democratico, in catalessi e senza più un leader, nonostante i recenti successi in Virginia e New Jersey.
Alla George School a Newtown, un college di eccellenza, ho occasione di parlare con studenti e docenti e farmi un’idea di come si vive nell’era di Trump. Se gli studenti sono preoccupati (la Casa Bianca intende tagliare i finanziamenti all’istruzione), i docenti lo sono per le sue posizioni. Ha dichiarato che il problema del surriscaldamento del globo non sussiste e preme per tornare al carbone, nonostante sia stato appena contraddetto dalle sue stesse agenzie federali, cosa mai accaduta a un presidente in carica. La gente che ha scelto Trump si sente impoverita dalla globalizzazione, odia il capitalismo ma non si accorge di avere eletto il suo massimo esponente. Ora però molti cominciano a ripensarci e infatti l’indice di popolarità del presidente è sceso al 39%. George W Bush, nel momento di massima disgrazia, era al 56%. Sono le contraddizioni di un’America che non può non preoccuparci. Ma noi italiani possiamo dirci molto diversi, se è possibile che Berlusconi torni a governarci?

Un panorama degli scontri tra i suprematisti bianchi di estrema destra e gruppi antirazzisti, da Charlotteville alle successive marce sparse nei vari stati, da una serie di articoli dell'

Internazionale, 25 agosto 2017 (i.b.)


Premessa

Il 12 agosto scorso a Charlottesville, in Virginia i sostenitori della supremazia bianca, costituiti da nazionalisti bianchi, neonazisti e membri della Ku Klux Klan, scendono nel campus universitario per protestare contro il piano della città per abbattere i monumenti degli Stati Confederati, in particolare della statua del generale Robert E. Lee. La marcia suprematista ha scatenato la reazione degli antifascisti e lo scontro è rapidamente diventato violento. Tre persone sono state uccise (contando coloro che sono morti nell'incidente dell'elicottero di stato che si è schiantato) e decine di altre sono state ferite.

Vale la pena ricordare che gli Stati Confederati, un’ istituzione composta da sette stati americani, dichiarò la propria secessione dagli Stati Uniti D'America nel 1861, per mantenere la schiavitù. La questione della preservazione o abbattimento di questi monumenti, simboli della lotta contro la fine della schiavitù e il dominio bianco, è diventato un tema caldo negli ultimi anni. Dopo l’uccisione di massa nella chiesa di Charleston nel 2015, perpetuata da Dylann Roof, che si autodefinì suprematista bianco e posò con la bandiera degli Stati Confederati, una serie di città e stati hanno cominciato a mettere in discussione i monumenti alla Confederazione. Visti non solo come celebrazione dell’orgoglio sudista, ma anche simboli di una Confederazione che ha combattuto per mantenere la schiavitù e la supremazia bianca in America, la contesa su questi monumenti rappresenta qualcosa di molto più prodondo, è la lotta tra due culture contrapposte. Con una destra razzista che si è vista legittimata dall’elezione di Trump. Si legga a questo proposito, qui di seguito, l’articolo di Paul Mason.

L’episodio di Charlottesville non è un fatto isolato. Lo hanno confermato gli eventi che ne sono seguiti. Il 19 Agosto a Boston, dove i gruppi di destra avevano organizzato un raduno per promuovere la “libertà d’espressione”, si è svolta invece una contro manifestazione. Se a Portland mille persone hanno partecipato all’evento “Eclipse hate” in Arkansas, cinquanta persone si sono radunate in difesa dei simboli confederali. Il 22 agosto 2017 è stata la volta di Phoenix, in Arizona, dove la polizia è intervenuta con gas lacrimogeni e spray al peperoncino per disperdere i manifestanti che si erano radunati davanti al Convention Center per protestare contro il presidente Donald Trump, che stava tenendo un discorso. Quattro persone sono state arrestate. Secondo la versione del dipartimento di polizia di Phoenix, gli agenti hanno caricato i manifestanti dopo essere stati attaccati con pietre e lacrimogeni. I manifestanti sostengono invece che la polizia ha reagito in modo sproporzionato al lancio di alcune bottiglie d’acqua. Sabato a San Francisco, un gruppo di destra di fronte a una resistenza su larga scala, ha annullato un incontro vicino al Golden Gate Bridge, ma gli anti fascisti hanno marciato comunque per ribadire che lì i neo-nazisti ei suprematisti bianchi non sono benvenuti. Altre manifestazioni, discorsi, rally - pro o contro il dominio bianco, e pro e contro Trump - si stanno tenendo in molte località.

Se da una parte il messaggio elettorale nazionalista di Trump dà forza non solo ai conservatori, ma anche ai neonazisti, negli Stati Uniti esiste anche una forte anima antinazista e antirazzista e ci sono decine di gruppi antifascisti, gli unici spesso a contrastare le organizzazioni di suprematisti bianchi. Si leggano qui di seguito gli articoli ripresi dal New York Time e dal The Guardian sulle mobilitazioni per contrastare il razzismo e la violenza, e i vari gruppi attivi sui vari territori, con un approfondimento sui Redneck Revolt, un gruppo antirazzista, anticapitalista, ma favorele alle armi. (i.b.)

LA GUERRA CULTURALE
DELLA DESTRA AMERICANA
di Paul Mason

Le memorie del generale unionista William Tecumseh Sherman sono una lettura sgradevole. Nonostante combattesse per gli stati dell’Unione, Sherman si oppose all’emancipazione degli schiavi, sabotò il tentativo di liberarli da parte delle sue stesse truppe e li usò per costruire le sue fortificazioni. Ma fece anche un’altra cosa che può servirci da lezione, alla luce della marcia fascista di Charlottesville: scatenò una guerra totale contro i suoi nemici degli stati del sud. Ordinò alle truppe di fare a pezzi chilometri di ferrovie, dare fuoco alle fattorie dei proprietary di schiavi che facevano resistenza e bruciare Atlanta. Dopo aver visto gli estremisti di destra che nei giorni scorsi hanno silato per le strade di Charlottesville con elmetti e fucili d’assalto, ovviamente nessuno vorrebbe mai che gli Stati Uniti sprofondassero in un’altra guerra.

Ma i conflitti culturali che caratterizzano l’America di oggi ricordano in parte il periodo precedente alla guerra civile. Come ha fatto notare lo storico Allan Nevins, alla fine degli anni cinquanta dell’Ottocento l’America bianca era composta da “due popoli” culturalmente molto diversi e che avevano due modelli economici contrapposti: l’industria e il libero mercato contro la mezzadria e la schiavitù. I concetti che i confederati portavano con sé in battaglia hanno resistito fino a oggi: i diritti dei singoli stati contro il governo federale, la supremazia bianca, l’idea di una nazione fondata sulla religione.

Non è un caso se queste idee sono sopravvissute. La statua del generale confederato Robert E. Lee, che il comune di Charlottesville ha deciso di rimuovere, è considerata un simbolo da difendere per i gruppi di estrema destra, che si sentono legittimati dalla vittoria di Donald Trump alle elezioni di novembre.C on le bandiere confederate che a Charlottesville sventolano accanto a quelle con le svastiche, i progressisti di tutto il mondo devono farsi una domanda: cosa siamo pronti a fare per sconfiggere la destra razzista?

Gli estremisti di destra hanno scatenato una Guerra culturale. “Questa comunità è di estrema sinistra”, ha dichiarato Jason Kessler, l’organizzatore della Marcia Unite the right (Uniamo la destra), aggiungendo che gli abitanti di Charlottesville hanno “assimilato i princìpi marxisti difusi nelle città universitarie che tendono a dare la colpa di tutto ai bianchi”. Non è una richiesta d’aiuto, è l’espressione della stessa ostilità culturale alla modernità che possiamo ritrovare negli scritti dei leader politici sudisti.

Tutti gli studi fatti dopo le elezioni hanno rivelato che la coalizione di Trump ha conquistato consensi dopo che ha permesso a milioni di persone di esprimere il loro razzismo e la loro violenta misoginia. Eleggendo Trump, i suoi sostenitori hanno dichiarato una guerra culturale alla sinistra moderata e contro il movimento antirazzista Black lives matter. L’atteggimento del presidente in seguito all’omicidio di Heather Heyer, l’attivista antifascista investita dal suprematista James Alex Fields, non è casuale.

Alla Casa Bianca inoltre ci sono persone legate all’estrema destra come Sebastian Gorka. L’intero movimento dei sostenitori di Trump alimenta il razzismo, non lo combatte. Carl Paladino, imprenditore e sostenitore del presidente, di recente ha dichiarato che Michelle Obama “dovrebbe tornare a essere un maschio ed essere abbandonata nella savana dello Zimbabwe dove potrà vivere con Maxie il gorilla”.

Nell’ultimo anno della guerra civile il generale Sherman, pur essendo un razzista, capì che l’unico modo per allontanare la popolazione del sud dal suo modello economico basato sulla schiavitù era distruggere le infrastrutture che lo sostenevano. Oggi sembra che non esista più alcuna infrastruttura del razzismo americano, ma non è così. Ci sono le regole della polizia, secondo le quali basta la presenza di un nero in un quartiere di bianchi per fare una perquisizione, c’è la criminalizzazione dei giovani neri attraverso il sistema giudiziario, c’è una segregazione nascosta nella vita pubblica e ci sono gli atteggiamenti razzisti dei mezzi d’informazione, da Fox News fino ai programmi radiofonici locali.

Tutte le persone che hanno mostrato il loro volto durante le fiaccolate fasciste hanno il diritto costituzionale a esprimere la loro opinione. Ma usano anche siti gestiti da aziende americane e hanno lavori, telefoni, contratti, conti bancari. Non c’è alcun diritto sancito dalla costituzione a usare le infrastrutture statunitensi per organizzare delle violenze. E, al di là di tutto, la principale istituzione che legittima le azioni violente dell’estrema destra è la presidenza Trump.

Charlottesville è il campanello d’allarme per i progressisti di tutto il mondo. Che vi troviate in una città universitaria o in una città multietnica colpita dalla povertà, Kessler e i suoi alleati si stanno mobilitando per punire la vostra comunità, responsabile di sostenere il “marxismo culturale”. Se qualcuno scatena una guerra culturale contro di te, prima o poi ti devi difendere.

GLI STATUNITENSI IN PIAZZA
CONTRO IL NAZIONALISMO
The New York Times, Stati Uniti

Il 19 agosto decine di migliaia di manifestanti, spinti dalla preoccupazione per la violenza esplosa una settimana prima a Charlottesville, in Virginia, hanno sfilato in decine di città in tutti gli Stati Uniti per protestare contro il razzismo, il suprematismo bianco e il nazismo.

Queste mobilitazioni avvengono mentre il paese si ritrova ad affrontare i temi del razzismo e della violenza e si chiede cosa fare con i simboli della confederazione (l’unione degli stati favorevoli alla schiavitù durante la guerra di secessione del 1861). Il presidente Donald Trump, criticato aspramente dopo aver dichiarato che a Charlottesville “la colpa è stata di entrambi gli schieramenti”, ha scritto un tweet il 19 agosto per “complimentarsi con tutti i manifestanti di Boston che si sono schierati contro l’odio e il fanatismo. Il nostro paese tornerà presto a unirsi”. Poi ha aggiunto: “A volte servono le proteste per guarire, e noi guariremo e saremo più forti che mai”.

A Boston i gruppi di destra avevano organizzato un raduno per promuovere la “libertà d’espressione”. In risposta migliaia di persone convinte che l’evento sarebbe servitor a fare propaganda per neonazisti e nazionalisti, hanno partecipato in massa a una contromanifestazione. Si sono presentati al

Boston Common, il parco dove si doveva svolgere il raduno di destra, alcune ore prima e hanno trovato volantini con simboli neonazisti. “Sono qui per quello che è successo a Charlottesville”, ha detto Rose Fowler, 68 anni, insegnante in pensione afroamericana. “Qualcuno è stato ucciso mentre lottava per i miei diritti. Perché non dovrei lottare per me stessa e per gli altri?”.

A Portland mille persone hanno partecipato all’evento “Eclipse hate”. A Hot Springs, in Arkansas, cinquanta persone si sono radunate in difesa dei simboli confederati. Molti passanti si sono fermati per protestare contro Trump e l’odio razziale.

Tre persone sono state arrestate. Intorno alle 13 a Charlottesville, in una strada secondaria, l’umore era cupo mentre si ricordava Heather Heyer, l’attivista antirazzista morta il 12 agosto dopo essere stata investita da una macchina guidata da un nazionalista. Susan Bro, la madre di Heather, era in piedi davanti a un memoriale di iori e candele, in lacrime e appoggiata al marito.

Contenere la rabbia

A Dallas, dove nel 2016 un uomo aveva ucciso cinque agenti durante una manifestazione degli attivisti neri, le forze dell’ordine hanno formato una barriera con autobus e camion intorno agli antirazzisti, per “mettere in sicurezza” l’area e impedire alle automobile di avvicinarsi. Al tramonto intorno a uno dei monumenti confederati della città si è scatenata una battaglia di urla e slogan, ma non ci sono stati episodi di violenza.

I poliziotti sorvegliavano la situazione da vicino e gli elicotteri sorvolavano la zona. A un certo punto sono arrivate alcune persone armate di fucili e in tuta mimetica. Un rappresentante del gruppo, chiamato Texas Elite III%, ha detto che non facevano parte di nessuno dei due schieramenti ma erano lì per garantire la sicurezza.

In tutto il paese le autorità stanno cercando di contenere la rabbia che accompagna il dibattito sui monumenti confederati.

Il 20 agosto l’università di Duke, nel North Carolina, ha annunciato di aver rimosso una statua del generale confederato Robert E. Lee dall’ingresso della cappella del campus di Durham. “Ho preso questa decisione per proteggere la cappella e per garantire la sicurezza degli studenti, e soprattutto per ribadire i valori dell’ateneo”, ha scritto il rettore Vincent Price in un’email agli studenti.

Price ha precisato che la statua sarà “conservata in modo che gli studenti possano studiare il complesso passato della Duke e creare un futuro senza conlitti”.

BIANCHI, ARMATI E ANTIFASCISTI
di Cecilia Saixue Watt

Alla grigliata ci sono pasti gratuiti, un banchetto dove dipingersi la faccia e una postazione che prepara “cartelli di protesta” con una pila di scatole di cartone ritagliate, pennarelli e rotoli di nastro adesivo. Alcuni bambini del quartiere – nessuno ha più di dodici anni – si fermano li davanti. Vogliono dei cartelli da attaccare alle biciclette per andare in giro e “dire a Trump” quello che pensano di lui. Uno prende un pezzo di cartone e ci scrive sopra a caratteri cubitali: “Trump è una puttana”.

Max Neely interviene subito. “Sarebbe meglio non usare quella parola”, dice in tono paterno. Con il suo metro e ottantacinque li sovrasta tutti. “È offensiva nei confronti delle donne, e oggi qui ce ne sono tante che meritano rispetto. Forse dovreste scegliere un’altra frase”. I bambini si consultano, alla fine decidono per una frase meno ofensiva: “Fanculo Trump!!!!”.

Neely, un attivista di 31 anni con i capelli lunghi e la barba folta, ha davanti a sé una lunga giornata di lavoro: Donald Trump è qui a Harrisburg, in Pennsylvania, per celebrare i primi cento giorni alla Casa Bianca con un discorso nel complesso fieristico degli agricoltori. In altre zone della città, l’opposizione di sinistra si sta preparando: gruppi come Keystone Progress, Dauphin County Democrats e Indivisible hanno in programma una manifestazione di protesta.

Il gruppo di Neely non è con loro. Ha preferito organizzare un picnic in un piccolo parco, con barbecue gratuito e volantinaggio. Qualcuno ha piantato nell’erba una bandiera rossa su cui sono disegnate falce e martello. Da un tavolo vicino pende uno striscione nero con la scritta “Redneck Revolt: contro il razzismo, per il lavoro, a favore delle armi”. “Se per caso non lo avesse notato, non siamo dei moderati”, dice Jeremy Beck, uno degli amici di Neely che si occupa della cucina. “Se ti spingi molto a sinistra, alla fine arrivi così a sinistra da riprenderti le armi”, di sicuro non sono progressisti dalle idee confuse. La Redneck Revolt è un’organizzazione nazionale di politici della classe contadina e operaia che si sono riappropriati della parola redneck, un termine storicamente usato in senso spregiativo per indicare i rozzi contadini del sud degli Stati Uniti che avevano il “collo rosso” perché lavoravano nei campi sotto al sole. Sono antirazzisti militanti. Non è un gruppo costituito esclusivamente da bianchi, anche se s’interessa soprattutto dei problemi dei bianchi poveri. I princ.pi dell’organizzazirne sono decisamente di sinistra: contro il razzismo e i suprematisti bianchi, contro il capitalismo e lo statonazione, a favore degli emarginati.

La Pennsylvania è uno degli stati in cui è ammesso per legge l’open carry, cioè girare per strada con un’arma in vista. Per gli attivisti di Redneck Revolt poter portare un’arma è un’affermazione politica: una pistola in vista serve a intimidire gli avversari e ad afermare il diritto ad averla. Molti di quelli che oggi sono alla grigliata possiedono un’arma, e avevano pensato di portarla con sé, ma alla fine ci hanno rinunciato, perché vogliono che all’evento partecipino le famiglie.

La Redneck Revolt è nata nel 2009 come una costola del John Brown gun club, un progetto di addestramento all’uso delle armi da fuoco con sede in Kansas. Dave Strano, uno dei suoi fondatori, vedeva una grande contraddizione nel Tea party, il movimento ultraconservatore, che all’epoca muoveva i primi passi. Molti attivisti del Tea party erano lavoratori che avevano sofferto a causa della crisi economica del 2008. Accusavano l’1 per cento dei più ricchi del paese di aver causato quella situazione, ma poi accorrevano in massa ai raduni inanziati da quelle stesse persone. Appoggiando i politici di idee conservatrici in economia, pensava Strano, sarebbero stati ulteriormente manipolati per fare gli interessi dei più ricchi. “Quella della classe operaia Bianca è sempre stata una storia di sfruttamento”, scriveva su un sito di anarchici. “Ma siamo gente sfruttata che a sua volta sfrutta altri sfruttati. Viviamo nelle case popolari delle periferie da secoli, e siamo stati usati dai ricchi per attaccare i nostri vicini, colleghi di lavoro e amici, di religione, pelle e nazionalità diverse”.

Otto anni dopo, in tutti gli Stati Uniti ci sono più di venti sezioni della Redneck Revolt: i gruppi variano molto per dimensioni, alcuni hanno solo una manciata di iscritti. Neely è iscritto alla sezione Masondixon, che comprende la Pennsylvania centrale e il Maryland occidentale, dove è nato. Molti degli iscritti sono bianchi, ma l’organizzazione cerca di costruire un’identità che vada oltre l’appartenenza etnica. “Sono cresciuto giocando nei boschi, facendo galleggiare bottiglie di birra sul fiume, sparando bengala. Insomma, facendo un bel po’ di casino”, racconta Neely. “Tutte cose che molti considerano parte della nostra cultura. Stiamo cercando di capire gli errori che abbiamo commesso accettando la supremazia bianca e il capitalismo, ma stiamo anche creando un ambiente che riletta la nostra cultura”.

La Redneck Revolt si rifà alla Young Patriots Organization, un gruppo di attivisti degli anni sessanta formato essenzialmente da operai bianchi della zona dei monti appalachi e del sud. “Ammiro gli attivisti della Redneck Revolt”, dice Hy Thurman, uno dei fondatori dei young patriots. “Penso che stiano andando nella direzione giusta”. Il suo gruppo era antirazzista ed era in stretti rapporti con gli attivisti delle Pantere nere, ma nelle sue campagne di reclutamento usava la bandiera dei confederati, simbolo del sud schiavista durante la Guerra civile. Thurman mi ha spiegato che la usavano solo per entrare in contatto con i bianchi poveri che s’identiicavano con quell simbolo. Allo stesso modo, oggi la Redneck Revolt sfrutta un altro emblema dell’america contadina: le armi. Molti dei suoi iscritti vivono in posti dove avere una pistola o un fucile è abbastanza normale. E Neely vorrebbe che la sua organizzazione diventasse un’alternativa accettabile per le persone che altrimenti potrebbero unirsi alle milizie di destra.

Dall’assedio di Ruby Ridge del 1992 – quando la casa di un suprematista bianco fu assediata nove giorni dalla polizia e nello scontro morirono tre persone – negli Stati Uniti c’è stata una proliferazione di organizzazioni paramilitari antigovernative. Gli Oath Keepers, per esempio, sono una milizia che afferma di voler difendere la costituzione minacciata dal governo federale. Sostengono di non essere politicamente schierati, ma le loro idee sono decisamente di destra. Durante le elezioni presidenziali del 2016 hanno annunciato che avrebbero controllato i seggi per impedire manipolazioni del voto, affermando di “essere preoccupati soprattutto per i tentativi di brogli da parte della sinistra”. Ma gruppi come gli Oath Keepers hanno molto in comune con alcune organizzazioni di sinistra: denunciano le violazioni dei diritti umani, sono contrary alla sorveglianza di massa e al Patriot Act (la legge antiterrorismo approvata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001) e s’indignano per la povertà che aligge la classe operaia.

“Usiamo la cultura delle armi per entrare in contatto con la gente”, dice Neely, il cui nonno era un cacciatore. “Non abbiamo niente a che fare con l’elitismo dei progressisti. Il nostro messaggio fondamentale è: le armi vanno bene, il razzismo no”.

Famiglia proletaria

“Sono preoccupato per Pikeville”, dice Neely. “Ho degli amici lì”. Pikeville è una cittadina del Kentucky, nel cuore della regione degli appalachi. Non ha un aeroporto internazionale né interstatale, ha una popolazione di diecimila abitanti e tanti idilliaci paesaggi di montagna. Ha sempre basato la sua economia sul settore minerario, ma punta anche sul turismo: ogni anno a metà aprile più di centomila persone arrivano per partecipare all’hillbilly days festival, che celebra la cultura e la musica degli appalachi.

Quest’anno per., una settimana dopo la fine del festival, l’atmosfera a Pikeville è decisamente diversa. Lo stesso giorno in cui Trump è a Harrisburg, in città è previsto l’arrivo dei neonazisti. Il Nationalist front – un’alleanza di gruppi di suprematisti bianchi di estrema destra – ha programmato una manifestazione davanti al tribunale. “Schieratevi dalla parte dei lavoratori bianchi”, si leggeva sul volantino che circolava online. “Questo è l’inizio di un processo di costruzione e allargamento delle nostre radici nelle comunità di lavoratori bianchi per diventare i difensori del nostro popolo”, ha scritto il neonazista Matthew heimbach sul Daily Stormer, un sito neonazista.

Il Nationalist Front considera la contea di Pike – cronicamente povera e abitata in grande maggioranza da bianchi – un terreno fertile per le sue ideologie. In realtà da qualche anno Pikeville se la sta cavando meglio, ma tutte le località intorno sono in difficoltà. Il tasso di disoccupazione della contea è tra i più alti del paese, sopra il 10 per cento. Nelle elezioni presidenziali Trump ha saputo sfruttare questa disperazione con la sua retorica a favore della classe operaia e contro gli immigrati, e ha ottenuto l’80 per cento dei voti. Heimbach spera di usare questo consenso per creare un movimento nazionalsocialista. “Abbiamo organizzato questa manifestazione perché ci stanno a cuore gli abitanti della contea”, dice Jef Schoep, capo del gruppo neonazista National Socialist Movement, in un video girato per pubblicizzare il raduno. “Abbiamo visto fabbriche chiuse, gente che ha perso il lavoro, famiglie disperate che hanno cominciato a usare droghe e a fare altre cose che non dovrebbero fare.

Vogliamo ridare speranza alla gente. Qualcosa per cui combattere”. Quel qualcosa è uno stato etnico bianco, ma la maggior parte degli abitanti di Pikeville non sembra interessata. Il consiglio comunale ha autorizzato la manifestazione del Nationalist Front citando il diritto alla libertà di espressione sancito dalla costituzione statunitense, ma il sindaco Donovan Blackburn ha anche rilasciato una dichiarazione a favore della pace e del rispetto per la diversità. Gli student universitari hanno organizzato una contromanifestazione di protesta, che per. è stata quasi subito annullata per motivi di sicurezza: le autorità accademiche temevano che lo scontro tra i nazionalisti e gli antifascisti – o antifa – potesse diventare violento.

Cresciuti in Europa in vari momenti del novecento, gli antifascisti rappresentano il fronte compatto della sinistra che si contrappone ai nazionalisti: un’allenza di anarchici, comunisti e attivisti di altri movimenti decisi a sradicare il fascismo con ogni mezzo, compresi quelli violenti, che giustiicano con la violenza intrinseca del fascismo. Usano spesso la tattica del Black Bloc di indossare maschere e vestirsi completamente di nero per non essere identiicati dalla polizia.

Negli Stati Uniti i gruppi antifascisti non sono mai stati attivi come quelli, per esempio, che ci sono in Grecia. Ma dopo l’elezione di Trump, e la successiva ondata di crimini d’odio commessi da gruppi di destra, si sono subito mobilitati. All’inizio di febbraio, due settimane dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, c’è stata una manifestazione di antifascisti nel campus dell’università di Berkeley, in California, per impedire a Milo Yiannopoulos, ideologo dell’estrema destra, di tenere un discorso.

“Viviamo in un momento storico in cui c’è una disuguaglianza economica senza precedenti, e le persone faticano a tirare avanti”, dice Sidney (non è il suo vero nome), un antifascista degli appalachi che tiene d’occhio l’attività dei nazionalisti bianchi nella sua zona. “Quando i governi non fanno nulla per cambiare la situazione, la gente cerca una risposta altrove. Il fascismo sta risorgendo perché siamo in questo momento storico. Il problema non si risolverà lasciandoli in pace. Come lasciare in pace un’infezione”. Sidney, un ragazzo di 27 anni della Virginia, viene da una famiglia di minatori. Divide il suo tempo tra il lavoro come installatore di strutture in cartongesso e l’attivismo per la Redneck Revolt. “Pikeville ha attirato la mia attenzione”, dice. “Il Traditionalist Worker Party, di estrema destra, si sta mobilitando molto nella regione. Io non sono del Kentucky, ma vengo da una famiglia proletaria degli appalachi, e questa cosa non mi va giù”.

Per convincere i gruppi antifascisti a non indossare maschere – come fanno spesso durante le manifestazioni – le autorità di Pikeville hanno emesso un’ordinanza che vieta di a chiunque abbia più di 16 anni di andare a volto coperto nel centro della città. I manifestanti antifascisti dovranno girare a volto scoperto, e questo potrebbe essere pericoloso: i gruppi neonazisti usano software per il riconoscimento facciale e altri sistemi per identificare le persone che li contestano e acquisire informazioni che poi usano per attaccarli.

“Noi della Redneck Revolt in genere manifestiamo a volto scoperto”, dice Sidney. “Vogliamo conquistare il sostegno della comunità, ed è più facile riuscirci se tutti sanno chi siamo”. Ma Sidney ha un’altra preoccupazione: anche in Kentucky è legale girare armati in pubblico, e Hheimbach ha invitato gli iscritti del Nationalist Front a presentarsi armati sul luogo della manifestazione in vista di “possibili attacchi della sinistra”. Sidney ha deciso che porterà la sua pistola, una semiautomatica Smith & Wesson, ma la terrà nascosta. Alcune persone del posto avrebbero preferito che se ne fossero stati tutti a casa, sia i neonazisti sia gli antifascisti. “Non posso biasimarli se la pensano così”, dice Sidney. “Si ritrovano questo enorme scontro ideologico sulla porta di casa e non lo hanno chiesto loro”.

Poco dopo mezzogiorno un folto gruppo di manifestanti antifascisti – alcuni armati, altri in giubbotto antiproiettile – si dirige verso il tribunale pronto ad affrontare il Nationalist Front. Ma trova solo una decina di nazionalisti bianchi che li aspetta in una piccola zona transennata dalla polizia. Sono della Lega del Sud, un’organizzazione che promuove la secessione degli stati meridionali degli Stati Uniti. Le due principali delegazioni del Nationalist Front – Traditionalist Worker Party e National Socialist Movement – non ci sono. Gira voce che si siano persi. “Non mi sorprende, visto che non sono di queste parti”, dice Sidney.

Arrivano i nazisti a Harrisburg, intanto, sei giovani nazionalisti bianchi si avvicinano alla cucina da campo di Neely. Sono ben pettinati e indossano tutti una polo bianca, come se fosse un’uniforme. Neely si rivolge a loro con circospezione chiedendo se sono interessati al socialismo. No, rispondono. dicono di far parte di Identity Evropa, un gruppo che chiede la segregazione razziale e ammette solo persone di “origine europea non semitica”. Hanno sostenuto la candidatura di Trump, ma ora sono a Harrisburg per protestare contro di lui. Sono delusi perché il president non sta facendo abbastanza per creare uno stato etnico bianco.

Neely vuole tenerli lontani dalla cucina. Una giornata per famiglie e molti dei partecipanti al picnic sono giovani attivisti neri della scuola locale. Neely sa che potrebbero cavarsela da soli, ma difendere il diritto a esistere contro persone che negano la tua umanità è sempre un compito difficile. Perciò, mentre i suoi amici li tengono d’occhio dall’altra parte della strada, Neely li lascia parlare della loro ideologia, di come gli Stati Uniti erano destinati solo ai bianchi, del fatto che la cultura bianca è sotto attacco. Discute con loro nel modo più educato possibile, sperando che la situazione non degeneri, tanto che loro lo ringraziano di essere così calmo e civile. “Facile restare calmo quando sei bianco”, dice Neely. “. facile quando non è in gioco la tua vita o quella della tua famiglia”. L’incontro si conclude in modo piuttosto brusco quando tre ragazze del posto cacciano via i nazionalisti bianchi.

Nel 2014, durante le proteste contro le violenze della polizia a Ferguson, nel Missouri, esponenti armati degli Oath Keepers si piazzarono sui tetti, sostenendo di voler proteggere i manifestanti dalla polizia. Ma molti attivisti neri erano spaventati da quegli uomini bianchi armati pesantemente.

Quando gli attivisti della Redneck Revolt si presentano alle manifestazioni dei neri, invece, di solito è perché sono stati invitati. “Sono il nostro servizio d’ordine”, dice Katherine Lugaro, leader di This Stops Today, un gruppo per i diritti dei neri di Harrisburg. “Sono un muro tra noi e quelli che ci odiano. rischiano la vita per noi”.

A Pikeville, un’ora dopo l’inizio previsto della manifestazione, una roulotte entra nel parcheggio in fondo alla strada. Sono Heimbach e gli altri neonazisti. Un centinaio di persone che indossano vestiti neri coperti di simboli nazisti marcia verso il tribunale. Nelle prime file, molti sono armati. Altri portano scudi di legno decorati con svastiche e simboli celtici. Qualcuno ha uno scudo con l’immagine di Pepe the Frog (la rana simbolo dall’estrema destra online) e le parole “Pepe über alles”, Pepe sopra ogni cosa, un riferimento all’inno nazionale tedesco. Fanno il saluto nazista a Heimbach. Gli antifascisti sono il doppio di loro.

Poi cominciano i lunghi comizi dei neonazisti, che vengono coperti dalle grida degli antifascisti. Un gruppo di persone ascolta i discorsi del Nationalist front dietro le transenne piazzate dalla polizia. Ma quasi tutti i residenti di Pikeville si sono uniti agli antifascisti, e intonano i loro slogan. “Sono quelli che strillano di più”, dice Sidney. “Immagino che la maggior parte non s’interessi di politica, forse sono conservatori, ma capiscono che c’è un limite”.

Nessun ferito, nessunfa sparatoria. I neonazisti iniscono i loro discorsi e tornano alla roulotte. La forte presenza della polizia è riuscita a tenere separati i due gruppi e a impedire qualsiasi possibilità di scontro. Tutto finito. A Harrisburg scende la notte. Max Neely e i suoi si riuniscono in un bar. Bevono birra e parlano di hockey. Poi si spostano in una saletta privata per fare il bilancio della giornata.

Si siedono intorno a un posacenere e fumano una sigaretta dopo l’altra commentando educatamente a turno gli eventi. Ci sono molte cose da discutere. In mattinata un uomo che protestava contro Trump è stato arrestato, con l’accusa di aver avuto una discussione violenta con un poliziotto a cavallo, e il gruppo vuole dargli il suo sostegno. Tra due giorni ci sarà una manifestazione per i diritti degli immigrati. E poi devono decidere cosa fare per il festival dell’orgoglio della Pennsylvania centrale. Intorno a loro, le pareti della stanza sono coperte di bandiere statunitensi.

«La rimozione delle statue “sudiste” ha fatto riesplodere tensioni latenti che ormai degenerano in vero conflitto sociale, non più soltanto fiammate di rabbia dopo le violenze della polizia sui neri».

Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2017 (p.d.)

Siamo nel grande subbuglio americano. Adesso che Donald Trump si è voluto intromettere nella montante diatriba tra suprematisti bianchi e attivisti antirazzisti, coi suoi provocatori commenti e con la sua iper-provocatoria equidistanza dalle parti, la questione è divenuta di portata nazionale, con echi internazionali. Come se davvero solo ora, fuori tempo massimo, gli americani scoprissero la contrapposizione frontale destra-sinistra che in altri luoghi del dibattito politico è superata e archiviata.

L’oggetto del contendere non sfiora nemmeno la cosa sociale, né mette in discussione i principi del capitalismo americano e della piramidale distribuzione delle ricchezze. Il conflitto è interamente abbarbicato all’idea di razza, alle interpretazioni di diritto, sopraffazione e risarcimento, e a quel proposito di “salvare la vecchia America” su cui questo presidente ha trasformato un’incerta campagna elettorale in un prodigio. Questo confronto sempre più acre, acuito dalla partecipazione della traballante amministrazione-Trump, dimostra ancora una volta che la questione della razza in America non solo non è risolta, ma nemmeno anestetizzata. E che gli incidenti a sfondo razziale che hanno punteggiato l’ultimo biennio dell’amministrazione Obama, in particolare quelli che hanno messo sul banco degli accusati le forze di Polizia e il loro rapporto con la comunità afroamericana, erano solo il battistrada di un fronteggiamento che adesso sta scalando rapidamente i gradi del conflitto sociale.

Non è più questione di esplosioni ingiustificate di violenza a sfondo razzistico a opera di agenti indottrinati a produrre distinguo anticostituzionali nello svolgimento delle loro mansioni. A impadronirsi dello scontro è la piazza e le fazioni contrapposte di due visioni incompatibili dell’America d’oggi. Un’America autoprotezionistica, razzista e “chiusa” e un’America progressista e “aperta”, ora dai tratti insolitamente belligeranti. L’insofferenza tra le due parti è divenuta altissima e sono bastati pretesti, come il procedimento di rimozione di statue dei combattenti confederati nella Guerra Civile, per stabilire un’atmosfera di scontro sociale che aggrava il senso d’impotenza di cui l’America della politica ufficiale si sente investita. Quale degli eletti a Washington ha vere chances di parlare agli americani in turbolenza, con l’opportunità d’essere ascoltato? Esistono leader acclarati, in ciò che resta dei due grandi partiti?

Trump ha cominciato a etichettare quei dimostranti antirazzisti come membri di una frangia “alt-left”, parte di una sinistra alternativa fuori dagli schemi della politica tradizionale. Altrettanto, i “fascisti” presentatisi a Chalottesville, città della venerabile Università della Virginia, con torce e bastoni per urlare che l’America deve restare bianca, dai media vengono etichettati come “alt-right”, destra alternativa. Due “non appartenenze” politiche, due tribù aliene, che accendono uno scontro da cui la Washington del Congresso si sente estranea e nel quale non vorrebbe sporcarsi le mani. Ma nel quale, invece, un presidente in delirio ha preso ad affondare le mani, sull’onda del suo protagonismo. È spuntato il tono derisorio e paternalistico dei suoi tweet, i suoi ammiccamenti all’area grigia del razzismo e infine le lodi pronunciate da David Duke, vecchio leader del Ku Klux Klan, per la sua onestà e il suo coraggio.

È uno scenario di caos: un presidente instabile, disinformato, divisivo; un Congresso immobilizzato in un’impotenza votata solo al contenimento dei danni; uno slancio partecipativo popolare che percepisce questa situazione d’emergenza come un risveglio in cui schierarsi da una parte o dall’altra. Una destra estrema che prova a compattare i mille gruppuscoli locali e la crescente insofferenza di chi assiste a questo smantellamento dell’etica americana - non ultimo il drappello di Ceo delle corporation, ritiratisi precipitosamente dal comitato di consultazione attivato dagli amministratori economici di Trump.

La sensazione d’emergenza sale: l’America deve verificare i propri principi fondatvi, se un presidente ammicca a chi scende in piazza per rilanciare la questione che la stessa America bianca ha generato, allorché ha letteralmente inventato il problema della razza. Destra e sinistra alternative ora sono schierate per riesaminare l’interrogativo originale: cos’è l’America? Una repubblica multirazziale o un sistema maschilista, nel quale solo i bianchi hanno diritto a piena cittadinanza? Riaffiora la vecchia narrativa connessa al mito dell’innocenza e falsamente simboleggiata proprio da quelle icone confederate che gli scalmanati separatisti - e un benevolo presidente - provano a difendere. In questo scenario, venerdì è arrivata la cacciata di Stephen Bannon, stratega della campagna di Trump e architetto della sua visione, nella quale ha istillato i principi da ras dell’ultradestra e lo spregiudicato uso delle fake news di cui era l’orchestratore. Trump lo sacrifica a chi gli chiede un gesto di ragionevolezza. Inutile dire che l’immediato riposizionamento di Bannon sarà alla testa di quelle milizie della alt-right che puntano a destabilizzare la nazione. Almeno fin quando la crisi non finirà per sommergere la Casa Bianca.

Un resoconto sul rastrellamento degli immigrati "illegali'"nell’era Trump. Storie di ordinaria persecuzione quotidiana: ma la California non è d'accordo,

The New York Times, 21 luglio 2017 (m.c.g.)

“Criminals off the street, that’s our goal”: è stata questa la parola d’ordine, persecutoria e razzista nei confronti della popolazione immigrata, che ha risuonato martellante della campagna elettorale di Trump. Al di là della minacciata costruzione del muro alla frontiera con il Messico, l’amministrazione Trump si è messa immediatamente all’opera: in tutto il paese gli uffici locali dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) dall’alba alla notte stanno rastrellando le strade e le abitazioni dove risiedono gli immigrati: con ‘successo’, se si considera che, rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, i rimpatri forzati sono aumentati del 40%. Ma in California siamo molto al di sotto della media.
L’articolo è firmato da due giornaliste del NYT che hanno accompagnato gli agenti dell’ICE durante un rastrellamento notturno nella California del Sud. Si raccontano (e vengono accompagnate da un filmato) le storie disperate di migranti accolti in uno Stato, la California, che ne ospita (con grandi vantaggi economici, poiché si tratta di manodopera a basso costo che si adatta ai lavori più faticosi e meno remunerati) più di 2 milioni e che continua a dichiararsi fermamente contrario alle deportazioni di massa volute da Trump. Molti sceriffi californiani infatti, malgrado le segnalazioni dell’ICI, non confermano l’espulsione.
Più in generale, sono le amministrazioni delle grandi città americane che continuano a opporsi, malgrado le incessanti minacce di ritorsione presidenziale nei confronti delle “sanctuary cities”, al pensiero unico trumpiano secondo il quale tutti i migranti sono delinquenti.
Ma vi sono alcuni punti di debolezza nelle politiche di accoglienza messe in atto prima dell’arrivo di Trump nelle maggiori città santuario. Virtuosamente destinate a favorire l’emersione, queste politiche potrebbero invece risultare molto utili ai ‘persecutori’: all’ICE appunto. Infatti, le procedure di identificazione e registrazione dei migranti, avviate negli anni passati per far emergere i residenti illegali e riconoscere loro un diritto di cittadinanza e l’accesso ai servizi, costituiscono una banca dati preziosa per chi vuole individuare e ‘deportare’ i cittadini indesiderabili.
A San Francisco si è già corso ai ripari, distruggendo tutti i file del Municipal Identification Program, istituito nel 2009 per dare riconoscibilità e aiuto ai migranti illegali. Ma per le altre grandi città che non l’hanno ancora fatto (ad esempio New York) potrebbe aprirsi un ulteriore contenzioso legale, ancora più pericoloso per gli immigrati, fra Washington e i governi locali.
(scelto e presentato da Maria Cristina Gibelli)

The New York Times
A BROADER SWEEP
byJennifer Medina and Miriam Jordan

RIVERSIDE, Calif. — Just after dawn, a line of officers marched to the gate outside Fidel Delgado’s home here with guns drawn, one holding a rifle. Mr. Delgado emerged barechested from his home and with a look of confusion.

“Qué necesita” he asked: What do you need? About 20 minutes later and 10 miles away, Anselmo Morán Lucero sensed exactly why officers had come. He spotted them as he was returning from a night out, and turned his truck around. But an unmarked S.U.V. pulled in front of him and another flashed its lights behind him, blocking his escape.

They asked his name. They asked if he knew why he was being arrested. Mr. Lucero nodded. Every day around the United States, from before sunrise until late into the night, people like Mr. Delgado and Mr. Lucero are being picked up by Immigration and Customs Enforcement officers, the front-line soldiers in President Trump’s crackdown on illegal immigration.

More than 65,000 people have been arrested by the agency since Mr. Trump took office, a nearly 40 percent increase over the same period last year and as sure a sign as any that the United States is a tougher place today to be an undocumented immigrant.

But I.C.E. is in some ways operating in enemy territory in California, home to more than two million undocumented immigrants and hostile to the idea of mass deportations. Because local law enforcement often will not turn over undocumented immigrants in their custody, I.C.E. must make most of their arrests at homes, at workplaces and out on the street, which is more complicated than simply picking people up from jails — and potentially more dangerous.

So when a team of immigration agents gathered at 4:30 on one already warm morning in June, their chief, David Marin, warned them to stay away from any sign of danger.

After going over notes on each of the men they were after, the team pulled out in their unmarked S.U.V.s. Eight hours later, five men would be in custody, awaiting the start of deportation proceedings.

The New York Times followed the team for a day as it navigated the streets and politics of Southern California, and spoke with some of the men it arrested and the families they may soon be leaving behind.

An Unplanned Arrest
As the sun crept above the horizon, the officers gathered on a hill just a few yards away from Mr. Delgado’s home. But it was not Mr. Delgado they had come for; it was his son Mariano.

Mariano Delgado, 24, had returned to Mexico in 2011 after he was convicted of drunken driving. Since illegally re-entering the United States, he has been arrested four times for assault with a deadly weapon.

Immigrants like him are called “criminal aliens,” and there are so many of them in Southern California that Mr. Marin says it is effectively impossible to go after anyone else. But under President Trump, agents are encouraged to also arrest undocumented immigrants without serious criminal records, a break from the Obama administration’s policy of mostly leaving those immigrants alone. So here and across the country, agents now make more “collateral” arrests — undocumented people they come across while looking for someone else. That was about to happen.

When officers, guns out, approached the chain-link fence surrounding the home, the dogs began barking loudly, joining the squawking chickens. Fidel Delgado emerged.The elder Mr. Delgado, 46, and his wife, María Rocha, told the officers that their son had moved to Texas months ago. They readily admitted to being in the country illegally, but added that they worked. Their youngest son, 16, is an American-born citizen. When the agents shook him out of bed, he began to sob.

After taking Mr. Delgado’s fingerprints, they ran them through a database. Within minutes, they learned that he had once crossed the border illegally, twice in the same day, and had been sent back to Mexico.

A couple of officers debated what to do: Should they take both parents and call Child Protective Services for the boy? Did they believe that Mariano Delgado was no longer living there, even though they thought he was home as recently as the week before? “If he doesn’t give up the son, we’re going to take him,” one officer said.

They left the wife behind and led Mr. Delgado to a van, where he was soon shackled. The handcuffs would leave marks.

Later that morning, Ms. Rocha, 50, leaned against the chain-link fence that surrounds their home, bleary-eyed and in shock. “My husband, they had no reason to take him,” she said. “They weren’t searching for him.”

The family has lived in the three-bedroom white house in a blue-collar, semirural enclave of Riverside for three years, paying $1,300 a month in rent. Ms. Rocha, who cleans offices in nearby Corona, a more upscale community, said she brought home about $1,200 a month. Her husband, who milks cows at a dairy, earns about $12 an hour.

The couple married in Mexico 24 years ago, just before heading north. “We came here for a better life,” she said. In all her years in the United States, she said, she had never had problems with “la migra,” as the immigration agency is known. By the afternoon, Mr. Delgado had been released by the immigration agents, who decided that he was not a threat to public safety. He was given a notice that he must comply with any orders from immigration agents and returned to work the next day.
Agency Under a Microscope

Before heading out to their targets for the day, the I.C.E. team gathered in the darkness in the parking lot of a small hardware store. Mr. Marin, the enforcement supervisor, quizzed his officers:

What time will this man start to leave his home? Which way will that one turn when he pulls out of his driveway? When will the other one arrive back from his night shift? The officers had been watching the men they were after for days, learning their habits so they could capture them easily.

Mr. Marin, 48, has worked in immigration enforcement for more than two decades, starting when the agency was called Immigration and Naturalization Services. In the 1990s, he said, officers would spend much of their time rounding up immigrants in front of home repair stores, routinely arresting people so many times that they would know them by sight. Within hours of a bus ride returning them to Mexico, Mr. Marin said, they would be on their way to the United States again.

Like roughly half of the other officers, Mr. Marin began his career in the military, serving as a Marine. He amassed tattoos the way others collect shot glasses: On his left forearm is the first letter of the word “Christian” written in Arabic, commemorating his work collecting intelligence on the Taliban in Pakistan.

Though he had to pass a basic Spanish course early in his career, today Mr. Marin hardly speaks a word of it. But many officers do. Nearly 40 percent of Mr. Marin’s officers are Latino, he said, and many of them hear refrains of “How can you do this to your own people?” They do not apologize.But the agency is under a microscope here. Arrests in the Los Angeles region are up only 17 percent since Mr. Trump took office, far less than in the rest of the country, according to I.C.E. statistics.

Members of Congress and local officials routinely call Mr. Marin’s cellphone when they hear of arrests in their area.

“People want to know if we’ve gone into schools, if we’re standing in the market, but that’s not what we do,” Mr. Marin said, driving before dawn. “We know an arrest is a traumatic event for a family. We know the impact it has, and we take it very seriously.”

Luck Runs Out

While Mr. Delgado was being questioned, other members of the team were waiting for Mr. Lucero, who had already been deported once. Mr. Lucero, 51, and his wife, Jamie, 47, arrived from a small village in the Mexican state of Puebla more than three decades ago. He had built a thriving landscaping business, tending to yards of homes in upscale Orange County.

In 2006, Mr. Lucero was convicted in a domestic violence case and spent several months in jail, then was deported. But he had reconciled with his wife and was eager to return to her and their six children, two of them born in the United States. So he crossed the border illegally again.

Immigration officials had tried to get the Orange County sheriff’s office to hold Mr. Lucero for them when he was in jail for a day on a new domestic violence charge in 2014. But the sheriff declined, according to I.C.E. Many California sheriff and police departments do not cooperate with immigration officials, saying it erodes trust in law enforcement among immigrant populations. Mr. Trump has threated to punish these so-called sanctuary cities and counties, saying they harbor lawbreakers. For several nights before the I.C.E. team showed up, Mr. Lucero said, he had dreams of immigration agents coming to get him. The night before, he and his wife tried their luck at a nearby casino, playing the slot machines until daybreak. They had won a couple of hundred dollars and left just before 6 a.m.

When they began driving home, Ms. Lucero’s brother, with whom the family lives, warned them that immigration officers were near. But Mr. Lucero was unable to evade them.Hours after his arrest, Jamie Lucero, her eyes red with tears, pulled out a blue folder with Mr. Lucero’s papers neatly organized, including documents showing he had completed an anger-management program and followed the rules of probation from his domestic violence case. She was planning to take the folder with her when she visited him in detention, though the papers are unlikely to have a bearing on his new deportation case.

Their 29-year-old son, Urie, said that the week before, four officers had come to the door holding a picture of a bald man they said they were after. They never mentioned the man’s name, and Urie Lucero said he did not recognize the man. But the officers came inside the home and looked around. The family is convinced that the visit and the picture of the bald man were ruses to try to scope out Anselmo Lucero’s whereabouts. “That’s how they are getting people,” Urie Lucero said.

Jamie Lucero said the officers had told her not to bother paying for a lawyer because he faced certain deportation.

By lunchtime, the agents had five immigrants in custody: three of their six targets of the day, as well as Mr. Delgado and another man they found in the home of a target. Typically, officers successfully arrest about half the people they are looking for, Mr. Marin said, so this was a good day. “Criminals off the street, that’s our goal,” he said while standing inside the San Bernardino processing center, where immigrants from the region are taken each day.

The men they had arrested sat inside a small holding cell clutching their brown-bag lunch of a turkey sandwich and apple. Mr. Marin and one of his deputies headed for lunch at a small Mexican taqueria.

A broader sweep. A day in the field with immigration enforcers in California, a state hostile to President Trump’s efforts to step up deportation - The New York Times

https://www.nytimes.com/.../immigration-enforcement-california...

«Accordo di Parigi. Levata di scudi mondiale contro la decisione del presidente Usa. Solo Putin tende la mano. La Ue respinge l'ipotesi di rinegoziare l'accordo».

il manifesto, 3 giugno 2017 (c.m.c.)

Attraverso il simbolo di decine di monumenti nel mondo illuminati di verde come segno di protesta, il risultato della decisione di Trump di far uscire gli Usa dall’accordo di Parigi è l’isolamento internazionale di Washington. Al punto che ieri il segretario di stato, Rex Tillerson, si è sentito in dovere di precisare che gli Usa continueranno a ridurre le emissioni di Co2 (Tillerson era fino a qualche mese fa alla testa della Exxon-Mobil, che come altre grandi società è contraria all’abbandono della Cop21).

Intanto, il giorno dopo non è chiaro quali saranno le mosse di Trump: stando alla dichiarazione di giovedì, dovrebbe attivare l’articolo 28 dell’accordo di Parigi per uscirne, ma questo prevede tempi lunghi, complessivamente 4 anni dalla ratifica, che per gli Usa è stata il 4 novembre 2016. In altri termini, se gli Usa usciranno, lo faranno solo nel novembre 2020, cioè al momento delle nuove elezioni presidenziali. La decisione ha grandi possibilità di restare lettera morta (a differenza dell’accordo di Kyoto, distrutto dal rifiuto di Bush di rispettare gli impegni di Clinton).

Anche se c’è un effetto imminente: gli Usa non parteciperanno più al «fondo verde» dell’accordo, dove avrebbero dovuto contribuire con 3 miliardi di dollari a favore dei paesi più poveri (Obama ha già versato 1 miliardo). Toccherà agli altri – Ue e Cina in testa – compensare questo vuoto.

Un primo effetto della decisione di Trump è stato di rinforzare l’intesa Ue-Cina su questo fronte (ma solo su questo): alla conclusione dell’incontro bilaterale annuale a Bruxelles, c’è stata la riconferma dell’impegno alla lotta contro il riscaldamento climatico, ma la prevista dichiarazione comune è saltata (a causa di tensioni sul fronte commerciale, acciaio in testa, Bruxelles frena sull’apertura alla Cina come «economia di mercato»).

«Aumenteremo la cooperazione sul cambiamento climatico», ha precisato il presidente del Consiglio Ue, Donald Tusk. La Cina, che è il principale inquinatore mondiale ma anche il paese che investe di più nella transizione energetica, ha confermato la volontà di proseguire su questa strada, in stretta collaborazione con gli europei. Solo Vladimir Putin tende la mano a Trump, anche se la Russia non seguirà gli Usa e non uscirà dall’accordo (che ha firmato, ma non ancora ratificato). Con una dichiarazione confusa, il presidente russo, alla testa di un’economia dipendente dall’energia fossile, ha affermato: «Non giudicherò Obama, ops Trump, per la decisione presa, non bisogna agitarsi, ma creare le condizioni per lavorare in comune, se non sarà impossibile trovare un accordo».

I dirigenti del mondo intero hanno utilizzato parole molto dure contro la decisione di Trump. Il Vaticano l’ha definita «terribile» per l’umanità. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che aveva cercato di fare pressione su Trump per evitare l’uscita, ha espresso «immensa delusione» per una decisione «a favore di una crescita delle emissioni di Co2». Guterres ha reiterato ieri l’appello, rivolgendosi alle città e alle imprese americane per «un’economia durevole».

Gli europei sono decisi a recuperare la leadership nell’economia verde. Emmanuel Macron, che ha reagito già nella notte di giovedì, ha fatto una parodia della frase feticcio di Trump e invitato, in inglese, a «make our Planet great again».

Macron ha invitato gli scienziati a una fuga di cervelli verso la Francia, dove «troveranno una seconda patria e soluzioni concrete». Macron, che oggi riceve il premier indiano Narendra Modi (che ha confermato l’impegno per l’accordo), è stato drastico, dopo una telefonata con Angela Merkel: «Francia e Usa continueranno a lavorare assieme, ma non sul clima». Il presidente francese ha escluso un «rinegoziato» dell’impegno preso da Obama (riduzione delle emissioni di Co2 del 26-28% entro il 2025), non ci sarà «un accordo meno ambizioso». «Non vi sbagliate – ha aggiunto – sul clima non c’è un piano B, perché non c’è un pianeta B».

La cancelliera Merkel ha parlato di «scelta molto disdicevole» («e mi esprimo in termini misurati») e si è detta «più determinata che mai» a cercare un fronte unito per far fronte alla sfida. Per Berlino, la scelta di Trump è semplicemente «nociva» per il mondo. Macron ha parlato di «colpa».

Germania, Francia e Italia hanno firmato un documento comune dove prendono «conoscenza con dispiacere della decisione Usa» e sottolineano che sono «fermamente convinti che l’accordo non potrà essere rinegoziato».

Il commissario all’azione per il clima, Miguel Arias Canete, ha affermato che «il mondo può contare sull’Europa» dopo la «decisione unilaterale» degli Usa. La britannica Theresa May, che ha telefonato a Trump, ha sottolineato che l’accordo «protegge la prosperità e la sicurezza delle generazioni future, assicurando contemporaneamente l’accessibilità all’energia per i cittadini e per le imprese».

»

. il Fatto Quotidiano, 27 aprile 2017 (c.m.c.)

I musei pubblici mostrano la propria indipendenza intellettuale attaccando duramente le politiche del governo. Non è dell’Italia che sto parlando, ma dell’America di Trump. Basta andare nelle affollatissime sale del MoMA (Museum of Modern Art) di New York, per vedere a ogni angolo una protesta contro le discriminazioni alla frontiera lanciate dal neo-presidente repubblicano. In ogni sala, accanto alle opere degli artisti più famosi, che attirano visitatori da tutto il mondo, la direzione del museo ha esposto un’opera di un artista che proviene dai Paesi ai cui cittadini Trump vuol negare l’ingresso negli Stati Uniti.

Chi va al MoMA in questi giorni vedrà accanto a Picasso un quadro del sudanese Ibrahim El-Salahi, accanto a Munch un dipinto dell’irachena Zaha Hadid (sì, proprio l’architetto del MAXXI, prematuramente scomparsa). La preziosa stanza con alcune opere di Umberto Boccioni ospita anche una scultura di Parviz Tanavoli, scultore iraniano che ha studiato a Brera; fra gli altri artisti iraniani, Shirana Shahbazi figura accanto a Marcel Duchamp, Charles Hossein Zenderondi vicino a Matisse, Tala Madani condivide una stanza con Mirò, Faranaz Pilaram fa compagnia a Jackson Pollock. Sotto ognuna di queste opere, sempre la stessa scritta: «Questa è l’opera di un artista che viene da una nazione ai cui cittadini, secondo un recente ordine esecutivo del Presidente, si vorrebbe negare l’accesso agli Stati Uniti. Come questa, numerose altre opere d’arte sono state installate in tutte le sale per affermare che gli ideali di accoglienza e libertà sono considerati vitali da questo Museo, e devono esserlo anche per gli Stati Uniti».

In un simile spirito, la Biennale di arte americana del Whitney Museum, che quest’anno si tiene per la prima volta nella sua nuova sede del quartiere di Chelsea, ospita un gran numero di opere di dura critica al governo americano, e in particolare all’attuale Presidente.

Per citarne solo una, Frances Stark occupa una vasta sala del museo con otto enormi tele che riproducono altrettante pagine di un libro di Ian Svenonius (cantante underground e leader di un comitato contro ogni autoritarismo). Il titolo del libro (e delle tele) è Censorship Now!, e invoca sarcasticamente l’immediata “censura” dei media che invocando la libertà di stampa si vendono al potere e all’ideologia neoliberista. «Siamo inondati, immersi, immolati notte e giorno dai detriti che il loro monopolio della libertà di parola ci rovescia addosso. È un monopolio del potere di cui godono i più egoisti, i più ricchi, e dunque i più grotteschi e i meno generosi. Non hanno freni, sono impazziti. Censuriamoli! (…)
Censuriamo i politici! Anche se eletti, sono totalmente corrotti e si svendono ai più schifosi interessi di parte. Dobbiamo mettergli la museruola! (…) Come mai si consente all’industria di inquinare il mondo con tutto quello che gli viene in mente di offrirci a modello dato che controllano il mercato? Perché non poniamo un limite alle tecnologie che trasformano e degradano la Terra e la nostra esperienza?». E così via. Il pamphlet di Svenonius è del 2015, ma Frances Stark lo riattualizza ingrandendone a dismisura le pagine, e arricchendole di sottolineature che è impossibile non leggere come altrettanti riferimenti all’amministrazione Trump.

Il museo, dunque, come luogo del dissenso e della protesta politica. Succede anche in Italia? C’è da dubitarne, visto che periodiche circolari e codici di comportamento invitano i funzionari dei musei pubblici a starsene zitti e buoni, parlando semmai solo per via gerarchica.

Storici dell’arte, archeologi, architetti che lavorano nei musei statali non possono nemmeno manifestare la propria opinione sulle riforme “a rate” del ministero in cui lavorano, a meno che «i contenuti siano preventivamente e obbligatoriamente vagliati dai Direttori generali competenti», mentre «ogni iniziativa autonomamente presa in maniera difforme sarà ritenuta non consona e darà luogo ad azione disciplinare». Negli scorsi anni si è fatto un gran parlare di autonomia dei musei (o almeno di quelli cosiddetti “principali”). Ma solo quando vedessimo nei nostri musei spuntare qualche spazio per la libera espressione del dissenso cominceremo a credere che per “autonomia” può intendersi, anche in Italia, prima di tutto la possibilità di pensare in proprio, e di dire quel che si pensa senza essere repressi dal Superiore Ministero.

«. Ma soprattutto intrecciata con il dogma della supremazia colonizzatrice degli USA . il manifesto,

Trump è nel suo buen retiro di Mar-a-Lago. Trascorrerà la Pasqua sollazzandosi sui suoi adorati campi da golf o l’irrequietezza di uomo umorale lo spingerà a sparare un altro dei suoi stupidi quanto micidiali tweet di sfida? La flotta americana è in massima allerta di fronte alla Corea del Nord, basta il suo i-phone, bastano le 140 battute del suo lessico, povero quanto provocatorio, per incendiare l’Asia, e non solo.

È a Mar-a-Lago, il presidente statunitense, e non a Camp David, la “Casa Bianca di vacanza” ufficiale, che lui disdegna, anche quando riceve ospiti come Shinzo Abe o Xi Jinpeng. Un piccolo dettaglio, che costa però milioni ai contribuenti americani, per la sicurezza sua e dei suoi cari. E che dice molto del personaggio. Del tutto allergico a obblighi e consuetudini dell’incarico. Così come può essere un dettaglio, ma non lo è, la decisione di non rendere noti i nomi dei suoi visitatori alla Casa Bianca. Sì, anche da questi “dettagli” si vede che Trump non è un presidente come quelli che l’hanno preceduto. Anche se c’è l’assillo del mondo politico e dei media – perfino i nostri politici e media – di “normalizzarlo” a tutti i costi, finalmente diventato il presidente americano che ci voleva, e lo mettono in contrasto con l’imprevedibile vulcanico sfidante di Hillary. No, il comandante in capo The Donald non fa che reclamare, anche nella sua nuova veste di bombarolo, il diritto a continuare a essere visto esattamente con le lenti con cui era osservato nella corsa presidenziale.

Certo, ha cambiato spartito, rispetto a quanto andava affermando durante la campagna elettorale. A dimostrarlo soprattutto i 59 tomahack lanciati su Khan Sheikhoun, e poi la “madre di tutte le bombe” sganciata in Afghanistan, e poi ancora i toni ultimativi nei confronti di Pyongyang, e poi ancora le parole sulla Nato, non più obsoleta.

Ma è un cambiamento che prefigura un mutamento di strategia? Che implica l’affermazione di una “dottrina”? Da isolazionista Trump è oggi interventista? «What is the strategy?», si chiede giustamente Elizabeth Warren dopo i missili lanciati contro la Siria.

Su un tipo come The Donald ogni etichetta va stretta. Non solo per la spudorata propensione alla bugia e al flip flopping, all’ondeggiamento senza principi, ma perché il personaggio merita un altro tipo di percezione, il più possibile scevra dalla tentazione di incasellarlo nelle categorie conosciute della politica novecentesca.

Trump è un prodotto della politica nel mondo di oggi. Di una politica permanentemente intrecciata con i media, nuovi e vecchi. In Trump non c’è l’ambizione a costruire un nuovo ordine mondiale, come pretendevano di fare i suoi predecessori dopo la caduta dell’assetto bipolare del mondo. America First è e continua a essere essenzialmente questo. Non tanto un isolazionismo d’altri tempi, ma la rinuncia ad affidare all’America un ruolo di ordinatore del mondo. «Noi non cerchiamo d’imporre a nessuno il nostro stile di vita», disse il giorno dell’insediamento a presidente. E all’indomani dell’attacco alla Siria ha ribadito: «Le nostre decisioni saranno guidate dai nostri valori e dai nostri obiettivi, rifiutando il percorso di un’ideologia inflessibile che troppo spesso conduce a conseguenze indesiderate».

Trump, con le sue azioni militari, non prova a disegnare un nuovo ordine americano, come in tanti, anche in casa nostra, gli implorano di fare. Trump è piuttosto l’uomo del disordine mondiale. Il disordine l’alimenta, non lo contrasta. E il suo fiuto politico consiste, come ha dimostrato ampiamente nella campagna elettorale, di saper muoversi nella confusione, con colpi sotto la cintura, in un continuo gioco d’anticipo e di spiazzamento degli avversari, adusi invece a partite in cui vigono regole condivise, non importa se spesso violate, ma del tutto a disagio invece nel misurarsi con un avversario capace di cambiare il campo di gioco stesso.

Ed è quello che sta facendo in questo momento Trump, portando la palla fuori del campo domestico, dove ha problemi non indifferenti, per poi tornarci il prima possibile. Attento com’è innanzitutto all’elettorato che l’ha portato alla Casa Bianca, la sua base, l’unico suo vero riferimento. Nell’immediato può anche allargare la platea, includendovi anche quegli americani che l’hanno avversato e che sicuramente non l’hanno votato, ma che, secondo i sondaggi, hanno approvato la sua azione in Siria. Ma sa anche benissimo che quell’ampliamento può evaporare facilmente, mentre è sicuro che – spingendosi troppo oltre come gendarme del mondo – s’allontanerebbero da lui i suoi elettori, quei contribuenti americani arrabbiati ai quali, come ha detto Rex Tillerson, «non importa niente dell’Ucraina».

La superconservatrice Ann Coulter scrive su Breitbart News, la rivista online diretta da Steve Bannon, che il presidente, colpendo la Siria, si è infilato in una «disavventura» che «viola ogni promessa della campagna elettorale le che potrebbe affondare la sua presidenza».

Nel fiuto di Trump vi è anche la pretesa di essere visceralmente in sintonia con il suo elettorato. Lo stesso che ha visto, per ore, per giorni, le immagini dei bambini colpiti dai gas in Siria. Se un giorno verrà fuori un’altra versione di quei fatti, è secondario oggi, di fronte a un clamore che ha spinto Trump a vestire i panni del giustiziere mondiale. Anche lui aveva visto quelle immagini, e s’era immedesimato nei suoi elettori. «La dottrina Trump – scrive Max Boot su Foreign Policy – sembra essere: gli Stati Uniti si riservano il diritto di usare la forza ogniqualvolta il presidente è scosso da qualcosa che vede in tv».

Altri presidenti americani hanno portato l’America in guerra in nome di una “dottrina”, in nome di una pretesa ordinatrice del mondo. Con Trump è il suo eccentrico combinato di “viscere” e di capacità di nuotare nel caos che fa ballare il mondo. Ma se finora ha potuto contare sullo spaesamento dei suoi interlocutori mondiali, costringendoli con la novità del suo stile nella difensiva, adesso ha a che fare con un tipo che non gli è da meno, in quanto a eccentricità e ad azzardo. È il leader di un paese che, diversamente dalla Siria, è dotato di testate atomiche.

». il manifesto, 8 aprile 2017 (c.m.c.)

Avvengono secondo un copione consolidato, gli attacchi ordinati da Trump nella notte scorsa sulla base aerea siriana di Khan Sheikhou. Come da modello balcanico – vedi la strage inventata di Racak per l’intervento «umanitario» Nato in Kosovo nel 1999 – e con lo «stile» del governo israeliano del quale ancora non abbiamo smesso di contare le vittime civili per i suoi attacchi aerei su Gaza nel 2009.

I 59 missili Tomawak lanciati sulla Siria rompono l’ equilibrio di una saga immaginifica. Perché è tornata l’America, anzi questa è l’America. A smentire il povero Alan Friedman che dovrà scrivere almeno un altro libro. Perché la davano per persa, l’America. Con un Trump descritto come filo-Putin, quindi addirittura anti-Nato, naturalmente tenendo fissa la barra degli interessi strategici verso Israele e l’Arabia saudita; ma deciso nella lotta contro l’Isis.

Invece con un dietrofront repentino, a pochi giorni dalla dichiarazione rilasciata all’Onu dalla rappresentante Haley che «la fuoriuscita di Assad non è più la priorità», subito dopo la strage di Khan Sheikhou ha ripreso la rotta che già fu di Bush per l’Iraq del 2003: ha autorizzato il capo del Pentagono «cane pazzo» Mattis all’azione di guerra. Senza il parere dell’Onu e del Congresso Usa, con il veto russo alla condanna unilaterale di Assad, e di fronte alla richiesta di una indagine internazionale indipendente.

Per una strage, è bene ribadirlo, che vede i ribelli armati, opposizioni democratiche, jihadisti e qaedisti, uniti ad accusare il governo di Damasco; che invece ammette la responsabilità dei bombardamenti ma a sua volta accusa che tra gli obiettivi colpiti c’era un deposito di armi chimiche in mano ai ribelli. Dentro questo conflitto senza tregua né regole, la ferocia appartiene a tutti e nessuno – tantomeno Assad – è innocente, non ci sono in Siria angeli e demoni.

Ma è assolutamente legittimo dubitare della verità unilaterale delle opposizioni subito accettata dalle cancellerie europee e dagli Stati uniti. Che è bene ricordarlo sono stati i Paesi destabilizzatori della Siria – che non esiste più, come l’Iraq e la Libia – da subito. Fin dal 2011 nel tentativo di fare a Damasco quello che era «riuscito» già a Tripoli. Così a suffragare le accuse ad Assad per l’uso del gas sarin c’è la Turchia dell’«umanitario» Erdogan, che fa le autopsie come Paese «terzo». Quando è stato invece la retrovia dei jihadisti con cui ha intessuto traffici in armi, addestramento e petrolio come testimoniato dalla stampa turca indipendente non a caso finita in galera.

Ora il «democratico» Erdogan esulta, anche la piega degli avvenimenti lo aiutano nel suo referendum iper-presidenzialista della prossima settimana; e già rilancia la richiesta di no-fly zone sulla Siria libero di continuare a massacrare i curdi. Esulta Israele perché le modalità di Trump seguono in Medio Oriente le orme di sangue delle sue rappresaglie sui palestinesi e i tanti raid recenti contro la Siria; né deve essere bastato a Netanyahu la dichiarazione di Mosca dell’ultimo momento che, pur rispettando Risoluzioni Onu e soluzione dei Due Stati, ha riconosciuto Gerusalemme est capitale del futuro Stato di Palestina ma anche la parte Ovest capitale d’Israele.

Plaude l’«umanitario» presidente egiziano Al Sisi. E naturalmente l’Arabia saudita, il finanziatore della jihad in tutta l’area, che massacra in Yemen gli sciiti senza che nessuno protesti. Ed esultano jihadisti, da Al Sharam a an-Nusra/Al-Qaeda (che a marzo a Damasco ha rivendicato due stragi, il 12 marzo con 74 morti e il 15 marzo con 30), fino all’Isis per questo non atteso sostegno alla loro campagna per abbattere Assad.

Trump dunque va alla guerra. Rispettando la tradizione della storia americana, come risposta alla sua debolezza interna a nemmeno tre mesi dal suo ingresso alla Casa bianca e smentendo gran parte ormai delle sue promesse di un approccio diplomatico alle crisi. Soprattutto dopo avere incassato un disastro dietro l’altro, sulla nomina del suo staff di governo, sulla promessa di cancellare l’Obamacare, sulla Corte suprema, sul presunto Russiagate ora brillantemente smentito a suon di missili. E così facendo prova a rimettere in riga ogni critica interna e aggiustando con la colla i cocci occidentali. Zittisce le critiche dei Repubblicani e dei Democratici; Hollande e Merkel firmano uniti il loro apprezzamento; Gentiloni, si accoda all’alleato americano. E infine oscura la visita in Usa di Xi Jinping con un messaggio esplicito sulla crisi nordcoreana ai confini con la Cina.

Trump riporta questa Pasqua 2017 al mondo in ansia per la terza guerra mondiale dell’estate 2013. Quando, anche allora su un raid al presunto gas nervino, Obama era pronto alla guerra e venne fermato sia dalla preghiera mondiale del papa che da quel momento cominciò a denunciare la maledetta guerra e quelli che «fanno la guerra dicendo di fare la pace»; sia da Putin che si fece garante con l’Onu dello smantellamento dell’arsenale chimico di Damasco. Ecco il punto. Trump è intervenuto «per i bambini siriani».

Ma meritano davvero una tale vendicatore? L’azione di guerra di Trump avviene infatti appena dopo l’ammissione da parte degli Stati uniti, solo venti giorni fa, di avere massacrato, «per sbaglio» e «per sconfiggere l’Isis», a Mosul più di 150 tra donne e bambini come testimoniato dall’Onu e non raccontato dai media mainstrem; che tacciono sulle migliaia di civili uccisi in Afghanistan dai raid occidentali. Esistono dunque bambini di serie A e bambini di serie B. Forse che cluster bomb, uranio impoverito e bombe al fosforo sono meno micidiali del gas sarin? Un salto cultural-motivazionale: dalla «guerra umanitaria» siamo alla «guerra per i bambini» con fissa l’immagine tv sui loro occhi innocenti.

Ma attenzione. Vista l’irresponsabilità del gesto trumpista ora provano a dire che non è successo nulla, che i danni sono limitati. È vero il contrario. La reazione dell’Iran, che sul campo si oppone militarmente allo jihadismo, è rabbiosa: si trova esposta e nel mirino. E quella della Russia di Putin non lo è da meno. La rottura del collegamento diretto con il Pentagono e del coordinamento per i voli dei caccia militari in Siria è prodromo ad un confronto, anche involontario, diretto, non più per procura. Siamo a un passo dal precipizio. Pezzo per pezzo, nella terza guerra mondiale.

«». il manifesto,

Gli attentati alla metropolitana di San Pietroburgo deflagrano in Russia. Mentre riscopriamo che in Siria c’è la guerra sporca, che cancella la vita delle vittime civili e insieme la verità.

Già la solidarietà di Trump per le bombe nella metropolitana russa sposta l’attenzione sull’atteggiamento del fronte occidentale verso Mosca. Volta a volta considerata nemica, come per la crisi Ucraina. Che, è bene ricordarlo, ha visto la reazione dell’annessione della Crimea a fronte del ruolo non proprio innocente dell’Unione europea e della Nato impegnata ormai nella pericolosa strategia di allargamento a Est. Ma subito riammessa nel club, tardivo, della «lotta al terrorismo» dopo che per almeno quattro anni lo schieramento occidentale, con la Turchia e le petromonarchie del Golfo h attivato le guerre in Libia e subito dopo in Siria.

Putin è entrato nella crisi siriana non già come riempitivo dello spazio lasciato vuoto dall’Occidente come ripete il mantra giornalistico. Ma per il pieno della sconfitta, prima in Libia con la riattivazione dell’islamismo jihadista e poi in Siria con il sostegno malcelato dell’alleata atlantica Turchia. Alla quale è stato delegato per anni il ruolo di santuario della destabilizzazione siriana.

L’esplosione di fatto della Turchia di Erdogan ha reso evidente la disfatta, con la ritirata di Obama, già - incerto sull’intervento della Nato contro Tripoli nel 2011.

Il leader russo a fine 2015, nel vertice del caminetto alla Casa bianca con Obama è stato di fatto «autorizzato» ad intervenire. Né va dimenticato che tra le ragioni rivendicate da Putin per il ruolo in Siria c’è stata quella di fermare sul campo le migliaia – dai tremila ai 5mila secondo anche le intelligence occidentali – di foreign fighters caucasici, soprattutto ceceni, partiti dalla Federazione russa della quale la Cecenia «pacificata» fa parte, per impedire il loro rientro in patria.

Senza dimenticare che sul campo della guerra in Ucraina, nel Donbass le milizie cecene sono state ampiamente usate, da Mosca con reparti autorizzati dal premier Khadirov, ma anche nel campo avverso con centinaia di miliziani islamisti arruolati nelle formazioni dell’estrema destra ucraina.

Nella Siria ferita a morte si vuole tornare a quattro anni fa. Si distrugge ogni possibilità per i negoziati di Ginevra e di Astana, i qaedisti e i jihadisti dell’Isis sono vendicativi perché sotto assedio a Idlib e a Raqqa; e in rotta a Mosul in Iraq, dove le stragi di civili vengono zittite. Lo sponsor dell’orrore siriano, l’ Arabia saudita, sembra taciturno ma lavora sulla propaganda. Intanto si alternano raid aerei sui civili, dell’una e dell’altra parte. E le stragi cancellano le vittime e la verità. Perché si riparla di «sospetto uso del Sarin», e non può non venire alla memoria l’estate del 2013. Quando non fu provato l’uso dei gas e solo il papa fermò con la preghiera l’intervento dell’America di Obama quasi pronto ad un’altra maledetta guerra.

Detto tutto questo sul fronte internazionale, resta ormai però la rilevanza in Russia dell’iniziativa terroristica. Nel giorno in cui il presidente russo era in visita a San Pietroburgo . Putin ha fatto della pacificazione della Federazione russa, prima di lui alle prese con un Caucaso incendiato ovunque, in Cecenia, in Daghestan, ma anche sul fronte georgiano in Abkhazia e Ossetia, lì dove nel 2008 la Georgia di Shakahasvili (finito nella leadership di Kiev ma poi cacciato anche da là) e su irresponsabile suggerimento della Nato, mosse alla conquista di territori insorti, subendol’immediata reazione militare russa e una pesante sconfitta. Il fatto è che sulla pacificazione cecena Putin ha giocato buona parte della sua legittimazione al potere, così come ora per la sua strategia d’intervento nella Siria già in guerra.

Pagando a quanto pare ormai un costo elevatissimo per la litania di attentati subiti che alla fine mostrano la vulnerabilità della Russia. Accettando, mentre abbraccia rinnovati interessi di potenza, l’asimmetrica normalità tra guerra e terrorismo. Proprio mentre si riaccende una protesta della scarsa e poco alternativa opposizione russa.

E se sarà confermata la pista dell’attentatore kirghiso, torna centrale anche il fronte asiatico delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, di fatto ancora legate politicamente ed economicamente alla Russia. Sullo sfondo il gioco rimasto aperto dell’Afghanistan in guerra da decenni.

Sembra riaprirsi per la Russia, di fronte alle chiusure in Europa, il dilemma storico, culturale e strategico, che fu prima della Russia zarista ma che si ripropose negli sviluppi della rivoluzione bolscevica e sui destini della ex Urss. E che torna nel disequilibrio nazionalista di Putin. Quello tra linea occidentalista oppure panslavista.

La prima vede i destini russi rivolti verso l’Ovest del mondo, l’altra insiste sull’asse degli interessi orientali. Un grande innovatore in tal senso è stato lo sconfitto Michail Gorbaciov. Parlava per la Russia ancora sovietica e già post-sovietica di «Casa comune europea». Ma tutti sappiamo com’ è andata a finire.

Milioni di bambini rischiano la morte per carestia in Yemen, Sud Sudan, Somalia e Nigeria: la peggiore crisi umanitaria da quando sono state istituite le Nazioni Unite,

nytimes.com, Sunday Review, 18 marzo 2017

Sintesi
Si calcola che, a partire dal 1990, grazie agli aiuti internazionali è stata salvata la vita di più di 120 milioni di bambini affamati. Ma oggi è in atto una tragedia che ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio sterminio: in particolare nello Yemen dove, complice l’Arabia Saudita che è alleata degli USA, si impedisce l’accesso ai reporter, per nascondere una carestia apocalittica. La blanda tradizione umanitaria bipartisan dei governi degli Stati Uniti (meno di un quinto dell’1% del reddito nazionale è stato mediamente allocato nel corso del tempo agli aiuti umanitari: circa la metà delle donazioni degli altri paesi sviluppati) sarà cancellata da Trump. L’Amerika non vuole più occuparsene: priorità agli investimenti nel settore militare, costruzione del muro con il Messico, drastico taglio dei fondi per l’assistenza (sia agli strati più poveri della popolazione americana che alle crisi umanitarie internazionali). Sono queste le priorità sbandierate dal nuovo tiranno dell’Occidente» (m.c.g.)

First, a quiz: What is the most important crisis in the world today?
A.) President Trump’s false tweets that President Barack Obama wiretapped him.
B.) President Trump’s war on the news media.
C.) Looming famine that threatens 20 million people in four countries.

Kind of answers itself, doesn’t it?
«We are facing the largest humanitarian crisis since the creation of the United Nations,» warned Stephen O’Brien, the U.N.’s humanitarian chief. «Without collective and coordinated global efforts, people will simply starve to death.»
How is Trump responding to this crisis? By slashing humanitarian aid, increasing the risk that people starve in the four countries — Yemen, South Sudan, Somalia and Nigeria. The result is a perfect storm: Millions of children tumbling toward famine just as America abdicates leadership and cuts assistance.

«This is the worst possible time to make cuts,» David Miliband, president of the International Rescue Committee, told me. He said that “the great danger” is a domino effect — that the U.S. action encourages other countries to back away as well. The essence of the Trump budget released a few days ago is to cut aid to the needy, whether at home or abroad, and use the savings to build up the military and construct a wall on the border with Mexico.
(Yes, that’s the wall that Trump used to say Mexico would pay for. Instead, it seems it may actually be paid for by cutting meals for America’s elderly and by reducing aid to starving Yemeni children.)

It’s important to note that «all of these crises are fundamentally man-made, driven by conflict,» as Neal Keny-Guyer, C.E.O. of Mercy Corps, put it. And the U.S. bears some responsibility.

In particular, the catastrophe in Yemen — the country with the greatest number of people at risk of famine — should be an international scandal. A Saudi-led coalition, backed by the United States, has imposed a blockade on Yemen that has left two-thirds of the population in need of assistance. In Yemen, “to starve” is transitive.

The suffering there gets little attention, partly because Saudi Arabia mostly keeps reporters from getting to areas subject to its blockade. I’ve been trying to enter since the fall, but the Saudi coalition controls the air and sea and refuses to allow me in. In effect, the Saudis have managed to block coverage of the crimes against humanity they are perpetrating in Yemen, and the U.S. backs the Saudis. Shame on us.

Likewise, the government in South Sudan this month denied me a visa; it doesn’t want witnesses to its famine.
In the United States, humanitarian aid has been a bipartisan tradition, and the champion among recent presidents was George W. Bush, who started programs to fight AIDS and malaria that saved millions of lives. Bush and other presidents recognized that the reasons to help involve not only our values, but also our interests.

Think what the greatest security threat was that America faced in the last decade. I’d argue that it might have been Ebola, or some other pandemic — and we overcame Ebola not with aircraft carriers but with humanitarian assistance and medical research — both of which are slashed in the Trump budget.

Trump’s vision of a security threat is a Chinese submarine or perhaps an unauthorized immigrant, and that’s the vision his budget reflects. But in 2017 some of the gravest threats we face are from diseases or narcotics that can’t be flattened by a tank but that can be addressed with diplomacy, scientific research, and social programs inside and outside our borders.

It’s true that American foreign aid could be delivered more sensibly. It’s ridiculous that one of the largest recipients is a prosperous country, Israel. Trump’s budget stipulates that other aid should be cut, but not Israel’s. The U.S. contributes less than one-fifth of 1 percent of our national income to foreign aid, about half the proportion of other donor countries on average.
Humanitarian aid is one of the world’s great success stories, for the number of people living in extreme poverty has dropped by half since 1990, and more than 120 million children’s lives have been saved in that period.

Consider Thomas Awiapo, whose parents died when he was a child growing up in northern Ghana. Two of his younger brothers died, apparently of malnutrition. Then Thomas heard that a local school was offering meals for students, a “school feeding program” supported by U.S.A.I.D., the American aid agency, and Catholic Relief Services. Thomas went to the school and was offered daily meals — on the condition that he enroll.

«I kept going to that little village school, just for the food,» he told me. He became a brilliant student, went to college and earned a master’s degree in the U.S. Today he works for Catholic Relief Services in Ghana, having decided he wants to devote his life to giving back.
I asked him what he thought of the Trump budget cutting foreign assistance. «When I hear that aid has been cut, I’m so sad,» he answered. «That food saved my life.»

Link: 'ThatFood Saved My Life,' and Trump Wants to Cut It Off - The New ...
https://www.nytimes.com/.../that-food-saved-my-life-and-trump

la Repubblica "Economia&finanza, 3 marzo 2017 (p.s.)

Lugano - LafargeHolcim, il gruppo con sede in Svizzera numero uno nella produzione mondiale di cemento, si candida a costruire il muro di Trump ma, intanto, fa mea colpa per i suoi rapporti con l'Isis, in Siria. «Abbiamo concluso degli accordi inaccettabili con dei gruppi armati, nel 2013 e nel 2014», hanno ammesso nel quartier generale elvetico di Jona i vertici del colosso cementiero. Il cui maggiore azionista, vale la pena ricordarlo, é l'imprenditore Stephan Schmidheiny, condannato a 18 anni, in Italia, per i morti dell'amianto di Eternit.

Ma cosa ha combinato di tanto grave, in Siria, LafargeHolcim, per cospargersi pubblicamente il capo di cenere? Stando a un'inchiesta di Le Monde, sostanzialmente confermata da una iniziativa giudiziaria del Governo francese nel gennaio scorso, per salvare lo stabilimento che il gruppo svizzero possedeva a Jalabiya, nel nord del Paese, aveva negoziato dei diritti di transito con l'esercito dello Stato Islamico, che controllava quella porzione di territorio siriano. Un comportamento spregiudicato in quanto facendo funzionare lo stabilimento di Jalabiya, LafargeHolcim aveva violato un embargo internazionale.

«La nostra indagine interna - fa sapere adesso il gigante del cemento - ha stabilito che ci sono state transazioni con gruppi armati, alcuni dei quali oggetto di sanzioni». Il tutto per mantenere in esercizio un impianto che, ha ammesso lo stesso gruppo elvetico, rappresentava meno dell1% della sua cifra d'affari. Ma, come si dice, business is business. Ed é un affare, che si prospetta ben piú redditizio, la costruzione del muro ai confini con il Messico, voluto da Donald Trump.

LafargeHolcim intende mettere le mani su quell'opera, come ha annunciato il suo CEO, Eric Olsen. «Siamo il numero uno del cemento negli Stati Uniti», ha sottolineato, in una conferenza stampa. E poco importa se il muro di Trump, prima ancora della sua realizzazione, sta suscitando indignazione in mezzo mondo. In ballo ci sono 1000 miliardi di dollari e «per noi si tratta di una grande opportunitá», ha sottolineato Olsen.

Nel clima del nuovo corso Usa, nell’inerzia attonita dell’Europa e dei paesi arabi, prosegue la rapina delle terre del popolo palestinese. Dimenticando che chi semina vento raccoglie tempesta..

Reset, 27 febbraio 2017
Israele è uno dei pochi Paesi ad avere ottime aspettative sulla nuova amministrazione USA. È vero che per ora il nuovo Presidente non ha ancora annunciato in che modo intenda rivedere l’accordo sul nucleare iraniano raggiunto a Vienna nel 2015, né come reimporre le sanzioni, ma certamente l’attuale amministrazione Trump si annuncia come la più vicina e più simpatetica al governo Netanyahu dal 2009.

Tuttavia, il rinnovato slancio USA all’alleanza strategica con Tel Aviv non è l’unica ragione dell’euforia israeliana: in una regione attraversata da molteplici crisi e sconvolta da insanabili guerre civili, Israele è un Paese che non solo economicamente cresce per il 13° anno consecutivo (dati OECD 2016), ma sembra riuscito nell’intento di relegare il conflitto israelo-palestinese sullo sfondo ad un ruolo di serie B nello scenario internazionale. La coscienza di quella parte dell’opinione pubblica araba ed occidentale tradizionalmente attenta alle violazioni israeliane e sensibile al progressivo deterioramento dei diritti dei Palestinesi, sembra oggi attonita e distratta da conflitti più impellenti che causano un numero maggiore di morti e, soprattutto, di rifugiati.

È indubbio che riflettori da sempre puntati sul conflitto israelo-palestinese si siano spenti e che il governo israeliano ne approfitti per varare alcune leggi che in altri tempi sarebbero diventate facilmente oggetto di critiche virulente da parte delle organizzazioni internazionali e boicottaggio da parte delle opinioni pubbliche.

La prima delle leggi controverse recentemente passate dalla Knesset quasi in sordina è stata “la legge sulla regolarizzazione degli insediamenti” del 6 febbraio scorso, in cui all’unanimità il Comitato legislativo del Parlamento ha stabilito che sia possibile per l’amministrazione civile israeliana requisire terre private palestinesi per costruire insediamenti o legalizzarne quelli già esistenti in funzione retroattiva, infrangendo così una pericolosa “linea rossa” ovvero quella della tutela almeno delle proprietà private palestinesi.

D’ora in poi nella cosiddetta area C, corrispondente a circa il 60% della Cisgiordania, il governo israeliano, tramite il suo braccio esecutivo nei Territori occupati della Cisgiordania (l’amministrazione civile) potrà espropriare qualsiasi porzione di terra al solo scopo dichiarato di facilitare e intensificare la creazione di insediamenti israeliani. Mentre prima era possibile espropriare solo a scopi pubblici (costruzione di strade e servizi collettivi, ragioni di sicurezza) adesso gli interessi privati di gruppi di coloni vengono legalmente equiparati alla ragion di Stato. Altre postille della legge prevedono che tutti gli avamposti finora costruiti illegalmente vengano “sanati” ovvero automaticamente convertiti in insediamenti legali destinatari di fondi pubblici governativi, spianando la strada alla trasformazione di tutta l’area C in una nuova regione israeliana suscettibile di annessione (che in ebraico ha già un nome,“Yeudah e Shomron”, ovvero “Giudea e Samaria”). La legge è stata votata ed approvata per ben tre volte alla Knesset da una maggioranza di partiti di governo composta da Israel Beitenu (Israele casa nostra), Ha Bayit ha Yehoudi (La Casa ebraica), Likud (“Consolidamento”) e Kulanu (“Noi tutti”), convincendo quest’ultimo, un partito di centro-destra che si era originariamente dichiarato contrario, barattando il voto favorevole del partito centrista con la promessa di una maggiore attenzione del governo alle crescenti disparità sociali.

Fatto ancora più grave, attraverso la legge, di per sé sintomatica di un solido sentire della maggioranza favorevole al superamento dello status quo vigente in materia di insediamenti (secondo l’ultimo sondaggio Peace Index del giugno del 2016 il 55% sarebbe tendenzialmente favorevole all’estendere la sovranità israeliana agli insediamenti in Cisgiordania), si delinea un difficile rapporto tra due poteri forti dello Stato: il governo e la Corte Suprema.

Il primo agisce secondo il principio della “democrazia della maggioranza”, pensando di essere l’unico legittimo rappresentante del popolo e dunque di essere investito dell’autorità suprema di governare in piena autonomia dalle norme vigenti, erigendosi a “corte d’appello” superiore alla stessa magistratura, mentre la seconda vede sistematicamente nullificate le sue sentenze -si veda il caso dello smantellamento, decretato appunto dalla Corte, dell’avamposto illegale di Amona etc.- e contestata la sua autorità da parte tanto del governo che del Parlamento, ovvero i due poteri che assieme ad essa costituiscono le più alte istituzioni dello Stato. Una situazione critica che si riflette nelle parole di una delle deputate di estrema destra che più si sono battute per la promulgazione di questa legge di “regolarizzazione degli insediamenti”, Shuli Mualem Refaeli del partito La Casa Ebraica: “La questione della Giudea e della Samaria non costituisce affatto un problema legale, ma se la Corte rigetterà la legge, al Parlamento rimarranno solo due opzioni: l’annessione diretta di tutta l’area C o una nuova legge per limitare i poteri della Corte” (Hezki Baruch, Arutz Sheva, 7 febbraio 2017).

Il ruolo della Corte Suprema è contestato da molti anni, in primis dalle forze che appartengono all’attuale coalizione di governo, ma anche da altri gruppi schierati alla loro ulteriore destra. Nonostante essa abbia storicamente evitato di esprimersi su controverse decisioni governative come l’introduzione delle leggi d’emergenza o l’esproprio di terreni da parte dell’esercito a fini di sicurezza, essa è percepita come un “bastione” delle forze liberali nel Paese soprattutto a seguito dell’attivismo che l’ha caratterizzata negli anni immediatamente precedenti e successivi ad Oslo (anni ’90) in cui la Corte ha spinto il Parlamento a promulgare due nuove leggi fondamentali sulla difesa dei diritti umani sotto il lungo mandato del Giudice supremo Aharon Barak (1995-2006). In particolare, poiché Israele manca di una costituzione, la Corte Suprema ha teso a supplire con il proprio attivismo all’assenza di una legislazione capillare in materia protezione dei diritti umani. A differenza degli anni Novanta, però, in cui la Corte godeva di un’ampia legittimità democratica e di un consenso trasversale, dal 2003 la sua buona reputazione si è attenuata per le sentenze sull’illegalità del percorso della Barriera difensiva (o Muro di separazione, che per alcune porzioni illegalmente è stato costruito su terra privata palestinese, il cui esproprio oggi è stato retroattivamente legalizzato), sull’illegalità delle demolizioni di abitazioni palestinesi e per l’accoglienza di alcune petizioni individuali avanzate da Palestinesi dei Territori.

Dal 2000, il Governo cerca dunque di mettere un freno all’attivismo della Corte -che nel frattempo si è molto smorzato- sostenendo che le sue decisioni mettano a repentaglio la sicurezza e la capacità di sopravvivenza dello Stato. Da allora, i disegni di legge avanzati dal Parlamento a questo scopo si sono succeduti: dalla proposta dei deputati di Israel beitenu (“Israele Casa nostra”) Eliezer Cohen e del Mafdal Igal Bibi di affiancare alla Corte Suprema una Corte Costituzionale maggiormente influenzata dal governo, a quella del Ministro della giustizia del Governo Olmert Daniel Friedman di limitare il diritto di petizioni individuali, per arrivare a quella del Ministro della giustizia del precedente governo Netanyahu, Ya’acov Neeman, di rivedere il processo di nomina dei giudici alla Corte Suprema in modo da procedere con assegnazioni più compiacenti al governo (Yossi Verter, Ha’aretz, 6 gennaio 2012). Quest’ultima proposta è stata coronata proprio in questi giorni (23 febbraio 2017) dal successo riportato dal terzo governo Netanyahu, ed in particolare dal suo attuale Ministro della giustizia Ayelet Shaked (la Casa ebraica), con la nomina di quattro nuovi giudici conservatori o “falchi”.

Tuttavia, la crisi -nel senso greco di trasformazione dalla quale emerge un nuovo equilibrio- è molto più estesa del “braccio-di-ferro” in corso tra le istituzioni dello Stato, ma si avvicina ad una resa dei conti totale, in cui una parte maggioritaria del Paese afferma di non voler più vivere secondo le regole che hanno plasmato la vita politica israeliana fino ad oggi.

Tale “resa dei conti” si radica in un consolidato sentimento popolare che ritiene che Israele stia entrando in una fase di maturità in cui abbia finalmente la possibilità di assecondare le sue vere aspirazioni nazionali rimaste ancora incompiute. Tale posizione, riassuntiva del sentire di una buona parte dell’opinione pubblica politicamente rappresentata dall’ampio arco di forze di destra al potere quasi ininterrottamente dal 1996, ritiene che l’attuale accomodamento -o coabitazione di comodo- con l’Autorità nazionale palestinese si avvii alla fine, per essere sostituita dall’estensione della sovranità israeliana a quei territori che le sono da sempre appartenuti, Giudea e Samaria, garantendo diritti di residenza -e non di cittadinanza- ai Palestinesi ivi residenti in attesa di futuri equilibri demografici più favorevoli agli ebrei all’interno di un Grande Israele.

Come viene ben sintetizzato dal giornalista di Israel Hayom, quotidiano vicino al premier, Dror Eydar (Allgemeine Zeitung, 23 febbraio 2017): “In futuro… vi saranno milioni di ebrei in più in Israele grazie all’immigrazione ed al saldo positivo della crescita naturale della popolazione e dunque… sarà possibile anche concedere diritti di cittadinanza a quei Palestinesi che vi aspirassero”. La speranza rimane sempre che siano in pochi a farne richiesta, così come avvenne dopo l’annessione di Gerusalemme est nel 1967, in cui centinaia di migliaia di palestinesi decisero di non optare per la cittadinanza israeliana, puntando ancora sull’eventuale costituzione di uno stato palestinese. Uno Stato che oggi -Israeliani e Palestinesi ne sono sempre più convinti, sebbene da prospettive diverse- non vedrà mai la luce.

Il motivo, secondo il Preside della Facoltà di lettere della Ben Gurion University, David Newman, è molto semplice: non può essere istituito uno Stato sovrano in presenza di 125 colonie e circa 100 avamposti illegali israeliani che spezzettano la porzione di territorio assegnata all’autonomia palestinese. Ancora, i coloni sono decisamente troppi per essere evacuati e qualunque linea di confine si intendesse tracciare, tra gli 80.000 e i 100.000 di loro si troverebbero dalla parte sbagliata del confine, e si tratterebbe dei coloni più ideologici, quelli che non accetterebbero alcuna compensazione economica in cambio di un loro eventuale trasferimento (David Newman, Bicom, 17 febbraio 2016). In più, anche qualora fosse territorialmente possibile, Israele non garantirebbe la piena sovranità ad un futuro Stato palestinese in materie sensibili come sicurezza, politica estera e difesa.

Dominique Vidal, celebre firma di Le Monde Diplomatique ed esperto del conflitto israelo-palestinese, riassume così il paradosso a cui sono giunti i Palestinesi, forse loro malgrado: nel momento in cui la Palestina sembra affermarsi senza ostacoli sul piano diplomatico e ottenere il riconoscimento di 138 Paesi e l’endorsement dell’ONU e la membership nella Corte Penale Internazionale, si rivela tanto vulnerabile da rischiare di sparire dalle carte geografiche (Radio France International, débat, 11 febbraio 2017). La sorte dei Palestinesi, più che mai, appare demandata all’arbitrio israeliano, contro il quale la comunità internazionale può poco, sul quale non esercita alcuna pressione e al quale si limita a reagire in ordine sparso e con poca convinzione.

La mobilizzazione internazionale non è mai stata così debole come in questo momento e il governo israeliano ne approfitta per rimodellare fino in fondo l’ampio territorio -ormai sempre più corrispondente al Grande Israele auspicato dai sionisti-revisionisti di Jabotinsky, seppure con qualche Palestinese di troppo- del quale ormai dispone impunemente: ventilando l’indizione di un referendum esclusivamente ebraico circa la possibilità di annessione di una buona porzione di Cisgiordania (l’area C), affermando che l’istituzione di ulteriori colonie non arreca alcun pregiudizio ai diritti dei residenti palestinesi e negando il visto a rappresentanti di ONG come Human Rights Watch per il loro ruolo nella denuncia di quel complesso rapporto che lega imprese private israeliane, americane ed europee al grande business delle colonie (HRW report, “Separate and Unequal”, 2010), che costa annualmente 3.4 miliardi di dollari alla già schiacciata economia palestinese. Il tutto in attesa che la nuova amministrazione Trump sciolga ogni riservatezza e si dichiari ufficialmente a favore dell’accantonamento della soluzione dei due Stati, alla quale solo una parte minoritaria -ideologica o conservatrice, ottusa o ostinata, del tutto indifferente o cieca di fronte alle reali condizioni prevalenti sul terreno, dell’opinione pubblica occidentale e della sua stolta diplomazia-, crede ancora come possibile esito del conflitto.

Il FattoQuotidiano online, 23 febbraio 2017 (p.s.)

Nonostante lo spirito combattivo, alla fine i migliaia di membri della tribù di indiani Sioux di Standing Rock che si opponevano al passaggio di un oleodotto sul territorio della loro riserva, nel North Dakota, hanno perso la loro battaglia. Lo sgombero definitivo dell’accampamento allestito da quasi un anno dagli indigeni, insieme a molti ecologisti, sarà avviato e completato da parte delle autorità statunitensi. Sioux e attivisti non hanno rinunciato a lottare fino all’ultimo: dieci persone sono state fermate, perché stavano cercando di impedire l’accesso degli agenti nell’accampamento. Prima dell’arrivo delle autorità, gli attivisti hanno appiccato una ventina di fuochi come ‘cerimonia di addio’.

Finisce così una battaglia che solo a dicembre sembrava ormai vinta dagli Sioux. A fine 2016 Barack Obama aveva deciso di non concedere all’azienda costruttrice il permesso di realizzare l’opera, per la quale era stato studiato un percorso alternativo. Ma già allora Donald Trump aveva avvertito: «Deciderò io». Così ha fatto: lo scorso 7 febbraio ha annunciato di essere pronto a consentire la costruzione dell’oleodotto attraverso il fiume Missouri e il lago Oahe nel North Dakota. Il 24 gennaio il presidente ha firmato due ordini esecutivi per rilanciare il Dakota Access e l’altro oleodotto contestato, il Keystone XL, a sua volta bloccato da Obama per timori di danni ambientali.

L’oleodotto dovrebbe correre per quasi 2mila chilometri e attraversare quattro Stati per portare il greggio alle raffinerie dell’Illinois. Indiani e attivisti contestano da mesi il progetto, spiegando che la parte sottomarina del tracciato mette a rischio il bacino idrico delle comunità, senza contare la violazione di terreni e luoghi sacri Sioux. Nonostante le proteste, la tribù nulla ha potuto contro quest’ultima decisione di Trump. E ancora una volta è stata costretta ad abbandonare la propria terra.

Anche negli Usa di Donald D. Trump, contro chi vuole distruggere le conquiste di un passato migliore del presente, la parola d'ordine è la stessa: resistere, resistere, resistere.

Huffington Post, 20 febbraio 2017

A un mese esatto dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz pubblica sul Guardian una riflessione su come sopravvivere all’era Trump senza diventare ciechi e sordi di fronte a violazioni dello stato di diritto che si annunciano continue. In una parola: resistere. Senza mai abbassare la guardia, resistere. Senza stancarsi, resistere.

Scrive Stiglitz:

«Se c’è un risvolto positivo nella nube Trump, è un nuovo senso di solidarietà su valori fondamentali come tolleranza ed eguaglianza, sostenuto dalla consapevolezza dell’intolleranza e della misoginia, sia nascoste che evidenti, incarnate da Trump e dal suo team. E questo senso di unità è diventato globale, con Trump e i suoi alleati che stanno riscontrando rifiuto e proteste in tutto il mondo diplomatico».

Il premio Nobel , che oggi insegna alla Columbia University, porta l’esempio dell’American Civil Liberties Union (Unione Americana per le Libertà Civili) che – “avendo anticipato che Trump avrebbe presto calpestato i diritti individuali – si è mostrata più preparata che mai a difendere principi chiave della Costituzione come il giusto processo, l’equale protezione e la neutralità ufficiale riguardo alla religione. Nei mesi scorsi – sottolinea Stiglitz – gli americani hanno supportato l’organizzazione con milioni di dollari di donazioni”.

«Allo stesso modo – continua l’autore de Il prezzo della diseguaglianza -, in giro per il Paese, dipendenti e consumatori hanno espresso la loro preoccupazione per amministratori delegati e consigli d’amministrazione che sostengono Trump”. Di fronte all’atteggiamento spesso opportunista e spregiudicato di investitori e vertici aziendali, spetta ai singoli il compito di “rimanere vigili e resistere, ove necessario».

Scrive ancora Stiglitz:

«Media di primo piano come The New York Times e The Washington Post hanno finora rifiutato di normalizzare la negazione di Trump dei valori americani. Non è normale per gli Stati Uniti avere un presidente che rigetta l’indipendenza dei giudici; rimpiazza i funzionari più esperti dell’esercito e dell’intelligence al cuore della legislazione sulla sicurezza nazionale con un fanatico dei media dell’estrema destra; e, di fronte all’ultimo test missilistico della Corea del Nord, promuove le iniziative imprenditoriali di sua figlia».

Tutto questo – conclude Stiglitz – non è normale né accettabile, ed è importante ricordarselo sempre per evitare di diventare “insensibili” a questi e altri abusi di potere.

«Una delle sfide più grandi di questa nuova era sarà restare vigili e resistere – ogni volta e in ogni luogo in cui sarà necessario».

».

Lettera 43 online,15 febbraio 2017 (c.m.c.)

La Babele che si erge contro la stretta di Donald Trump sugli immigrati - oltre al muro annunciato e lo stop agli ingressi da sette Stati musulmani, un decreto che dal 26 gennaio 2017 ne autorizza gli arresti sommari - è composta da centinaia tra grandi città e centri minori americani sparsi in quasi tutti gli States della federazione: una realtà che, per agire in modo democratico, il nuovo presidente degli Usa dovrebbe considerare, anche solo per rispettare la maggioranza della popolazione (quasi 3 milioni di elettori in più per Hillary Clinton, se Oltreoceano si votasse secondo la regola “una testa un voto”) che non lo vuole alla Casa Bianca.

Donald le smantella? New York, San Francisco, Chicago, Seattle, ma anche Detroit, Dallas e Tampa negli Stati roccaforte dei repubblicani, la capitale dell'Alabama Birmingham e una miriade di altri Comuni locali. Sono circa 200 le «città-santuario» degli Usa, una trentina quelle più grandi, che, dal loro gran rifiuto nel 1996 alla Legge sull'immigrazione dell'Amministrazione democratica di Bill Clinton sull'aumento delle espulsioni, tengono orgogliosamente aperte le porte agli stranieri irregolari sul territorio. Barack Obama, e prima di lui anche Bush figlio, le avevano nel complesso tollerate. Trump le vuole smantellare, tagliando loro miliardi di fondi a meno che non si adeguino al nuovo corso.

Qualcuna delle città-santuario, come la Miami anti castrista e altri bacini elettorali nell'Alaska di Sarah Palin, si sono subito dichiarate pronte a cooperare con il Dipartimento per la Sicurezza nazionale che applica il decreto Trump e saranno presto depennate dall'elenco delle città-santuario. Ma sono mosche bianche: la maggioranza di questi porti sicuri per gli oltre 11 milioni di senza diritti, che lavorano nella clandestinità mandando a scuola i loro figli negli Usa, promette di non cedere al diktat del governo e si attrezza a un duro e lungo scontro con Trump. Una guerra di trincea.

De Blasio in prima fila. Il sindaco di New York Bill de Blasio, italo-americano figlio di immigrati, ha iniziato a «mettere da parte 250 milioni di dollari all'anno, in riserve, per quattro anni», visti i «tempi incerti che si prospettano». La Grande Mela è la metropoli capofila, e la più famosa, dell'opposizione all'Amministrazione Trump. De Blasio ha annunciato, immediatamente dopo la vittoria del tycoon alle elezioni dell'8 novembre 2016, che avrebbe trasgredito le direttive di Washington: «Non daremo al Dipartimento del governo le liste degli irregolari di New York. Non deporteremo coloro che rispettano la legge», ha aggiunto, «non separeremo le famiglie».

Un'altra metropoli che fa molto rumore per le barricate contro Trump è la liberal San Francisco, capitale dei diritti agli omosex oltre che della Silicon Valley delle multinazionali informatiche in guerra con la nuova Amministrazione protezionista. Ma tutta la California degli artisti di Hollywood, che confina col Messico, da Los Angeles a San Diego, da Sacramento a Santa Barbara per citare le località più conosciute, è disseminata di città-santuario che non procedono agli arresti tout court degli immigrati disposti da Washington. E pure la capitale, sede del Congresso e della Casa Bianca, è a sua volta città-santuario dal 2010, da quando il Consiglio comunale votò lo stop al proprio dipartimento di polizia a eseguire un programma di sicurezza.

La minaccia dei fondi taglaiti. Come Boston, Denver e Los Angeles, Washington è una delle città Usa che non si sono mai esplicitamente proclamate città-santuario ma che, disponendo forme di protezione per gli irregolari e bloccando alcune disposizioni centrali dei governi contro di loro, negli anni si sono di fatte aggiunte all'elenco. Anche il sindaco di Boston Marty Walsh si è dichiarato «profondamente disturbato» dai provvedimenti di Trump, anticipando di mettere in campo «tutti i mezzi legali» a disposizione «per proteggere tutti i residenti» della capitale del Massachusetts. A rischio, solo per il 2016, per Boston ci sono circa 65 milioni e mezzo di dollari di entrate fiscali dal governo federale.

In totale l'Amministrazione Trump (ora scossa dal caso Flynn) è pronta a sospendere più di 2 miliardi di fondi verso le 10 maggiori città statunitensi (quasi tutte città-santuario), per boicottare gli ammutinamenti. Per New York si tratta di più di 250 milioni di dollari di finanziamenti in meno, per Los Angeles più del doppio. Per Seattle di 72 milioni, per Denver di 39 milioni. La chiusura dei rubinetti di Washington toglierà risorse ai programmi educativi e sociali, anche per il sostegno all'assistenza sanitaria, in un anno nel quale potrebbe saltare anche la riforma del welfare di Obama che Trump intende abolire il prima possibile. A Seattle, teatro anche di calde manifestazioni anti-Trump, l'Amministrazione locale stima che i mancati introiti fiscali «avranno un grosso impatto anche sull'economia e sul commercio».

Appello al quarto emendamento. Ma l'ostruzionismo va avanti anche in decine di altre città minori: da Phoenix e Tucson in Arizona, a New Orleans in Louisiana, a Portland nel Maine, a Baltimora in Maryland, a Minneapolis in Minnesota, a Cleveland e Dayton nell'Ohio, da Est a Ovest la mappa degli Usa è tempestata di paletti a Trump. Oltre a ribadire che non si piegherà alla Casa Bianca, a dicembre il primo cittadino di Chicago Rahm Emanuel ha stanziato nel bilancio comunale del 2017 un milione di dollari per l'assistenza degli immigrati. Il sindaco di Seattle Ed Murray ha affermato categorico: «Non permetteremo alla polizia, come avvenne nella Seconda guerra mondiale, di dipendere dal governo federale per prelevare gli immigrati. Il quarto emendamento è chiaro a proposito».

L'articolo citato della Costituzione americana tutela chi si trova sul suolo degli Stati Uniti da «ricerche e misure irragionevoli sulle persone e sulle loro cose». Negli Usa le città-santuario hanno iniziato a costituirsi spontaneamente dagli Anni 80 per accogliere gli stranieri in fuga dai conflitti nell'America latina, e si sono man mano ingrossate con l'inasprimento delle leggi sull'immigrazione degli ultimi 30 anni: la costruzione della barriera con il Messico di Bush padre prima, il via libera alle «deportazioni di clandestini» di Clinton poi, infine l'aumento dei controlli e delle espulsioni alle frontiere dello stesso Obama, che a fronte di una grande sanatoria per circa 5 milioni di irregolari interni, nei suoi due mandati ha anche rafforzato le misure di deterrenza agli ingressi.

Cinque stati contro. Smantellare questa rete di porti sicuri non potrà essere immediato per Trump, neanche se ha già firmato l'ordine esecutivo che blocca i finanziamenti statali alle città-santuario. Se centinaia di arresti di irregolari sono scattati e procedono in diversi Stati degli Usa, in almeno altri cinque (California, Oregon, Vermont, Connecticut e Rhode Island) e in 39 città, nonché in oltre 600 contee, le leggi fissano limiti legali alla cooperazione delle polizie locali con le agenzie federali nazionali sull'immigrazione. E sono diversi gli appigli legali per i sindaci delle città-santuario.

«Le prescrizioni economiche sovraniste sono inscindibili dalla trasformazione del paese prima in una “fortezza” e poi in uno Stato razzista

». il blog di GuidoViale, 6 febbraio 2017 (c.m.c.)

Trump è già tra noi. L’accordo che il Governo italiano ha siglato con la Libia per trattenere là, schiavizzati, rapinati, massacrati e stuprate, profughe e profughi che vorrebbero raggiungere l’Italia è sicuramente peggio del muro che Trump ha promesso di costruire a spese del Messico. Non solo. L’elezione e le prime mosse di Trump hanno anche accelerato lo smottamento di una parte consistente della cosiddetta sinistra verso il “sovranismo”: uscire dall’euro, uscire dall’Unione Europea, battere moneta nazionale, svalutare per recuperare competitività, innalzare barriere doganali, richiamare in “patria” le produzioni delocalizzate, rilanciare così la “crescita”.

Sono misure popolari, si dice, antiliberiste, con le quali Trump ha intercettato, e le destre europee stanno intercettando, il voto della classe operaia. Sfugge innanzitutto a molti la contraddittorietà di queste misure: soprattutto per un’economia fragile e marginale come quella italiana. A rimetterci, come sempre, sarebbero i salari e l’occupazione nazionali. Ma sullo sfondo di quelle ricette aleggia, sottaciuto, il clou delle politiche delle destre a cui si vorrebbe contenderne l’esclusiva di quelle misure: scoraggiare, frenare, fermare l’arrivo di profughi e migranti; fare o lasciar credere che disoccupazione, precarietà, perdita di reddito e di sicurezza sono provocate non dal dominio della grande finanza e dei suoi interessi, ma dall’arrivo di profughi e migranti; ristabilire le dinamiche di un tempo (make America great again) bloccando quei flussi.

Perché – lo insegnano sia Trump che il nazionalismo che avanza in Europa – le prescrizioni economiche sovraniste sono inscindibili dalla trasformazione del paese prima in una “fortezza” e poi in uno Stato razzista. Prospettata per il nostro paese, poi, l’idea di “chiudere le frontiere” è un’idiozia grottesca.

Ai profughi e ai migranti le frontiere tra l’Italia e il resto d’Europa, come quelle della Grecia, sono già state chiuse, mentre quelle tra Italia e i paesi di provenienza dei profughi (8.000 chilometri di costa) sono e resteranno aperte, perché lì i muri di Trump e Orban non si possono costruire. L’idea di mobilitare una force de frappe italiana o europea per creare in mare una barriera armata anti-profughi (la missione Sofia) invece di mettere al centro delle politiche europee l’abolizione della convenzione di Dublino – che obbliga i profughi a restare nel paese di sbarco e questo a provvedere alla loro sistemazione o al loro “rimpatrio” – è pari solo alla pretesa di estendere l’infame quanto precario accordo con la Turchia, che ha temporaneamente bloccato l’afflusso di profughi in Grecia, ai paesi della sponda sud del Mediterraneo; o addirittura a quelli, più a sud ancora, di origine o transito di quei flussi. Cioè a governi che non ci sono o non governano, o che lucrano sul traffico dei profughi ben più di quanto li possa compensare un contributo economico dell’Italia o dell’Europa (la paga dei carcerieri); e senza mettere nel conto la violenza a cui sottopongono le loro vittime.

I Governi dell’Unione Europea stanno adottando nei fatti le ricette propugnate dalle destre xenofobe e razziste; anche perché il sovranismo di queste è perfettamente compatibile, per lo meno sul breve periodo, con il quadro economico perseguito dai primi. Gli obiettivi di fondo sono gli stessi: crescita del PIL e dei profitti (l’occupazione, come l’intendenza, “seguirà”…), riduzione di tasse e spesa pubblica, privatizzazioni un po’ di tutto. Grande industria e finanza non hanno reagito negativamente all’elezione di Trump: perché, se la globalizzazione “neoliberista” mostra la corda, gli interessi del capitale possono facilmente conciliarsi anche con un bel po’ di sovranismo.

Le politiche di tipo keynesiano propugnate dai (pochi) avversari tanto dell’austerità “neoliberista” che del sovranismo nazionalista – spesa pubblica spinta, grandi lavori, rincorsa prezzi-salari, ecc. – non funzionano più: sono venute meno le forze che le sostenevano: la grande industria fordista e la classe operaia di fabbrica. Quelle politiche Obama in parte ha cercato di applicarle; ma occupazione (vera) e redditi non ne hanno beneficiato gran che; il senso di precarietà è aumentato; il protagonismo sociale che lo aveva portato alla presidenza è stato soffocato; le guerre hanno continuato a dominare il campo e ad assorbire risorse. Un cocktail che ha lasciato come eredità la vittoria di Trump.

L’alternativa non è più spesa pubblica (questa la spinge anche Trump), ma la conversione ecologica; che non è una green economy in cerca di profitto e di incentivi statali, ma promozione di decentramento, di una cultura diffusa, di iniziative di base e di partecipazione per cambiare in forme condivise uso delle risorse, stili di vita, prodotti e modo di produrli. Cose che nessuno dei governi e delle forze politiche in campo sa, può o vuole promuovere; e che per una lunga fase potranno svilupparsi solo dal basso, attraverso mille conflitti e a “macchie di leopardo”. Partendo da quello che già oggi c’è. Che è molto; ma disperso nei mille rivoli di iniziative scollegate e di riflessioni isolate, perché nessuno ha ancora trovato la strada per farne i mattoni di un nuovo blocco sociale e di una cultura e di un sentire diffusi, prima ancora che di un programma articolato o di un nuovo partito.

Così la giustizia sociale non viene collegata (papa Francesco a parte) a quella ambientale, né la lotta contro le diseguaglianze alla difesa della natura; il programma della decrescita viene prospettato – e a volte eroicamente praticato – senza porsi il problema della conversione ecologica (di cose e produzioni che comunque dovranno continuare a funzionare per molti anni a venire) e questa non è stata capace di confrontarsi in forme organizzate con i tanti punti di crisi occupazionale e ambientale in atto. Un’incapacità che la accomuna finora al territorialismo, unica alternativa praticabile tanto a un protezionismo becero che a un “liberismo” eslege.

L’accoglienza – vero baluardo europeista e internazionalista contro il montante razzismo – non sa farsi programma di inclusione sociale e di valorizzazione dell’umanità e della ricchezza culturale delle tante comunità di profughi e migranti presenti in Europa; mentre la lotta per la pace e contro il terrorismo non riesce a far leva su quelle comunità per prospettare soluzioni di pace e di rigenerazione economica, sociale e ambientale nei loro paesi di origine. E si potrebbe continuare.

Nella (strato)sfera politica si fa continuo riferimento a movimenti, lotte, riflessioni e mobilitazioni; ma non si riuscirà a cumularne e moltiplicarne le forze senza imboccare con umiltà un cammino che cerchi di svilupparne le potenzialità politiche a partire dalle specificità in cui ciascuna di esse è impegnata. Cosa difficilissima, resa ancora più ardua da una sacrosanta diffidenza nei confronti della monotona vacuità che circonda il mondo politico che ad esse pretende di fare riferimento.

« la Repubblica, 7 febbraio 2017 (c.m.c.)

L’attivismo della presidenza Trump non dà tregua ai cittadini che lo criticano, agli opinionisti che lo analizzano e, ora in maniera esplicita, a uno dei poteri dello Stato: i giudici che impugnano le direttive bonapartiste della Casa Bianca contro la libertà di ingresso nel Paese di una specifica categoria di persone, identificate ex ante e senza alcuna evidenza come potenzialmente terroriste. È dal 2001 che gli Stati Uniti non subiscono attentati organizzati da gruppi terroristici stranieri, eppure Trump adotta politiche da stato permanente di emergenza che fanno quasi impallidire quelle del suo predecessore repubblicano George W. Bush.

In seguito al provvedimento noto come “ Muslim Ban” che chiude le frontiere alle persone provenienti da sette Paesi musulmani, sono stati sospesi migliaia di visti per gli Stati Uniti, creando caos per le compagnie aeree e le dogane. Pochi giorni fa il giudice federale di Seattle, James Robart, ha bloccato il decreto di Trump, e il Dipartimento di Stato ha annunciato l’annullamento della revoca provvisoria dei visti. Davvero un punto di svolta il conflitto tra potere centrale e giudici degli Stati, poiché dai tempi di Ronald Reagan i repubblicani parteggiavano per le politiche decentrate degli Stati contro il governo centrale — Trump rovescia questa tradizione.E dagli Stati parte la lotta contro il suo decisionismo.

Il ricorso della Casa Bianca contro la decisione del giudice Robart non ha sortito effetto: la Corte di Appello del Nono Circuito ha deciso di non dar corso alla richiesta di Trump in attesa di ricevere la documentazione per la decisione finale. Per ora quindi il potere giudiziario ha prevalso sul potere del presidente e la previsione è che se ne occuperà infine la Corte Suprema.

La reazione di Trump alla resistenza istituzionale ha provocato un terremoto: ha offeso i giudici che lo ostacolano chiamandoli «sedicenti giudici»; ha infranto la regola aurea del rispetto delle istituzioni. Lottare nell’arena politica senza trascinare nella lotta le istituzioni: questo è il patto costituzionale che tiene insieme gli Stati Uniti e che ha fatto scuola nel mondo politico moderno.

La cronaca di questi giorni è un vero e proprio libro di testo nel quale le categorie politiche prendono corpo: Trump sfida la “democrazia madisoniana” nel nome della “democrazia populista”. Molti analisti scrivono senza remore che questo presidente plebiscitario fa riemergere lo “spirito tirannico” per neutralizzare il quale la Costituzione degli Stati Uniti è stata concepita nel 1787.

Dall’altra parte, l’argomento populista è che il leader eletto debba mettere in atto le sue promesse che sono la volontà del popolo; questa è la ragione per la quale il potere populista non ama coalizioni né alleanze, che sono un freno, e vince più facilmente nei sistemi presidenziali che in quelli parlamentari; e questa è anche la ragione per la quale la volontà populista è insofferente verso la divisione dei poteri. Ciò a cui assistiamo è l’inasprirsi del conflitto tra i poteri dello Stato in risposta al conflitto aperto tra due principi che, dal tempo della fondazione degli Stati Uniti, coesistono: la presidential leadership e la institutional leadership.

In questa battaglia si materializza la lotta classica tra il principio costituzionale o anti-tirannico e il principio dell’Uomo forte al governo. Dunque, da un lato, la “democrazia madisoniana” idealizzata da chi considera illiberale ogni tentativo di semplificare e concentrare il potere, non importa se quadagnato con il consenso elettorale; dall’altro la presidential leadership, idealizzata da chi considera anti-democratico il controllo istituzionale della volontà popolare impersonata dal presidente.

Con la fine dei regimi totalitari, il plebiscitarismo è apparso a molti un relitto del passato. Sull’onda del successo di opinione di Obama, alcuni studiosi come Eric A. Posner e Adrian Vermeule hanno provato a riabilitare la democrazia plebiscitaria sostenendo che «l’occhio del pubblico» riesce a limitare il potere politico meglio (e più democraticamente) del meccanismo istituzionale. Ma Trump costringe gli indulgenti del populismo a moderare la loro astratta certezza che la leadership che si alimenta del plebiscito dell’audience sia davvero sicura per la libertà e i diritti.L’attrazione per l’Uomo forte, sulla quale in Europa e in Italia opinionisti e media indugiano con troppa leggerezza, è preoccupante e si può facilmente caricare di significati nazionalisti e illiberali.

«I legislatori degli Stati conservatori ipotizzano norme per imbrigliare la libertà di manifestare. Le critiche delle associazioni per i diritti civili».

la Repubblica online, 5 febbraio 2017 (p.s)


NewYork - Pugno di ferro contro le proteste: nell'America di Trump sempre più scossa dalle continue manifestazioni contro le azioni decise del presidente, almeno otto Stati americani stanno considerando misure straordinarie per punire coloro che partecipano a cortei non autorizzati o provocano disagi alle normali attività pubbliche. Occupazioni, blocchi stradali, concentramenti spontanei: se dunque le proposte di legge passeranno, mettere in atto queste forme di contestazione potrebbe diventare un rischio ben più elevato di quel che è oggi.

Il pensiero dei legislatori, d'altronde, non va solo alle recenti proteste anti Trump. Il riferimento fatto nelle proposte è legato anche ad altri eventi recenti: come l'occupazione a Standing Rock dei terreni Sioux dove dovrebbe passare la Dakota Access pipeline, gli incidenti accaduti a Ferguson dopo la morte per mano della polizia del giovane Michael Brown e quelli di Baltimora dopo l'uccisione di un altro afroamericano, Freddie Gray.

Gli esempi sono vari e fantasiosi: lo scorso novembre, subito dopo le elezioni, il repubblicano Doug Ericksen dello stato di Washington ha depositato una proposta per creare una nuova forma di reato, quello di "terrorismo economico": 5 anni di carcere a chiunque venga riconosciuto colpevole di "aver causato danni economici". Vetrine infrante dunque, ma anche blocchi stradali o ferroviari, e comunque tutto quello che fa perdere soldi a qualcuno.

In Minnesota, invece, s'ipotizza di far pagare le spese dell'intervento della polizia a chi viene arrestato durante una manifestazione non autorizzata. Mentre in Indiana, lo stato iper-conservatore da cui proviene il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence, si vogliono inasprire le condanne per chi blocca autostrade ed aeroporti - come accaduto anche di recente dopo il bando anti musulmani di Trump. Sì, perché nello Stato dell'Indiana oggi quel tipo di protesta prevede solo una multa di 35 dollari, non molto salata dunque. Così ora si pensa a punizioni esemplari, con condanne di almeno 5 anni di carcere. Non solo: l'ipotesi è anche quella di proteggere per legge un eventuale guidatore che "senza averne l'intenzione" investirà un manifestante perché "esasperato".

Naturalmente le associazioni dei diritti civili inorridiscono: "Sarebbe un passo indietro di oltre 50 anni" ha detto al Washington Post Cody Hall, uno degli animatori della protesta degli indiani contro l'oleodotto a Standing Rock: "La libertà di parola è una conquista inalienabile".

Per ora, nessuna delle leggi è ancora stata votata e il margine che vengano bocciate perché incostituzionali è molto alto. Ma le proposte, tutte avanzate da Repubblicani, sono certamente il segno delle tensioni sempre più esasperate che stanno dividendo l'America.

L'Imperatore è palesemente matto, non è un tiranno qualunque. «Procuratore di Seattle sospende il divieto. È il caos: ripristinati i visti per i cittadini di sette Paesi “Anche un presidente è soggetto alla legge”. La replica: “Atto ridicolo”. E annuncia contromosse».

la Repubblica, 5 febbraio 2017

NEW YORK.-L’America riapre. Non sono più sigillate le frontiere con i sette Paesi “proibiti”. Donald Trump incassa la prima seria sconfitta a due settimane dall’insediamento. È un giudice federale di Seattle, di nomina repubblicana, ad annullare il suo ordine esecutivo sigilla-confini: da venerdì sera e con effetto su tutto il territorio nazionale. Il presidente ha una reazione violenta, sabato mattina twitta un primo attacco al magistrato che lo ha bloccato: «L’opinione di questo cosiddetto giudice, che impedisce alla nostra nazione di far rispettare la legge, è ridicola e sarà rovesciata!». Seguono altri tweet che trasudano indignazione: «Quando un Paese non è più in grado di decidere chi può entrare per ragioni di sicurezza – guai grossi! Morte e distruzione». L’attacco personale al giudice che ha sospeso il suo decreto è inusuale per un presidente degli Stati Uniti; ma non per Trump: già in campagna elettorale lui accusò un magistrato che indagava sulla truffa della Trump University di essere «prevenuto perché di origini messicane». Il capo dell’opposizione democratica al Senato, Chuck Schumer, condanna Trump per «il disprezzo verso un magistrato indipendente, la prova di una mancanza di rispetto verso la nostra Costituzione».

Le conseguenze della sentenza di Seattle sono immediate. Il Dipartimento della Homeland Security – che ha la polizia di frontiera alle sue dipendenze – si è dovuto piegare subito e ha confermato il ritorno allo status quo precedente. I cittadini dei sette Paesi che erano stati messi al bando (Iran, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen) sono riammessi negli Stati Uniti purché muniti del visto. Cessano i problemi anche per quei cittadini di altre nazionalità, europei inclusi, che la settimana scorsa erano stati bloccati perché avevano visitato uno dei sette paesi della lista nera. Le compagnie aeree, a cominciare da quelle del Medio Oriente come Etihad e Qatar Airways hanno ripreso ad accettare viaggiatori diretti negli Stati Uniti dai sette Paesi.

L’attenzione si concentra sul “cosiddetto giudice” che ha bloccato Trump, e contro il quale è annunciato un contro-ricorso da parte del governo. Si chiama James Robart, 69 anni, dal 2004 presiede la corte federale distrettuale di Seattle nello Stato di Washington. Fu nominato da George W. Bush e quindi è “in quota ai repubblicani”: il sistema giudiziario americano è una complessa sovrapposizione fra magistrati di carriera, cariche elettive, e funzioni di nomina governativa che come tali hanno almeno all’origine una coloritura politica. Robart ha fama di essere un moderato e questo si riflette in parte nella sua sentenza di venerdì, dove c’è un richiamo alle prerogative del federalismo care alla destra repubblicana. Il giudice di Seattle si è mosso in conseguenza di una denuncia degli Stati di Washington e del Minnesota che hanno accusato il decreto Trump di danneggiarli nei loro diritti e nel loro interesse economico, chiudendo le frontiere a un’immigrazione essenziale per le aziende. Dando ragione a quei due Stati, il giudice ha costruito un’argomentazione che può mettere in difficoltà i repubblicani fino alla Corte suprema, dove potrebbe sfociare il contenzioso sull’ordine esecutivo. Nell’immediato la Casa Bianca spinge per avere una contro-sentenza in tempi brevi.

È difficile fare previsioni su chi vincerà, ma intanto il decisionismo su cui Trump ha costruito la propria immagine, si è arenato. L’ordine esecutivo che proibiva gli ingressi da 7 Paesi ha avuto un’esecuzione confusa e pasticciata dall’inizio, fino allo stop completo con la sentenza di Seattle. L’immagine del presidente- imprenditore che demolisce in pochi giorni l’America di Barack Obama, ne capovolge tutte le riforme alla velocità della luce, si scontra con una realtà più complicata da governare. Il sistema politico della più antica liberaldemocrazia occidentale almeno per ora non si lascia comandare come i candidati di un reality-tv. Improvvisazione e dilettantismo cominciano a pesare su Trump, che ha voluto accelerare il passo senza neppure avere attorno a sé una vera squadra: molti dei suoi ministri compreso quello della Giustizia non hanno ancora superato la conferma al Senato. In quanto alla magistratura è un corpo ramificato e con tradizioni di indipendenza, non basta blindare la Corte suprema per avere risolto una volta per tutte l’ostacolo dei contropoteri.

la Repubblica, 1° febbraio 2017, con postilla

TRAVOLTI dall’azione, rischiamo di non vedere la teoria che la guida e il pensiero che la organizza. È l’equivoco politico che circonda i primi passi della presidenza Trump, tutta prassi, decisione, comando, shock, cambiamento. Si potrebbe dire che dalla svolta annunciata nel discorso d’insediamento («non stiamo semplicemente trasferendo il potere da un’amministrazione all’altra, ma da Washington al popolo»), al muro di confine col Messico, alla restrizione degli ingressi in Usa da sette Paesi musulmani, ce n’è abbastanza per spiegare la ribellione americana che scende in strada e il rifiuto di una politica che stravolge le radici e la natura stessa del Paese: che ha la frontiera nei suoi miti di conquista e l’assimilazione nella sua storia di costruzione perenne di una sola nazione, unendo le colonie originarie, le ondate migratorie successive, le lingue, le disperazioni e le speranze in un’unica entità, ricca delle sue diversità e della capacità di tenerle insieme.

Tuttavia si rischia di non capire ciò che accadrà, ciò che può accadere, se si guarda soltanto alla parte visibile del fenomeno Trump, e non si comprende che il presidente americano non è un fenomeno da baraccone.

È precisamente il capofila di una nuova cultura - per quanto il termine possa sembrare sproporzionato - che va studiata con attenzione, perché qui si fonda non soltanto la nuova politica americana, ma addirittura un tentativo di nuovo ordine mondiale. Di questo si tratta: chiamiamola pure contro-cultura, perché nasce nella rabbia e nell’opposizione, senza modelli positivi e senza antecedenti significativi, come frutto dello spaesamento democratico che il riflusso della crisi lascia sul territorio devastato della nostra parte di mondo, la parte dello sviluppo, del progresso, dell’innovazione, del potere tecnologico, delle libertà politiche e individuali. È quanto noi credevamo. Poi arriva questo Sessantotto alla rovescia che butta per aria la gerarchia dei valori, grida che le élite si sono confiscate sviluppo e progresso a loro uso e consumo, mentre le libertà politiche senza una vera rappresentanza valgono meno di nulla, anzi sono un inganno, e le libertà civili vengono dopo la forza, la sicurezza, la ricchezza.

Ricordiamoci la data, e il passaggio storico: perché è qui che si spezza il secolo, e finisce quel lunghissimo dopoguerra in cui la democrazia sembrava aver concluso da vincitrice la contesa con i due totalitarismi - il comunismo e il nazismo - e dunque i suoi valori sembravano ormai incontestabili, anzi universali, modello di crescita, benessere e convivenza. Il Novecento moriva finalmente con la supremazia della democrazia. Il pensiero liberale e liberal-democratico sosteneva ormai le culture di governo di una destra responsabile e di una sinistra riformista, oltre a innervare le istituzioni nazionali degli Stati moderni, gli organismi sovranazionali, le costituzioni nate dal rifiuto delle dittature e dall’incontro tra il liberalismo, il socialismo, il comunismo occidentale e la cultura politica cattolica.

È esattamente tutto questo - una cultura che è diventata un mondo, un sistema politico, un meccanismo di governo di sistemi complessi - che rischia di andare in frantumi, sotto la spinta del trumpismo in America, del sovranismo europeo che ha appena riunito a Coblenza la nuova Internazionale della destra, coi cinque partiti populisti di Frauke Petry in Germania, di Marine Le Pen in Francia, di Matteo Salvini in Italia, di Geert Wilders in Olanda, di Harald Vilimsky in Austria, cui si deve sommare l’Europa di mezzo guidata da Orbán, che teorizza il ritorno orgoglioso a un continente fatto di nazioni, con il “fallimento del liberalismo” come leit-motiv da cui nasce la tentazione di demolire la separazione dei poteri. Se si aggiungono le tentazioni protezionistiche della Brexit inglese, l’ambiguità mimetica del Movimento 5 Stelle in Italia — che nel giro di 24 ore può far capriole da Farage ai liberali e ritorno — si capisce che il contagio è profondo ed egemone, tanto da suonare l’ultima campana d’allarme, a cui nessuno di noi era preparato: il pensiero politico liberale sta diventando minoranza.

Tutto questo ha delle spiegazioni pratiche concrete. Tra tutte, lo scollamento tra libertà e sicurezza dal lato dei cittadini, tra sicurezza e governo dal lato delle istituzioni. Le tre emergenze concentriche di cui soffrono i nostri Paesi - ondata migratoria senza precedenti, terrorismo islamista che ci trasforma in bersagli rituali sul nostro territorio, crisi economico-finanziaria che lascia dietro di sé una crisi drammatica del lavoro - hanno un risultato comune nel riflesso congiunto di insicurezza per il cittadino, che si sente esposto come mai in precedenza, davanti a eventi fuori controllo e senza governo. Abituato a pretendere tutela, protezione, rispetto dei diritti e sicurezza dallo Stato nazionale in cui vive, dai parlamenti che vota, dai governi che concorre a nominare, quel cittadino capisce improvvisamente che le emergenze sfondano la sovranità nazionale, la sopravanzano e la svuotano, vanificandola. Ma se un governo nazionale non garantisce sicurezza, non serve a nulla, diventa un’entità burocratica. Se la sovranità nazionale è più ristretta e meno forte della dimensione dei problemi e della loro potenza, allora si vive da apolidi a casa propria, con l’impossibilità effettiva di esercitare il diritto di cittadinanza. Diciamo di più: poiché il pendolo tra la tutela e i diritti oscilla sempre nella storia dello Stato moderno, il cittadino più inquieto oggi sarebbe anche disposto a cedere quote minori della sua libertà in cambio di quote crescenti di garanzia securitaria, com’è avvenuto altre volte in passato, dovunque. La novità è che oggi nessuno è interessato a comprare la sua libertà, che deperisce da sola, e in ogni caso lo Stato non è più in grado di garantire nulla in cambio: mentre il nuovo potere sovranazionale che vive nei flussi finanziari e nei flussi d’informazione fa il fixing altrove.

Con la cittadinanza, salta la soggettività politica: io non sono più niente, soprattutto in un’epoca in cui i partiti si riducono a semplici comitati elettorali e non trasformano i miei problemi in un problema comune. Anzi: quelle che erano grandi questioni collettive stanno diventando preoccupazioni individuali, insormontabili. Così salta la rappresentanza, deperisce la politica. Quel cittadino non si sente soltanto in minoranza, come spesso è accaduto in precedenza. Si considera escluso. Il meccanismo democratico non funziona per lui. Le istituzioni non lo tutelano. La politica lo ignora, salvo usarlo come numero primo e anonimo nei sondaggi. La Costituzione vale solo per i garantiti. La democrazia si ferma prima di arrivare a lui, perché la materialità della democrazia è fatta di lavoro, dignità, crescita, esercizio di diritti e doveri che nascono da un sistema aperto e partecipato, dall’inclusione. Alla fine, anche la libertà è condizionata.

Nel 2017 arriva qualcuno, con una tribuna universale com’è l’America, che chiama tutto questo “popolo”, evoca il “forgotten man”, lo contrappone all’establishment, racconta la favola del golpe permanente che ha confiscato la democrazia per trarne un vantaggio privato, derubando i cittadini. Eccita la contrapposizione («loro festeggiavano, il popolo pativa»), evoca lo spirito di minoranza («le loro vittorie non sono state le vostre»), configura un’usurpazione («un piccolo gruppo ha incassato tutti i benefici, il popolo pagava i costi»), denuncia l’esclusione («Il sistema proteggeva se stesso, non i cittadini del nostro Paese»), fino alla promessa finale: da oggi un movimento «di portata storica» scuoterà il mondo, «portando il popolo a ritornare sovrano ».

Un discorso identitario — l’identità degli arrabbiati che devono rimanere tali — , quasi un’impostura di classe, che si basa su finte promesse frutto di una semplificazione del mondo che reintroduce sotto forme moderne l’ideologia: una falsa credenza che si sovrappone alla verità e la deforma in un racconto di comodo, utile a raccogliere adesioni sentimentali e istintive, cancellando bugie, falsificazioni e contraddizioni evidenti, come quella del miliardario campione degli esclusi. Tutto questo rompendo la corazza del politicamente corretto e dei suoi eccessi ma rovesciandolo nel suo contrario, liberando la scorrettezza come forma di libertà, la menzogna come arma legittima, l’ignoranza come garanzia di innocenza.

Questa rottura, come dice Karl Rove, il consigliere di George W. Bush, ha bisogno di stravolgere lo stesso partito repubblicano, annullare persino l’eredità reaganiana dei Baker, Shultz, Weinberger, fare tabula rasa addirittura del pensiero conservatore così come lo abbiamo conosciuto, e del compromesso di un linguaggio comune istituzionale, di un vocabolario costituzionale condiviso. Arriviamo al punto finale. Perché è evidente che a partire dalla concezione della Nato, alla nuova fratellanza con Putin, all’isolazionismo protezionista americano, al primitivo immaginario europeo di Trump, è lo stesso concetto di Occidente che uscirà modificato, menomato e probabilmente manomesso da quest’avventura. E l’Occidente, come terra della democrazia delle istituzioni e della democrazia dei diritti, è ciò che noi siamo, o almeno ciò che vorremmo essere. Qualcuno in Europa - magari a sinistra, se la sinistra alzasse gli occhi sul mondo - dovrebbe dire che tutto questo non è a disposizione di Trump.

postilla
È un po' irritante sentir parlare di Occidente (e quindi come alternative di Oriente) come di due poli della frattura geopolitica, e adoperare il primo termine come somma di tutti i "valori positivi". Più proprio sarebbe parlare dell'area Nordatlantica, identificando in tal modo le regioni europea e nordamericano-canadese, la cui economia (capitalistica) e politica (anticomunista) hanno costituito il polo vincente fin verso la fine del Secondo millennio. È quello il mondo che si sta disfacendo, non un altro. Rispetto a quel mondo il diavolo Trump ci porta indietro, e non avanti. Su questo punto Enzo Mauro ha certamente tutte le ragioni.
C'è un altro punto però. Mauro non sembra comprendere il dramma, e forse la tragedia, del nostro secolo che
quel mondo che Trump ha spazzato via, nel concludere la sua dissoluzione, ha compiuto un errore capitale, che statisti del secolo scorso probabilmente non avrebbero compiuto (pensiamo a Franklin Delano Roosvelt, ma anche a Winston Churchill). L'errore è stato non comprendere che l'unico candidato capace di incanalare una parte consistente della rabbia provocata dal mondo impersonato da Obama e Clinton era rappresentato un uomo (e una proposta politica), di sinistra. Il nome (Bernie Sanders) c'era, fu scartato, e vinse Trump. È da una riflessione su questo che bisogna partire se si vuole evitare che, con Trump, si passi dal dramma alla tragedia. Rendendosi conto che una sinistra che voglia affrontare i problemi di oggi certamente non può riferirsi ai "valori dell'Occidente", come lo vedono Hillary Clinton, Barack Obama, ed Enzo Mauro. (e.s.)

«Proteste contro la decisione di chiudere le frontiere Più di 1,4 milioni di persone firma un Gran Bretagna una petizione contro la visita di Donald Trump».

il manifesto, 31 gennaio 2017

Al quarto giorno dalla decisione di Donald Trump di mettere al bando rifugiati e cittadini di sette paesi musulmani l’Unione europea finalmente decide di reagire. Lo fa per rispondere alle accuse del presidente americano, che ha descritto quello europeo come un continente precipitato nel «caos» per non aver saputo difendere le proprie frontiere, ma anche per ribadire quei valori che sono stati la base fondativa dell’Unione.

L’Europa «non discrimina le persone sulla base della nazionalità, dell’etnia o della religione», commenta da Bruxelles la portavoce della Commissione europea, mentre da New York si fa sentire anche l’Alto commissario Onu per i diritti umani, il giordano Zeid Ràad al Husseini. Il bando è «illegale e meschino» dice, e «la discriminazione basata sulla nazionalità contraria ai diritti umani». Si unisce infine al coro di proteste anche l’Unione africana che definisce quella di Trump come «una della più gravi sfide nei confronti del continente africano».

Bruxelles è a dir poco preoccupata dal nuovo corso statunitense.

Dal giorno del suo insediamento Trump non ha certo fatto mistero di quanta poca considerazione abbia per l’Unione europea tanto da aver apprezzato pubblicamente la decisione della Gran Bretagna di uscire dall’Unione.

«Per l’Europa Trump è una minaccia peggiore della Brexit», ha commentato ieri l’ex premier belga Guy Verhostad, presidente del gruppo Alde (liberali) al parlamento di Strasburgo. Pericoloso anche perché dal bando non sarebbero esclusi neanche i cittadini europei con doppia nazionalità.

«La situazione non è chiara», ha proseguito la portavoce della Commissione Ue. «Ci arrivano imput contrastanti e i nostri legali stanno lavorando. Ci accerteremo che non ci siano discriminazioni nei confronti dei nostri cittadini».

A quanto pare, però, ci sarebbe poco da capire.

Un portavoce del ministero degli Esteri tedesco ieri ha informato di un tweet dell’ambasciata americana a Berlino in cui si chiede ai cittadini con doppia nazionalità di «non chiedere visti per gli Stati uniti». La misura riguarda decine di migliaia di cittadini tedeschi, come ha subito informato il governo secondo il quale ad essere colpiti dalla restrizione sarebbero 80 mila tedeschi di origine iraniana, oltre 30 mila di origine irachena e circa 25 mila provenienti dalla Siria. A questi vanno aggiunti poi mille sudanesi, 500 libici e 300 yemeniti. Numeri calcolati per difetto, visto che risalgono ai censimenti regionali del 2011.

L’indignazione per la porta sbattuta in faccia a rifugiati e musulmani da Trump cresce ovunque, ma non sembra coinvolge allo stesso modo anche tutti i governi. Così mentre in Gran Bretagna più di 1,4 milioni di persone firmano in due giorni una petizione in cui si chiede al parlamento di bloccare o almeno rinviare la visita di Stato già in programma del presidente Usa, Dowing Street preferisce smorzare i toni. «Noi non siamo d’accordo con queste restrizioni, non è il modo con cui agiremmo», dice un portavoce del governo escludendo però l’ipotesi di una marcia indietro sull’invito. Esclusione basata sia dall’assicurazione che avrebbe ricevuto Theresa May che i cittadini britannici con doppia nazionalità non saranno fermati alla frontiera Usa a meno che non volino in America direttamente da uno dei paesi indicati nella lista nera. Ma anche perché la stessa May sta bene attenta a garantirsi un alleato sicuro e di peso in vista della Brexit. E, d’altro canto, non può non colpire il silenzio dei paesi dell’est Europa di fonte alle misure adottate dal presidente americano.

Per quanto riguarda la Russia, poi, ieri un portavoce del presidente Putin (che il 2 febbraio sarà in visita a Budapest) ha liquidato le polemiche attorno al bando con un secco «ritengo che non sia un affare nostro».

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