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Il 14 agosto di un anno fa, uno degli emblemi della 'modernità' crollava, trascinando con se 43 persone e travolgendo la vita di centinaia di sfollati e di una regione intera. Un episodio che avrebbe dovuto mettere in discussione la logica perversa che sta facendo marcire l'infrastruttura fisica e sociale del nostro paese. A un anno dal dramma nulla è cambiato, prosegue il disprezzo per la manutenzione, la sicurezza e la tutela dell'ambiente: nessuna revoca delle concessioni ai privati (interessati solo ai profitti) e finanziamenti al 'nuovo', dove corruzione, speculazione e interessi particolari possono fare i loro porci comodi. In Italia metà delle concessioni autostradali fanno riferimento a società collegate alla famiglia Benetton, che non sono un modello di imprenditoria ma emblemi di sfruttamento umano e ambientale.

Per commemorare le vittime, il 14 agosto, si è tenuto un presidio davanti alla sede di Edizione srl a Treviso, la holding dei famosi imprenditori veneti per denunciare storie di sfruttamento in Italia e all'estero: dal decentramento produttivo alle delocalizzazioni, con le quali si sono sfruttate migliaia di lavoratrici e lavoratori, causato centinaia di morti per mancanza di misure di sicurezza nelle loro fabbriche; dall'occupazione delle terre ancestrali del popolo Mapuche in Argentina alla persecuzione di chi si oppone a questa rapina; dai profitti enormi che hanno ottenuto attraverso concessioni su autostrade, porti e aeroporti e a quelli che faranno con le Olimpiadi invernali di Milano e Cortina del 2026.

Non meno responsabile è la classe politica che da decenni non solo permette, ma sostiene tutto questo e continua a farlo. Vuote e meschine le parole «non smetteremo mai di invocare giustizia», pronunciate dal primo ministro Conte durante la commemorazione delle istituzioni, perchè nulla è stato fatto, per cambiare un sistema che mette i profitti davanti alla vita umana, da chi avendone la responsabilità e il potere ha mancato di farlo.

La proposta di ricostruire il gigantesco viadotto sulla val Polcevera rivela la miopia di una classe dirigente che continua a trovare nella cementificazione il suo alimento preferito.

La commemorazione del crollo del cosiddetto ponte Morandi ha costituito una volta ancora l’occasione per rilanciare una gigantesca opera inutile figlia di tempi lontani ormai completamente superati che hanno devastato l’assetto territoriale dell’Italia.

Ci riferiamo all’epoca nella quale la motorizzazione privata era uno degli irrinunciabili obiettivi dello sviluppo economico nonché l’insegna della raggiunta “modernità” dell’italietta postbellica. L’abbandono dell’attenzione alle reti per la mobilità locale, a quella collettiva e alle reti alternative della mobilità dolce era la moda di quegli anni nei quali l’egemonia culturale ed economica delle grandi fabbriche di automobili dominava incontrastata. A quegli anni seguirono immediatamente quelli della privatizzazione delle reti e dei servizi della mobilità di persone e merci, dell’abbandono di ogni “laccio e lacciolo” alla galoppante speculazione urbanistica ed edilizia, all’incentivazione delle grandi opere inutili e spesso dannose come volano di uno sviluppo basato su mattone e cemento.

Sono state avanzate due proposte, differenti per le modalità tecniche: entrambe si propongono di ricostituire l’opera dov’era ma una nella sua versione cementizia, l’altra utilizzando le modalità, le forme e i materiali dell’acciaio.

Prima di proporsi di ricostruire semplicemente quello che era sembrato necessario in anni assai lontani occorrerebbe domandarsi quali siano le attuali esigenze di mobilità dei flussi di persone e merci. Soprattutto in un’epoca in cui l’obiettivo è risparmiare energia e ridurre l’inquinamento per cercare di minimizzare gli effetti catastrofici dei cambiamenti climatici. Occorrerebbe partire dalla consapevolezza che il territorio è un bene scarso e non riproducibile, che le tradizionali fonti utilizzate per il traporto non sono rinnovabili, e che la domanda giusta da porsi è quella di come organizzare la collocazione delle attività sul territorio in modo da consentirne la più parsimoniosa utilizzazione. Ma questo richiederebbe di restituire alla pianificazione urbanistica e territoriale la priorità che le è stata tolta nell’epoca in cui l’attenzione dei governanti ha abbandonato ogni capacità di ispirare a una visione lungimirante.

Scandalizza oggi in modo particolare il fatto che mentre da un lato non si reperiscano le risorse necessarie per garantire la stabilità del territorio, la sicurezza contro gli effetti rovinosi dei terremoti, l’esigenza di utilizzare spazi per la rigenerazione delle capacità naturali del territorio non cementificato, dall’altro lato si incoraggi a cuor leggero la spesa di ingenti risorse finanziarie pubbliche per un’ennesima opera inutile.

Abbiamo affrontato altre volte questo argomento e rimandiamo in proposito all’articolo di Guido Viale, che già un anno fa affrontava il tema con parole ancora oggi pienamente condivisibili: “Troppe grandi opere e zero competenze logistiche”.

Come a continuare a distruggere risorse finanziarie, ambientali e sociali. Il primo ministro Conte annuncia il completamento della Tav Torino-Lione, applausi della Lega e del PD. I grillini trasformano il loro virtuale potere di reale contrasto alla decisione del governo in una serie di lamentele, delegando il parlamento, già schierato a favore dell'opera, ad assumersi la responsabilità. La resistenza continua in Val di Susa, domani si apre il Festival dell'Alta Felicità, sabato 27 luglio la manifestazione.

Convegno dell'11 giugno 2019 sull'analisi degli impatti e dei conflitti legati alla progressiva turistificazione delle città e degli spazi di vita. Con una sezione dedicata alle contro-progettualità (attivate o attivabili) capaci di prefigurare possibili alternative socio-economiche rispetto alla monocoltura dell’industria turistica. (i.b.) Qui maggiori info.

Oltre la monocultura del turismo

Per un atlante delle resistenze e delle contro-progettualità
11 giugno 2019
Facoltà di Ingegneria La Sapienza - via Eudossiana 18, Roma
Scadenza invio abstract 15 aprile 2019. Da inviare a: oltrelamonoculturaturistica@gmail.com

La crescita costante ed apparentemente inarrestabile dell’industria turistica è un fenomeno ormai consolidato, tanto su scala globale quanto nel contesto italiano. A questa crescita continua si accompagnano da alcuni anni crescenti preoccupazioni sugli impatti che questa particolare specializzazione economica apporta alla vita dei territori, che vedono infatti significativamente sorgere un sempre maggior numero di conflitti in rapporto al peculiare uso del territorio che questa industria determina. Nel dibattito pubblico e scientifico si moltiplicano così gli approfondimenti in merito ai temi dell’overtourism, alle politiche di gestione dei flussi di visitatori, alla trasformazione delle dinamiche abitative generate dall’affermazione dello short term rental e alle tematiche inerenti alla sostenibilità ambientale, palesando l’urgenza dell’elaborazione di un discorso critico complessivo attorno ai problemi della turistificazione dei territori. Questo fenomeno infatti, estendendosi ormai ad una vasta pluralità di territori urbani e non, realizza un modello economico capace di ridefinire profondamente l’organizzazione spaziale, sociale ed economica nazionale nella direzione dell’attrazione turistica, plasmata a partire dall’immagine commerciale stereotipata della “Destinazione Italia”.

Il settore turistico assume quindi i contorni di un tema di politica industriale: orienta infatti in maniera significativa tanto le scelte infrastrutturali quanto le politiche dei beni culturali; plasma i panorami antropici di città, paesi e territori rurali, espellendo progressivamente la residenza in favore di un uso temporaneo del patrimonio abitativo; mina conseguentemente l’esercizio del diritto all’abitare; trasforma la struttura socio-economica di borghi e centri storici, intervenendo sulla natura dell’offerta commerciale; produce uno sfruttamento intensivo delle risorse patrimoniali ed ambientali ai fini della loro valorizzazione economica; costruisce un mercato del lavoro tendenzialmente di scarsa qualità, a bassa rimunerazione e a basse qualifiche, e a minima tutela dei lavoratori; genera conflitti rispetto alle possibilità di utilizzo dello spazio pubblico, colonizzandolo; produce ulteriore scarsità nel welfare urbano. In sintesi, l’uso turistico e ricreativo di città e territori si mostra ormai come un potente dispositivo di trasformazione territoriale, che rischia di favorire la produzione di uno spazio sociale finalizzato al consumo e all’estrazione di valore di scambio piuttosto che alle esigenze di vita delle popolazioni insediate.

All’interno di questa cornice nasce l’idea di un convegno rivolto a quanti, ricercatori o attivisti, singoli o collettivi, si stiano confrontando con le problematiche legate all’intensificazione dello sfruttamento turistico dei territori, siano essi spazi urbani, rurali, montani o costieri.
A partire dal confronto collettivo tra esperienze di ricerca e di mobilitazione, l’intento è quello di elaborare un discorso complessivo sulle criticità urgenti ed inesplorate riguardanti la progressiva turistificazione degli spazi di vita. Nello specifico l’intento è quello di produrre una mappatura: 1) delle conflittualità disseminate sul territorio dall’instaurazione progressiva di un modello turistico estrattivo, che concentra i profitti e socializza le perdite; 2) delle contro-progettualità (attivate o attivabili) capaci di prefigurare possibili alternative socio-economiche rispetto alla monocoltura dell’industria turistica.
Invitiamo pertanto i partecipanti ad attraversare le seguenti questioni:

Ai partecipanti viene inoltre chiesto di riflettere su come i singoli casi presentati possano affrontare o illustrare in modo originale questioni di carattere generale, suggerendo spunti per altri contesti territoriali.

Per partecipare è necessario inviare un “abstract lungo” di massimo 2000 parole che includa: titolo, nomi degli autori/autrici, email. gli abstract devono essere inviati entro il 15 aprile 2019, al seguente indirizzo: oltrelamonocolturaturistica@gmail.com

La comunicazione della selezione per la partecipazione al convegno avverrà entro il 15 maggio.

A valle del convegno verrà eventualmente chiesto ai partecipanti di produrre un paper di 20.000 – 30.000 caratteri da far confluire all’interno di una pubblicazione.

Qui il link al sito e a facebook

La sentenza del TAR toscano che blocca l’iter amministrativo dell’aeroporto di Firenze assume un valore esemplare e apre nuove prospettive per tutte le lotte territoriali e le altre vertenze contro le grandi opere inutili aperte nel paese. (i.b.)
Dal sito della rivista «La città invisibile» l'articolo che spiega non solo le ragioni del giusto provvedimento del Tar, che mette in evidenza quanto molte volte ribadito da comitati ed esperti indipendenti che è necessario sottoporre alla VIA progetti definiti e non generici masterplan, ma anche come questa sentenza possa diventare un precedente e un esempio utile con il quale bloccare molti altri progetti di grandi opere inutili.
Qui il link anche all'articolo di Luca Aterini «Troppe prescrizioni per l'aeroporto di Firenze, il TAR boccia la VIA» già ripreso da eddyburg.

Greenreport.it Il decreto con cui è stata approvata la compatibilità ambientale della nuova pista aeroportuale di Firenze è illegittimo. Il TAR ha accolto i ricorsi presentati dalle associazioni e da ben sette comuni, vanificando la palese forzatura operata dai ministri del governo Renzi. (m.b.).

Nuove incertezze tornano a pesare sull’aeroporto di Firenze: il Tribunale amministrativo regionale (Tar) per la Toscana ha pubblicato oggi una sfilza di cinque sentenze – le n. 789/2019, 790/2019, 791/2019, 792/2019 e 793/2019, integralmente consultabili su greenreport – accogliendo i ricorsi presentati contro l’ammodernamento dello scalo aeroportuale presentati da numerosi comitati e Comuni della Piana fiorentina.
I ricorsi si incentravano sulla richiesta d’annullamento del decreto del ministro dell’Ambiente n. 377 del 28.12.2017, con cui è stata decretata “la compatibilità ambientale del “Master Plan 2014-2029” dell’aeroporto di Firenze, ovvero il giudizio favorevole alla Valutazione d’impatto ambientale (Via) del progetto, ottenuto al termine di complesso e lunghissimo iter autorizzativo. Ma per i giudici «l’assenza dell’esperimento di una corretta fase istruttoria risulta dimostrata dal fatto che il decreto sopra citato contiene un numero di prescrizioni (pari a circa 70) che, per le loro caratteristiche, hanno l’effetto di condizionare la valutazione di compatibilità ambientale contenuta nel provvedimento impugnato»; la compatibilità ambientale dell’opera sarebbe dunque legata «ad una serie di prescrizioni che risulterebbero sproporzionate come numero, poco chiare, di difficile interpretazione, di incerta realizzazione». Da qui la decisione del Tar di accogliere i ricorsi presentati contro l’aeroporto di Firenze, anziché attendere l’effettiva applicazione (o meno) di quanto previsto dalle prescrizioni che avrebbero dovuto sancire la compatibilità ambientale dell’opera.
Come sintetizzano dal Comune di Sesto Fiorentino i giudici “hanno accolto pienamente il ricorso, giudicando illegittimo il decreto di Via poiché non ha compiutamente valutato l’impatto ambientale del progetto, prevedendo un elevato numero di prescrizioni che per tenore di fatto hanno posticipato la valutazione dell’impatto ambientale alla effettiva realizzazione del progetto”.
«Il Tar ha riconosciuto la validità delle ragioni dei Comuni, delle associazioni, dei comitati contro un’opera che noi riteniamo sbagliata – commenta il sindaco di Sesto Fiorentino Lorenzo Falchi – Si tratta di una grande vittoria, che dovremo senz’altro approfondire, ma che nella sostanza è chiara: il decreto di Via è illegittimo e cade, pertanto, tutto il castello giuridico e amministrativo messo su anche con alcune forzature per arrivare a realizzare a tutti i costi una pista incompatibile col nostro territorio e illegittima dal punto di vista giuridico». Concorda Edoardo Prestanti, sindaco di Carmignano: «Siamo riusciti in un’impresa che sembrava impensabile, ossia bloccare una delle opere più sbagliate e pericolose sia per l’ambiente che per la salute di tutti i cittadini. Adesso approfondiremo meglio le motivazioni, ma la sentenza è chiara, il decreto di Via è illegittimo». Da Toscana Aeroporti per il momento non è invece arrivato nessun commento.

Il futuro è già cominciato: una satira distopica per leggere una città e il suo governo. A volte la fantasia ci aiuta ad immaginare dove potremmo andare a finire. Bisogna vedere se i fiorentini saranno capace di scongiurare il rischio alle elezioni di fine mese. (i.b.)

Fu una benedizione quel bando. Il tecnogoverno centrale lo aveva intitolato “Turismo innovativo per una città di successo”. Le condizioni erano estremamente competitive, prevedevano un’unica città vincitrice su molte perdenti. Le metropoli più smart accettarono la sfida. Firenze voleva scalare la classifica, essere l’unica, la prima, la dominante. Voleva oscurare Venezia, piegare Bologna, superare l’inarrivabile e bevibile Milano (da qualche anno capitale di stato).

Per vincere l’ambìto premio, la città gigliata optò per un progetto molto ambizioso: far arrivare le grandi navi a Firenze. L’idea, che mai Leonardo aveva osato formulare, venne al sindaco: “Firenze è la città che navighiamo”. Si dimostrò lungimirante.

Fu una benedizione anche quella grande buca, detta di Foster. Un progetto infrastrutturale folle, mai compiuto, e certo un inghiottitoio di denaro pubblico che mise in ginocchio le finanze di Roma, quando ancora l’Urbe contava qualcosa. La buca, guarda caso, aveva le dimensioni adatte per ospitare una grande nave.

Anche l’aeroporto fu una benedizione. Da decenni in stallo, il progetto della pista convergente-parallela offriva l’occasione per alimentare la darsena. Il nuovo aeroscalo era infatti a rischio di sommersione. Secondo il masterplan redatto nelle segrete stanze in deroga alle leggi ambientali e a quelle dell’idrodinamica, il Fosso Reale avrebbe dovuto essere deviato in direzione di Prato e, perciò, risalire di quota. Solo tecniche molto sofisticate avrebbero consentito all’acqua del dannato fosso di scorrere in contropendenza (cioè in salita), nella Piana già ricolma di nocività.

I decisori, di necessità fecero virtù. Immaginarono allora di condurre il Fosso Reale verso Firenze, per raggiungere la Foster. Previdero l’adduttore, lo scolmatore, l’allaccio navigabile con il Bisenzio e quindi con l’Arno.

Tutto funzionò. Firenze vinse il bando e nella darsena giunse l’acqua.

Così, ogni anno, cento milioni di croceristi poterono godere della vista della cupola brunelleschiana e della città antica, finalmente liberata degli abitanti. Nei caldi pomeriggi, sui ponti dei transatlantici si gustava il gelato prodotto nelle sale degli Uffizi. La sera si danzava al suono dell’orchestrina Dario&theStakeholders.

Tutto funzionò anche quando il livello del mare cominciò a salire: il turismo era resiliente.

Le acque divagarono. Il mare si insinuò nel fiordo della Gonfolina. Le grandi navi poterono finalmente dimenticare la poco romantica (e molto manifatturiera) rotta Càscina-Santa Croce-Empoli. Colossali navigli pluripontati risalivano ora verso Firenze all’ombra delle scogliere del Malmantile. Alla svolta delle Signe, la vista da cartolina richiamava alla mente gli ultimi istanti della perduta Venezia.

La cupola del Duomo si rifletteva sul grande specchio d’acqua, i flutti ne lambivano i fianchi; sulla lanterna del Battistero, ridotta a boa, riposavano i gabbiani. Di tanto in tanto, il silenzio era rotto dagli idrovolanti che, per solida consuetudine, solcavano il lago in direzione convergente-parallela.

Il manifesto, 23.04.2019. Un regolamento comunale limita a 90 giorni l'affitto turistico delle abitazioni ordinarie. Purtroppo per noi, succede a Madrid e non in Italia. (m.b.)

«Finché i grossi capitali ricorreranno al mattone come strumento speculativo nessuna legge a livello locale sarà abbastanza efficace». Parla Jorge García Castaño, ex assessore comunale per la zona centro e attualmente responsabile economico del governo cittadino di Ahora Madrid, la formazione nata come sigla municipale di Podemos e ora in rotta con il partito di Pablo Iglesias. Castaño è stato uno degli artefici e dei promotori della normativa comunale per la regolamentazione degli appartamenti approvata lo scorso 27 marzo con l’appoggio del Psoe. Un severo giro di vite sul mercato degli affitti turistici, il cui effetto deterrente rischia tuttavia di restare in buona parte sulla carta per le limitate competenze del municipio in materia d’affitti. I due grandi punti deboli del decreto sono l’impossibilità da parte del comune di imporre multe (che invece a Barcellona hanno avuto un forte effetto dissuasorio), le lungaggini dell’iter per la chiusura degli immobili illegali e la difficoltà nell’individuarli senza la collaborazione dei portali di annunci.

In che cosa consiste questa legge?La normativa, in buona sostanza, esige che qualsiasi appartamento turistico, cioè qualsiasi abitazione che venga affittata a scopo non residenziale per più 90 giorni all’anno abbia una licenza, e subordina il rilascio di questa licenza alla presenza di un accesso esclusivo e indipendente da quello del resto dei condomini.

Il decreto relegherà nell’illegalità circa il 95% degli appartamenti turistici di Madrid. Regolamentazione o proibizionismo?
Non c’è nessun intento proibizionista: anzi, la normativa consente a chiunque di affittare la propria casa legalmente per 90 giorni all’anno. L’obiettivo, insomma, non è quello di perseguire l’attività sporadica, che rientra nell’ambito dell’economia collaborativa, ma di colpire la speculazione, l’attività lucrativa prolungata e sistematica, che deve essere normata per preservare la disponibilità residenziale, evitare la lievitazione degli affitti e impedire che i grandi capitali si lancino all’assalto del mercato immobiliare.

Perché si è deciso di intervenire?
Perché la pressione turistica è cresciuta esponenzialmente durante i primi due anni di legislatura creando un problema di decoro e di convivenza, ma anche economico e sociodemografico. Un esempio su tutti: il quartiere di Lavapiés, che ha subito un aumento fulminante ed esponenziale del prezzo degli affitti, con conseguente esodo massivo dei residenti.

Perché allora non agire sul prezzo degli affitti e sulla legislazione che li regola?Perché il comune non ha competenza in merito. Le modifiche alla legge sugli affitti competono, a diversi livelli, alla regione (controllata dal Pp, ndr) e al governo centrale: noi potevamo intervenire solo a livello urbanistico per cui abbiamo affrontato il problema sfruttando l’unico spazio di manovra possibile a livello comunale.

Ed è sufficiente?
Nemmeno città come Amsterdam o Berlino, che hanno ottime legislazioni in materia, sono riuscite a estirpare il problema, perché la questione, più che con l’urbanismo o con il turismo in sé, ha a che vedere con la finanza globale. Finché i grossi capitali potranno utilizzare il mattone come un vantaggioso strumento speculativo nessuna legge a livello locale sarà abbastanza efficace. Perché cambi qualcosa è necessaria un’iniziativa coordinata a tutti i livelli, cominciando dall’Unione europea.

Come farete rispettare la legge?
Abbiamo aumentato il numero di ispettori e stipulato accordi con società di analisi di dati per filtrare gli annunci pubblicati sui grandi portali. Recentemente, visto il volume d’affari che muove, anche l’Agenzia delle entrate ha cominciato a sorvegliare attentatamene l’affitto turistico condividendo dati fiscali che possono essere incrociati efficacemente con le altre misure di controllo. L’ideale sarebbe poter disporre di uno strumento legale, magari a livello europeo, che obblighi le piattaforme a condividere i dati con le istituzioni locali, ma finora né la Ue né il governo centrale hanno preso provvedimenti in questo senso.

Avete un filo diretto con Airbnb?Sì, e ovviamente non sono molto contenti di questo giro di vite, anche se, in realtà, colpisce più i grandi proprietari che le piattaforme di intermediazione. Ad ogni modo farebbero bene a collaborare, perché un’entità con un modello di business così legato alle città e alla loro immagine, dovrebbe assumere un impegno a favore del territorio su cui basa i suoi guadagni.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Ai Magazzini del Sale di Venezia, il 17 aprile si inaugura la mostra sulla turistificazione di Venezia e Barcellona e la resistenza di chi le abita, per riflettere sul modello di turismo dominante che minaccia la sopravvivenza delle due città. La voce narrante è quella dei comitati, movimenti e associazioni che lottano per la difesa dell'ambiente e dei beni comuni. Qui il programma completo (i.b.)

MAREE DI GENTE
La turistificazione di Venezia e Barcellona e la resistenza di chi le abita

17 aprile – 5 maggio 2019
Inaugurazione 17 aprile ore 19
Magazzini del Sale, Dorsoduro 265, Venezia

Maree di gente è una mostra realizzata da Claudia Cavion in collaborazione con S.a.L.E. Docks (Sign And Lyrics Emporium) che indaga l’impatto che l’industria turistica ha su Barcellona e Venezia.

Maree di gente, che sarà visitabile dal 17 aprile fino alla prima settimana di maggio presso i Magazzini del Sale di Venezia, evidenzia le problematiche comuni alle due città patrimoniali e ne affronta sotto vari punti di vista i diversi effetti.
La voce narrante è quella dei collettivi, dei comitati, e delle associazioni che, lottando attivamente in difesa dell’ambiente e dei beni comuni, vedono nel modello di sviluppo turistico predominate una minaccia alla sopravvivenza delle due città patrimoniali.

Attraverso foto, manifesti, materiale audiovisivo, installazioni interattive ed altri strumenti, cittadini e turisti saranno chiamati a riflettere su come i propri comportamenti e le proprie azioni quotidiane possono incidere sui processi di deterioramento culturale e urbano. Si approfondiranno altresì fenomeni allarmanti come la gentrificazione, la perdita del diritto alla casa, l’impatto delle crociere e delle masse turistiche, la trasformazione delle attività commerciali e la perdita di alcune tradizioni locali. L’obiettivo è quello di favorire una presa di coscienza sui valori del patrimonio a rischio, rafforzare la reazione collettiva di denuncia nonché sollecitare l’intervento delle istituzioni in merito.

La mostra rappresenta inoltre il tentativo di creare, tramite la comparazione dei due casi caratterizzati da processi di turistificazione e impatti simili, una piattaforma di condivisione di opinioni e alternative a livello internazionale.

Eventi collaterali

Giovedì 2 Maggio

Frullatorio speciale turismo di massa. HEILbnb

Sabato 4 Maggio

Giornata di Incontro Barcellona-Venezia
a cui parteciperanno il Grup d’Habitatge, il Fem Front al Turisme de Sants, l’Assemblea Sociale per la Casa, il Comitato No Grandi Navi e il Collettivo Universitario Li.S.C Liberi Saperi Critici. Quest’ultimo per l’occasione, curerà un laboratorio pomeridiano strutturato in tavoli di lavoro che chiamerà a raccolta l’intera comunità cittadina, studentesca e lavorativa veneziana, con l’intento di elaborare collettivamente un modello di città “vivibile” e un piano rivendicativo per la sua realizzazione.

S.a.L.E. Docks è uno spazio indipendente per l’arte contemporanea che da sempre vede nelle pratiche artistiche uno strumento di analisi e intervento nella città. La collaborazione con Claudia Cavion nasce dalla volontà di riprendere e sviluppare il progetto di fine master “Maree di gente! Venezia e Barcellona due città patrimoniali a rischio”, che indaga la storia dello sviluppo del modello turistico nelle città suddette e ne raccoglie le varie esperienze di lotta collettiva comune.

Per info e contatti:

claudiacavion@gmail.com

saledocks@gmail.com

Lucida denuncia degli errori compiuti nella ricostruzione dell'Aquila da parte di ex funzionario pubblico della Regione Abruzzo, profondo conoscitore delle vicende e del territorio, nonché attivista dei comitati post-sismici e ambientalisti (e.s./i.b.).


Il giorno dopo riti e autocelebrazioni sisma 2009 questo è il tema del seminario che abbiamo voluto tenere proprio dopo le tante… troppe manifestazioni [1]. E’ stato difficile e quasi impossibile fronteggiare il battage mas-mediatico che fin dal primo momento ha coinvolto tutte le vicende relative al terremoto del 2009 e alla conseguente ricostruzione. A dieci anni infatti siamo arrivati ad una vera e propria campagna trasversale di auto assoluzione positivista in cui, tutte le inadempienze, gli imbrogli, gli errori strategici vengono rappresentati come “nei collaterali” di una grande e positiva ricostruzione.

Ma noi come Comitatus aquilanus [2] non ci siamo mai uniformati a questa logica e, ancora oggi, veniamo a proporvi il reale bilancio della ricostruzione con tutte le complesse problematiche aperte. In tal senso non possiamo non partire dall’emergenza e quindi dalla colonizzazione istituzionale, tecnico-programmatica e economico-imprenditoriale che c’è stata imposta dal “duo” Berlusconi/Bertolaso. Ai Sindaci locali è stata lasciata la sola gestione delle macerie e dei puntellamenti. Solo al Sindaco dell’Aquila fu data la carica di Vicecommissario con una competenza diretta, (è bene sottolinearlo), sul Centro Storico.

Di particolare interesse fu a quell’epoca la questione della delimitazione del Cratere: infatti, mentre si cercò di arrivare a “vere e proprie isole amministrative sismiche” come Penna S.Andrea o Cappelle si continuò a tenere fuori centri baricentrici al sisma come Calascio. Tale anomalia fu poi esasperata dal fatto che concretamente alcuni comuni fuori Cratere come Raiano, o addirittura Bolognano, senza essere obbligati a zone rosse e piani preventivi poterono usufruire in tempi molto più brevi di finanziamenti per decine e decine di interventi in centro storico.

L’Aquila fu il territorio maggiormente militarizzato e quindi sottoposto ai disegni della Protezione civile e non fu in grado (o forse non volle) di opporre una visione e scelte più rispondenti alla realtà territoriale e imprenditoriale. La classe politico-istituzionale giocò al ribasso sia sul piano CASE esasperandone (da 1 a 19 nuclei) la devastante dispersione insediativa, sia, sulle scelte pianificatorie e tecnico-procedurali imposte dall’arch. Fontana (zone rosse, comparti, masterplan, ecc.). A questa cultura oppose “operosi geometri mediatori” (ricordiamo che almeno tre in veste di assessori sono stati costretti a dimettersi dalla Magistratura), la Regione e la stessa Università non trovarono che marginali coinvolgimenti e nella creazione di tutte le strutture tecniche di servizio non ci si fece carico di recuperare le tante esperienze locali (COLLABORA, ABRUZZO ENGINEERING, POLIEDRO, ecc.), e , con Fabrizio Barca, si arrivò a costruire due strutture tecnico-istruttorie (una per il comune di L’Aquila e l’altra per il resto del Cratere) con circa 350 tecnici per lo più esterni al Cratere e alla Regione.

Particolarmente eloquente fu in tale fase la vicenda delle macerie nel Comune di L’Aquila: partita che fu “ingigantita” per poi addivenire ad una onerosa quanto dubbia scelta locale. Senza una gara si arrivò a scegliere la cava-buca abusiva (frutto di un mancato ripristino) della ditta ex TEGES che, dopo il contenzioso avviato dai tanti cavatori attivi della zona che si dichiararono disponibili a trattare le macerie, illegittimamente fu confermata dal Commissario nominato dalla Prestigiacomo. Su tale buca, a norma di legge, avremmo potuto ritombare in danno dell’Impresa inadempiente e invece ancora oggi continuiamo a pagare.

Vanno in questa sede responsabilmente ricordati “i bluff programmatici” e “gli oggetti avvelenati” che ci sono stati proposti o offerti per la “cosidetta ripresa”. Tra questi dobbiamo citare: quell’aeroporto con il quale saremmo “tornati a volare”; i due teatrini di Shigeru Ban e Renzo Piano che insieme agli altri tre preesistenti difficilmente saranno gestibili; la centrale a biomasse (impraticabile e senza neanche teleriscaldamento … bloccata dal Comitato Onna-Monticchio); e più di recente la (inutile) metro veloce tra S. Demetrio e Sassa realizzata in danno delle zone irrigue della piana e con qualche mira immobiliare. In tale quadro non bisogna dimenticare il Piano Fontana/Letta per il rilancio turistico della montagna che tentò di riproporre diseconomici impianti scioviari e complementari lottizzazioni (come quelle di Rocca di Mezzo).

Fuorviati dall’inevitabile “zona rossa” abbiamo abbandonato a se stesso il Centro Storico che con la sua struttura direzionale, commerciale, universitaria e scolastica era il vero cuore del Cratere consentendo all’Aquila di svolgere un ruolo trainante in un ambito territoriale ben più ampio. Solo più tardi (3 anni), su spinta dei Comitati e con la manifestazione delle carriole, si addivenne all’ipotesi di concentrare sull’asse centrale l’azione finanziaria. In parallelo e senza nessuna logica programmatica (cioè senza correlarsi al Comune o ai responsabili delle reti tecnologiche) lo stesso Commissario ai BBCC Marchetti avviò il recupero episodico di tanti Palazzi Signorili (circa 80).

Tali scelte si sono dimostrate devastanti: oggi di fatto con i nostri 69.000 abitanti, siamo arrivati (da 62) a circa 100 frazioni, con una periferia urbana rinnovata per il 90% ma senza il cuore istituzionale, direzionale, commerciale e scolastico del Cratere; nessuna delle strutture istituzionali (Regione, Provincia Comune e Università) è, infatti, ancora tornata in centro, la stessa azione programmatica proposta dalla Regione di recente per riportare i commercianti in centro, ha sortito effetti modesti con prospettive di fallimento e chiusura a breve (proprio nei giorni precedenti al decennale c’è stata una specifica manifestazione dei commercianti). Ci ritroviamo un comune ingestibile per il quale è costosissimo garantire servizi minimi di frazione, così come la raccolta di rifiuti e il servizio pubblico di trasporto (le Aziende competenti hanno infatti raddoppiato i disavanzi); e, altrettanto costoso è il trasporto individuale, cresciuto almeno del 40 % (per arrivare dalle disperse frazioni nei posti di lavoro, a scuola o in Centro Storico).

Di particolare gravità è stata la mancata ricostruzione di gran parte del patrimonio ERP più baricentrico alla città con la sottesa intenzione di lasciare gli affittuari agli alloggi del Piano CASE con fitti maggiori e pesanti costi di trasporto. Si tratta di circa 400 alloggi per i quali con una forte mobilitazione nel 2016 si era conquistato un serrato Cronoprogramma per circa 85 Ml ma anche questo a tutt’oggi è rimasto lettera morta. Emblematica in tale quadro è stata la vicenda del quartiere ERP di S. Gregorio dove su 22 alloggi frutto di un più ampio progetto pilota coordinato dalla Facoltà di Ingegneria (di ottima esecuzione ,senza danni ed agibili), si è ricercato lo sgombero per l’esecuzione di un millantato progetto di riqualificazione con una esorbitante spesa di 13 Ml.

Altrettanto grave è la situazione occupazionale che ha visto soffrire di disattenzione l’importante settore agrosilvopastorale oggetto di attenzioni esterne per l’estensione dei pascoli, ma sottovalutato dalla partitocrazia locale; incerta sembra la stessa scelta del polo del riciclo messo su dal PD con la e addirittura, molte piccole imprese edili sono fallite così come sono aumentati i cassintegrati in edilizia.

Va infine sottolineato che con gli interventi edilizi straordinari (4500 CASE, 1200 MAP, 30 MUSP) e soprattutto con le 4500 casette a tempo e in precario rese possibili dalla Delibera Cialente abbiamo consumato circa 500 ha di suolo saturando il mercato edilizio per i prossimi 30 anni con un’inevitabile crollo della rendita fondiaria e dei costi al mq che in periferia sono arrivati a 900 euro e nello stesso Centro Storico sono ormai di 1000/1200 euro. E forse per questo che sia la Giunta Cialente che quella Biondi “in solido” non hanno intenzione di adottare una Variante di assestamento al vecchio PRG per preferire scelte episodiche che nella logica del project financing “ripaghino” la partitocrazia imperante.

Da ultimo dobbiamo denunciare altri due disastrosi effetti del sisma e della dispersione insediativa che vengono a completare il grigio quadro che si è venuto a configurare per L’Aquila e il suo comprensorio. Da un lato, il sisma ha sconnesso e danneggiato le condotte di scarico dei laboratori INFN e della galleria causando interferenze con quelle di derivazione delle acque potabili del Gran Sasso; sono infatti state denunciate presenze di sostanze cancerogene derivanti dai lavaggi di gallerie e laboratori ed è stata aperta un’inchiesta penale. Dall’altro, le circa 2000 casette della piana irrigua con le loro fosse settiche insieme al mal funzionamento dei depuratori, hanno inquinato falda e acque superficiali e, ormai da vari anni, viene riproposto con Ordinanza il divieto di irrigazione a danno di tutta l’economia orticola della piana.

Note

[1] Lunedì 8 aprile 2019 presso il CSV a L'Aquila, il Comitatus aquilanus ha tenuto un seminario per riflettere sulla ricostruzione a 10 anni dal sisma e fare un serio e responsabile bilancio. Hanno partecipato tra gli altri Vezio De Lucia e Paolo Berdini. [ndr]

[2] Il Comitatus aquilanus è un gruppo di cittadine e cittadini impegnati per la ricostruzione e il rilancio istituzionale ed economico del Cratere del sisma come modificato dagli ultimi eventi. Qui ulteriori informazioni. Dello stesso comitato si segnala la pubblicazione L’Aquila. Non si uccide così anche una città con prefazione di Edoardo Salzano, qui scaricabile. [ndr]

Il Fatto quotidiano, 8 aprile 2019. Manca la città ed è inevitabile che sia così, date le premesse. Ma se la memoria si facesse cultura e la cultura comunità, L'Aquila potrebbe dare l’ennesima, memorabile lezione di futuro. (m.b.)

“Tutto sommato è stata data una casa a tutti (…), però a noi manca la città, manca tanto la città”. Le parole, pacate e lucidissime, della consigliera comunale Carla Cimoroni dicono quel che c’è da dire su L’Aquila, a dieci anni dal terremoto. Non sono giorni facili, questi, per gli aquilani. Gli anniversari, e questo su tutti, sono pugnalate, separate da intervalli di silenzio e disinteresse nazionali lunghi un anno. E poi intorno al 6 aprile ecco l’assedio di giornalisti e tv, magari in cerca di “storie forti”, come si è sentita chiedere Antonietta Centofanti, guida morale (di spessore umano e lucidità politica straordinari) dell’associazione dei familiari delle vittime, che non cessa di lottare per la verità e la giustizia. In questi giorni sanguinano copiosamente ferite mai chiuse, e si riaccendono i sensi di colpa di quei decisori aquilani che – messi dalle spalle al muro dal cinismo irresponsabile di Berlusconi, Letta, Bertolaso – alla fine dissero sì alle New Town di cemento, che oggi sono a loro volta sfollate per un quinto a causa dei balconi che crollano, e del deperimento di quelle povere strutture mangia suolo.

Fu una decisione difficile, sfociata in un errore terribile: perché condannò la città storica, e separò le pietre monumentali dal popolo che dava senso e futuro a quelle pietre. E perché estese fino 4350 ettari la superficie (già prima enorme: 3000 ettari) insediativa dove vivono i 69.439 aquilani. La mappa, elaborata per l’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli da Andrea Giura Longo e Monica Cerulli (e presentata in questi giorni all’Aquila) dimostra che siamo così arrivati a 16 abitanti per ettaro: una densità “incompatibile con una decente condizione urbana” (commenta l’urbanista Vezio De Lucia), basti pensare che l’Aquila è ora la città italiana con più automobili pro capite, con conseguenze devastanti sulla qualità della vita. Paradosso nel paradosso, questa nuova dispersione ha oscurato quella storica: in quasi tutte le frazioni antiche dell’Aquila le case rimangono ancora a terra, e dove si ricostruisce il patrimonio pubblico lo si fa molto peggio che in centro: Italia Nostra denuncia il rischio di perdere i connotati storici di un luogo cruciale come Santo Stefano di Sessanio a causa di restauri inadeguati.

E, d’altra parte, non avendo ricostruito il centro storico per settori, avendo lasciato drammaticamente indietro la ricostruzione della città pubblica e non avendovi riportato le funzioni pubbliche e i servizi (sono aperti a tutt’oggi 60 negozi sui 1000 di dieci anni fa) si capisce che cosa vuol dire che, se ora ci sono le case (molte in vendita), “manca la città”. Non è che l’Aquila di prima fosse un paradiso: ma il punto è questo, il terremoto ha funzionato da acceleratore e amplificatore delle dinamiche che colpiscono tutte le città storiche italiane: spopolamento, gentrificazione (riduzione a quartieri monoclasse sociale, cioè nella città dei ricchi), trasformazione in quinte monumentali per turisti, messa a reddito con centri commerciali e improbabili parcheggi sotterranei fatti per pura speculazione.

Più in generale, andare all’Aquila vuol dire capire l’Italia. Il dato secondo me più sconvolgente del bilancio di questi dieci anni è che tra tutto quello che si è ricostruito non ci sia nemmeno una – dico una sola – scuola pubblica. Si studia ancora nelle strutture di emergenza, e bambini di dieci anni non sanno cosa sia entrare in una scuola che sia una ‘casa’ di tutti: se qualche storico del futuro si chiederà quale posto occupava la funzione della scuola nel progetto politico, e nella stessa coscienza di sé, degli italiani dei primi decenni del XXI secolo, ebbene troverà la sua sconfortante risposta all’Aquila.

Ma gli aquilani hanno una tenacia e una capacità di costruire il futuro che, proprio per il valore universale dei loro problemi, può essere di ispirazione per tutto il resto d’Italia. Le parole citate in apertura si trovano montate in un grande manifesto esposto insieme a moltissimo altro materiale documentario al presidio “Fatti di memoria”, che 24 associazioni hanno voluto tenere aperto in centro in occasione del decennale. È un modo efficace per dire che i cittadini dell’Aquila vorrebbero un centro permanente in cui costruire il futuro attraverso la memoria del passato: “Lo vorremmo così: un ‘museo della città’, un archivio-laboratorio dedicato alle 309 vittime, vitale per la comunità e attrattivo per chi è di passaggio. La vorremmo così la città della memoria e della conoscenza, prestigiosa nel mondo, inclusiva e accessibile per tutte e tutti. Perché la memoria è un ingranaggio collettivo: solo se la memoria dei sopravvissuti si fa cultura per le generazioni a venire, una comunità ha la possibilità di rinnovarsi”. Nel 2013 si era progettato un centro come questo, si sarebbe dovuto chiamare Ter.R.A, ma tutto si fermò.

Oggi quell’idea rinasce in Territori Aperti, un “Centro di documentazione, formazione e ricerca per la ricostruzione e la ripresa dei territori colpiti da calamità naturali” che sarà realizzato dall’Università dell’Aquila grazie ad un finanziamento di Cgil, Cisl e Uil. Un’ottima notizia: ma non basterà che sia fatto per i cittadini. Dovrà nascere con i cittadini, perché c’è davvero bisogno di partecipare e costruire un luogo dove storia, memoria collettiva e capacità di riscatto riescano a far rinascere una comunità.
Se sarà così, L’Aquila avrà dato a tutta l’Italia l’ennesima, memorabile lezione di futuro.

Nota

Per non perpetuare la logica emergenziale, in nome della quale tutto è consentito, serve una strategia lungimirante di contenimento del rischio sismico, all’altezza di un paese scientificamente avanzato. Su eddyburg abbiamo dato conto di una proposta autorevole che speriamo sia raccolta da chi ha a cuore l'interesse generale. (m.b)

L'architettura tende ad essere una materializzazione dell'ordine dominante, che usa lo spazio costruito per controllare e inculcare le sue regole, comportamenti e idee, attraverso la complicità (conscia o inconscia) dei progettisti che si conformano ai canoni, icone e strategie spaziali dei potenti.

Qui il video della lezione «Weaponised Architecture: Towards a Revolutionary Practice of the Discipline» tenuta da Léopold Lambert, l'editore di The Funambulist, una rivista bimestrale dedicata alle prospettive spaziali su lotte anticoloniali, antirazziste e femministe. Qui il link al sito dell'autore "Weaponised architecture" dove si possono vedere anche architetture disobbedienti.
Esemplificante del ruolo dell'architettura come strumento fondamentale di repressione si veda il video «Israel: The architecture of violence» di Ana Naomi de Sousa in cui Eyal Weizman spiega il ruolo chiave dell'architettura nell'occupazione israeliana della Palestina e nell'evoluzione della guerra urbana.

Per far fronte al pesante traffico automobilistico, il Lussemburgo eliminerà biglietti da treni, tram e autobus entro la prossima estate. E' già attivo il trasporto pubblico gratuito per i minori di 20 anni e tutti gli studenti delle scuole lussemburghesi. Qui l'articolo. (i.b.)

Firenze, 14 marzo 2019. Analisi del modello contrattuale realizzato per costruire una macchina che trasforma le risorse pubbliche in affari privati, presentato al ciclo di conferenze «La favola delle Grandi Opere» organizzato da PerunAltracittà. (e.s.)

Le grandi opere inutilie dannose sono strumentali al funzionamento dell’impresa post-fordista, cheprospera attingendo ai beni e alle risorse pubbliche, che grazie alla messa apunto di un modello finanziario-contrattuale ad hoc permette il trasferimentodi fondi pubblici ai privati.
L’impresapostfordista, come afferma Ivan Cicconi è «una grande impresa virtuale cheinevitabilmente scarica, attraverso una ragnatela di appalti e subappalti, lacompetizione verso il basso e induce, anche nella piccola e media impresa, unacompetizione tutta fondata sullo sfruttamento del lavoro nero, grigio,precario, atipico»[1].
Questo modello per l’implementazione di grandi opere pubblichesi basa sulla privatizzazione della committenza pubblica. Attraverso uncontratto di concessione, si affida la progettazione, la costruzione e talvoltaanche la gestione dell’opera pubblica, ad una società di diritto privato (Spa),ma il capitale è tutto pubblico, così come il rischio del recuperodell’investimento. Le società coinvolte, appalti, subappalti, consulenzevengono così a operare in un regime di diritto privato fuori dalle regole e dalcontrollo della contabilità pubblica, spesso in un regime di monopolio ooligopolio collusivo. Le «attività economiche, controllate, determinate egestite da Consigli di Amministrazione delle Spa nominati dai partiti, in cuiil ruolo ed i rapporti fra politici, tecnici e imprenditori, si confondono ediventano sempre più intercambiabili e intercambiati»[2]. Si forma così un modello che permette, alla luce del sole, dipilotare la spesa pubblica in direzione di interessi privati (e nondell’interesse collettivo). Per estorcere denaro pubblico a fini privati non èpiù necessario ricorrere a transazioni occulte: il favoreggiamento di aziendeamiche da far lavorare e prosperare diventa lecito.
La rete illegale messa in evidenza da tangentopoli viene«ampiamente sostituita da un sistema di relazioni e di convenienze piùimmediato e più complesso, nel quale gli illeciti sono molto più difficilmentecontrastabili»[3].
Come tutti i modelli che si rispettano, c’è sempre una ‘fase di ideazione’,che nel nostro caso specifico ha consistito nell’introdurre la concessione.Segue la ‘fase di
sperimentazione’ con cui verificare l’idea in altri ambiti e contesti.Segue infine una ‘fase di messa a punto e collaudo’ del prototipo, che vienepoi ‘codificato’ e ‘applicato su grande scala’.
Fase di ideazione
Vale la pena difare un salto indietro nel tempo a quando si è introdotta l’idea dellaconcessione, ricordando quella che fu la prima “grande opera" italiana: larete delle autostrade. Fu costruita in Italia all’indomani della seconda guerramondiale, formalizzata con la legge Romita (L.463/1955),che ne disegnò l'impianto.
L’autostrada delSole tra Milano e Napoli, dà il via all’opera, realizzata attraverso unaconvenzione, firmata nel 1956, tra Anas e Società Autostrade Spa (SocietàAutostrade Concessioni e Costruzioni Spa). Siamo nella situazione in cui dei beni publici,la rete autostradale nella fattispecie, sono gestiti da società “concessionarie”che ne raccolgono i profitti pagando in cambio un canone allo stato. Fino alla fine deagli anni ’90 del secoloscorso queste società rimarranno pubbliche, proprietà di enti locali oppure statali,come nel caso della Società Autostrade che appartiene all’IRI (Istituto per laRicostruzione Industriale). Il concorso finanziario per l’autostrada del Sole prevedevadue agenti: lo Stato (circa 36%) e dall’altra parte la Società Autostrade Spache avrebbe emesso obbligazioni trentennali garantite da ipoteca sui lavorieseguiti con le quali si copriva il resto delle spese.
L’ introduzionedel sistema delle concessioni nella realizzazione della rete autostradale e grandiinterventi pubblici in generale preoccupava fin dall’inizio il grande ingegneredei trasporti Guglielmo Zambrini (ordinario di Infrastrutture e Pianificazionedei Trasporti presso la scuola di Urbanistica dello Iuav). La dura critica di Zambrini alle concessioniviene ricondara da Barp e Vittadini nell’ introduzione di un libro cheraccoglie alcuni dei suoi scritti. «La critica stringente di Zambrini sullaquestione autostradale e sulle distorsione delle priorità che deriva dalmeccanismo della concessione ha fornito un contributo, ancor oggi moltoimportante di analisi tecnica e consapevolezza politica. In teoria leautostrade in concessione avrebbero dovuto ripagarsi almeno per circa ¾ con pedaggi e ¼ con denari pubblici a fondoperduto. Succedeva invece che i costi d’ investimento assai superiori alprevisto (o entrambe le cose) [l'assenza di domanda adeguata - ndr] rendesseroi pedaggi largamente insufficienti acoprire i costi»[4]. Essendosocietà pubbliche, lo stato elargiva generosamente risorse pubbliche alleconcessionarie insolventi sottraendole ad altri investimenti. «La garanziadello Stato, la mancata riforma e il successivo prolungamento sistematico delleconcessioni giustificheranno la caustica definizione delle concessionarie come‘società a irresponsabilità illimitata’ in »Autostrade all’attaccoprogrammazione alle corde” che raccoglie gli editoriali di “S&T! [Strade eTraffico – ndr] dei primi anni settanta»[5].
L’articolo di Casabellan. 496 del 1983 «Buchi nei conti, buchi nei tubi, buchi nei monti» rende benecome già allora Zambrini vedesse nelle grandi opere infrastrutturali latendenza ad essere inutili (buchi nei monti) , dispensiose oltre misura (buchinei conti) e a scapito di opere indispensabili come l’approvigionamento idrico(buchi nei tubi)[6].
Fase di sperimentazione
Un’ ulterioreelaborazione del modello della concessione avviene con il MoSE (Modulosperimentale elettromeccanico) spacciato per essere un sistema di alta tecnologiacapace di salvare Venezia. Con il Mosesi introduce il modello della ‘concessione unica’. Si rimanda all’eddytoriale174[7] perconoscere i dettagli dell’operazione, ma è opportuno ripercorrere due episodi.
Nel 1982, mentreil Comune di Venezia lavorava alacramente per affrontare il riequlibrio complessivodell’ecosistema lagunare, si costituisce il Consorzio Venezia Nuova (CVN).Quattro imprese, diversamente legate al mondo del cemento armato, ne fannoparte: Italstrade, Grandi Lavori Fincosit, Società italiana per Condotted'Acqua e Mazzi Impresa Generale di Costruzioni. Due anni dopo, mentre ilParlamento discuteva ancora sulle modalità con qui affrontare il problema dellasalvaguardia della Laguna, per decisione del ministro Franco Nicolazzi (governoCraxi) il Magistrato alle Acque di Venezia (Ministero dei Trasporti) affidatutte le opere e gli interventi necessari alla difesa della Laguna al ConsorzioVenezia Nuova.
La concessione unicaè un affidamento esclusivo e omnicomprensivo, che ha consentito a un solooperatore privato, il Consorzio Venezia Nuova, di disporre di tutte le risorseche lo Stato trasferiva per la salvaguardia di Venezia. Un consorzio che decideautonomamente la progettazione del sistema e le soluzioni tecnologiche dautilizzare. Rispetto alla concessione delle autostrade il concessionario ora éinteramente privato.
Il sistema Mose èstata una vera e propria sperimentazione in cui sono stati coinvolti, dirigentiregionali e ministeriali, finanzieri, centri di ricerca, università. Attraverso consulenze, collaudi, direzionelavori si sono co-optate moltissime persone, inclusi ricercatori e intellettuali,enti pubblici e privati. Attraverso incarichi e relativi compensi il Mose si ècomprato il consenso di un ampia fetta della società veneziana.
Con il Mose ilmodello non è ancora del tutto a punto e non sono ancora codificate le regoleper disciplinare i rapporti tra stato e impresa. Tanto è vero che perraggiungere gli obiettivi affaristici è ancora necessario ricorrere allostrumento della corruzione. Nel frattempo la magistratura reagisce e il 4 giugno2014 avvengono numerosi arresti per tangenti.
Due elementi, chediventeranno delle costanti delle grandi opere inutili, emergono con evidenzadall’operazione Mose:
lievitazionedei costi (dalla previsione iniziale di un costo pari a€1.600 milioni alconsuntivo al 2018 pari a €5.493)
prolungamentoall’infinito dei lavori (e ulteriore aumento dei costi)
sottrazionedi risorse per le grandi opere realmente necessarie.
La fase di collaudo
Il 7 agosto 1991veniva presentata in pompa magna l’Altavelocità ferroviaria, che prevedeva la realizzazione di sette nuove tratte(Milano-Bologna, Bologna-Firenze, Roma-Napoli, Torino-Milano, Milano-Verona,Verona-Venezia, Genova-Milano) dedicate al trasporto passeggeri. I contrattiiniziali prevedevano un costo complessivo pari a 14 miliardi dieuro e si prometteva la realizzazione in 7 anni.
A Paolo Cirino Pomicino va dato il “merito” di avere postoun’altra pietra miliare dell’architettura contrattuale delle grandi opere!
Le Ferrovie, attraverso la Tav Spa (una società delGruppo Ferrovie dello Stato fondata appositamente per la pianificazione e laprogettazione della Tav) danno incaricodi costruire le line ferroviarie a un general contractor, che poi appalterà ilavori a terzi (consorzi e aziende), che si spartiranno le commesse senza veregare d’appalto. Il general contractor, privato, non ha alcuna responsabilitànella gestione finanziaria: non mette soldi, non gestirà l'opera, non rischiasul rapporto costi-guadagni. In meritoalla Tav ricordiamo due favole:
1. Si giustificaval’affidamento a un general contractor della Tav per dimezzare i tempi direalizzazione. In realtà tutte le tratte hanno subito ritardi; per esempio latratta Tav Bologna-Firenze ha più che raddoppiato i tempi e quadruplicato icosti!
2. Con l’affidamentoa un general contractor privato si voleva fa credere che il sistema Tavitaliano fosse frutto di investimenti pubblici e privati, ma di investimentoprivato non c’è mai stata l’ ombra perchè l’unico azionista è lo stato[8].
Al “collaudo” ilmodello non passa: criticato dall’Antitrust il ministro Bersani azzera icontratti, elimina questo strumento e torna alle gare per i lavori ancora nonavviati. Ma la sosta del sistema affaristico dura poco: arrivano i governiBerlusconi che codificheranno il metodo, legalizzandolo e rendendolopraticamente infallibile.
La fase di codifica: tre leggi
Nel 2001 siapprova la Legge Obiettivo n.443/2001 per le cosiddette grandi operestrategiche volute da Berlusconi, con la quale si perfeziona il general contractor. Nel mondoanglosassone il general contractor (persona fisica o società giuridica) siassume la responsabilità integrale in merito alla realizzazione di un’opera,avvalendosi sia di competenze interne, sia di subappaltatori specializzatireperibili sul mercato e si accolla ilrischio del lavoro.
Il general contractor all’italiana invece può facilmente ricorrerealle varianti (relative a costi e tempi) per mantenere in positivo il suomargine o per aumentarlo, non si assume rischi e ha interesse a dilatare tempie andare avanti all’infinito.
Rispetto almodello concessionario originario il modello successivo con il generalcontractor agisce in regime privatistico e potrà affidare i lavori a chi vorrà,anche a trattativa privata, e qualunque cosa faccia sarà difficilmenteperseguibile per corruzione: le eventuali tangenti diventano soltantoprovvigioni!. L’allora dirigente del Ministero delle Infrastrutture ErcoleIncalza condiziona così i lavori pubblici di autostrade, porti e alta velocitàper 25 miliardi di euro e la ditta di Ingegneria SPM (Stefano Perotti) siassicura sempre una fetta significativa dei fondi, che a forza di variantifanno lievitare i costi spropositatamente.
Nella sua «Indagine relativa agli interventi gestiti da TAV S.p.A.», l’Autorità per laVigilanza sui Contratti Pubblici attestava che questi risultano caratterizzatida “gravi infrazioni ai principi della libera concorrenza e della nondiscriminazione” e che “hanno subìto, in corso di esecuzione, notevoliincrementi di costo e del tempo di realizzazione[9].
Nel frattempovengono trasformate anche quelle operazioni di vecchia data, infatti nel 1999,la stessa Società Autostrade viene privatizzata e subentra all’IRI
un nucleo stabiledi azionisti costituito da una cordata guidata da Edizione (controllata dallafamiglia Benetton). La società, che dal 2007 si chiama Atlantia Spa controllaoltre 3.000 chilometri di autostrade italiane.
Nel 2002 siapprova anche la Legge Salva-deficit n.112/15 giugno 2002 – detta anche LeggeTremonti. Una normativa prettamente economica che istituisce dal nulla,rispettivamente agli articoli 7 e 8, due società di capitale pubblico ma didiritto privato: la “Patrimonio dello Stato Spa” e la “Infrastrutture Spa”.
La “PatrimonioSpa” ha la funzione di «valorizzare, gestire e alienare il patrimonio delloStato», nonché di finanziare la “Infrastrutture Spa”. Quest’ultima è una società pubblico-privato,inizialmente partecipata solo dal Ministero dell’Economia e istituita dallaCassa Depositi e Prestiti che – con il beneplacito del ministro – può cedere almercato proprie azioni fino al 50 per cento. La Infrastrutture Spa adempiendoalle sue funzioni di finanziamento e garanzia delle grandi opere può aumentarela sua capacità di indebitamento tramite la svendita o l’emissione di titoli subeni di fondamentale valore culturale e paesaggistico. Cioè questi benientrando a far parte del patrimonio di una società a maggioranza privata, sonoesposti ad eventuali procedure fallimentari nel caso di insolvenza dellasocietà medesima. Il rischio è che ci pagheremo le grandi opere Inutili con ilnostro patrimonio pubblico ambientale, culturale e artistico.
Con la leggedelega sulle infrastrutture n.166/2002, (idea di Pietro Lunardi) si stravolgela precedente legge Merloni sui lavori pubblici e il project financing risalential 1994.
Il project financing è una complessa operazione economico-finanziaria rivolta ad uninvestimento specifico per la realizzazione di un’opera e/o la gestione di unservizio, che presuppone il coinvolgimento di soggetti e finanziatori privati.
Nelle proclamateintenzioni il finanziamento dell'iniziativa è basato soprattutto sulla validitàeconomica e finanziaria del progetto che deve essere potenzialmente in grado digenerare flussi di cassa positivi, sufficienti a ripagare i prestiti ottenutiper il finanziamento del progetto stesso e a garantire un'adeguataremunerazione del capitale investito, che deve essere coerente con il grado dirischio implicito nel progetto stesso.
Uno degli esempi di project financing all’italiana è laPedemontana Veneta, un infrastruttura stradale che nasce come superstrada apedaggio[10] [9].Ricordiamo qui solo alcuni passaggi della vicenda assai complicata di questaopera che subordina gli interessi sociali, economici edambientali della collettività alle logiche affaristiche. Nel 1995, nel contesto di un drastico taglio dellaspesa pubblica il Presidente della Autostrada A4 Serenissima si offre direalizzare la Pedemontana come autostrada in concessione “senza oneri per loStato”. La proposta sembra allettante. ANAS, senza aspettare alcuna valutazionepreventiva, indice una gara a licitazione privata per il progetto definitivodell’autostrada, che viene vinto nel gennaio del 2000 dalla società diprogettazione Bonifica Spa. Per comprendere la mossa apparentemente azzardatadella Autostrada A4 Serenissima e dell’ANAS bisogna sapere che nelle leggifinanziarie di fine anni ’90 si stanziavano denari per la realizzazione dellaPedemontana, sebbene questa si sarebbe dovuta costruire “senza oneri per loStato”. Dal 2001, la Pedemontana è una delle opere presenti nella leggeobiettivo e oggetto di trasferimento dicompetenza alla regione. Nel 2002 la società Pedemontana Veneta Spa presentail progetto di project financing. A 10 anni dall’approvazione, l’avanzamentodell’infrastruttura pone grossi problemi: viene meno completamente il rischiodel concessionario e si presentano problemi ambientali e idraulici notevoli, checontinuano a far lievitare i costi. La pedemontana è emblematica di comenelle grandi opere le mancanze progettuali e gli errori del concessionario sonoa spese dello stato.
Conclusioni
Con l’uso diquesti nuovi istituti contrattuali, tra cui la concessione e il generalcontractor, si è costruita una macchina infernale che trasferisce soldipubblici ai privati attraverso la creazione di grandi opere inutili e dannose.
Le grandi operenon sono ideate e fortemente volute dai governi perché soddisfano rilevantibisogni sociali. La Tav, la Pedemontana Veneta, il Mose hanno dimostrato in tuttiquesti anni di denuncie, critiche e puntuali analisi scientifiche di non essereprogetti indispensabili per il miglior funzionamento del paese. Altre opere, apartire dalla manutenzione della rete ferroviaria esistente, sarebbero statepiù necessarie. Il confronto tra i benefici che una data opera porta a unacomunità e i costi, compresi quelli ambientali, che essa deve sopportare hadimostrato che queste opere non si sarebbero dovute fare.
Si continuano aportare avanti perché servono a chi le costruisce. Le imprese, le ditte, iconsulenti, gli studi di progettazione ottengono lavori lautamente remunerati. Siccome i rischi e i finanziamenti sonopubblici, ovvero a carico dei contribuenti, i concessionari hanno interesse adilatare i tempi, aumentare le opera da realizzare, fare errori che comportanoulteriori variazioni ai progetti, creare problemi, anche ambientali, producendocosì altre occasioni di affari.
Queste opere offrono opportunità straordinarie anche a queisoggetti che, oltre a disporre di denaro a costo zero, hanno l’esigenza diriciclare capitali di provenienza illecita. La filiera dei subappalti siallunga e rende più difficile il contrasto alla mafia e alla corruzione,perché le misure elaborate per combattere gli illeciti erano state concepiteper un sistema degli appalti ormai completamente sostituito dal meccanismocriminoso che si è appena descritto.
Questo immane impiego di risorse per opere sbagliate eliminala possibilità di investire risorse e lavoro in interventi necessari nei campidella difesa del suolo, della salute, della formazione e via dicendo, cioè inopera socialmente utili.
Di fronte alle critiche e analisi che comprovano l’inutilitàdelle grandi opere in atto ritorna una propaganda vecchia e bieca, che misuralo sviluppo in termini di infrastrutture fisiche. Una propaganda che ricorreanche all’alibi dei posti di lavoro che si perderebbero con l’annullamentodell’opera. Ma come detto poc’anzi non si tratta di perdere lavoro – tral’altro basato sullo sfruttamento,sul nero, sul precario – ma ri-indirizzarlo verso impieghi socialmente eambientalmente utili.

Note


[1] IvanCiccone, Alta Velocità: grandi opere e capitalismo, in «Il granello di sabbia»,n.11 aprile 2014, raggiungibile su eddyburg.
[2]ibidem.
[3] Ibidem.
[4] A. Barp, M. R.Vittadini «Introduzione» in Guglielmo Zambrini «Questioni ditrasporti e di infrastrutture. Teorie, concetti e ragionamenti per una buonapolitica dei trasporti», Marsiglio, 2011.
[5]Ibidem.
[6] SullaTav si legga l’articolo di Anna Donati e Maria Rosa Vittadini “Ancora sullaTorino-Lione: buchi nei monti, buchi nei conti” consultabile su eddyburg.
[8] Persapere chi ci metterà i soldi per costruire la TAV si legga l'articolo diAttilio Giordano (2006) "Chesiate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga" nelquale si chiarisce che c'è un grande equivoco sul fatto di che la TAV sarà ilrisultato di investimenti pubblici (al 40 per cento] e privati (al 60 per cento).
[9] Sugli alti costi della Tav, gonfiati daicosti di mazzette, tangenti e più in generale corruzione si legga "Treni etangenti, quanto ci costa l'alta velocità" (2015) diGloria Riva e Michele Sasso.
[10] Sulla pedemontana Veneta si leggal’articolo di Maria Rosa Vittadini «La Pedemontana veneta: un caso da cui trarreinsegnamento», consultabile su eddyburg.
Questo articolo é il completamento e lo sviluppodi una relazione tenuta a Firenze il 14 marzo, giornata di studio dedicata a«Decisori o impostori. Decostruire il modello decisionale» nell’ambito delciclo di conferenze su «La favola delle Grandi Opere» organizzato da PerunAltraCittà di Firenze.

Tra le grandi opere inutili e dannose gli aeroporti occupano un posto particolare per il loro devastante impatto ecologico e sociale. Firenze è un esempio eclatante. Un introduzione al problema generale e le ragioni del no dei comitati toscani in manifestazione il 30 marzo.

Gli aeroporti sono, nella stragrande maggioranza dei casi, delle gradi opere inutili e dannose. Esiste oramai un ampia letteratura riguardante l'espansione degli aeroporti, che sta avvenendo in tutto il mondo. Da una parte i governi favoriscono la costruzione di nuovi aeroporti o l'allargamento di quelli esistenti perché queste infrastrutture sono viste come strumenti economici per collegare il paese ad altre parti del mondo e quindi come mezzo per far parte dell'economia globale. Dall'altra un numero crescente di abitanti si oppone a questi interventi perché queste gigantesche opere hanno un devastante impatto in termini di emissioni, inquinamento, consumo di suolo e trasformazioni territoriali che in molti casi implicano anche espulsioni di comunità intere.
Una parte della letteratura scientifica a sostegno dell'opposizione a queste infrastrutture si concentra proprio sull'impatto dell'inquinamento (dal rumore alla qualità dell'aria) e sulle ripercussioni dell'aviazione sulle emissioni di biossido di carbonio e quindi dell'impatto negativo di questo mezzo di trasporto sui cambiamenti climatici.
Il conflitto tra l'aviazione, come strumento di espansione economica, e la necessità di proteggere l'ambiente naturale e sociale dal deleterio impatto dell'inquinamento, delle emissioni e delle distruzioni di abitazioni, edifici storici, comunità e villaggi locali, sembra diventare un elemento caratterizzante delle principali città industrializzate. Gli esempi degli aeroporti di Roissy-Charles de Gaulle, Nantes, Frankfurt, Narita, e Shiphol sono forse i più noti in Europa. Gli aeroporti sono gigantesche e costosissime opere che richiedono ampie superfici, complesse infrastrutture che si espandono molto al di là degli edifici e dei servizi strettamente legati al trasporto aereo, sia all'interno che all'esterno degli aeroporti. Pensiamo alla quantità di spazio destinata ai negozi dentro gli aeroporti; all'infrastruttura stradale e ferroviaria che viene ampliata per collegare l'aeroporto; al commercio, logistica e terziario in generale che viene sviluppato nell'intorno degli aeroporti per rendere economicamente sostenibile l'investimento. Gli aeroporti diventano città dentro le città.
L'ampliamento dell'aeroporto di Heathrow e quello di Manchester in Inghilterra hanno sollevato moltissime obiezioni di cittadini e stimolato anche importanti studi scientifici per articolare il dibattito e gestire il conflitto. Non ci sono dubbi né sull'inquinamento acustico, il primo problema che di solito mobilita i cittadini, né l'inquinamento atmosferico; Hume e Watson (The human health impacts of aviation in Upham, P, Maughan, J, Raper, D, Thomas, C. Towards Sustainable Aviation, Earthscan Publications, 2003) spiegano che i principali inquinanti che si presentano sono il biossido di azoto, il particolato e i composti organici atmosferici che includono benzene, idrocarburi poliaromatici, cherosene, gasolio e glicole etilenico e che gli esami sanitari delle popolazioni esposte alle emissioni degli aerei dovrebbero essere condotte in maniera sistematica e paragonate a quelle delle popolazioni non esposte. Dai primi anni 2000, si è affiancato un ulteriore motivo che rende l'espansione degli aeroporti controproducente. L'Associazione Internazionale per il Trasporto Aereo informa che gli aerei sono responsabili per il 2% delle emissioni di biossido di carbonio prodotte dall'uomo nel 2017, anche se alcuni scienziati sostengono che è più alta. E' vero che auto, centrali elettriche e fabbriche fanno più danni. Ma il contributo dell'aviazione ai cambiamenti climatici diventa più grande di anno in anno. Per due motivi: primo, perché i viaggi aerei stanno crescendo a un ritmo sorprendente; secondo perché l'aviazione non sta facendo nessun progresso per ridurre le emissioni: la possibilità di avere aerei elettrici è ben lontana da venire. Quindi la dipendenza dal petrolio è assicurata!
Il caso dell'aeroporto di Firenze: per comprendere le principali ragioni che rendono illegittimo e non vantaggioso (se non per Toscana Aeroporti!) il nuovo aeroporto si legga «L'aeroporto di Firenze e il mito dello sviluppo» di Paolo Baldeschi. Dello stesso autore si legga «Oscure manovre attorno all’aeroporto di Firenze», sulla Commissione tecnica Via ha “approvato” il progetto del nuovo aeroporto di Firenze con 142 prescrizioni cui i proponenti Enac e Toscana Aeroporti dovrebbero ottemperare e «Il nuovo aeroporto di Firenze e il sistema di aggiramento delle regole». Articoli che spiegano come le autorità competenti stanno aggirando gli strumenti che dovrebbero garantire democrazia nei processi delle decisioni. Rimandiamo al sito di per un altra città per ulteriori articoli.
Infine riportiamo qui il comunicato dei comitati, movimenti e sindaci che manifesteranno il 30 marzo contro l'aeroporto per la difesa della Piana e della salute degli abitanti di Firenze, Prato e Pistoia. (i.b.)

Basta nocività! NO al nuovo aeroporto di Firenze – SI’ al Parco Agricolo della Piana per tutte/i!

Il progetto del nuovo aeroporto di Firenze altera in modo irreversibile l’equilibrio dell'ecosistema della Piana e minaccia la salute di tutte le popolazioni da Firenze a Prato a Pistoia.

È incompatibile con il Parco Agricolo della Piana, con le attività del Polo Scientifico di Sesto Fiorentino e della Scuola Marescialli. In un territorio già saturo di funzioni urbanistiche e di fonti inquinanti, non c'è più lo spazio per realizzare in sicurezza una struttura aeroportuale da 5 milioni di passeggeri/anno con il suo pesante impatto sull'ambiente (emissioni, rumori, polveri, rischio idrogeologico e consumo di altri 380 ettari di suolo).

La truffa delle "compensazioni ambientali" imposte dalla nuova pista non è accettabile: la deviazione dei fossi, la cancellazione delle zone umide aumentano il rischio idraulico. Lo spostamento del Lago di Peretola a Signa è stato scambiato con la nuova viabilità dalle Signe a Indicatore, un intervento necessario atteso dalle popolazioni da 50 anni e ancora tutto da realizzare.

Denunciamo l'imbroglio sull'occupazione, con la fumosa promessa di nuovi posti di lavoro, mentre già da tempo negli aeroporti della Toscana assistiamo alla riduzione ed alla precarizzazione del lavoro.

Rendere compatibili gli aeroporti con le popolazioni, e non viceversa!

L'attuale scalo di Peretola, cresciuto senza controlli ed autorizzazioni ambientali oltre i 2,5 milioni di passeggeri/anno, da troppo tempo non è più sostenibile dagli abitanti di Brozzi, Quaracchi, Piagge e Peretola. Chi per decenni ha ignorato questo disagio (vedi non attuazione delle stesse prescrizioni 2003), tenta ora di strumentalizzarlo per imporre la nuova pista. Per questo chiediamo un piano di drastica riduzione del traffico aereo, la tutela dell'occupazione ed il reimpiego dei lavoratori, collegamenti ferroviari efficienti con gli aeroporti vicini, nel rispetto delle caratteristiche e dei limiti di queste strutture.

Il Parco della Piana rappresenta uno strumento irrinunciabile per dare un futuro al nostro territorio e migliorare le condizioni di vita delle popolazioni: salvaguardia delle aree verdi, umide e archeologiche, nuova agricoltura di filiera corta, tutela della salute, basta cementificazione, strategia rifiuti zero e stop incenerimento rifiuti, creazione di lavoro stabile e sicuro, mobilità sostenibile basata sul trasporto pubblico e sulla riduzione del traffico privato, diritti e servizi sociali per tutti e tutte senza discriminazioni.

La partecipazione diretta degli abitanti, dei Comitati e dei Sindaci contrari all'opera è essenziale per battere i potenti interessi economici e politici che sostengono il nuovo aeroporto (Toscana Aeroporti spa, Confindustria, Camera di Commercio, Rossi, Nardella, Governo e ENAC). La vicenda dell'inceneritore di Firenze-Case Passerini ci dimostra che la tenacia popolare, i ricorsi di Sindaci e Comitati possono vincere anche dopo il via libera della Conferenza dei Servizi.

Abbiamo il diritto di decidere del nostro futuro, attivando un reale processo partecipativo. L'uso delle risorse basato sul profitto e non su finalità sociali sta distruggendo la biodiversità, il clima ed il pianeta: alla logica del breve periodo che comanda gli affari e la mercificazione turistica di Firenze contrapponiamo una visione lungimirante che conservi i beni comuni per oggi e per le generazioni future.

La Piana non si arrende al potere del denaro! Riprendiamoci salute, lavoro e territorio.

Manifestazione No Aeroporto!
Ritrovo ore 14,30 Polo Scientifico di Sesto Fiorentino.
Sono stati invitati a partecipare i sindaci che si sono espressi contro l'Aeroporto anche con ricorso al TAR:.
-Sindaco di Sesto Fiorentino: Lorenzo Falchi
-Sindaco di Carmignano: Edoardo Prestanti
-Sindaco di Calenzano : Alessio Biagioli
-Sindaco di Poggio a Caiano : Francesco Puggelli
-Sindaco di Campi Bisenzio: Emiliano Fossi
-Sindaco di Prato: Matteo Biffoni

Promossa da Movimenti, Comitati e Associazioni per la tutela della Piana Firenze – Prato - Pistoia.

Per aderire e partecipare, ulteriori info e percorso > Evento Facebook "Manifestazione No Aeroporto Si Parco!"

Una gigantesca infrastruttura, sia fisica che economica, proposta dalla Cina per avvicinare i mercati euroasiatici, sta diventando sempre più concreta. L'Italia vi partecipa già con 2,5 miliardi di euro. (segue) (a.b.)

Una gigantesca infrastruttura, sia fisica che economica, proposta dalla Cina per avvicinare i mercati euroasiatici, sta diventando sempre più concreta. L'Italia vi partecipa già con 2,5 miliardi di euro. Il progetto include una fittissima rete di comunicazioni che si tradurranno in porti, stazioni, superstrade che sventreranno mari, valli e montagne da Pechino ad Amburgo. Su queste vie si prevedono nuove città e piattaforme logistiche. Una follia urbanocentrica che acquista dimensioni planetarie e planetarie saranno le conseguenze ambientali e sociali e politiche.Qui un breve video e alcuni dettagli sul progetto. (a.b.)

inarchpiemonte.it, 18 febbraio 2019. Dieci domande che un cittadino probabilmente si pone e che non trovano risposta nei principali media e le risposte, che dimostrano l'inattendibilità e controsenso di chi ancora sostiene quest'opera. (i.b.)
L'articolo è raggiungibile a questo link. Su eddyburg sono disponibili molti interventi che analizzano le contraddizioni, i trucchi e le bugie dette per giustificare la costruzione della TAV. Qui una rassegna bibliografica. (i.b.)

Sbilanciamoci.info, 6 marzo 2019. Non ad ogni costo, non per pregiudizio o ideologia, non solo per la ferrovia Torino-Lione. Si deve e si può decidere con giudizio, come spiega Maria Rosa Vittadini. (m.b.)

Su eddyburg sono disponibili molti interventi che illustrano le storture del progetto TAV e le ragioni di un dissenso motivato. Qui una rassegna bibliografica curata da Ilaria Boniburini e l'articolo
«Ancora sulla Torino-Lione: buchi nei monti, buchi nei conti» di Vittadini e Donati contenete un'analisi della Tav nel contesto delle politiche nazionali dei trasporti con proposte su come affrontare trasporti e infrastrutture per non continuare a mettere in campo grandi opere inutili. (m.b.)

L’analisi costi-benefici (ABC) del nuovo collegamento ferroviario Torino Lione è difficile da leggere, solleva dubbi che non trovano risposta, e porta a risultati apparentemente paradossali. Di primo acchito suggerisce infatti ai lettori non esperti di ABC che più la linea ferroviaria sottrarrà traffico alla strada più i costi saranno superiori ai benefici: dunque meglio non realizzare mai nessuna ferrovia. Anche dal punto di vista di chi ha sempre nutrito profondi dubbi sulla utilità della nuova linea, queste paradossali conclusioni appaiono inaccettabili, richiedono un adeguato approfondimento tecnico e adeguate risposte politiche.
D’altra parte c’è da restar stupefatti per l’atteggiamento pro TAV “senza se e senza ma” di larga parte del mondo imprenditoriale, anche al di là degli ovvi interessi delle imprese coinvolte. Quale imprenditore nella gestione della sua azienda si imbarcherebbe in investimenti che invece di migliorare i bilanci fanno buttare soldi dalla finestra? Da troppo tempo lo spreco di denaro pubblico nel nostro Paese è piuttosto una regola che una eccezione. Ma proprio per combattere questa stortura serve l’analisi costi-benefici. Le scomposte reazioni in atto sono un buon indicatore sia della strumentalizzazione puramente politica della questione TAV sia di quanto sia amara la medicina per curare il consueto andazzo di spreco.
Invece capire che cosa l’ABC realmente dice, rendere chiari i suoi limiti, contestare a ragion veduta gli aspetti contestabili è l’unica condizione capace di fare in modo che essa possa svolgere il suo compito, che è quello di aiutare il decisore politico ad assumere buone decisioni e i cittadini a capire, al di là delle esternazioni strumentali, di cosa realmente si tratta. In tanta confusione il rischio evidente è che tutto il lavoro fatto venga sveltamente buttato via, sepolto per il prevalere di posizioni ideologiche e irresponsabili, tipo quelle che si richiamano alla firma di accordi pregressi. Come se quella firma non fosse responsabilità precisa dei promotori e di precisi governi passati che dovrebbero trovare anche nell’ABC il significato della loro responsabilità.
Oggi, per evidenti interessi elettorali, sembra che la decisione debba essere rimandata a dopo le elezioni europee. Non tutto il male vien per nuocere. Il tempo così disponibile potrebbe permettere di fare della discussione pubblica sull’ABC, i suoi limiti metodologici, le sue assunzioni un contributo realmente democratico alla decisione. Nel caso specifico della Torino-Lione più democratico di qualunque referendum, che allargando il perimetro della consultazione indebolisce il livello di informazione sui problemi e marginalizza le ragioni di vita delle collettività locali interessate a favore delle ragioni di mercato di collettività che usufruiscono solo dei vantaggi.
La discussione pubblica è il migliore strumento per dare adeguate risposte alle domande e per chiarire gli aspetti controversi. Non solo e non tanto ad uso degli addetti ai lavori, ma per mettere i cittadini, e probabilmente anche molti politici, in grado di capire e il Governo in grado di assumere una decisione appropriata all’importanza della questione. Senza voler entrare nel già ben confuso dibattito metodologico, alcune questioni appaiono assolutamente dirimenti.

Questione prima: l’inclusione tra i costi delle minori accise sui carburanti incassate dallo Stato e dei minori pedaggi incassati dai concessionari autostradali
E’ una delle questioni sollevate più di frequente dai critici del lavoro presentato al Ministro Toninelli. E’ vero che l’ABC dovrebbe misurare i guadagni e le perdite per tutti i soggetti coinvolti, dunque anche per lo Stato e per i concessionari. Ma l’inclusione nelle perdite di queste componenti si presta a più di una contestazione e i manuali di ABC forniscono in proposito indicazioni non univoche. In ogni caso la raccolta di accise deriva dalla politica fiscale e come tale può essere opportunamente modificata, mentre le perdite dei concessionari autostradali possono essere considerate un irrilevante effetto collaterale ai fini del benessere della società. Beninteso in una concezione del benessere diversa da quella, esclusivamente economica. misurata dall’ABC. Un benessere da misurare affiancando all’ABC opportune analisi multi-criteri, capaci di dar conto del raggiungimento di obiettivi non solo di carattere trasportistico, ma relativi alla qualità della vita, alle condizioni dell’economia o e alla capacità della distribuzione dei costi e dei benefici di collaborare all’aumento della coesione sociale. Dunque un insieme di metodi di valutazione, comprese le valutazioni dell’impatto ambientale delle opere e del loro processo di realizzazione, di cui l’ABC non dà minimamente conto. In ogni caso i numeri forniti dall’ABC non sembrano lasciare dubbi: con o senza accise e pedaggi i costi superano i benefici e il motivo principale sta nella modesta quantità di traffico ferroviario prevedibile.

Questione seconda: le possibili alternative
La stima di tale traffico è condotta attraverso una convincente critica delle precedenti stime del traffico stradale e del traffico ferroviario e il confronto tra quelle stime e l’andamento reale dei traffici a partire dal 2000. La sovrastima del traffico futuro è praticamente una costante nei progetti infrastrutturali, ma nel caso della Torino-Lione il lungo tempo trascorso ha permesso di verificare l’andamento reale dei traffici. Un andamento così inferiore alle previsioni iniziali da lasciar ben poco spazio a prospettive più rosee.
In questa situazione di oggettiva debolezza dei flussi di traffico correva l’obbligo che l’ABC confrontasse i costi e i benefici delle tre alternative possibili: l’alternativa 0, l’alternativa TAV e l’alternativa costituita dal miglioramento della linea esistente. Una linea che FS e SNCF nel 2002 ritenevano in grado di portare circa 22 milioni di tonn/anno: ovvero più o meno lo stesso traffico ferroviario previsto dal progetto TAV al 2050. Certo anche migliorata la linea esistente avrebbe prestazioni più basse di quelle previste in sede comunitaria per le nuove linee. Ma comunque, tariffando e regolamentando opportunamente traffico stradale e traffico ferroviario, un uso accorto delle linea vecchia consentirebbe di spostare traffico dalla strada alla ferrovia e di indicare, attraverso i reali ritmi di crescita, se e quando una nuova linea dovesse divenire necessaria. E’ appena il caso di ricordare che il traffico di transito svizzero si svolgeva per il 70% per ferrovia anche quando i valichi del Lötschberg e del S.Gottardo avevano prestazioni non tanto diverse da quelle dell’attuale linea Torino Lione.

Questione terza: il problema della rete
Non è ben chiaro quale sia il “perimetro” del progetto valutato nell’ABC: se si valuta la tratta internazionale, se si valuta la tratta internazionale più le due tratte nazionali, se si valuta la tratta internazionale più la sola tratta nazionale italiana.
In ogni caso trattandosi del miglioramento delle prestazioni di un breve tratto si pone il problema delle caratteristiche delle tratte a monte e a valle dell’intervento e il problema della rete che l’intervento dovrebbe potenziare. Infatti che senso ha spendere ingenti risorse per spingere al massimo le prestazioni di un breve tratto se poi gli itinerari che dovrebbero sostenere i nuovi traffici hanno prestazioni nettamente inferiori? Non sanno (o fingono di non sapere), gli incauti politici che si stanno spendendo pro-Tav, che Slovenia e gli altri paesi dell’est fino a Kiev hanno esplicitamente dichiarato la loro indisponibilità ad investire per l’AV? Una delle ragioni di debolezza estrema del progetto Torino-Lione sta proprio nell’assenza di un disegno di rete che ne giustifichi il senso strategico.
Manca drammaticamente, in altre parole, un Piano nazionale dei trasporti, come quelle promesso (ma neppure iniziato) dal ministro Delrio. Un piano capace di definire, anche attraverso valutazioni economiche, le opere prioritarie perché più utili di altre alla qualità della vita dei cittadini e alle esigenze delle imprese produttive. E’ molto probabile che in questo quadro strategico la Torino Lione non si collochi affatto tra le priorità. Per restare nel campo ferroviario per le merci vengono probabilmente prima il potenziamento delle linee di valico verso nord o gli interventi per portare l’Adriatica e la Tirrenica almeno ad un livello di decenza. Oppure. per l’ampiezza della ricaduta sul benessere dei cittadini, vengono prima i servizi ferroviari nelle aree metropolitane, su cui siamo abissalmente in ritardo rispetto ad altri paesi europei
La ripresa della programmazione in fatto di infrastrutture e l’avvio di un vero Piano nazionale dei trasporti, costruito attraverso l’ascolto e la partecipazione attiva delle Regioni e delle collettività interessate, rappresenta la via maestra per dar senso alle cose e per uscire da situazioni di impasse come quella che oggi interessa la Torino Lione. Una situazione conflittuale destinata a ripresentarsi puntuale per tutti i grandi progetti in campo, sistematicamente sganciati da ogni logica di sistema. La discussione pubblica sull’ABC potrebbe consapevolmente divenire il primo passo per l’avvio di un tale nuovo Piano dei trasporti: una concreta prova della serietà del Governo e un evidente vantaggio per il futuro del Paese.

Sintesi del secondo incontro della rete SET sulle dinamiche e l'impatto della turistificazione, che sta causando un vero e proprio «urbanicidio». Urgono azioni concertate tra movimenti sociali e politici che si battono per il diritto alla casa e al lavoro, per la difesa dell’ambiente e dei beni comuni. (i.b)

A Firenze dal 1 al 3 marzo 2019 si è svolto il secondo incontro nazionale della rete S.E.T. (Sud Europa di fronte alla turistificazione), che ha visto la partecipazione dei nodi di Barcellona, Bologna, Genova, Firenze, Napoli, Palermo, Roma e Venezia, con l’obiettivo di costruire azioni comuni per contrastare la turistificazione.

Gli incontri si sono tenuti presso la Facoltà di Architettura, il C.S.A Next Emerson e La Polveriera Spazio Comune e si sono articolati intorno a due temi: “L’abitare e la turistificazione” e “Al Gran Bazar della città neoliberista: nuove infrastrutture e turismo globale”.

Il dibattito ha messo in luce le criticità connesse all’industria turistica rispetto a una molteplicità di temi tra i quali:

1. l’emergenza abitativa – aggravata dall’impatto delle locazioni turistiche, dall’aumento delle strutture ricettive e dagli investimenti dei gruppi finanziari nel mercato immobiliare;

2. l’espropriazione dello spazio pubblico e del patrimonio collettivo – dovuta a politiche di “riqualificazione” e a operazioni “anti degrado” che provocano la mercificazione degli spazi;

3. la vendita di aree e immobili per il recupero di “vuoto urbano” a fini speculativi;

4. la realizzazione di opere infrastrutturali, finalizzate all’incremento dei flussi turistici, che alterano irreversibilmente il territorio, gli ecosistemi e il clima;

5. la complicità delle amministrazioni locali nel facilitare e incentivare i processi di speculazione e turistificazione.

La dinamica della turistificazione sta svuotando le città da chi le abita, causando un vero e proprio urbanicidio. Questo rende necessaria una risposta istituzionale urgente ed efficace, in sinergia con i movimenti sociali e politici per il diritto alla casa e al lavoro, con le lotte in difesa dell’ambiente e dei beni comuni.

La rete S.E.T. ha individuato alcuni obiettivi e strategie di intervento:

· l’organizzazione di assemblee e azioni politiche per la riappropriazione dello spazio pubblico;

· la realizzazione di inchieste in ogni città per smascherare i processi di speculazione in corso;

· l’apertura di vertenze con le istituzioni per spingerle a governare in modo efficace l’industria turistica;

· la sensibilizzazione e responsabilizzazione di vecchi e nuovi abitanti;

· l’allargamento della rete attraverso il coinvolgimento di altre città e di altri soggetti, singoli o organizzati, all’interno di ciascun nodo;

· la collaborazione con giuristi e urbanisti per approfondire gli aspetti tecnici e normativi del fenomeno.

I prossimi appuntamenti della Rete S.E.T.:

Roma, 23 marzo – Marcia per il clima e contro le grandi opere inutili;

Siviglia, 6 aprile – Incontro europeo della Rete S.E.T.;

Berlino, Barcellona, Napoli, 6 aprile – Manifestazione contro la bolla degli affitti;

Napoli, 6 aprile – Incontro con Salvatore Settis “Il diritto alla città al tempo del turismo”, organizzato da SET Napoli e dal laboratorio “Ecologie politiche del presente”;

Maggio (data da definire) – Azione internazionale simultanea contro la vendita delle città.

A Firenze venerdì 1, sabato 2 e domenica 3 marzo 2019 proseguono i lavori della rete SET - Sud Europa di fronte alla turistificazione, con il secondo convegno nazionale, per continuare la lotta contro gli effetti devastanti dell'industria turistica. Qui il programma e riferimenti. (i.b.)

Si legga il manifesto fondativo della rete pubblicato da eddyburg ad Aprile, e i contenuti del primo convegno della Rete su «Città italiane di fronte alla turistificazione».

Per aggiornamenti sul lavoro della rete, temi analizzati, incontri e mobilitazioni si veda la pagina facebook si SET.

PROGRAMMA DEL CONVEGNO

Firenze, 1-3 marzo 2019
Turismo nei territori e nelle città: beni comuni addio?

VENERDÌ 1° MARZO

ore 10.00 sotto la sede della Città Metropolitana in via Cavour, 1
Presidio contro la vendita di Mondeggi Bene Comune

ore 16.00, biglietteria stazione FS Santa Maria Novella
Tour Guidato per tutt*
Firenze NoCost, La prima guida Anti-turistica della città, ci guida dalla stazione alla facoltà di Architettura, in Santa Verdiana.

ore 17.45, piazza de' Ciompi
Performance pubblica

di Underwear Theatre
ore 18.00
Facoltà di Architettura, Piazza Ghiberti 27
18.30-20.00 Aperitivo & DjSet offerto da Ark Kostruendo & Genuino Clandestino
20.00-20.30 "Cara Firenze", lettura di La Botta
21.00-22.30 Presentazione di SET-Sud Europa di fronte alla turistificazione

SABATO 2 MARZO

ore 10.00 CSA Next Emerson, Via di Bellagio 15

10.00-18.00

Tavoli di Discussione e Laboratori Artistici con pranzo organizzato da Genuino Clandestino
TAVOLO 1 – L’abitare e la turistificazione
Le città d’arte italiane “di dolore e ostello … non donna di province ma bordello”
Il quotidiano al servizio dei nuovi tenutari globali: patrimonio storico e rendite monopolistiche, la quotidianità come terreno di estrazione, capitale simbolico e espropriazione dei beni e dei luoghi comuni, città brand e marketing dell'urbano, marginalizzazione e decoro nella città museo.
I nuovi soggetti del conflitto urbano e i possibili livelli di lotta per un modello ecologico, antagonista: difesa e creazione di beni e luoghi comuni, resistenze dello spazio pubblico, evoluzione e riappropriazione delle culture locali, forme di narrazione di un'urbanità liberata.

TAVOLO 2 – La dimensione territoriale
Al Gran Bazar della città neoliberista: nuove infrastrutture e turismo globale
Logistica e infrastrutture come effetto o causa della monocoltura turistica, espulsione e pendolarismo di lavoratori e abitanti nel parco a tema, impatto ambientale dell'industria turistica, land grabbing e appropriazioni speculative, paesaggio da bene comune a merce, il territorio al servizio della turistificazione.
Pratiche di resistenza e riappropriazione: lotta alle grandi e meno grandi opere, prospettive ecologiche, uso civico e collettivo dei beni e dei luoghi non alienabili, ricostruzione di paesaggi e narrazioni nel territorio urbanizzato.

LABORATORIO 1 - Storia, strategie e tattiche per destabilizzare il Nuovo Ordine Urbano con Ex-Voto fecit.
L’obiettivo del laboratorio è fornire ai partecipanti una conoscenza base sulle forme e le pratiche di resistenza creativa.

LABORATORIO 2 - Maschere per la città
Laboratorio Aperto e Creativo per preparare i manufatti, le azioni e le immaginazioni necessari al carnevale delle autogestioni con RibellArti e Míles Eri

DOMENICA 3 MARZO

ore 10.00 La Polveriera Spazio Comune, Via Santa Reparata 12

10.00-13.00 Finalizzazione dei preparativi per il Carnevale delle Autogestioni

14.30-18.30 Carnevale delle Autogestioni
Azioni e interventi in difesa dei Beni e dei Luoghi Comuni
Beni comuni e patrimonio storico: contro lo sgombero della Polveriera Spazio Comune e di Mondeggi- Fattoria senza padroni.
Azioni conclusive dei laboratori, portare SET nello spazio pubblico.

Un analisi della TAV, delle politiche nazionali dei trasporti, delle posizioni comunitarie e il paragone con la Svizzera. Infine considerazioni su come affrontare trasporti e infrastrutture per non continuare a mettere in campo grandi opere inutili. (i.b.)

Nel 1983, scrivendo su Casabella, Guglielmo Zambrini intitolava Buchi nei conti, buchi nei tubi, buchi nei monti un suo famoso articolo in cui commentava lo stretto legame tra le politiche di rilancio di grandi infrastrutture (allora autostradali) e la formazione dell’ ”altro disavanzo”, incorporato nel patrimonio nazionale naturale e costruito. Un disavanzo sommerso, fatto di abusivismo, mancanza di manutenzione, ammaloramento degli acquedotti, distruzione di risorse agricole: un quadro non tanto diverso da quello attuale.

Se questo è lo sfondo, queste note nascono dal desiderio di riprendere le fila sulla questione TAV alla luce del dibattito attuale e delle trasformazioni che hanno segnato i trent’anni che ormai ci separano dall’inizio della vicenda, intorno al 1990. Le osservazioni che seguono a proposito della TAV derivano principalmente da documenti ufficiali: un primo luogo i recentissimi Verifica del modello di esercizio (2017) e Quaderno n. 11 dell’Osservatorio (2018). Ma derivano anche dalla considerazione, per quanto possibile oggettiva, delle politiche nazionali in materia di trasporti, delle posizioni comunitarie e dell’esperienza di altri paesi, come la Svizzera o l’Austria e la Germania che hanno intrapreso una concreta politica ferroviaria molto prima e molto più efficacemente dell’Italia.

Tutti questi documenti, e in particolare quelli specificamente dedicati alla TAV elaborati dall’Osservatorio, contengono una ampia raccolta di numeri sulle dinamiche del traffico merci attraverso le Alpi (rilevazioni, fonti statistiche diverse puntualmente indicate, ecc). Se la serietà della raccolta non è in discussione merita invece di essere discussa l’interpretazione che ne viene data. La tesi di fondo dei documenti TAV, semplificando molto, suona pressappoco così: negli anni 2000 gli oppositori alla nuova linea potevano avere qualche ragione; oggi, vent’anni dopo, alla luce della crescita del traffico merci, dell’innovazione tecnologica e del consolidamento delle politiche europee a favore della ferrovia, la Torino-Lione è l’indispensabile tassello di una nuova grande rete europea capace di reggere con successo la concorrenza del trasporto stradale. Con tutti i vantaggi ambientali, sociali ed economici che ne derivano.

Sarebbe bello condividere una tale tesi ed entusiasmarsi per le novità politiche e tecniche che essa sottende. Ma una più attenta lettura dell’opera e del suo contesto mette in luce il peso delle molte incongruenze e delle molte questioni non risolte, compresa la ben collaudata (e mai smentita) subordinazione della politica nazionale dei trasporti ad interessi stradali e autostradali oggettivamente contrari a questa prospettiva. Tutti fattori che, allo stato delle cose, portano a considerare marginale la realizzazione dell’opera ai fini dell’obiettivo dichiarato e altissima la probabilità che l’ingente impegno di risorse e il danno ai territori interessati si risolva nell’ennesimo episodio di cattiva politica e dilapidazione di risorse pubbliche. A meno di un cambio profondissimo nella politica nazionale dei trasporti, di cui oggi non si vedono le condizioni.

La linea Torino Lione: lo stato delle cose

Il Quaderno n. 11 dell’Osservatorio fornisce un quadro drammatico della linea esistente e del suo funzionamento. Non solo il traffico non ha cessato di diminuire nel tempo, ma sono diminuiti prestazioni e tempi di percorrenza. Oggi la capacità della linea per le merci è stimata essere di 38 treni merci/giorno. E comunque neppure tutti tali treni vengono in realtà effettuati, così che la linea porta, con non pochi problemi di costo e di sicurezza, circa 3 milioni di tonn/anno: una quantità ridicola.

Per quelli che hanno seguito la vicenda dal suo inizio questa descrizione solleva un mix di stupore e di indignazione. Nel 2000, sotto la spinta del conflitto territoriale e sociale ormai evidente, le due compagnie ferroviarie (SNCF e FS) avevano prodotto un rilevante studio tecnico di “modernizzazione” della linea, con il quale dimostravano che attraverso fattibili modifiche di sagoma, il potenziamento dell’alimentazione elettrica, miglioramenti del segnalamento, l’adozione di motrici bicorrente, e altre misure tecniche e organizzative la linea era in grado di portare 150 treni merci/giorno pari a 20-21 milioni di tonn/anno. Ovvero il doppio del traffico di merci registrato in quegli anni, pari a poco meno di 10 milioni di tonn/anno. Certo non ad alta velocità, ma comunque a velocità più che accettabili se solo si considera che la velocità media dei treni merci si aggirava allora intorno ai 16 km/h. Proprio da quello studio “ufficiale” nasceva la ragionevole posizione del Governo italiano: la nuova linea si farà “quando la linea esistente mostrerà segni di saturazione”. Che, detto in altre parole, significava: “quando una profonda riforma della politica italiana dei trasporti a favore del riequilibrio modale comincerà a dare i suoi frutti e a dimostrare la necessità dell’opera”.

Ma quando si tratta di spesa pubblica la ragionevolezza non è di casa. Delle riforme necessarie ad una politica di riequilibrio modale nel trasporto merci non c’è traccia. Mentre proseguiva con terze corsie e nuove tratte, spesso sovvenzionate con risorse pubbliche, l’aumento della capacità autostradale, gli investimenti sulla ferrovia, concentrati esclusivamente sull’alta velocità per i passeggeri, confinavano le merci sulle linee storiche, in una difficile convivenza con i servizi per i pendolari e con i problemi ambientali degli attraversamenti urbani. In questo quadro invece di tendere ai 20 milioni di tonn/anno, gli interventi sulla linea esistente, disomogenei tra la parte italiana e la parte francese, discontinui e incerti nel tempo e nei risultati, hanno prodotto il paradossale risultato di ridurre il traffico ai 3 milioni di tonn/anno prima ricordati. Togliere di mezzo l’unica concreta possibile alternativa è stato certo un bel regalo ai promotori della linea nuova. Anche senza dietrologia varrebbe la pena di inviare la storia degli interventi di “miglioramento” della linea esistente alla Corte dei Conti e alla Magistratura.

Senza dimenticare che l’autostrada del Frejus tra Torino e la Francia, che attraversa la Val di Susa, è stata oggetto di un potenziamento: nato e progettato come una galleria di servizio per aumentare la sicurezza in caso di incidente, si è poi trasformato nel 2012, con specifica autorizzazione della Commissione Intergovernativa Italia-Francia, in una seconda canna dedicata alla circolazione dei veicoli. In questo modo si è trasformato in un incremento reale di capacità di transito per l’autotrasporto e i veicoli passeggeri, senza che nessun contingentamento sia stato deciso per i TIR o sia stata introdotta una tassa di transito modello svizzero per contenere il trasporto su strada, come richiederebbe anche la Convenzione di protezione delle Alpi recepita anche dal nostro paese. Ed è paradossale che siano le stesse forze politiche, imprese ed associazioni di categoria che vanno in piazza a Torino per il Sì-TAV, che si oppongono con decisione ad ogni politica di disincentivo del trasporto stradale, arrivando a contestare le scelte di Austria e Svizzera sui valichi. Contingentamento e tassazione che certo farebbero crescere il traffico ferroviario tra Italia e Francia.

Tutto cambia, tranne la sezione internazionale

Fatto sta che l’inadeguatezza della linea vecchia è oggi uno dei punti di forza dei promotori della linea nuova che dovrà, ovviamente, rispondere ai più attuali criteri di geometria e di prestazione e comportare, ovviamente, elevati costi di costruzione. Negli ultimi dieci anni il progetto è stato oggetto di numerose proposte di modifica, riprese in modo organico nella Revisione Progettuale del 2017 condotta dal MIT nell’ambito della revisione dei progetti inseriti nella Legge Obiettivo. Il sito del Ministero dei trasporti così descrive i risultati della revisione progettuale:

«I costi sono scesi da 9 miliardi di euro del progetto originale a 4,5 miliardi del nuovo scenario. La project review portata avanti dalla Struttura Tecnica di Missione del Ministero, dall’Osservatorio sulla Torino Lione, cui partecipano Sindaci, Governo ed esecutori dell’opera, ha scelto di revisionare il tracciato della Torino-Lione, riducendo i tratti di nuova linea da 82 a 32 chilometri, cancellando quindi 50 chilometri di nuova linea grazie alla scelta di utilizzare in gran parte la linea storica………. Gli interventi previsti garantiranno comunque il transito di 180 treni al giorno, di cui 162 merci e 18 passeggeri, per un totale di 25 milioni di tonnellate trasportabili l’anno e 3 milioni di passeggeri.»

Dunque la sezione internazionale non si tocca, e il problema si sposta sulla capacità della linea storica di sopportare i nuovi carichi. Secondo il rapporto di Verifica, redatto nel 2017 e destinato al Governo Gentiloni, quasi dovunque i previsti interventi di allungamento dei moduli stazione, l’aumento dei carichi per asse, il potenziamento dell’alimentazione elettrica e la modernizzazione del segnalamento mettono in grado la linea di sopportare le soglie di traffico indicate. Colpisce, in questa descrizione, la mancanza di qualunque cenno al problema degli attraversamenti dei centri, soprattutto nel tratto tra Bussoleno e Avigliana, dove gli impatti della cantierizzazione, i livelli di rumore a regime e i rischi connessi al trasporto di merci pericolose non miglioreranno certo la convivenza con gli abitanti.

Il rapporto Verifica del modello di esercizio presenta in termini descrittivi le tappe di questa evoluzione e la cosiddetta “fasizzazione” ovvero la definizione delle opere da realizzare nella Fase 1-2030. Nella figura seguente è rappresentato il contenuto di questa prima fase. Altre opere, come la gronda merci di Torino,o il tunnel dell’Orsiera tra Susa e la Chiusa di S. Michele, sono rimandate a dopo il 2035 e comunque solo se la saturazione delle linee in esercizio le renderà necessarie. Il rapporto Verifica del modello di esercizio è un documento consapevole, dal punto di vista tecnico, che la realizzazione della Torino Lione ha senso solo in una prospettiva di potenziamento della rete ferroviaria destinata alle merci e indica una serie di interventi di potenziamento, adeguamento, raccordo con le altre linee in fase di realizzazione, in primo luogo il Terzo valico dei Giovi e da lì il collegamento con la portualità genovese.

Il rapporto racconta che tali opere sono state inserite nel Contratto di programma 2017- 2021 tra il MIT e RFI. Tuttavia occorre ricordare che il Governo Gentiloni non ha presentato la proposta di Contratto di programma alle Commissioni parlamentari prima della scadenza della legislatura. Così che lo schema originario è stato rivisto dalle nuove Commissioni, ancora non è stato sottoposto alla approvazione del CIPE e ancora non è stato emanato il Decreto di approvazione.

Ciononostante alcuni fatti sono fin d’ora molto chiari: sono cadute sostanzialmente nel vuoto le raccomandazioni del CIPE e dell’Antitrust perché il nuovo Contratto di programma 2017-2021 rispondesse alle regole fissate dal Codice dei contratti pubblici. Regole che prevedono una forte ripresa della programmazione dei trasporti attraverso due strumenti chiave: il Piano Generale dei trasporti e della logistica (PGTL) con orizzonte almeno decennale e il Documento Poliennale di Pianificazione (DPP) , che deve contenere, in coerenza con il PGTL, gli interventi relativi al settore dei trasporti e della logistica la cui progettazione di fattibilità è valutata meritevole di finanziamento.
Nel 2016 il documento strategico Connettere l’Italia indicava gli orientamenti da seguire per il nuovo PGTL, ma oggi il Piano vero e proprio non è stato neppure avviato, e nessun DPP che dovrebbe contenere la revisione delle opere in Legge Obiettivo è stato approvato. Il Contratto di programma 2017-2021 dichiara che la prospettiva decennale di investimenti ferroviari è stata elaborata da RFI piuttosto che dal MIT: cosa che costituisce una sconcertante inversione dei ruoli. Infine la discussione nelle Commissioni parlamentari non fa neppur cenno alla necessità di riprendere la programmazione e sembra piuttosto ricalcare un vecchio schema ben consolidato nella tradizione italiana: la rivendicazione puntuale di opere di interesse di questo o quel territorio sponsorizzate da questo o quel parlamentare. Insomma: si naviga a vista. Come stupirsi della fragilità delle decisioni e come aver fiducia nella esistenza di una strategia di rete capace di dar senso anche alla Torino Lione?

Pensare per reti, non per corridoi

Il Quaderno n. 11 dell’Osservatorio traccia il quadro dei valichi ferroviari di tutto l’arco alpino e sottolinea che i valichi ferroviari dell’arco alpino di ovest, quelli che interessano il confine italo-francese, sono caratterizzati da una quota modale della ferrovia nettamente inferiore a quella dei valichi dell’area centrale e dell’ala est. La differenza è davvero molto rilevante.

Nella figura seguente, tratta dal Quaderno n.11 se ne dà una efficace rappresentazione.

La ferrovia copre meno dell’8% nei valichi tra Francia e Italia, mentre copre quasi il 30% nei valichi tra Austria e Italia che servono i traffici scambiati con la Germania e il nord Europa. Per tacer della Svizzera dove la quota ferroviaria del traffico di attraversamento alpino oscilla intorno al 70%. Secondo il Quaderno questo squilibrio sarebbe dovuto proprio alla mancanza di una efficiente infrastruttura ferroviaria di valico in grado di accogliere la domanda crescente. Dunque basterebbe costruire la nuova infrastruttura per rispondere ad una domanda che c’è e che solo la mancanza di una infrastruttura adeguata costringe all’uso della strada. La ricetta è accattivante, ma non realistica. Con evidenza infatti la differenza sostanziale è spiegata non tanto dalle prestazioni delle linee di valico quanto dal ruolo e dall’efficienza della ferrovia nel sistema dei trasporti dei paesi di origine e destinazione degli scambi.

Una modernissima linea di valico che si innesta su una rete ferroviaria nazionale inadeguata per il trasporto delle merci, con vincoli di peso, di sagoma, di lunghezza dei convogli, con problemi ambientali e di sicurezza, con terminali inefficienti ha un solo effettivo risultato: i mezzi stradali e i semirimorchi che, anche grazie a sostanziosi incentivi, attraversano le Alpi caricati sulla ferrovia trovano conveniente scendere quanto prima dalla ferrovia medesima e completare il viaggio via strada, mentre containers e merci pregiate scelgono direttamente il tutto strada. Tanto più se in quel paese la rete autostradale è invece assai sviluppata e il suo uso per il trasporto merci incentivato in vario modo, compresa la restituzione agli autotrasportatori di gran parte dei pedaggi autostradali. Come in Italia.

Il ruolo della ferrovia è una componente essenziale del’intero sistema dei trasporti e si gioca in primo luogo sui traffici interni. Basta dare un’occhiata alle statistiche di Eurostat sulla ripartizione modale del traffico merci dei paesi membri. Nella figura, tratta dall’edizione 2018 del rapporto annuale Energy, transport ad environment indicators, è rappresentata la ripartizione modale percentuale, misurata in tonn-km, del traffico interno paese per paese. E’ evidente che i paesi che dovrebbero alimentare il flusso di merci ferroviarie sulla Torino-Lione, ovvero Francia, Spagna e Portogallo sono anche quelli nei quali la ferrovia svolge un ruolo minore: 11% in Francia, 5,3% in Spagna, 14,5% in Portogallo, come del resto in Italia [1]. Contro il 31,5% dell’Austria e il 19% della Germania. I traffici internazionali, pur essendo le distanze più lunghe più favorevoli al trasporto ferroviario, sono solo l’altra complementare componente di un medesimo sistema dei trasporti: modesta la prima modesta la seconda.

La lezione della Svizzera

Come si è visto i valichi svizzeri sono l’unico caso dell’arco alpino dove la ferrovia, con una quota modale intorno al 70%, vince alla grande la concorrenza con il trasporto stradale. Vale la pena di riprendere sinteticamente le ragioni di tanto successo e soprattutto di trarre dall’esperienza svizzera indicazioni utili anche per la Torino-Lione.

La storia svizzera di potenziamento della ferrovia, che si è svolta in contemporanea con la vicenda dell’Alta Velocità italiana, ha seguito una impostazione politica e ha dato risultati del tutto diversi. Anche in Svizzera, come in Italia, il modello francese di innovazione aperto dall’Alta Velocità Parigi-Lione aveva portato alla proposta di un attraversamento “forte” AV est-ovest tra Berna, Olten e Zurigo: la Neue Haupt Transversale (NHT). Tale progetto, anche a seguito di accese contestazioni territoriali, fu modificato sostanzialmente a favore di Bahn 2000, un progetto per il traffico passeggeri basato su criteri di equi-accessibilità, approvato attraverso referendum nel 1982. Bahn 2000 è la copertura dell’intero paese con uno schema di rete che permette un orario cadenzato, nel quale le città, a seconda dell’importanza, sono collegate con tempi dell’ordine dell’ora o della mezzora. I treni arrivano contemporaneamente ai nodi stazione poco prima dell’ora (o della mezz’ora) e ne ripartono, sempre contemporaneamente, poco dopo. Il sistema rende l’interscambio tra le diverse linee facile e senza perdite di tempo, assicura un omogeneo ed elevato livello di servizio a tutto il territorio svizzero, e produce un effetto di equa copertura territoriale, opposto al prevedibile effetto della linea veloce. Questa avrebbe sì velocizzato una relazione importante, ma avrebbe al tempo stesso reso periferiche tutte le altre. Come è successo per l’AV italiana.

Occorre notare che la Svizzera non rinunciava affatto a puntali interventi di Alta Velocità: da realizzare solo dove fossero stati necessari a garantire il cadenzamento all’ora o alla mezz’ora. Bahn 2000 inoltre era accompagnato dalla piena integrazione del servizio ferroviario con i servizi di trasporto pubblico urbani ed extraurbani, anch’essi convergenti all’ora o alla mezzora nei nodi stazione. I numerosissimi interventi di miglioramento della rete ai fini del cadenzamento fornivano contemporaneamente nuova capacità, sulle stesse linee, per il trasporto ferroviario delle merci, senza alcuna separazione tra i due servizi. La ferrovia diveniva così l’asse portante dell’intero sistema dei trasporti. Esattamente il contrario di quanto avvenuto in Italia dove il rilevantissimo investimento ferroviario per le linee alta velocità per i passeggeri ha di fatto estromesso da quelle linee il trasporto delle merci, confinandolo all’uso delle linee storiche, alla problematica convivenza con i servizi pendolari e metropolitani e con i problemi ambientali e di sicurezza degli attraversamenti urbani.

In Svizzera l’idea dell’attraversamento veloce, questa volta in direzione nord-sud, è stata ripresa negli anni ’90 con il progetto Alptransit, incluso nei complessi negoziati con la Comunità europea interessata ad aprire il percorso stradale svizzero ai mezzi pesanti, fino a quel momento esclusi per via del limite di peso dei veicoli merci a 28 tonn. Un tale limite scaricava oggettivamente sui valichi ad est e ad ovest della Svizzera gran parte del traffico pesante, con allungamenti di percorso e aumento dei costi. A seguito delle trattative la Svizzera, in varie fasi, ha accettato di portare a 40 tonn il peso dei veicoli stradali ammessi sulla rete nazionale, ma insieme ha imposto una pesante tassa sul loro passaggio. La TTPCP, ovvero la tassa commisurata alle prestazioni, è uno strumento di regolazione del mercato ma al tempo stesso è uno strumento di internalizzazione dei costi ambientali esternalizzati. Il suo livello è stabilito in base al peso dei veicoli, ai km percorsi in territorio svizzero e alle prestazioni ambientali (inquinamento e rumore) dei veicoli stessi.

Le motivazioni ambientali hanno avuto un grandissimo peso nel determinare le politiche di trasferimento del traffico stradale alla ferrovia. Il trasferimento è stabilito dalla Costituzione svizzera nell’ambito delle politiche per la protezione delle Alpi e deve raggiungere l’obiettivo vincolante di ridurre a 650.000 i transiti di mezzi pesanti ai valichi svizzeri. Se si considera che solo nel 2016 si è raggiunto l’obiettivo di ridurre tali transiti a meno di 1 milione (obiettivo che doveva essere raggiunto già dal 2011) si ha la misura della difficoltà del compito. La morfologia montagnosa rende l’intero territorio svizzero particolarmente vulnerabile all’inquinamento e al rumore del traffico stradale pesante: come fosse una grandissima Val di Susa. Da qui l’attenzione e l’importanza delle politiche ambientali.

Ai fini delle indicazioni per il caso italiano occorre osservare la sequenza dei tempi. La legge sul trasferimento del traffico dalla strada alla ferrovia risale al 1999 e la tassa commisurata alle prestazioni è applicata dal 2001, con tariffe gradualmente crescenti negli anni. A queste misure sono associate misure di sostegno agli operatori per il trasporto combinato, compresa la strada viaggiante, e per il potenziamento dei terminali. La liberalizzazione degli accessi alla rete (1999) ha consentito, soprattutto sull’asse nord-sud, l’entrata in gioco di una pluralità di imprese ferroviarie tra loro in concorrenza, capaci di rispondere efficacemente alle esigenze della domanda. Tutto questo è stato concretamente avviato ben prima della realizzazione delle nuove gallerie di base. La Svizzera, in altre parole, non ha aspettato la realizzazione di nuove infrastrutture per far politica di trasferimento del trasporto merci, ma al contrario ha messo in atto efficaci politiche di trasferimento che hanno giustificato nel tempo il potenziamento delle infrastrutture ferroviarie. Per la Torino Lione è una indicazione importante: non è l’infrastruttura che genera il trasferimento, ma sono le politiche per il trasferimento che rendono necessaria l’infrastruttura

I risultati svizzeri sono davvero apprezzabili sia sul lato ferroviario che sul lato stradale: la tassa ha incentivato la modernizzazione del parco di veicoli stradali pesanti e ha ridotto il numero dei loro transiti ai valichi. Le risorse finanziarie provenienti da quella tassa hanno sostenuto potentemente (circa il 55%) la nuova ondata di massicci investimenti ferroviari del progetto Alptransit, che comprende il potenziamento di due fondamentali valichi alpini. la nuova galleria di base del Lötschberg (circa 34,6 km entrata in esercizio sia pure parzialmente nel 2007), la nuova galleria di base del S. Gottardo (57 km, entrata in esercizio nel 2016) seguita poi, lungo l’itinerario veloce, dal nuovo tunnel del Ceneri e dal cosiddetto “corridoio di 4 metri” per il passaggio del trasporto combinato (semirimorchi) di cui era prevista l’ultimazione nel 2020, ma che probabilmente verrà ritardata di qualche anno. Su versante italiano di ingresso all’itinerario veloce non sono ancora stati completati gli interventi di adeguamento dei due itinerari previsti: via Chiasso e via Luino, che pure godono di un co-finanziamento svizzero. Sono lavori che avrebbero meritato un più solerte interessamento italiano, data la rilevanza, anche per l’Italia, del nuovo asse inter-europeo nord-sud.

Occorre notare bene che le nuove infrastrutture svizzere ad alta velocità, compresa la nuovissima galleria di base del S. Gottardo, anche grazie alle pendenze minime (8 per mille in galleria e 12,5 per mille nei tratti all’aperto) fanno correre sullo stesso binario treni merci lunghi e pesanti e treni passeggeri veloci, con un (previsto) modello di esercizio che inserisce un treno passeggeri ogni tre treni merci. Oggi la convivenza è ottenuta riducendo a 200 km/h la velocità dei treni passeggeri, alzando a 120 km/h la velocità dei treni merci e risolvendo adeguatamente i problemi della manutenzione giornaliera. Una bella differenza con la situazione italiana, dove le nuove linee ad Alta velocità, nonostante siano state ribattezzate linee ad Alta Capacità, non portano treni merci ne di giorno ne di notte perché, secondo RFI, danneggerebbero la geometria dei binari e ostacolerebbero la manutenzione notturna. E’ ben vero che oggi qualcosa si muove anche in Italia e che il polo di aziende del gruppo FS Mercitalia [2] si appresta a trasformare qualche ETR 500 in treno merci, ri-organizzando gli spazi interni e facendo viaggiare i treni di notte sulle linee AV. Il trasporto veloce di merci leggere, come dimostra il recente contratto con Amazon, rappresenta un’area interessante di mercato. Tuttavia siamo ancora molto distanti dall’esperienza svizzera.

Il vero scoglio: la mancanza di una programmazione di sistema

Al di la delle oscillazioni delle quantità di traffico da un anno all’altro, ormai molto contenute, se solo si guarda al lungo periodo non è difficile riconoscere una sostanziale stabilizzazione del volume degli scambi merci tra i paesi europei. E’ un fenomeno. che riguarda l’intera Europa. Un interessante rapporto della Corte dei Conti Europea [3] sulla situazione delle ferrovie osserva:

« Negli ultimi anni, il volume di trasporto interno delle merci nell’UE (su strada, rotaia e per vie navigabili interne) si è stabilizzato a circa 2 300 miliardi di tonnellate-chilometro all’anno, di cui il trasporto su strada rappresenta approssimativamente il 75 % del totale».
Negli ultimi anni, il volume di trasporto interno delle merci nell’UE (su strada, rotaia e per vie navigabili interne) si è stabilizzato a circa 2 300 miliardi di tonnellate-chilometro all’anno, di cui il trasporto su strada rappresenta approssimativamente il 75 % del totale.

La tendenziale stabilizzazione delle quantità scambiate è un fatto importante e costituisce un riferimento fondamentale per tutte le politiche infrastrutturali, compresa la Torino-Lione Se le quantità variano solo marginalmente, cambia invece il valore della merce trasportata, che cresce più delle tonnellate trasportate. E’ lecito pensare che le tradizionali merci ferroviare (povere e pesanti) stiano lasciando il posto a merci più leggere, di maggior valore e dunque probabilmente con richiesta di prestazioni più elevate non tanto in termini di carichi per asse o moduli di stazione quanto in termini di accessibilità, velocità, sagoma limite e facilità di integrazione con il modo stradale, cui spetta comunque di far fronte all’”ultimo miglio”.

In questo contesto le nuove infrastrutture non rispondono tanto alla crescita della domanda quanto a strategie di competizione tra i mezzi (stradali, ferroviari, marittimi, ecc.), tra i valichi, tra gli operatori, tra i terminali. Il ruolo dello Stato e della spesa pubblica chiamata a sostenere gli investimenti infrastrutturali non può essere quello di favorire questo o quell’operatore, questa o quella cordata di interessi finanziari e imprenditoriali. Lo Stato deve costruire la sua razionalità su una visione strategica e democraticamente stabilita degli interessi del paese, da cui far discendere le politiche, le misure e gli investimenti infrastrutturali necessari a raggiungere obiettivi condivisi di equità territoriale, di benessere sociale, di qualità ambientale oltre che di sviluppo economico. Occorrono in altre parole, decisioni solide, attendibili, lungimiranti, valutate in modo trasparente sia dal punto di vista economico che dal punto di vista della sostenibilità ambientale. Tutti requisiti che solo strumenti di programmazione ben costruiti e condivisi possono assicurare.

La capacità di costruire decisioni di questo tipo è proprio quello che nel nostro paese manca da moltissimi anni. E appena il caso di ricordare che il vigente Piano Generale dei trasporti e della Logistica, che risale 2001, teorizzava una ampia serie di riforme, molte delle quali intese a contrastare i monopoli e ad introdurre fattori di concorrenza, il rilancio della ferrovia e un serio riequilibrio modale.

Nessuna di quelle previsioni ha avuto la realizzazione sperata. Anzi nel lunghissimo periodo tra il 2001 e il 2016 la politica infrastrutturale è stata governata dalla Legge Obiettivo, voluta dal Governo Berlusconi, ma poi mantenuta dal Governo Renzi fino alla sua abolizione con il nuovo codice degli appalti del 2016. La Legge Obiettivo doveva semplificare e velocizzare con procedure “speditive” un limitato numero di opere strategiche “in attesa” da molto tempo. Si è tradotta invece in un incredibile carrozzone dove le opere strategiche, per la gran parte stradali e autostradali, sono diventare oltre 400, i finanziamenti ovviamente non ci sono o derivano da improbabili proposte di finanza di progetto, i tempi sono incerti e soprattutto l’insieme delle opere non segue alcun disegno strategico di livello nazionale e non è accompagnata da nessuna seria valutazione dei costi e dei benefici degli interventi.

Di fronte al dissesto istituzionale e operativo generato dalla Legge Obiettivo e sotto minaccia da parte della Comunità di non assegnare i fondi strutturali in assenza di un Piano approvato e valutato nei suoi aspetti funzionali, economici ed ambientali, il Ministro Delrio, meritoriamente, aveva avviato una ripresa della Pianificazione, a cominciare dalla (difficile) revisione delle opere comprese nella legge Obiettivo. Il Ministro aveva promesso l’elaborazione di un nuovo Piano generale dei trasporti, anticipandone gli orientamenti attraverso l’interessante documento “Connettere l’Italia” nel quale si illustrano le quattro strategie di fondo (figura successiva) su cui deve poggiare una nuova concezione integrata del sistema nazionale dei trasporti capace di superare le inefficienze, gli sprechi, la scarsa trasparenza e l’ostilità sociale endemica verso interventi infrastrutturali decisi fuori da regole di partecipazione e democrazia.

Oggi, come si è detto, del promesso Piano Generale dei Trasporti e della Logistica non si hanno più notizie, mentre il nuovo Governo torna ad occuparsi di infrastrutture caso per caso, al di fuori di ogni logica di sistema. Proprio questa mancanza totale di strategia confina la questione Torino-Lione alla alternativa se fare o non fare il nuovo tunnel: una impostazione ben riduttiva del problema, che a mio avviso nessuna analisi costi-benefici, pure importantissima per decidere bene, può migliorare.

Per uscire dall’impasse: riprendere a pianificare

Oggi la decisione sulla Torino Lione sembra dipendere dal responso dell’analisi costi-benefici e i sostenitori della nuova linea organizzano manifestazioni di piazza dopo aver contestato il gruppo di tecnici, guidato da Marco Ponti, incaricato di elaborare l’analisi. Non si conosce ancora il testo del Rapporto consegnato al Ministro dei trasporti. Ma alcune cose si possono dire fin d’ora. Molti atteggiamenti di critica si motivano solo con la diffusa, e talvolta strumentale, ignoranza sul significato e sul ruolo dell’analisi costi-benefici. Che non è affatto una decisione, ma un oggettivo quadro di informazioni che deve essere ben conosciuto e ben tenuto in conto dal decisore e deve essere ben conosciuto anche dalla popolazione che deve poter conoscere e valutare politicamente le motivazioni, ovviamente non solo economiche, della decisione. Il decisore è sempre politico e, alla luce delle stime dei costi, dei benefici e della loro distribuzione deve assumere le responsabilità della sua decisione, utilizzando proprio i risultati dell’analisi non solo per decidere se fare o non fare, ma per scegliere, ove opportuno, le alternative più favorevoli, per evitare i costi evitabili e riprogettare gli elementi più critici, per ri-calibrare vantaggi e svantaggi dei soggetti coinvolti. Ovvero per elaborare quelle politiche di contesto necessarie, se si vuole, a far fronte alle criticità individuate e a riportare la decisione nella sua giusta prospettiva, che non è l’espressione delle piazze, o comunque non solo l’espressione delle piazze, ma la responsabilità politica di governo dell’intero paese.

Una delle ragioni che impediscono oggi di considerare la Torino Lione un intervento utile e necessario per gli interessi del paese sta proprio nella mancanza di un solido e condiviso disegno di Piano del sistema dei trasporti e del servizio offerto al paese, che dia ragionevole certezza sulle prospettive, sui risultati, sulla permanenza nel tempo, sulle cose da fare e sulla loro fattibilità. Un Piano destinato a ri-posizionare in un quadro di interesse generale le proposte infrastrutturali sul tappeto, compresa la Torino-Lione. Per uscire dal vicolo cieco che accomuna oggi la Torino Lione a molte altre grandi infrastrutture in un quadro di endemica contestazione occorre:

1. Riprendere a Pianificare. Che significa governare l’intero sistema dei trasporti: agendo in maniera integrata e coerente sul comparto stradale e sul comparto ferroviario, sulle misure infrastrutturali e sulle misure regolamentari, sui trasporti per i passeggeri e quelli per le merci, sulle lunghe distanze, compresa la dimensione europea, e sui trasporti metropolitani e locali, ragionando in termini di rete piuttosto che di corridoio. Non è un compito facile; comporta una revisione coraggiosa delle opere in Legge obiettivo e riforme attese da anni, come la riforma delle concessionarie autostradali. Gli obiettivi da raggiungere con il nuovo PGTL e gli interventi necessari devono essere decisi dallo Stato con la partecipazione attiva delle Regioni e delle popolazioni interessate, utilizzando in modo trasparente e scientificamente appropriato gli strumenti di valutazione economica e ambientale, e lo strumento del Dibattito Pubblico. Il raggiungimento degli obiettivi deve essere adeguatamente monitorato nel tempo e il monitoraggio deve guidare la concreta attuazione delle strategie. La fattibilità e la realizzazione di qualunque nuova infrastruttura dovrà essere condizionata al raggiungimento degli obiettivi del nuovo Piano.

2. Mettere mano ad un vero Piano di trasferimento modale per il trasporto merci sul modello svizzero, integrando politiche per il trasporto stradale, la ferrovia, il trasporto marittimo, i terminali e le altre attrezzature per la logistica Non solo dal punto di vista delle infrastrutture ma delle regole per il governo della domanda e del sistema di incentivi/disincentivi, come la tassa commisurata alle prestazioni. Portare a coerenza le politiche di riequilibrio modale anche riformando, ove necessario, le logiche, oggi strettamente “aziendali”, dei promotori e dei gestori delle infrastrutture, in primo luogo quelle stradali e ferroviarie.

3. Decidere sul Piano dei trasporti e sugli interventi infrastrutturali e normativi che ne dovranno seguire solo dopo aver valutato in modo trasparente e partecipato costi e benefici, l’equità sociale della loro distribuzione tra i diversi territori e i diversi soggetti e aver assicurato, attraverso la Valutazione Ambientale Strategica e la VIA, la capacità del Piano e degli interventi previsti di raggiungere gli obiettivi ambientali sottoscritti con gli accordi nazionali e internazionali in materia di riduzione delle emissioni di CO2. di riduzione dell’inquinamento, di protezione della salute umana, di garanzia del buon funzionamento gli ecosistemi e di tutela della biodiversità.

4. Dibattere in modo pubblico e trasparente l’analisi costi-benefici che sarà presentata dal MIT sulla Torino-Lione, come non sta avvenendo sul Terzo Valico Milano-Genova. Ragionare sul metodo utilizzato, sui numeri, sugli scenari di traffico e l’evoluzione della domanda, sui costi, confrontando le alternative, verificando il contesto strategico e gli obiettivi generali. Al fine di coinvolgere cittadini e associazioni nel processo di partecipazione e mettere le istituzioni e i decisori nelle condizioni di assumere una scelta ponderata e trasparente.

Note

[1] Il Polo Mercitalia è composto da sette società. Mercitalia Logistics, Mercitalia Rail, Gruppo TX Logistik, Mercitalia Intermodal, Mercitalia Transport & Services, Mercitalia Shunting &Terminal e TERALP (Terminal AlpTransit).

[2] Cfr Corte dei Conti Europea - Relazione Speciale Il trasporto delle merci su rotaia nell’UE non è ancora sul giusto binario

[1] Ma il Conto nazionale dei trasporti, statistica ufficiale del MIT, indica per il 2016 una quota modale intorno al 12%.

Articolo pubblicato anche in Sbilanciamoci

1 febbraio 2019 - Cronaca dal fronte di Nicoletta Dosio, da oltre 25 anni in prima linea con il Movimento no Tav:

Saliamo verso Chiomonte in un paesaggio che sa di presepio e d’infanzia. Cade la neve a ricoprire le ferite di questa terra martoriata e tutto è silenzio, incanto di luoghi incontaminati, dove anche i ruderi, i cumuli di detriti, sembrano costruzioni fantastiche, segreti di natura.

Ma oltre il ponte, a sbarrare l’accesso ai cancelli della Centrale, ci sono, più anacronistici che mai, gli uomini in arme di sempre.

All’improvviso, evidentemente in omaggio al “ministro col manganello”, partono contro di noi quelle i mass media definiranno con singolare metafora “cariche di alleggerimento”: colpi di scudo e manganellate, calcioni a tradimento.

Il ministro non lo vediamo: è ad almeno due chilometri di distanza, in visita al buco del maxi-sondaggio che egli, spalleggiato dai mass media di regime e dal partito trasversale degli affari, continua a chiamare indebitamente “ inizio del tunnel di base”, per dire che la Grande Opera è cominciata, che “il dado è tratto” e non si tornerà indietro, pena il presunto (e non veritiero) pagamento di salatissime penali.

Dagli smartphone ci giungono discorsi e immagini: a far corona al ministro appaiono berretti gallonati e, al suo fianco, ad illustrare le magnifiche sorti e progressive della Grande Opera, ecco le solite triste figure, i crociati del TAV, i boiardi del Mercato, i Gattopardi del “che tutto cambi perché nulla cambi”, che osano parlare di necessità di tutelare ambiente e salute, mentre portano avanti inquinamento e devastazione.

Quando riprendiamo la via del ritorno, il ministro è ormai lontano.
Intorno a noi gli alberi si piegano sotto il cumulo della neve che continua a cadere fitta.

Poco lontano da qui c’è il confine della Francia verso cui si inerpicano le rotte di chi espatria, i migranti di sempre, in fuga dalla fame e dalla guerra, dietro una speranza di emancipazione. Questa neve, così bella e dolce per noi, può diventare per loro la tomba da cui riemergeranno al disgelo: così, lo scorso anno hanno trovato la morte Mamadou, la dolce Blessing.

Il sistema spietato che, con i suoi governi vecchi e nuovi, condanna i territori a morire di grandi male opere in nome della libera circolazione di capitali, eserciti, merci, è lo che stesso innalza frontiere davanti a chi fugge dalla guerra e dalla fame.

Noi lo sappiamo bene, perciò la nostra lotta non può che essere solidale e complessiva: il vero antidoto al mondo della guerra tra poveri cui vorrebbe ridurci il comune oppressore.

Esistono economie civili e solidali che sappiano dialogare fecondamente con i luoghi? L’ultimo numero di Scienze del territorio, curato da Giuseppe Dematteis e Alberto Magnaghi, raccoglie un quadro assai articolato di “riflessioni, azioni, esperienze, progetti di ciò che già adesso sono le economie territoriali del bene comune”. Si può leggere qui. (m.b.)

Scienze del territorio, rivista di studi territorialisti
Le economie del territorio bene comune
n. 6/2018
Firenze University Press

Tra il dire e il fare, in urbanistica, spesso c'è di mezzo una norma transitoria che consente di rinviare obblighi e proposte. Come per il nuovo piano della Lombardia. Dal sito millennio urbano. (m.b.)

In Lombardia sono ancora pochi i comuni virtuosi che hanno volontariamente deciso di ridurre il consumo di suolo. Sono invece ancora molti quelli che hanno una rilevante, o anche rilevantissima, dimensione di aree edificabili nello strumento di piano (che rappresentano un incremento anche del 30% – 50% rispetto all’edificato esistente), e non intendono ridurle. In molti casi i proprietari delle aree in questione si avvantaggiano di un plusvalore economico creato dai meccanismi attivati dalla legge regionale (LR) 31/2014, paradossalmente pensata per limitare il consumo di suolo. Premono pertanto in diversi modi (anche intentando lunghe battaglie legali) affinché anche le previsioni mai attuate vengano mantenute.
Nella seduta del 19 dicembre 2018 il Consiglio Regionale della Lombardia ha approvato la variante del Piano Territoriale Regionale (PTR) che dettaglia le disposizioni contenute nella LR 31/2014. Questa variante impone, almeno sulla carta, una riduzione drastica del consumo di suolo nei piani comunali. Come evidenziato in precedenti contributi, bisognerà vedere se e come questo si tradurrà nella pratica operativa (1).
La norma regionale prevede che Province e Città metropolitana adeguino entro due anni i propri strumenti di pianificazione (rispettivamente PTCP e PTM) ai criteri del PTR, dettagliandoli e articolandoli secondo le caratteristiche dei diversi contesti di area vasta. Quindi in cascata i comuni ne daranno attuazione attraverso i PGT.
L’adeguamento dei piani provinciali e metropolitani potrebbe essere occasione per integrare i criteri del PTR, che in molti casi sono generici e talvolta anche tra loro contradditori. Ma l’impresa non è semplice, per la carenza di risorse economiche e di personale degli enti intermedi, per la scarsa rappresentanza politica degli amministratori ad elezione indiretta, e anche per il molto complesso percorso di attuazione disegnato dalla legge stessa, in particolare nell’art 5 “norma transitoria”. Essa prevede che i comuni possano continuare a variare i loro PGT nel periodo di transizione tra approvazione del PTR e adeguamenti dei PTCP e PTM scegliendo tra due opzioni alternative: con la prima i comuni devono rispettare i criteri qualitativi del PTR, ma non sono obbligati a ridurre il consumo di suolo, dovendo solo evitare di incrementarlo; con la seconda recepiscono il PTR in toto, anche per la percentuale di riduzione del consumo di suolo da esso prevista, senza attendere le indicazioni del PTCP (3).
Una terza possibilità consentita dalla legge, all’art 5 comma 5, consiste nel prorogare con delibera di consiglio comunale, prima della pubblicazione sul BURL del PTR, la durata del Documento di Piano (il documento strategico del PGT) fino a 12 mesi successivi all’approvazione della variante del PTCP o PTM.
Per i comuni che non intendono ridurre le previsioni la prima opzione è apparentemente più conveniente e sperano che venga mantenuta in vita il più possibile, magari ritardando l’adeguamento di PTCP e PTM, anche molto oltre i due anni previsti dalla legge.
Tenuto conto che negli organi degli enti intermedi siedono gli Amministratori comunali il rischio è concreto. Almeno fino a quando la dotazione di aree programmate non si sia esaurita, anche attendendo se necessario la creazione di condizioni più favorevoli nel mercato immobiliare.
Se questa ipotesi si avverasse si assisterebbe all’esito paradossale che la LR 31/2014, a causa dei suoi meccanismi attuativi, finirebbe per mancare il suo obiettivo principale, che è quello di ridurre il consumo di suolo secondo le soglie previste dal PTR.
Questo pericolo va scongiurato, mettendo in salvaguardia l’obiettivo principale del PTR ed evitando ritardi nell’approvazione dei PTCP e PTM. Si deve fare in modo che per i comuni la seconda opzione diventi più attraente e conveniente della prima. A tale fine si possono adottare diverse strategie, tenendo conto che la legge regionale assegna a Province e Città metropolitana il compito di verificare la coerenza dei PGT con i criteri del PTR nell’ambito del parere di compatibilità sul PGT adottato. E tenendo anche conto che la legge e il PTR assegnano agli enti intermedi un’ampia discrezionalità nell’interpretare e articolare le soglie del PTR, a condizione che la soglia regionale sia rispettata sul complesso della Provincia o Città metropolitana.
Per rendere la seconda opzione (adeguamento da subito al complesso dei criteri del PTR) più favorevole possono essere applicate modalità più convenienti o più flessibili di attuazione dei criteri regionali, quali a mero titolo di esempio: garanzia che la soglia di riduzione del PTR non venga incrementata dal PTCP o PTM; deroga per i comuni che già nel PGT vigente hanno assunto un comportamento virtuoso adottando previsioni insediative molto contenute; la possibilità di derogare alle soglie regionali perequandole con altri comuni limitrofi nell’ambito dello sviluppo di PGT associati.
Importante è muoversi tempestivamente, ora che la variante del PTR è stata approvata, per garantire omogeneità di trattamento a tutti i comuni che procederanno nei prossimi mesi ad aggiornare il proprio PGT.

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