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Inoltre lamentavo il fatto che mancasse la presenza di un soggetto politico non solo capace di essere davvero tale, ma anche di rappresentare la voce, i bisogni, i diritti e le speranze degli esclusi.
Ma non è vero. Il commento di Potere al Popolo "Gli amici non sono al governo" rivela, ancora una volta, l’esistenza di una realtà politica lucidamente critica e non assoggettata al degrado politico e ancor prima culturale ed etico. Un movimento politico che sta ricostruendo, a partire dai territori, relazioni sociali e pratiche fondate sul contrasto di ogni forma di sfruttamento e prevaricazione tra esseri umani e tra questi e la natura.

Wu Ming svela la verità nascosta dietro le esagerazioni mediatiche sull'esito delle elezioni europee in Italia: "Se proprio si vuole ragionare in termini di percentuali, ragionando sul 100% reale vediamo che la Lega ha il 19%, il PD il 12%, il M5S il 9,5%. Sono tutti largamente minoritari nel Paese [...] Salvini non ha con sé gli italiani [...] #Salviniscappa può essere un buon sismografo nei prossimi mesi. L’effetto-shock (ingiustificato) del «34%» finirà, il conflitto sociale no".
Fonte: Dall'articolo "Sui veri risultati delle Europee" di Wu Ming. Non facciamoci abbagliare da percentuali di percentuali". (a.b.)


Il 7 maggio scorso a Milano, proprio mentre fioccavano gli arresti di amministratori, politici e imprenditori, il Rettore del Politecnico Ferruccio Resta ha partecipato a una cena di gala organizzata dall’establishment lombardo, ospite d’onore Salvini; sede (prestigiosa): Villa Necchi Campiglio; costo: 10.000 euro a tavolo! Un professore del Politecnico, Giancarlo Gioda, ordinario di Ingegneria Geotecnica, ha scritto al rettore (e per conoscenza a tutti i docenti) una lettera ironicamente polemica che ben evidenzia la tradizione di compromessi con il potere dell’ateneo milanese (m.c.g.)

Caro Rettore, nei giorni passati la stampa ha divulgato una notizia che potrebbe essere anche vera, a meno che non sia una delle tante fake bufale. Siccome la notizia riguarda il nostro Rettore, ti chiedo lumi. Dice, la stampa, che il Rettore del Poli ha partecipato ad un incontro, con cena annessa, a villa Necchi in tema di “nuova giustizia” e dell’Impresa che serve al Paese. Ospite d’onore era il corrente segretario di stato per gli interni, simpaticamente detto “il Capitano”. Lo contornavano politici di varia estrazione, imprenditori, magistrati, banchieri, … in sintesi, la creme de la creme dell’establishment che conta. Nulla di strano, quindi, che tra i cremosi commensali facesse la sua bella figura pure il Rettore del Poli.

Dice anche, sempre la stampa, che costoro hanno scucito diecimila euretti per assicurarsi un tavolo. Metti che un tavolo fosse da 10-12 posti. Fanno mille euro a cranio o giù di lì. Beh, dovete aver cenato proprio bene (congratulazioni allo chef!).

Appare che il memorabile incontro-cena sulla “nuova giustizia” sia avvenuto in sincronia con una non meno significativa espressione della “vecchia giustizia”, quella che ha portato all’arresto di un nutrito manipolo di politici ed imprenditori lombardi (e poi vai a dire a giro che non credi ai bizzarri casi del destino).

Comunque, i lumi che chiedo al Rettore riguardano questo mio dubbio: il quattrino per la cena ce lo ha messo il Rettore himself o rientra nelle spese di rappresentanza delle Poli-Autorità? In qualunque caso, mi compiaccio vivamente per il suo impegno nel promuovere l’immagine dell’Ateneo in specie verso il Capitano, persona che tutti sanno sensibile alla cultura e allo studio, e verso l’ex-ministro Tremonti (presente pure lui alla cena), quello che “con la cultura non si mangia”.

V’è poi un altro aspetto, potenzialmente positivo assai, della faccenda. Mi spiego. Il Rettore precedente ha sempre provato attrazione per i “politici” e ha fatto del suo meglio per ”avvicinarli”. Iniziò il percorso con G. Fini (quello di Alleanza Nazionale) firmando con lui l’atto costitutivo di Fare Futuro, fondazione presieduta dal Fini medesimo al fine di “fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestra italiano”. Dopo poco il Fini cadde in disgrazia. Poi, sempre il predecessore, s’avvicinò a M. Renzi (allora primo ministro) guadagnandoci la presidenza di Casa Italia e altre prebende assortite. Il governo del Renzi cadde in men che non si dica. In sintesi, sembra che il predecessore avesse verso i politici lo straordinario influsso così ben descritto da Pirandello nella novella “La Patente”.

Ora metti che il corrente Rettore abbia ereditato dal predecessore, oltre all’impiego in piazza Leonardo, anche l’influsso che dicevo. A ben vedere, la concomitanza degli arresti con la cena dai Necchi appare come una sua iniziale e promettente manifestazione. Se così fosse, potrebbe darsi che il futuro politico del Capitano non si profili così roseo com’egli s’aspetta.

Nel caso, caro Rettore, meriteresti un monumento equestre, con fronzoli e ghirigori, di dimensioni davvero inimmaginabili.

Il 25 Aprile 1945 l'Italia si riscattò dall'asservimento al nazismo. Oggi più che mai è necessario il monito di Bertold Brecht: «E voi, imparate che occorre vedere e non guardare in aria; occorre agire e non parlare. Questo mostro stava una volta per governare il mondo! I popoli lo spensero, ma ora non cantiam vittoria troppo presto il grembo da cui nacque è ancora fecondo». Con queste parole si apre il Museo Monumento al Deportato di Carpi, costruito per tradurre in ricordo gli orrori di quel periodo nefasto della nostra storia, che nel Campo di Fossili (a sei km da Carpi) sono ancora vivi nei resti delle strutture. Fossoli fu costruito nel 1942 dal Regio Esercito per imprigionare i militari nemici. L'anno successivo diventò un campo di concentramento per ebrei. Nel marzo 1944 si trasforma in campo poliziesco e di transito, utilizzato dalle SS come centro nazionale di raccolta dei deportati da inviare ai campi di sterminio. Sono stati circa 5000 le persone internate a Fossoli e poi trasferite ai campi di Auschwitz-Birkenau, Mauthausen, Dachau, Buchenwald, Flossenburg e Ravensbrück.
Qui il link alla La Fondazione ex campo Fossoli, costituita nel gennaio 1996 dal Comune di Carpi e dall'Associazione Amici del Museo Monumento al Deportato, per informazioni su questo importante, ma spesso sottovalutato museo. Sulle vicende si veda il reportage del Corriere della Sera.
Fonte: nell'immagine il Museo Monumento al Deportato tratta dal sito della Fondazione.

A Verona è in corso il Congresso mondiale delle famiglie, espressione degli esponenti della più retriva e arcaica concezione patriarcale della famiglia, che vede anche la partecipazione di rappresentanti istituzionali, Matteo Salvini in testa.

Contemporanemente e in contrapposizione si svolge una tre giorni di mobilitazioni transfemmministe organizzata da «Non una di meno» per ribellarsi all'idea di famiglia patriarcale eteronormata, che riproduce un modello sociale gerarchico e sessista, propagandata dal Congresso. Oggi si è svolto un enorme corteo, appassionato e rigoroso controcanto, di oltre 100.000 persone provenienti da tutta Italia.

Parlare di famiglie oggi non può prescindere né dall'esperienza femminista né dalle drammatiche condizioni sociali ed economiche in cui molte di esse si trovano. A quest'ultimo proposito le parole (qui sotto riportate) di Viola Carofalo, portavoce di Potere al Popolo, diramate dai social network, sono una replica semplice ma chiara ai discorsi falsi, stereotipati e degradanti che sono emersi in questi giorni dal congresso.

Io lo vorrei fare un bel Congresso sulla Famiglia
di Viola Carofalo

Se Potere al Popolo! avesse i soldi, gli agganci, le coperture mediatiche di questi ricchi retrogradi, di questi corrotti politici, di queste fondazioni di miliardari che si stanno incontrando oggi a Verona, metterebbe su un bel congresso.

Chiameremmo la signora Anna, e ci faremmo dire come fa a portare avanti la sua famiglia a Napoli con tre figli e il solo stipendio del marito, muratore a nero.

Chiameremmo Giancarlo, e ci faremmo dire com'è essere papà di un bimbo con il tumore in Calabria, e dover fare avanti e indietro con il Nord perché gli stessi soggetti che ora discutono di famiglia hanno smantellato la sanità pubblica, soprattutto al Sud, per fare un favore ai loro amici delle cliniche private.

Chiameremmo Nicoletta che fa i salti mortali in Veneto per risparmiare sulla spesa di una famiglia di quattro persone ma i soldi per l'acqua in bottiglia li spende sempre da quando sua nipote piccola ha avuto un tumore e ha incominciato a informarsi sui PFAS...

Chiameremmo Giulia che nella periferia di Milano ha un figlio disabile e pochissimo aiuto da parte dello Stato, perché le famiglie piacciono solo quando non danno problemi, e per il resto affidati a Dio.

Chiameremmo Moussa che la sua famiglia la ama, ma ce l'ha ancora in Mali in una zona di guerra, e non può venire qui per le leggi di chi non vuole gli aborti ma affonderebbe volentieri i barconi, mentre Moussa lavora 10 ore al giorno in un magazzino in Emilia per fargli fare una vita decente.

Chiameremmo Maria che occupa una casa a Roma, in una palazzina insieme ad altre famiglie, di tutte le nazioni, e ci faremmo raccontare come si danno una mano a vicenda, come ci si tiene i figli l'un l'altro quando si deve lavorare, come tutto si mischi e non sia più importante sapere chi appartiene a chi, perché alla fine siamo uomini e donne, bambini di questa città, di questo paese, della grande famiglia umana.

Ecco, noi faremmo un Congresso così, dove non si parlerebbe di cazzate medievali, ma di problemi concreti, di soluzioni concrete, della vita della maggior parte delle famiglie italiane, che oggi è difficile, proprio a causa di chi è ricco e comanda, e di noi non se ne frega.

Oggi saremo a Verona a dire questo. Non solo a rispondere colpo su colpo a questo oscurantismo, che fa tornare indietro la mentalità del nostro paese. Ma a dire: non ci fregate, il vostro trucco è vecchio: cercare di cambiare il senso comune per incassare consenso anche se la vostra politica non sta risolvendo un problema che sia uno....

Non ci fregate, noi vi incalzeremo: su lavoro, diritti, redistribuzione della ricchezza, sull'emigrazione dei nostri giovani. A questo dovete rispondere. E Dio non vi aiuterà di certo!

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Oggi eddyburg.it non verrà aggiornato. Aderiamo allo sciopero indetto da «Non una di meno», in risposta a tutte le forme di sfruttamento e violenza che colpiscono le vite delle donne, delle persone trans e intersex, in famiglia, sui posti di lavoro, per strada, negli ospedali, nelle scuole, dentro e fuori i confini. Qui il testo dell'appello.

Negli anni del secondo governo Berlusconi il Parlamento italiano approvò la legge 30 marzo 2004, n.92,
 «Istituzione del Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti
 degli infoibati». Iniziò molto presto - come controcanto alle manifestazioni della destra neofascista e nazionalista - la civile e necessaria protesta delle voci più riflessive.

Il primo intervento critico fu forse quello di Corrado Staiano con un articolo sull'Unità, dal titolo emblematico: La memoria e gli avvoltoi. L'indignazione per la pesante mistificazione dei fatti ci spinse a raccogliere su eddyburg documenti che rivelassero ai frequentatori del sito la verità. Qui alcuni dei più rilevanti, raccolti nella cartella Italiani brava gente:

Si legga Foibe, la dignità di un dolore corale di Pre­drag Mat­ve­je­vic (il Manifesto, 2014) sulla strumentale deformazione storica delle "foibe", La storia intorno alle foibe del collettivo Nicoletta Bourbaki, che ha chiesto a sette storici di rispondere alla domanda: In cosa consiste la “più complessa vicenda del confine orientale”? (Internazionale, 2017), e il mio articolo A proposito di un discorso monco del presidente Mattarella (eddyburg, 2018).

thesubmarine.it

Secondo il ministro dell’Interno Matteo Salvini “l’allarme razzismo è un’invenzione della sinistra.” La realtà sembra avere un’opinione diversa.

È impossibile non identificare l’attentato di Macerata dello scorso 3 febbraio come campanello d’allarme. Quel giorno Marco Traini, armato di pistola e tricolore, aveva aperto il fuoco verso alcuni membri della comunità nigeriana locale, ferendo 6 persone. Malgrado il tentativo di risposta da parte di società civile e politica, è chiaro che si tratta di un evento spartiacque, che ha normalizzato la violenza verso gli stranieri in Italia — un fenomeno reso ulteriormente pericoloso dalla vicinanza dello stesso ministro dell’Interno con la lobby della vendita di armi da fuoco: il diffuso uso di armi ad aria compressa lascia intravedere scenari molto cupi nel caso di semplificazione dell’iter per il possesso (e l’uso) delle armi da fuoco.

Intimidazioni, atti di violenza o discriminazioni: che la crescita del fenomeno fosse allarmante è stato evidente durante tutta la campagna elettorale, che ha visto uno sdoganamento del linguaggio d’odio a tutti i livelli del dibattito pubblico. Soltanto nei primi tre mesi dell’anno, l’associazione Lunaria ha documentato in un dossier 169 casi di razzismo e discriminazione in tutta Italia. Ma è un fenomeno che si può far risalire ancora più indietro: i dati dell’OSCE documentano un vertiginoso aumento dei crimini d’odio dal 2012 al 2016.

Di fronte all’escalation delle ultime settimane, il pericolo principale è la normalizzazione, che va di pari passo con la negazione sistematica del movente razziale. Dallo “squilibrio” di Luca Traini al “tiro al piccione,” fino all’onnipresente “goliardia,” c’è sempre una scusa che permette di parlare di “casi isolati.” Spesso la normalizzazione si nasconde tra le pieghe del linguaggio dei media, che negli ultimi anni hanno significativamente contribuito ad alimentare il clima tossico di cui oggi vediamo gli effetti.

Contro il rischio di banalizzare quanto sta avvenendo, è necessario innanzitutto mantenere viva l’attenzione, impedire che le notizie delle aggressioni e delle intimidazioni scivolino in fondo all’agenda mediatica, tra le pagine della cronaca locale. Questa di seguito vuole essere quindi una lista costantemente aggiornata di tutte le violenze registrate dalla stampa a partire dalle elezioni del 4 marzo — scelta come data “simbolica” della formazione dell’attuale maggioranza di governo.

Ottobre 2018

18/10/2018, Morbegno (Sondrio): un senegalese di 28 anni viene insultato e picchiato da un gruppo di ragazzi mentre si reca al lavoro.

18/10/2018, su un pullman Flixbus diretto da Trento a Roma una donna di 40 anni ha preteso che un ragazzo senegalese si spostasse dal posto vicino a lei “perché nero.”

14/10/2018, Bari: un bambino di otto anni e mezzo viene aggredito da alcuni bambini poco più grandi di lui con una bomboletta di schiuma spray. “Sei nero, ti facciamo diventare bianco.”

13/10/2018, Varese: una donna rifiuta di farsi servire da un cassiere di colore al supermercato, insultandolo e lanciandogli addosso alcune lattine di birra.

6/10/2018, Venezia: Judith Romanello, ventenne veneziana originaria di Haiti, ha denunciato di essere stata rifiutata a un colloquio di lavoro per via del colore della sua pelle. “Non voglio persone di colore nel mio ristorante. Potrebbe fare schifo ai miei clienti, potrebbe fare schifo che tu tocchi i loro piatti.”

4/10/2018, Lucca: “Non puoi sederti, puzzi di morto!” Il conducente di un autobus di linea ha insultato un sedicenne figlio di genitori dello Sri Lanka, impedendogli di sedersi.

02/10/2018, Genova: quattro persone aggrediscono, rapinano e insultano con frasi razziste un 31enne originario della Costa d’Avorio.

2/10/2018, Benevento: sul pullman diretto a Napoli un uomo insulta e minaccia un passeggero di origini asiatiche, per poi prendersela con l’unica passeggera che ha avuto il coraggio di dire qualcosa.
Settembre

30/09/2018, Roma: una donna di origini nordafricane è stata insultata e picchiata da un uomo nei pressi di Piazza Bologna, perché stava occupando un parcheggio per il fratello.

26/09/2018, Ceprano (Frosinone): tre studenti universitari sono stati fermati e denunciati per aver compiuto almeno sette aggressioni a sfondo razziale in tutta Italia negli ultimi otto mesi. Nelle loro case sono stati trovati bastoni, mazze da baseball, sfollagente, coltelli e materiale propagandistico sulla superiorità razziale.

24/09/2018, Castelfranco Emilia (Modena): due uomini hanno ferito con colpo di pistola ad aria compressa un 27enne pakistano.

16/09/2018, Piazza Armerina (Enna): un gambiano di 21 anni, ospite di uno Sprar locale, viene pestato e derubato da tre ragazzi a poche ore dalla visita del papa nella città.

11/09/2018, Sassari: un ventiduenne originario della Nuova Guinea, ospite del circuito SPRAR, è stato aggredito e pestato da un gruppo di italiani giovanissimi.

03/09/2018, Raffadali (Agrigento): “Ritornatene al tuo paese.” Un sedicenne ospite di un centro di seconda accoglienza per minori non accompagnati è stato aggredito a calci e pugni. In seguito all’aggressione, è stato ricoverato al pronto soccorso dell’ospedale S. Giovanni di Dio di Agrigento.

1/09/2018, Bagheria (Palermo): un nigeriano di 30 anni è stato aggredito e pestato con un cric da un pregiudicato bagherese di 25 anni.

Per mesi precedenti, così come l'aggiornamento è consultabile alla pagina di thesubmarine.it.

Un'analisi sconvolgente della galassia nera, fascista, xenofoba e razzista che si sta raggrumando attorno a Matteo Salvini, pronto a cavalcarla e a prendersi l'Italia, annientando oltre 70 anni di democrazia. Indispensabile lettura per comprendere le connessioni e ramificazioni di questo fenomeno e contrastarlo. (i.b.)

Una decina di giorni fa sono andata all presentazione di questo libro che non avevo ancora letto. E' stata una rivelazione non tanto per il fenomeno che racconta, poichè le cronache di tutti i giorni lo testimoniano, e in eddyburg cerchiamo di commentarne gli episodi e tappe più significative (vedi le cartelle Fascismi e Accoglienza Italia), ma perchè ne illustra le origini, le connessioni e la strategia.
Per esempio viene bene spiegata l'ascesa di un Salvini sovranista e del fascioleghismo, che segnano una mutazione non da poco per il partito dell'indipendenza della Padania: ce la ricordiamo la Lega di Bossi che diceva mai con i fascisti?
Non c'è migliore introduzione a questo libro che il suo prologo, che riportiamo di seguito. (i.b.)

IL SENSO DEL VIAGGIO
di Paolo Berizzi
tratto da NazItalia: Viaggio in un Paese che si è riscoperto fascista. Baldini&Castoldi, 2018

È dagli inizi degli anni Duemila che con le mie inchieste racconto la galassia della destra radicale italiana e le sue derive estremiste. La destra peggiore, regressiva, xenofoba, razzista e nazifascista,

che non ha nulla a che vedere con quella democratica, moderna e liberale. Ed è da anni che, documentando il progressivo ritorno del nuovo fascismo, cerco da cronista di mettere in guardia l’opinione pubblica, la politica, le istituzioni sui rischi che questo fenomeno può rappresentare per la nostra democrazia. Il silenzio assordante che per anni ho sentito intorno a me era frustrante: avevo la sensazione di essere una specie di marziano, un visionario, uno che vedeva fantasmi, cose inesistenti. Sì, proprio come ti dipingono loro. Avevo finito per sentirmi così: un paranoico ossessionato da un fenomeno che molti tacevano, anche a sinistra, sostenendo non esistesse. E intanto quei gruppi nazifascisti – che da sempre adottano il metodo di screditare e delegittimare chi non si volta dall’altra parte ma si ferma a denunciare – continuavano a descrivermi come un «infame», una specie di disadattato, un bugiardo, un venditore di bufale, uno che non ha niente di meglio da fare, uno che deve «trovarsi un lavoro vero». Quasi fosse una perdita di tempo occuparsi di partiti e associazioni politiche che oltre settant’anni dopo la fine del fascismo e del nazismo vorrebbero far tornare quei fantasmi. Forse hanno ragione loro. Forse è tempo perso. È una sensazione che ho provato spesso in questi anni, ogni volta che dopo avere portato a galla un fatto inquietante, che in altri Paesi avrebbe generato come minimo un dibattito pubblico, lo vedevo passare sotto silenzio. Qualche interrogazione parlamentare, dichiarazioni di pochi deputati, sempre gli stessi, la risposta d’ufficio del governo nel question time alla Camera: nulla di più. A volte ho pensato e penso che la nostra Repubblica nata dalla Costituzione non abbia più la coscienza vigile per riuscire a occuparsi seriamente di neofascismo, e trovi più semplice derubricare il tema a qualcosa di residuale, di «non attuale». Anche quando la realtà intorno a noi ci dice che non è così. Credo che di fronte a certe provocazioni, intollerabili per qualsiasi repubblica democratica, non basti indignarsi (quando accade).

Occorre agire, battersi, prendere l’iniziativa per arginare i pericoli. Disinnescarli prima che lievitino diventando difficili da gestire. «Il fascismo in Italia è morto per sempre», ha detto a febbraio 2018 il ministro dell’Interno Marco Minniti, scuola comunista e Dna antifascista. Lo stesso ha sostenuto Matteo Renzi: «Non c’è il fascismo e non esiste un rischio fascismo». Erano i giorni successivi alla tentata strage xenofoba di Macerata, in cui il nazileghista Luca Traini ha ferito sei immigrati africani a colpi di pistola. Non sono d’accordo. Non è così. Quello che è successo e che sta succedendo nel nostro Paese dimostra l’esatto opposto. C’è un nuovo fascismo che ha rialzato la testa. È un fascismo liquido, certo, disaggregato e sfuggente, e proprio per questo molto insidioso. È anche e soprattutto grazie alla sottovalutazione e alla sbadataggine, o alla complicità di qualcuno, che il fascismo di ritorno punta a permeare – in parte ci è già riuscito – gli strati più deboli della società. Rendendo fertile quel terreno, organizza una semina che non necessariamente deve avere tempi brevi.

L’aspirazione di questo fascismo 2.0 di poter giocare una partita da protagonista in politica è secondaria, viene dopo. È vero: nelle istituzioni è già entrato. CasaPound Italia è presente in 13 consigli comunali e, nonostante il risultato non esaltante alle ultime elezioni politiche – dove i voti sovranisti e di destra radicale sono stati per buona parte cannibalizzati dalla Lega – è un partito destinato a crescere. Ma ai nuovi camerati, prima ancora di ottenere un peso alle urne, interessa avere legittimazione da parte dell’opinione pubblica. Essere riconosciuti, accettati, fare presenza nelle periferie, nei quartieri, nelle scuole, nelle università, negli stadi, nei dibattiti e nei talk televisivi: adesso anche sui treni e a bordo degli autobus con le ronde. Questo agli sdoganatori volontari della galassia nera è chiarissimo: e dovrebbe esserlo anche agli sdoganatori involontari e inconsapevoli, che però finiscono per avere la stessa responsabilità degli altri. «Essere distratti o, peggio, sottovalutare, può essere molto pericoloso.

Ci vuole una cultura antifascista collettiva, è questo che ci manca.» Carlo Smuraglia, l’ex presidente dell’Anpi, è uno dei più attenti e lucidi osservatori del fenomeno del fascismo di ritorno. L’ultima volta che ho ascoltato le sue parole era agosto 2017: sotto un tendone di FestaReggio, a Reggio Emilia. Parlavamo di «nuove destre». Erano i giorni in cui Forza Nuova aveva lanciato la provocazione della nuova «marcia su Roma». «La cultura antifascista è venuta meno col tempo. Bisogna ricostruirla, ci vuole lavoro e impegno», è il ragionamento che fa oggi Smuraglia. «Bisogna partire dalle scuole. E poi, certo, occorre che le leggi vengano applicate. Perché si continua a permettere che movimenti neofascisti facciano attività politica e si presentino alle elezioni? Perché lasciamo correre che si inneggi al regime di Mussolini e Hitler? Che cosa diciamo ai nostri giovani di fronte a queste manifestazioni e a questa follia? Quale risposta gli diamo? Perché queste formazioni non vengono messe fuori legge, come è accaduto in passato? Tutto quello a cui stiamo assistendo in questi anni è sconcertante. E ci dice una cosa chiarissima: che c’è un rischio fascismo per la democrazia. È un fascismo diverso, che si manifesta con nuove forme: lo vediamo in diversi Stati europei e anche in Italia.

Il tema è culturale e sociale. Non è più tempo di indugi. È tempo di agire, prendendo atto di quello che sta accadendo.» A volte le istituzioni stanno a guardare. E invece dovrebbero fare. Anche con dei segnali, dei provvedimenti che non sono solo simbolici. Per esempio: un altro tema di dibattito in Italia, sul quale negli ultimi mesi ho cercato di accendere l’attenzione, è la revoca della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. Al duce fu conferita in decine di Comuni italiani tra il 1923 e il 1924 come conseguenza di un atto politico che di fatto era un’imposizione da parte del Partito nazionale fascista. Molte amministrazioni in questi anni l’hanno revocata. Un segno importante per affermare con forza l’identità antifascista della nostra democrazia in un periodo storico nel quale i neo populisti, che strizzano l’occhio ai «neri», puntano a smantellare la carta costituzionale. E i nuovi fascisti, con la forza e l’infingimento, puntano a essere socialmente accettati sfidando le leggi e la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta la ricostituzione del Partito fascista. Uno degli ultimi Comuni che ha tolto la cittadinanza onoraria al duce è stata Mantova, a febbraio 2018. Il consiglio comunale, a maggioranza Pd, ha votato la mozione che prevede la cancellazione dell’onorificenza concessa a Mussolini nel 1924: contrari tutto il centrodestra – Forza Italia, FdI, Lega – ma anche il M5S.

«Dittatore» e «liberticida»: per questo il duce non è più cittadino onorario mantovano. Per tenere la maggioranza unita sul voto è intervenuto anche il sindaco dem, Mattia Palazzi. «Siamo qui per decidere se la cittadinanza a Mussolini oggi rientri o meno nei valori che questo consiglio e questa città intendono celebrare», ha detto. In Italia ci sono città dove, invece, il dittatore liberticida Mussolini continua a essere cittadino onorario. Sono anche città governate dal centrosinistra, e cioè un’area politica che sul tema dell’antifascismo dovrebbe avere una sensibilità più spiccata. Uno di questi Comuni è Bergamo, la città dove sono nato e dove vivo. Il sindaco Giorgio Gori, nonostante richieste che gli sono arrivate da più parti, ha sempre ribadito: «La cittadinanza lasciamola come monito». A ottobre 2017 sul tema si era espresso anche Lele Fiano, collega di partito di Gori e soprattutto promotore della legge contro la propaganda nostalgica del Ventennio: «Trovo singolare che si mantenga ancora una cittadinanza onoraria per un assassino», ha detto senza mezze parole. Sensibilità diverse all’interno dello stesso partito? Evidentemente sì. Secondo qualcuno la prudenza del sindaco bergamasco potrebbe essere stata dettata, in questi anni, da tatticismi politici: in particolare dalla volontà di non perdere quei consensi che a Bergamo gli sono arrivati da ambienti che prima di lui votavano centrodestra (e il cui passaggio al Pd, per paradosso, ha portato all’erosione dei voti di sinistra). Ambienti dove la revoca della cittadinanza al duce sarebbe considerata un atto troppo radicale. Ma è anche dalla determinazione di certe scelte che passa il contrasto alle derive neofasciste, ai populismi nazionalisti e xenofobi, al fascioleghismo che ha preso corpo negli ultimi anni. È anche così, e con delibere ad hoc, adottate da decine di amministrazioni, che si toglie spazio alle ambizioni dell’ultradestra dell’ultradestra contraria all’integrazione e all’Europa. Due fattori spacciati come minaccia all’identità, all’economia e al futuro del nostro Paese. Non occorre particolare coraggio: basta che un amministratore ricordi cosa ha significato il fascismo per l’Italia e per la sua città, la sopraffazione, la violenza, la privazione della libertà. E magari che trovi anche il tempo per capire come si presenta e agisce l’estrema destra di oggi: come quei gruppi fomentano le paure sociali, come si camuffano agli occhi delle amministrazioni, che di fronte alla loro tracotanza e subdola penetrazione appaiono «vulnerabili» e permeabili.

Il mio viaggio nell’Italia che si è riscoperta fascista racconta anche questa permeabilità. È il fattore che ha determinato la caduta della pregiudiziale sulla manifestazione di quell’ideologia, la sua «normalizzazione» e persino l’accettazione di un tasso di violenza squadrista allarmante – sebbene in molti casi sia passato in sordina sui media nazionali. Una permeabilità che ha messo a nudo la superficiale distrazione di molti leader anche della sinistra, colpevoli di aver lasciato per troppo tempo le piazze e la complessità delle periferie alle ronde e di avere affrontato con «pacatezza» e tardivi appelli alla calma la follia anti-immigrazione: e questo ha portato la sinistra a perdere tonnellate di voti. Una permeabilità, infine, che ha favorito l’ascesa e il successo elettorale, lo scorso 4 marzo 2018, del politico che più di tutti usa sovranismo e xenofobia come strumenti di propaganda: Matteo Salvini. Con lui la Lega si è trasformata in un ricettacolo di idee un tempo inconciliabili: dalle istanze autonomiste e anche secessioniste, al nazionalismo identitario e antieuropeista, fino a un fascioleghismo tinto di scudocrociato al Sud. Grazie a questo cambio di pelle il nuovo Carroccio è riuscito a fare l’en plein alle ultime elezioni. Un’affermazione arrivata dopo anni di «vicinanza» a CasaPound e altre formazioni neofasciste. Il 4 marzo la Lega ha aspirato come un’idrovora i voti della galassia nera spezzandone, per ora, ogni illusione di entrare in Parlamento. Salvini quei voti li ha cercati a lungo, e se li è presi. Punto. Questa è la realtà che molti osservatori, commentando l’esito elettorale, hanno colto solo parzialmente. Sia a destra sia a sinistra si è preferito dare una lettura sbrigativa, semplificando e liquidando come un fallimento il mancato sfondamento dei partiti di estrema destra, e in particolare lo 0,9% di CasaPound Italia. Ma il dato, se è certo al di sotto delle attese, equivale a sei volte quello del 2013. Si è messo in relazione questo flop con «l’allarme neofascista», secondo molti ingiustificato, sollevato nei mesi che hanno preceduto il voto dai «giornali di sinistra» e dalla sinistra litigiosa, ostaggio di una profonda crisi di identità. Io credo sia vero il contrario: anzitutto la sensibilità della sinistra sul fenomeno del populismo nazionalista e sovranista è stata insufficiente, altro che eccessiva. E soprattutto è arrivata in clamoroso ritardo. Quel ritardo è stato abilmente cavalcato dal partito che è diventato il maggiore interprete delle paure della gente, del sentimento nazionalista nazionalista e antieuropeo, delle pulsioni identitarie, xenofobe, razziste, delle parole d’ordine e dei principi della destra radicale: questo partito è la nuova Lega nazionale. Paradossalmente, in questo processo, il vero argine al dilagare dei neofascisti che volevano far «volare schiaffoni in Parlamento» è stato proprio Salvini col suo equilibrismo. Ma Salvini è stato anche il Grande Traghettatore, il taxi sul quale è salita l’Italia nera che ha visto nella Lega l’unico soggetto politico in grado di incidere in Parlamento o addirittura al governo. Per questo il problema delle derive fasciste, dopo la recrudescenza della campagna elettorale, si riproporrà presto in tutta la sua forza; una forza di idee che cresce e attecchisce sempre di più, e di cui è giunto il momento di prendere coscienza andando a scavare sotto la superficie che – mimetizzandolo – sembra tenere sotto traccia questo fenomeno.

internazionale.it

“Credevamo che ci avrebbe salvati la costituzione, ma non è stato così. Le elezioni, ma non è stato così. La Corte suprema, ma non è stato così. Se e quando, forse in un futuro assai prossimo, la democrazia americana avrà finito di distruggersi, allora ci volteremo indietro chiedendoci in quale punto avremmo dovuto dire basta, e non l’abbiamo fatto”. Fahrenheit 11/9, il racconto epico-etico di Michael Moore sulla resistibile ascesa di Donald Trump, si chiude con questo monito che ci inchioda tutti e ciascuno, uno per uno e una per una, alle nostre responsabilità. Quando avrebbero dovuto dire “basta così”, negli Stati uniti? Quando, all’indomani dell’11 settembre, fu emanato il Patriot Act? Quando partirono le truppe per l’Iraq, in nome dell’esportazione di una democrazia che intanto si ammalava in casa? Quando Bill Clinton inaugurò la stagione del compromesso continuo dei Democratici con le banche, la finanza e il neoliberismo? E qui in Italia, quando avremmo dovuto dirlo? Quando ci dissero che bastava cambiare sistema elettorale per fare la rivoluzione e seppellire la prima repubblica? Quando di quella rivoluzione si avvantaggiò un imprenditore del mattone e della tv, così simile a Trump? Quando Radio Padania, erano i primi anni novanta, cominciò a sdoganare le viscere razziste del nord operoso contro il sud parassita? Quando l’Alto Colle ci impedì di seppellire con un rito elettorale il ventennio berlusconiano, e un governo di tecnici ci assoggettò alla disciplina del debito? O ancora poco fa, quando un ministro degli interni ha tenuto in ostaggio su una nave 170 persone per fare il bullo con l’Unione europea? O quando un sindaco che invece quelle persone le accoglieva è stato esiliato dal suo comune? Quand’è che infine la misura è colma, e si riesce a dire basta?

Michael Moore non ha fatto un bel film, ha fatto un film necessario, mosso dall’urgenza di dire una cosa inaggirabile prima che sia troppo tardi: la democrazia è un giocattolo molto delicato, e il suo funzionamento è solo nelle nostre mani. Ci vogliono secoli a costruirla (“Gli Usa sono una democrazia solo dal 1970”, quando i neri ottennero il diritto di voto), ma bastano pochi anni per distruggerla: negli Usa ne sono bastati quindici, l’arco di tempo racchiuso come in una cabala tra il 9/11 del 2001, data dell’attacco alle torri gemelle cui era dedicato il precedente Fahrenheit di Moore, e l’11/9 del 2016, data dell’elezione di Trump alla Casa Bianca. E quando la rovina comincia, diventano vane le forme che essa si era data per istituirsi e stabilizzarsi: elezioni, corti, costituzioni, diritti acquisiti possono rivelarsi più fragili dei tarli che le erodono e le svuotano da dentro. È già accaduto negli anni trenta, dice nel film uno storico che non teme il paragone fra il fascismo dal volto trucido di ieri e quello “democratico”, come lo chiama Alain Badiou, di oggi, che ha il volto pop dei Trump, dei Salvini, degli Orbán, dei Bolsonaro. E al quale hanno aperto la strada tarli ormai ben noti, che si chiamano disuguaglianza, smantellamento della struttura industriale e del welfare, de-alfabetizzazione di massa, confusione fra vero e falso mediaticamente indotta, attacchi allo stato di diritto, omologazione fra destra e sinistra. Siamo ancora in tempo a dire basta, di là e di qua dall’Atlantico? E come si fa, a dire basta?

Spietato con il Partito democratico americano, Fahrenheit 11/9 diventa tenerissimo quando inquadra le donne “guerriere” come Alexandria Ocasio-Cortez che sono la speranza del mid-term, gli insegnanti che hanno stupito il mondo con il loro sciopero imprevisto, i giovani in rivolta contro le armi. Si ride per non piangere sulle immagini di apertura del film, con Hillary Clinton, il suo staff e l’intero mainstream mediatico che alla vigilia delle ultime presidenziali brindavano tronfi a una vittoria sicura che non ci sarebbe mai stata; o su quelle della “sfilata della vergogna” di Trump e famiglia più stupefatti di noi per aver vinto la Casa Bianca come il premio di una riffa truccata. Si piange senza scampo alla fine, quando la camera stringe sul silenzio di Emma Gonzales alla marcia di Washington del 24 marzo scorso; o quando il racconto indugia sul caso di Flint, la città avvelenata dall’acqua piena di piombo, dove Obama finge di bere un sorso per sedare la popolazione invece di agire contro il governatore responsabile del disastro. Fra il 9/11 e l’11/9 c’è anche questo, infatti, la delusione per “il presidente più amato”, una ferita che brucia, nel regista, più di tutte le altre.

E che forse è quella che lo trattiene oggi, come lui dice, dallo sperare in un cambiamento del vento, nell’America di Trump come in Italia, dove “tutto è cominciato con Berlusconi, che Trump ha imitato, ma ora Salvini fa concorrenza a Trump”. Il suo film, invece, una speranza la apre. Vista da qui, da un’Europa che assiste ammutolita al proprio disfacimento, la società americana sembra più reattiva, più capace di lotte di resistenza civile in grado di prescindere dall’agonia dei partiti storici, più aperta al cambiamento generazionale non proclamato a suon di rottamazione ma praticato nei fatti, più fiduciosa nella rivoluzione femminile che qui si scontra contro il muro della misoginia, più vaccinata contro la xenofobia che qui dilaga e impera. Forse è solo un effetto ottico. O forse qui non abbiamo ancora trovato la cabala giusta per mettere due date a confronto, origine ed effetto l’una dell’altra, e noi a confronto con noi stessi, come in uno specchio.

Tratto dal sito qui raggiungibile.

Insieme al ginecologo congolese Mukwege, la giovane è stata premiata per la lotta allo stupro come arma di guerra. Ex schiava dell’Isis dopo l’occupazione di Sinjar, è da anni il volto del suo popolo e del genocidio che ha subito.

Il premio Nobel per la Pace 2018 è stato assegnato questa mattina a Nadia Murad e Denis Mukwege, giovane yazida ex schiava dell’Isis in Iraq la prima e ginecologo congolese il secondo, per il loro impegno contro l’utilizzo dello stupro e della violenza sessuale come arma di guerra.

Nadia è da anni il volto del genocidio subito dal popolo yazidi in Iraq per mano dello Stato Islamico. Una volta liberatasi dalla schiavitù, è divenuta la voce delle donne, i bambini e gli uomini yazidi uccisi e seviziati dall’Isis negli anni dell’occupazione dell’ovest dell’Iraq. Ha parlato ai parlamenti occidentali, all’Onu e all’Europarlamento che le ha assegnato il premio Sakharov per la libertà di espressione nel 2016 insieme a Lamia Bashar, un’altra giovane yazidi scappata dalla prigionia. Dal settembre 2016 Murad è ambasciatrice dell’Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta.

La sua storia è la storia di migliaia di donne, adolescenti e bambini yazidi, fatti prigionieri nell’agosto 2014 dopo l’assedio brutale della loro terra, Sinjar. Dopo la fuga dei peshmerga del Kurdistan iracheno, lo Stato Islamico è entrato nei villaggi, ha ucciso almeno 3mila uomini e reso schiave 6mila donne, mentre migliaia di yazidi trovavano rifugio nel monte Sinjar.Completamente assediato dallo Stato Islamico, nella caldissima estate irachena, il monte si è trasformato in una trappola fino alla liberazione: senza cibo né acqua, gli yazidi fuggiti sono stati portati in salvo dall’intervento delle unità curde siriane delle Ypg e del Pkk.

Solo nel 2015 Sinjar è stata liberata dal giogo islamista. I sopravvissuti, tornati dai campi profughi del Kurdistan iracheno, hanno trovato solo macerie e innumerevoli fosse comuni. Ma il genocidio non si arresta: sarebbero anche migliaia le donne prigioniere dello Stato Islamico.

Nei suoi anni da ambasciatrice del suo popolo, Nadia Murad ha raccontato la schiavitù. Rapita il 3 agosto 2014, nel villaggio di Kocho a Sinjar, è stata venduta come schiava sessuale dagli uomini dell’Isis a Mosul, passando di mando in mano, sottoposta a continui stupri e abusi. Nel novembre 2014 è riuscita a fuggire grazie all’aiuto di una famiglia irachena.

Al mondo Nadia chiede da anni di intervenire, davvero. Se nel 2014 il dramma yazidi fu la giustificazione dell’allora amministrazione Obama per lanciare i primi raid aerei in Iraq contro lo Stato Islamico, non è seguita alcuna azione concreta per la loro tutela. Nessuna protezione internazionale. L’unico sostegno concreto è arrivato prima nei campi profughi in Kurdistan iracheno da parte di organizzazioni umanitarie, e poi dalle unità curde legate al Pkk che hanno attivamente partecipato alla liberazione di Sinjar e ispirato la formazione di unità di difesa yazidi nel territorio nord-ovest iracheno.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

il manifesto,

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La formula di rito, «le sentenze si rispettano», vale anche in questo caso, che riguarda la vicenda del sindaco di Riace, benché non si tratti ancora di una sentenza. L’indipendenza della magistratura è un fondamento dello stato di diritto ed è una garanzia per tutti, specie di questi tempi, in cui la legalità soggiace troppo spesso ai rapporti di forza esistenti. Ma questo non significa che non si possano fare riflessioni critiche sulla magistratura, com’è diritto e obbligo di ogni cittadino consapevole. E allora l’arresto di Mimmo Lucano, un sindaco - come hanno scritto e testimoniato a migliaia, in passato e in questi giorni - che ha fatto rinascere e dare speranza alla gente di una terra segnata dall’abbandono e da una criminalità endemica, è una enormità.

Una enormità da inquadrare in un contesto storico.

Perché qualche considerazione d’insieme sull’opera della magistratura in Calabria occorrerebbe farla. È necessario che l’opinione pubblica nazionale si ponga qualche domanda sul fatto che in una terra dove l’amministrazione di un grande città come Reggio, viene sciolta per mafia, dove a San Luca d’Aspromonte da anni non si riesce ad eleggere un sindaco, venga arrestato il primo cittadino di un centro che fa della solidarietà umana un principio di sopravvivenza della popolazione. È una domanda a cui occorre aggiungere una considerazione più ampia. Perché se è vero che in Calabria operano magistrati come Nicola Gratteri e altri meno noti di lui, che rischiano la vita facendo il proprio mestiere, è anche vero che un’ampia zona di inerzia domina il resto della magistratura regionale.

Si mette sotto controllo il telefono di un sindaco - certo, disinvolto e arruffato nel rispetto delle regole amministrative - ma il cui disinteresse personale è noto anche alle pietre della strada, e che cosa si è fatto per smantellare le reti del caporalato che fanno schiavi i ragazzi nordafricani nelle campagne di Rosarno?

Che cosa ha fatto la magistratura calabrese per perseguire gli autori dei tanti incendi che in questi anni hanno distrutto migliaia di ettari di bosco, devastato campagne, ucciso persone e animali? Dov’erano e dove sono tanti magistrati calabresi, quando si costruisce abusivamente, si elevano case in zone franose, si deturpano le coste, si piantano pale eoliche tra gli uliveti, si fa a pezzi un paesaggio che un tempo era uno dei più selvaggi e suggestivi della Penisola? E dunque una parola di verità bisogna pur dirla.

Se il territorio di questa regione è oggi uno dei più sfigurati d’Italia, una responsabilità non piccola è addebitabile all’inerzia della sua magistratura, alla sua insensibilità civile, alla sua modesta cultura. È da qui, solo da questo capovolgimento assurdo dei valori, che è potuta venire l’enormità dell’arresto di Mimmo Lucano.

Un'altra indecente iniziativa di “tolleranza zero” del Ministro dell’Interno e dei suoi zelanti reggicoda: la Guardia di finanza ha arrestato e posto ai domiciliari il sindaco dell'accoglienza di Riace. Segue (m.c.g.)

L'accusa é di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed illeciti nell’affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti. L’arresto è stato fatto in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Locri su richiesta della Procura della Repubblica. Mimmo Lucano è un amministratore lungimirante che ha ridato vita a un comune della Locride grazie a una fertile esperienza di integrazione fra la popolazione e i migranti ormai nota in tutto il mondo. Contro di lui, definito “uno zero assoluto” da Salvini, è in atto una feroce campagna denigratoria: è stata censurata la fiction prodotta dalla RAI, ad evitare che la sua innovativa esperienza di accoglienza e integrazione circolasse nelle case degli italiani; si sono avviate indagini da parte di Procure zelanti (vi ricordate le iniziative, finite nello ‘zero assoluto’, del Procuratore di Agrigento Patronaggio contro le ONG?).
Ma non finisce qui. In attesa di una grande mobilitazione in difesa di un sindaco davvero visionario, continuiamo a sostenerlo, anche con il nostro contributo economico!
Ecco le coordinate della raccolta fondi per Riace organizzata dalla Rete di Comitati per la Solidarietà
Destinatario: Recosol. Iban: IT92R0501801000000000179515
Causale: Riace.
Codice Bic ( per bonifici bancari internazionali): CCRTIT2T84A.

SGOMBRIAMO IL CAMPO DALLE SCIOCCHEZZE sui fatti di Bari:

1) NON C'E' STATA ALCUNA RISSA, né vera né sfiorata. I fascisti ci hanno aggredito a freddo e con armi bianche mentre avevamo già cominciato ad allontanarci lungo via Crisanzio, ovviamente disarmati.
Io sono stato colpito alle spalle, sulla testa, con lo scopo evidente di far male davvero.

2) NON C'E' STATA ALCUNA PROVOCAZIONE.

I fascisti hanno percorso circa 100mt dalla loro sede per raggiungerci. Non c'era stato alcun contatto se non quello visivo.

Siamo anche incredibilmente riusciti a non insultarli quando si sono avvicinati. Eravamo infatti preoccupati per la presenza di bambini in passeggino. Abbiamo gridato "Ci sono dei bambini" e "Stiamo andando via" mentre loro ci colpivano con la bava alla bocca e gli occhi fuori dalle orbite urlando in dialetto barese.

3) NON C'ERA ALCUN PIANO DI ASSALTO ALLA LORO SEDE.

Che accusa ridicola, procedevamo alla spicciolata e ci stavamo "concentrando" in 5 persone, tra cui due passeggini. Hanno paura, questi fascisti, eh?

Semplicemente, via Eritrea incrocia via Crisanzio, che era la strada di deflusso più naturale dalla piazza in cui era finito il corteo antifascista (piazza del Redentore) verso la stazione e l'università, zona da cui eravamo partiti. Ci siamo fermati perché una ragazza di colore con bambina piccola aveva paura a rientrare a casa in via Eritrea dato l'assembramento fascista poco lontano. Si dovrà accertare il motivo per cui le forze dell'ordine erano assenti in quel punto ad impedire un contatto assolutamente prevedibile.

Abbiamo denunciato gli aggressori e raccontato i fatti nei dettagli. Andremo fino in fondo a questa storia.

Il primo obiettivo è che la sede barese di queste belve, un mix di frustrati e delinquenti comuni, nulla a che vedere con la politica, chiuda immediatamente.

I giornalisti mi hanno detto che Salvini avrebbe parlato di clamore esagerato dai media. Io penso che se un militante della Lega fosse stato colpito e ferito come capitato a me, o anche molto meno, da chiccchessia, per qualunque motivo, lui avrebbe parlato di terrorismo e mandato l'esercito, come minimo.

La malafede di questo fiancheggiatore dei fascisti è palese.

E' indegno che questa figura sia Ministro della Repubblica.

L'aggressione ai partecipanti alla manifestazione "Mai con Salvini" di ieri sera a Bari conferma che il fascismo oggi in Italia non è un rischio, ma un realtà operante con la complicità del governo. Link all' articolo de il fatto quotidiano. (e.s).

Sono passati ormai 10 giorni da quando il ‘Presidente del Consiglio’ Conte ha pronunciato alla Fiera del Levante il suo indecente discorso sulla rinascita italiana dopo l’8 settembre del 1943. Segue

Sono passati ormai 10 giorni da quando il ‘Presidente del Consiglio’ Conte ha pronunciato alla Fiera del Levante il suo indecente discorso sulla rinascita italiana dopo l’8 settembre del 1943.

Sulla stampa generalista si è parlato, per lo più, di una gaffe e si è sottolineato che, probabilmente, l’ineffabile personaggio (o un suo ghost writer) voleva fare riferimento al 25 aprile. Ma fra la Liberazione e l’inizio del cosiddetto miracolo economico sono passati ben 10 anni! E, soprattutto, la gaffe appare intollerabile perché Conte ha dimostrato di non avere alcuna consapevolezza su cosa abbia significato, per un paese già martoriato dalla guerra, l’8 settembre: la fuga vile del re e di Badoglio, lo sbandamento dell’esercito italiano lasciato senza una guida, le migliaia di morti militari e civili, la Repubblica Sociale, gli eccidi di popolazione inerme da parte dell’esercito nazista in fuga verso Nord e… la Resistenza Partigiana!

Sant'Anna di Stazzema, luogo dell'eccidio di centinaia di civili
da parte dei nazisti in ritirata e dei fascisti: 12 agosto 1944.
Fonte: foto di Maria Cristina Gibelli

Signor Conte: Marzabotto, le Fosse Ardeatine e Sant’Anna di Stazzema le ha mai sentite nominare? Ed è a conoscenza degli 87.000 militari caduti partecipando alla Guerra di Liberazione?

Nessuna reazione dagli accademici e, in particolare, dai giuristi?

Nessuna protesta formale da parte degli atenei e, in particolare, dalle Facoltà di Giurisprudenza?

Il prof. Conte ha delegittimato, con la sua ignoranza, tutti coloro che hanno insegnato o insegnano nell’università: qualcuno se ne è accorto?

lavoce.info, Il Parlamento europeo ha approvato la nuova direttiva sul copyright. Tra maggiori tutele per i produttori di contenuti e rischio di censura, ora spetta ai singoli stati recepire e applicare la nomativa. (m.p.r.)

La tutela dei diritti di proprietà, anche intellettuale

Molto probabilmente esiste un larghissimo accordo intorno all’importanza dei diritti di proprietà per il buon funzionamento di un’economia di mercato, pur in presenza di un settore pubblico di dimensioni relative ampie. Secondo un vasto novero di scienziati sociali, che va dai giuristi ai filosofi, dagli scienziati politici agli economisti, la loro definizione e tutela rende più ordinata e vivibile la vita collettiva, anche se ciò può portare a una disuguaglianza notevole nella distribuzione di questi diritti. Gli economisti sono particolarmente interessati al modo in cui diritti di proprietà ben definiti inducano cittadini e imprese a investire di più, in modo tale da aumentare l’utilità e il rendimento che ricavano dai beni che ne sono oggetto: perché mai dovrei ristrutturare una casa se esiste un rischio elevato di essere espropriato oppure di essere deprivato del bene da parte del primo che passa?

La civiltà industriale si è col tempo sviluppata anche grazie alla definizione dei cosiddetti diritti di proprietà intellettuale, cioè sulle opere dell’ingegno umano (brevetti, software, design, marchi, diritto d’autore), fissando generalmente limiti temporali, cosicché, a un certo punto, le idee possano diventare patrimonio comune – e non privato – degli esseri umani. La tecnologia, nel nostro caso l’invenzione di internet insieme con il ruolo progressivamente più esteso dei social network, impone la necessità di pensare a come questi diritti di proprietà intellettuale – e in particolare i diritti d’autore – debbano essere tutelati in presenza di una possibilità di espandere (quasi) infinitamente i contenuti digitali: può accadere infatti che lo stesso filmato o la stessa notizia divenga virale e finisca per apparire su centinaia di migliaia di pagine internet.

Per qualche tempo è stata coltivata l’illusione che i meccanismi di trasmissione dei contenuti su internet potessero essere decentrati secondo un meccanismo apprezzabilmente “democratico”. Al contrario, la dominanza di pochi motori di ricerca e pochi social network ha fatto sì che la distribuzione dei contenuti sia invece prevalentemente avvenuta in maniera accentrata, secondo un meccanismo di finanziamento basato in larga parte sugli introiti pubblicitari ottenuti dalle grandi piattaforme. La lamentela dei produttori di contenuti è che le piattaforme hanno potuto sfruttare i contenuti senza pagare “il giusto prezzo”, che dipenderebbe per l’appunto da una remunerazione del diritto d’autore: ciò vale per giornali e produttori di notizie nei confronti dei siti che aggregano le notizie, come Google News, e per i produttori di video e brani musicali che compaiono su YouTube e social network come Facebook e Twitter.

Due articoli per i produttori di contenuti

Ebbene, questa settimana il Parlamento europeo in seduta plenaria ha approvato a larga maggioranza una direttiva sul copyright digitale che – negli articoli 11 e 13 – sposta il bilanciamento della tutela del diritto d’autore nella sfera digitale a favore dei produttori di contenuti e a svantaggio delle grandi piattaforme. L’articolo 11 in particolare si focalizza sull’estensione del diritto d’autore per gli editori e in generale i produttori di notizie rispetto agli “information society service providers”, cioè le piattaforme che ospitano link e riassunti delle notizie. Naturalmente, le grandi piattaforme – da Google a Facebook, a Twitter – hanno rimarcato come l’aggregazione di contenuti da parte loro aumenti di molto il numero di utenti che vengono smistati dalle piattaforme stesse agli articoli originali, così da aiutare i produttori a ottenere ricavi, pubblicitari e non. La replica degli editori è che – nel caso delle notizie – il riassunto della notizia stessa è la notizia, cosicché la piattaforma finirebbe per cannibalizzare i siti originali senza un’adeguata compensazione.

Nel caso invece dell’articolo 13, il riferimento è ai contenuti audio e video, per i quali è necessario che le piattaforme verifichino l’identità di chi detiene il diritto d’autore e – grazie a tecnologia adeguata – siano in grado di rimuoverli sotto richiesta di chi detiene i diritti originali. I detrattori della norma lamentano il rischio di censura, nella misura in cui ogni riutilizzo creativo di contenuti, ad esempio nella forma di una parodia o di una replica, sia potenzialmente soggetto alle richieste di eliminazione dalla piattaforma da parte dei creatori dei contenuti originali.

Come al solito nelle faccende sociali, economiche e giuridiche, entrambe le parti coinvolte nella contesa hanno le loro ragioni da far valere attraverso attività di lobbying e di propaganda verso l’opinione pubblica. In attesa che il processo legislativo UE faccia il suo corso (è necessaria l’approvazione dei singoli stati perché la direttiva possa essere definitivamente applicata attraverso provvedimenti legislativi nazionali), si può rilevare come sia sensato che il pendolo della tutela dei diritti di proprietà e di utilizzo da parte di terzi si muova ora nella direzione favorevole ai primi, così da incentivare e finanziare la produzione di contenuti. Tuttavia, per rispondere alle forti critiche mosse dagli oppositori, è importante che il pendolo non si sposti eccessivamente nella direzione presa questa settimana, e in particolare che si eviti un utilizzo strumentale della nuova disciplina – specialmente dell’articolo 13 – per censurare contenuti sgraditi. Sotto questo profilo è opportuno rammentare che nulla vieta, anche nel nuovo contesto normativo, di produrre contenuti gratuiti per i quali nessuna disputa “sul giusto prezzo” può aprirsi, in quanto il produttore stesso ha deciso di facilitare la diffusione azzerando il proprio guadagno monetario diretto.

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  • il Fatto Quotidiano

    Caro direttore,

    sul Corriere della sera di lunedì scorso, 13 agosto, l’ex membro della corte costituzionale Sabino Cassese ha riscritto l’articolo 1 della Costituzione, virandolo all’imperfetto: «La sovranità apparteneva al popolo». È questo il senso ultimo dell’editoriale in cui si afferma che «non basta godere della fiducia dei propri elettorati, bisogna anche rassicurare i mercati», per concludere con una bacchettata agli ingenui che «hanno un concetto troppo elementare della democrazia, intesa come un rapporto esclusivo, stretto soltanto tra un popolo e il suo governo». Nello stesso giorno, il supplemento economico dello stesso Corriere pubblicava un altro editoriale del professor Cassese, in cui il nostro Stato non più sovrano viene esortato calorosamente a riprendere il filo delle privatizzazioni, spogliandosi del poco che gli è rimasto.

    Dal punto di vista di Cassese, che è quello della classe dirigente a cui dobbiamo l’Italia che abbiamo (e che, nel suo cerchio più interno e solidale, stringe anche gli ultimi due capi dello Stato, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella), si tratta di ovvietà: è ovvio che la volontà popolare non conti più nulla, è ovvio che la sovranità appartenga ai mercati e ai loro pagatissimi consulenti e difensori, è ovvio che lo Stato debba continuare a smontare se stesso (anche se lo ha fatto più di tutti gli altri in Europa, dopo il Regno Unito della Thatcher e Blair, e con risultati orrendi sotto il profilo economico, politico e morale). Coerentemente Cassese – che è stato ministro della Repubblica e appunto giudice costituzionale – non ha avuto alcun problemi a far parte del board di difensori di Vivendi contro gli interessi italiani: una cosa capace di scandalizzare solo chi ha un concetto troppo elementare dell’amor patrio.

    Ho dunque espresso questo stesso giudizio su twitter: «Per Sabino Cassese, sul Corriere di oggi, è troppo elementare l’idea di democrazia in cui un governo risponde al popolo. A essere davvero sovrani sono i mercati e i loro esperti-mandarini, profumatamente pagati. Ebbene, come si fa a non essere antisistema se questo è il sistema?». Ora, mi aspettavo risposte indignate o liquidatorie di berlusconiani d’antan, professori ultraliberisti, confindustriali trinariciuti. Invece, chi è che a muso duro mi scrive prima un gentile: «Quindi?», poi un garbatissimo: «Mentre leggevi il testo stavi ascoltando musica? Perché ho impressione che tu abbia capito molto poco»? Nientemeno che il presidente dell’Emilia Romagna e della Conferenza delle Regioni, il piddino Stefano Bonaccini. Passato lo stupore - sì, non smetto di stupirmi di fronte a una ‘sinistra’ che vede il mondo come la destra -, ho replicato che «Ad aver capito poco di tutto questo è il suo partito. Purtroppo per il suo partito e anche per questo Paese, oggi finito proprio per questo nelle mani di Salvini». A questo punto, Bonaccini è uscito dal seminato ricorrendo alla meravigliosa retorica dei gufi: «Se siamo nelle mani di Salvini suddividiamoci almeno la responsabilità visto lo sforzo che lei ha prodotto per attaccare quotidianamente il Pd ed i governi di csx. E visto il successo del suo progetto politico. Applausi».

    L’allusione al ‘mio’ progetto politico si riferiva, credo, a quello partito dal Brancaccio: fallito perché ciò che ne è nato (senza la mia partecipazione), e cioè Liberi e Uguali, era troppo vicino e appiattito sul Pd, non certo a causa di un suo radicalismo antisistema di sinistra (magari ci fosse stato). Quel che sfugge a Bonaccini e alla gran parte del Pd è proprio questo: un partito che introietta e fa propria ancora oggi l’analisi della realtà di Cassese (un’analisi che aderisce entusiasticamente alla realtà che descrive), dicendo al popolo che la sua volontà non conta né conterà più nulla, si candida a perdere in eterno, in un Paese in cui questo stato delle cose ha prodotto 11 milioni di italiani a rischio di povertà. Ed è quasi commovente che la dirigenza di un partito che ha governato per decenni potendo letteralmente tutto, oggi addossi la colpa ai pochi intellettuali che, da sinistra, ogni giorno dicevano al Pd che si sarebbe schiantato contro un muro, e non a a se stessa, che guidava a folle velocità precisamente contro quel muro.

    Quando parla di una sovranità più larga di quella popolare, Cassese allude a quella dei grandi organismi finanziari: per esempio la banca JP Morgan, che sostenne (insieme a lui) la riforma costituzionale del Pd, che aveva il preciso intento di diminuire il potere dei cittadini. La maschia reazione da tastiera di Bonaccini dimostra che il Pd è sempre fermo lì, entusiasticamente a guardia dello stato delle cose: lasciando così tutti coloro che (letteralmente) non sopportano più questo sistema a votare per Salvini e per Di Maio. Cosa deve ancora succedere perché il Pd inizi a capirlo?

    la Repubblica,

    Maschi di razza bianca tra i venti e i quaranta – l’età della guerra – quasi tutti con i capelli cortissimi, giubbotti di pelle, felpe nere e occhiali neri, l’atteggiamento muscolare/marziale di chi presidia un territorio per allontanare un pericolo, respingere un nemico. Sono gli attivisti argentini di Pro Vida che manifestano contro la legalizzazione dell’aborto (foto pubblicata ieri su questo giornale), fronteggiando, falange di uomini, un corteo di donne. Ma per capire dove siamo, e di quale gruppo umano si tratta, ci vuole la didascalia. Perché potrebbero benissimo essere, al primo sguardo, manifestanti polacchi o ungheresi o austriaci in supporto ai loro governi nazionalisti, o ultras di una delle tante curve di destra che, con poche eccezioni, governano negli stadi europei. Si tratta di un’antropologia piuttosto uniforme: etnicamente monocolore e maschile quasi in purezza, con sparutissime femmine a fare da supporter – mai, comunque, da leader.

    A un colpo d’occhio vincolato alle tradizioni novecentesche parrebbe un’antropologia fascista, o fascistoide. In Europa abbiamo imparato a chiamarli "sovranisti", e le debite differenze storiche, territoriali, politiche, se non si vuole cadere nel luogo comune, vanno sicuramente fatte. Ma alcuni ingredienti ideologici si ritrovano ovunque, tra i supporter di Trump come tra quelli di Putin, di Orban, di Salvini. Il mito del Popolo come entità innocente corrotta dalle élite borghesi, la Nazione come fonte di purezza contaminata dal cosmopolitismo, la religione cristiana intesa come omaggio alle tradizioni, non certo come impegno solidaristico, una sempre meno malcelata omofobia, un diffuso antisemitismo, un vigoroso, quasi festoso antifemminismo, come se qualcuno avesse finalmente levato il coperchio al pentolone ribollente della frustrazione maschile.
    Questo ultimo aspetto – il revanscismo maschile – è esplicito nel caso di Pro Vida e di tutti i movimenti analoghi, per i quali l’autonomia del corpo femminile è un attentato non "alla vita" – come dice una propaganda che di fronte all’aborto clandestino non ha mai fatto una piega - ma all’ordine patriarcale. Ma sarebbe il caso di considerarlo più estesamente, più attentamente, come una delle componenti fondamentali della grande revanche della destra politica (comunque la si voglia chiamare) in tutto l’Occidente.
    È certamente lecito domandarsi quanto un’onda reazionaria di queste dimensioni attinga dagli errori delle democrazie, e/o dalla rigidità dogmatica di certi sbocchi del politicamente corretto: basti
    pensare alla scia non sempre limpida del movimento #MeeToo e allo zelo persecutorio contro molestie sessuali forse non così efferate da meritare la riesumazione venti o anche trent’anni dopo. Ma le dimensioni e la compattezza del neo maschilismo di destra sono tali da far capire che non possono essere, a nutrirlo, i codicilli e le fumisterie di quell’imponente corpus di libertà e giustizia che è il processo di autodeterminazione delle donne. C’è, evidentemente, qualcosa di molto più profondo e molto più sostanziale, a provocare tutte queste adunate di maschi in posa da maschi: e questo qualcosa è l’autodeterminazione delle donne in sé, della quale l’interruzione di gravidanza è una delle pagine più complicate e più inevitabili, con la legalizzazione a fare da discrimine secco tra un prima di sottomissione e un dopo nel quale le scelte della femmina contano, scandalosamente, tanto quanto quelle del maschio.
    Se vale l’ipotesi che siano l’insicurezza del maschio e la sua disperata voglia di rivincita, uno dei motori delle nuove destre in marcia, allora andrebbe percentualmente ridimensionata l’influenza che la crisi economica ha sull’aggressività montante da un lato; e sulla crisi della democrazia dall’altro. È un’influenza oggettiva, quella della crisi economica, e di grande rilievo: ma se ne parla sempre come dell’unica benzina che alimenta il motore delle destre nazionaliste, insieme all’additivo, potente, della paura dello straniero. Molto meno si parla del brusco processo di respingimento, sia esso cosciente o istintivo, che le donne subiscono all’interno degli assetti del nuovo potere.
    Del trionfo di quella quintessenza del maschio alfa che sono i nuovi leader populisti, i Trump, i Putin, gli Erdogan, giù giù fino a Orban e Salvini; della pallida presenza femminile (anche a sinistra...) negli ultimi scorci – così decisivi – della politica italiana; degli undici maschi su undici nello staff social di Matteo Salvini; della presenza marginale, e quasi mai menzionata, delle donne nel nuovo agone mediatico, che sembra costruito a misura di maschio a partire dalla vocazione all’insulto, alla sopraffazione, alla prova di forza che soppianta ogni dialettica e ogni riflessione. Di più "maschile", nel novero dei paesaggi sociali e dei passaggi storici, rimane solamente la guerra: alla quale, per linguaggio, per atteggiamento, perfino per abbigliamento, sembrano in qualche modo predisporsi i manipoli di giovani maschi già bene addestrati, in lunghi decenni di imbelle assenza dei governi (questo sì, un errore fatale della democrazia), nelle curve degli stadi di tutta Europa. E adesso molto visibili anche nelle piazze.

    Perché la Marcia Perugia-Assisi? Perché, come disse Aldo Capitini, è «un tentativo di entrare dentro il terreno della politica con una forma partecipativa ancora non sperimentata nel nostro paese». Questa marcia, ebbe modo di dire sempre Aldo Capitini riferendosi alle classi popolari, «è fatta per loro, perché i contadini sanno camminare, mentre sono a disagio nelle conferenze». Parole sacrosante...da sottoscrivere.

    Capitini definisce il suo pensiero come legato a una «prassi pura», cioè una pratica che realizza «un'intenzione retta che discende da un’adesione incondizionata alla verità». Frasi come «un primo lavoro da fare è di togliere tutte le crudeltà e le uccisioni inutili, se si vuole tener fede al principio di estendere l’unità anche con gli esseri subumani», oppure, parlando direttamente ad una pianta, «io non ti distruggerò; tu non sei per me un oggetto, uno strumento freddo, ma sei una compagnia, una presenza, un essere che ha in sé un soffio e un’apertura all'aria, alla luce, simile a quelli che ho anch’io», sono riflessioni che raccolgono una tensione universale.

    La nonviolenza è amore, «essa è la scelta – scrive Capitini – di un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di qualsiasi essere vivente, e particolarmente di esseri umani».

    Se non si usa la violenza, trionfano i cattivi? Capitini scrive che innanzitutto anche «l’uso della violenza non ci dà sufficiente garanzia che trionfino i buoni, perché l’uso della violenza richiede che si facciano tanti compromessi» e poi, che «se per tenere testa ai cattivi, bisogna prendere tanti dei loro modi, all’ultimo realmente è la cattiveria che vince» e che, così, «scompare la differenza tra noi e loro, e c’è bisogno che sorga una differenza netta tra chi usa le armi potenti, e chi usa altri modi, con fede che essi trasformino il mondo».

    Un percorso di crescita comune: «l’educazione moderna si svolge non soltanto lungo la linea di passaggio dal centro dell’educazione dall’educatore all’educando, ma anche lungo quella di una coscienza sempre più precisa dell’educarsi insieme».
    «Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina. In modo che più volte, mentre chi fa male ottiene ricchezze, onori e potenza, chi lo nomina è strascinato in sui patiboli, essendo gli uomini prontissimi a sofferire o dagli altri o dal cielo qualunque cosa, purché in parole ne sieno salvi»

    Giacomo Leopardi

    L'Espresso, 1 agosto 2018. «A 38 anni dalla strage non conosciamo ancora i mandanti, ma sappiamo molte verità. Milano, Brescia, Bologna, le bombe sui treni, non sono attentati scollegati: sono stragi inserite in una più ampia strategia della tensione. Con mani esterne che hanno sempre lavorato contro la verità»

    Strage di Stato. È la definizione-shock che fu coniata, in origine, per piazza Fontana: la prima bomba nera, quella del 12 dicembre 1969 a Milano (17 morti). Significa che pezzi dello Stato sono stati complici degli stragisti. È la più tragica anomalia italiana. Il terrorismo colpisce in tutto il mondo, ma nei Paesi civili è contro lo Stato, che unisce le sue forze per combatterlo. In alcune nazioni, invece, è dentro lo Stato. Per anni la tesi della strage di Stato fu liquidata come “un’invenzione della sinistra”. Oggi è il marchio ufficiale del terrorismo di destra italiano, confermato già da quattro sentenze definitive. Ignorate o dimenticate. Anche se raccontano gli anni più neri della nostra democrazia. E offrono una chiave che potrebbe aprire l’armadio dei misteri anche delle stragi mafiose. Strategia della tensione. Dal passato al presente. Da Milano a Bologna. Da Palermo a Roma.

    Per la bomba che nel 1969, l’anno delle lotte operaie e studentesche, devastò una banca di Milano precipitando l’Italia nel terrorismo politico, sono stati condannati in tutti i gradi di giudizio, per favoreggiamento, due ufficiali dei servizi segreti militari (l’allora Sid): il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio La Bruna. Entrambi affiliati alla loggia massonica P2. Invece di aiutare la giustizia, distruggevano le prove e facevano scappare all’estero i ricercati per terrorismo, con documenti falsi e soldi dello Stato. Per l’eccidio in piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974, otto morti e 102 feriti) è stato dichiarato colpevole anche dalla Cassazione, nel giugno 2017, dopo decenni di depistaggi, un neofascista che era a libro paga dello stesso Sid, Maurizio Tramonte: un confidente nero che avvisò della bomba, ma i servizi non fecero nulla e poi bruciarono i verbali.

    Anche per la strage di Peteano (31 maggio 1972, tre carabinieri dilaniati da un’autobomba) le indagini e i processi di Venezia hanno comprovato depistaggi gravissimi, orditi da altri ufficiali dei servizi, tutti militari, come le vittime. E poi c’è Bologna, la bomba del 2 agosto 1980 alla stazione dei treni, che ha ucciso 85 innocenti. Per questo attentato, il più sanguinario, c’è un processo in corso contro un terrorista di destra accusato di essere il quarto complice, dopo i tre stragisti già condannati. E c’è una nuova indagine, ancora aperta, sui mandanti occulti. L’Espresso ha recuperato tutte le sentenze e altri documenti, finora inediti, che disegnano la stessa trama nera: strage di Stato. Anche a Bologna.

    Le linguette delle bombe a mano

    Valerio Fioravanti è un terrorista di destra condannato in via definitiva come esecutore materiale dell’attentato alla stazione. La giustizia al suo massimo livello (Cassazione a sezioni unite) ha confermato che fu lui, con la sua complice e convivente Francesca Mambro, a portare il micidiale ordigno in stazione. Dopo l’arresto nel 1981, i due killer neri hanno confessato dieci omicidi. Ma per la strage si sono sempre proclamati innocenti. In un processo separato, altri giudici hanno riconfermato la loro colpevolezza condannando un terzo terrorista dei loro Nuclei armati rivoluzionari (Nar), Francesco Ciavardini, 17enne all’epoca della strage. Dopo l’arresto, nel tentativo di sminuire la gravità degli indizi, Fioravanti dichiarò che lui e la Mambro erano «vittime dei servizi». Ma le sentenze certificano il contrario: furono protetti dal Sismi (l’ex Sid). Dopo la carneficina di Bologna, con una serie di depistaggi esplosivi. Ma anche all’inizio della carriera criminale. Come se fossero sempre stati creature dei servizi.

    Vito Zincani, il giudice istruttore della maxi-inchiesta sulla strage, ricorda bene le vecchie carte ora ritrovate da L’Espresso: «Fioravanti aveva rubato un’intera cassa di bombe a mano, modello Srcm, quando faceva il servizio militare a Pordenone. Era stato ammesso alla scuola ufficiali quando risultava già denunciato e implicato in gravi reati. Per capire come avesse fatto, abbiamo acquisito i suoi fascicoli. E negli archivi della divisione Ariete abbiamo trovato un documento dell’Ufficio I, cioè dei servizi militari: indicava proprio Fioravanti e Alessandro Alibrandi come responsabili del furto delle Srcm. Quelle bombe sono state poi utilizzate per commettere numerosi attentati. Sono fatti accertati, mai smentiti. Le Srcm hanno una linguetta metallica, con impresso un codice che identifica la partita. E noi abbiamo trovato le linguette, staccate dai terroristi, nei luoghi degli attentati. Quindi erano proprio quelle rubate da Fioravanti e Alibrandi. I servizi lo sapevano da anni. Ma non dissero niente ai magistrati che indagavano su quelle bombe».

    Alessandro Alibrandi è un terrorista nero che fu ucciso in una sparatoria con la polizia nel 1981. È stato uno dei fondatori dei Nar con lo stesso Fioravanti e con Massimo Carminati, arrestato di nuovo nel 2014 come presunto capo di mafia Capitale, ma già condannato negli anni Ottanta come armiere della Banda della Magliana. Tra Nar e Magliana era nata un’alleanza criminale, cementata da un arsenale misto di armi ed esplosivi. Il patto tra terroristi neri e big della delinquenza romana permise di allacciare rapporti con boss di Cosa nostra, riciclatori di denaro sporco, complici piduisti e servizi segreti.

    Le mille lire spezzate

    L’imputato del nuovo processo di Bologna, Gilberto Cavallini, è al centro di un caso ancora più inquietante. Il mistero di una banconota spezzata. Il 12 settembre 1983 i carabinieri perquisiscono a Milano un covo di Cavallini. Tra le sue cose, elencate nel rapporto, il reperto numero 2/25 è una stranezza: una mezza banconota da mille lire, con il numero di serie che termina con la cifra 63. All’epoca nessuno vi diede peso. Oggi, tra migliaia di atti ufficiali dell’organizzazione Gladio, la famosa rete militare segreta anticomunista, spuntano foto di banconote da mille lire, tagliate a metà, e fogli protocollati che spiegano a cosa servivano: erano il segnale da utilizzare per accedere agli arsenali, per prelevare armi o esplosivi, in particolare, dalle caserme in Friuli. Su una foto si legge il numero di una mezza banconota: le ultime due cifre sono 63. Le stesse delle mille lire spezzate di Cavallini. A Bologna oggi emerge che pure un altro terrorista nero, legato a Cavallini, custodiva una banconota tagliata, questa volta da centomila lire, scoperta durante il suo arresto. «Su queste coincidenze bisogna riflettere», ha commentato in udienza il presidente della corte d’assise, il giudice Michele Leoni. I legali di parte civile hanno già chiesto di acquisire quelle carte di Gladio.

    Per la strage di carabinieri a Peteano, le indagini del pm veneziano Felice Casson hanno già dimostrato (come si legge nella sentenza d’appello diventata definitiva) che il particolarissimo innesco dell’autobomba era uscito da un arsenale friulano di Gladio. Fu proprio quell’inchiesta a svelare l’esistenza dell’organizzazione segreta militari-civili, che il governo Andreotti presentò, nel 1990, come una struttura della Nato, destinata ad attivarsi solo in caso di invasione sovietica. In realtà quel deposito di Gladio, il cosiddetto “Nasco 203”, come ricorda oggi Casson, «fu trovato aperto: mancavano proprio due accenditori a strappo, registrati ma spariti, identici all’innesco di Peteano». Segno che, sotto l’ombrello di Gladio, operavano nuclei ristretti non militari, segretissimi, autorizzati a usare l’arsenale di Stato. Per finalità opposte alla difesa della patria.

    I servizi manovrati dalla P2 hanno sicuramente usato esplosivo di Stato per inquinare le indagini di Bologna. I vertici del Sismi iniziano a depistare subito dopo la strage, inventando una lunga serie di false «piste internazionali», prima di sinistra, poi di destra, ma contro i nemici dei Nar. Il 13 gennaio 1981 i depistaggi raggiungono l’apice: il Sismi fa ritrovare, sul treno Taranto-Milano, una valigia con un mitra, un fucile a canne mozze e otto contenitori con due tipi di esplosivi, identici alla miscela utilizzata per la strage di Bologna. Nella valigia ci sono passaporti e biglietti aerei intestati a due inesistenti terroristi stranieri. Con un’inchiesta da manuale, i magistrati dimostrano che è un’altra montatura del Sismi: l’ennesima «pista estera», costruita per salvare Fioravanti e i suoi complici. Il processo si chiude con la condanna definitiva del generale Pietro Musumeci, del colonnello Giuseppe Belmonte e del faccendiere dei servizi Francesco Pazienza.

    Due mesi dopo, il 17 marzo 1981, i magistrati di Milano, indagando su tutt’altro (il finto sequestro del banchiere Michele Sindona, organizzato da Cosa nostra) scoprono le liste degli affiliati alla P2: ci sono tutti i vertici dei servizi segreti, compresi Musumeci e il capo, il generale Santovito (morto prima del processo). Lo stesso Licio Gelli, da anni grande burattinaio dei servizi, viene condannato come regista del maxi-depistaggio di Bologna: un indizio decisivo è la scoperta che ha incontrato personalmente il capocentro di Roma del Sisde, il servizio segreto civile, e gli ha ordinato di smettere di indagare sui terroristi di destra per concentrarsi sulla (falsa) «pista internazionale». Una deviazione prontamente eseguita dal funzionario piduista. Nonostante le condanne definitive, alcuni politici della destra di oggi continuano a pubblicizzare fantomatiche «piste estere».

    Finora si pensava che i capi del Sismi fedeli a Gelli, con la valigia sul treno, avessero potuto duplicare l’esplosivo della strage grazie a una soffiata, una fuga di notizie sugli accertamenti, ancora segreti, dei periti giudiziari. Ma l’origine della bomba resta un mistero: non si è mai saputo chi fornì il composto militare (T4) che moltiplicò la potenza dell’ordigno. Ora il caso delle mezze banconote solleva un interrogativo spaventoso: i servizi sapevano tutto dell’esplosivo perché erano stati loro a procurarlo? Nella strage di Bologna anche la bomba ha il marchio di Stato?

    Di certo i legami con i servizi riguardano intere cordate di terroristi di destra. Fioravanti, nella gerarchia nera, è subentrato a Giuseppe Dimitri, arrestato nel 1979: nel suo covo furono sequestrate armi e 20 chili di esplosivo. E nell’agenda Dimitri aveva il numero riservato di Musumeci.

    Sergio Picciafuoco è un ex delinquente comune, reclutato nei Nar, che rimase ferito nella strage di Bologna, facendosi curare sotto nome falso. Sospettato di essere il basista, è stato assolto. Anche lui ha beneficiato di coperture straordinarie. Prima della strage viene fermato dai carabinieri in Alto Adige: è latitante da anni, viaggia su un’auto rubata e ha un documento vistosamente falso. Eppure viene lasciato libero, come scoprono i magistrati di Bologna. E continua a girare l’Italia con lo stesso documento in teoria “bruciato”. Viene arrestato solo nell’aprile 1981, mentre rientra dall’Austria con un falso passaporto molto particolare: ha lo stesso numero del vero documento di Riccardo Brugia, un altro terrorista dei Nar; e fa parte di un pacchetto di sette documenti falsificati con lo stesso metodo. Brugia è stato riarrestato nel 2014 come braccio destro di Carminati in mafia Capitale. Era il presunto responsabile del reparto estorsioni e pestaggi. La grande criminalità che ha spadroneggiato impunita per anni a Roma, secondo l’accusa, nasce dall’eredità nera dei Nar. Ed è cresciuta grazie alle complicità create negli anni del terrorismo.

    Nel nuovo processo di Bologna, ha dovuto testimoniare anche Luigi Ciavardini, il terzo condannato per la strage. E ha finito per confermare un fatto mai emerso prima: a Treviso, nei giorni della strage, i Nar non disponevano solo dell’appartamento dove viveva Cavallini, sotto falso nome. C’era un secondo covo, rimasto segreto. In aula, davanti alla corte, Ciavardini non ha difficoltà a ripercorrere le tappe della sua fuga da Roma dopo l’assalto armato al liceo Giulio Cesare, con l’assassinio dell’agente Francesco Evangelista e la sparatoria in cui restò ferito al volto, diventando riconoscibile. Così arrivò a Treviso, via Milano, per raggiungere Cavallini, che però non poteva ospitarlo. Di qui il rifugio segreto. Le parti civili gli chiedono l’indirizzo e chi lo ha ospitato. Ciavardini non risponde. Il presidente lo rassicura: qualunque ipotetica accusa per i suoi fiancheggiatori è ormai cancellata dalla prescrizione. Ciavardini ha ormai scontato la pena, è libero, per la giustizia non rischia nulla. Eppure lo stragista si trincera ancora nel silenzio. Perché tanto mistero? Le parti civili indagano ancora e hanno un’idea precisa: quel covo era vicino a una caserma e fu procurato dai servizi. Personaggi ancora in grado di impaurire un ex terrorista.

    Nell’atto d’accusa finale sulla strage di Bologna, il giudice Vito Zincani ha riassunto così i risultati della maxi-istruttoria, che portò a inquisire, con accuse diverse, decine di terroristi neri: «Non c’è alcuna delle persone coinvolte nelle indagini che non risulti collegata ai servizi segreti».

    Il documento “Bologna” e i soldi segreti

    Licio Gelli è morto nel 2015, senza aver scontato neppure un giorno di carcere per il depistaggio ordito dopo la strage di Bologna. A suo carico, oggi, emergono nuovi fatti, su cui indaga la Procura generale. Tutto parte dal crack del Banco Ambrosiano. Il capo della P2 è stato condannato come responsabile e primo beneficiario della colossale bancarotta dell’istituto di Roberto Calvi (il banchiere ucciso nel 1982 a Londra). Sui conti svizzeri di Gelli sono stati sequestrati oltre 300 milioni di dollari, usciti dalle casse dell’Ambrosiano. Tra le sue carte dell’epoca ora emerge un documento classificato come «piano di distribuzione di somme di denaro»: svariati milioni di dollari usciti dalla Svizzera proprio nel periodo della strage e dei depistaggi, tra luglio 1980 e febbraio 1981. Il documento ha questa intestazione: «Bologna - 525779 XS». Numero e sigla corrispondono a un conto svizzero di Gelli con il tesoro rubato all’Ambrosiano. Altre note, scritte di pugno da Gelli, riguardano pacchi di contanti da portare in Italia: solo nel mese che precede la strage, almeno quattro milioni di dollari.

    La commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, presieduta da Tina Anselmi, ha concluso che Gelli, già nei primi anni Settanta, aveva finanziato «gruppi terroristici toscani di ispirazione neofascista o neonazista», compresi i responsabili dei «primi attentati ferroviari». Ora si tratta di capire se il capo della P2, oltre a depistare, possa aver finanziato anche gli stragisti di Bologna.

    Paolo Bolognesi è il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto 1980. «A 38 anni dalla strage non conosciamo ancora i mandanti, ma sappiamo molte verità. Milano, Brescia, Bologna, le bombe sui treni, non sono attentati scollegati: sono stragi inserite in una più ampia strategia della tensione. Con mani esterne che hanno sempre lavorato contro la verità». L’associazione ha presentato i due esposti che hanno portato al processo contro Cavallini e alle nuove indagini sui mandanti. Bolognesi ha acquisito nuovi elementi anche come parlamentare della commissione Moro, nella scorsa legislatura: «Paolo Inzerilli, già capo di Gladio, ha ammesso che esisteva una “Gladio nera”, formata da ex fascisti e militari. Quindi abbiamo chiesto al ministero di fornirci gli elenchi di questi “nuclei neri”, ma il dirigente si è opposto con la scusa della privacy. Vista la reticenza, la commissione ha chiesto ai vertici dell’Aise, l’attuale servizio segreto militare, che ci ha mandato un plico di 600 pagine, ma senza alcun nome. Carta straccia, insomma. A questo punto ho chiesto alla commissione di indagare per depistaggio. E la procura di Roma ci ha chiesto gli atti e ha aperto un fascicolo. Questo dimostra che esiste ancora un pezzo delle nostre istituzioni che rema in direzione contraria alla verità».
    Tra i pochi che conoscono i segreti del terrorismo nero c’è Roberto Fiore, oggi leader di Forza nuova, che verrà sentito come testimone nel processo a Cavallini, con l’obbligo di dire la verità. Fiore fu condannato per banda armata come capo di Terza Posizione, l’incubatore dei Nar. Il 4 agosto 1980, due giorni dopo la strage, era a Castelfranco Veneto, dove accolse Ciavardini, che lo chiamava «capo». In giugno era in Sicilia, a casa di Francesco Mangiameli, assassinato da Fioravanti e Mambro perché aveva parlato della strage ad Amos Spiazzi, un ex colonnello dei servizi. La Cassazione nella sentenza definitiva scrive che Fioravanti e Mambro, dopo la strage, volevano uccidere anche Fiore: anche lui sapeva troppo?

    Poco prima della bomba, il 23 giugno 1980, l’attuale imputato Cavallini e il condannato Ciavardini avevano ammazzato, a Roma, il giudice Mario Amato. Come Vittorio Occorsio, ucciso quattro anni prima da Pierluigi Concutelli. Il giudice stava indagando sull’intreccio criminale fra terroristi di destra, banda della Magliana, servizi e loggia P2, che fu smascherata proprio dai due magistrati assassinati. Nel 1993, interrogato a Bologna, lo stesso Fioravanti, nel proclamarsi innocente, se ne uscì con una frase memorabile: «Siamo cresciuti col dubbio se le stragi siano opera di uno dei servizi infiltrato nell’estrema destra o se era uno di destra che tentava di infiltrarsi nei servizi». Luigi Ilardo, il boss di Cosa nostra che fu ucciso quando stava per pentirsi, confidò ai carabinieri che la mafia seguiva la stessa trama nera: «Per capire le stragi del 1992 e 1993 bisogna guardare agli anni della strategia della tensione. Cosa nostra le ha eseguite, ma quelle stragi sono state decise con settori deviati delle istituzioni, massoneria e servizi segreti». Di certo, anche nelle indagini sulla morte di Paolo Borsellino e della scorta, non sono mancati i depistaggi di Stato.

    Caro direttore, Roberto Saviano ha invitato a rompere il silenzio sulla politica e la retorica sostanzialmente fasciste di Matteo Salvini.

    Ho dedicato un piccolo libro (Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità, Edizioni del Gruppo Abele) al dovere di – sono parole di Bobbio – non lasciare il monopolio della verità a chi ha già il monopolio della forza: e lì ho indicato proprio in Saviano uno dei non molti intellettuali liberi, e disposti a schierarsi. Su Salvini, poi, ho preso la parola in ogni sede: scrivendo, tra l’altro, la prefazione al libro che Antonello Caporale e Paper First hanno dedicato al «ministro della paura».

    Ma rompere il silenzio non basta. Racconta Emilio Lussu di un comizio in cui, quando un ascoltatore reclamò: «voce!», si sentì rispondere: «orecchio!». Per battere questa destra orrenda serve più orecchio che voce.

    Ci vuole ascolto, per capire perché (oltre al tessuto ricco, e talvolta razzista, del Nord che da anni si riconosce nel potere della Lega) anche i poveri, gli ultimi, gli ‘scartati’ (come li chiama papa Francesco) hanno votato in massa per le forze che si sono saldate in questo governo. E perché, nonostante tutto, continuano a sostenerle. Se non lo capiamo, rischiamo di maledire un sintomo (Salvini) senza curare la malattia.

    È un problema di credibilità, certo: nessuna voce contro Salvini è sincera se non ha detto, o non dice, che Marco Minniti ha fatto di peggio, anche se lontano dalle telecamere. O se non dice che il Dario Nardella che si fa riprendere mentre spiana con le ruspe un campo rom a Firenze è un sintomo della stessa malattia. E così via.

    Ma c’è qualcosa di terribilmente più profondo. Come si fa a chiedere agli italiani sommersi e sfruttati di stringersi intorno ai valori della Costituzione proprio mentre Sergio Mattarella, massimo garante della Carta e del suo primo articolo, si genuflette di fronte ad un Sergio Marchionne? Questi è stato un formidabile campione della anti-costituzione materiale per cui lavoro e diritti non sono compatibili: se vuoi il primo, devi rinunciare ai secondi. Come si fa a non vedere che tra la canonizzazione di Marchionne e il consenso a Salvini c’è un nesso strettissimo? Come possiamo pensare che gli italiani in difficoltà ascoltino i nostri appelli antifascisti se essi sono sostenuti dallo stesso establishment che esalta Marchionne, il quale non ha voluto restituire all’Italia, e a ciò che resta del suo stato sociale, nemmeno i soldi delle tasse sul proprio gigantesco patrimonio? Come sperare che vengano ascoltati giornali e partiti nei quali Marchionne è esaltato come un super-uomo, in vita e in morte lontano anni luce dai sotto-uomini che muoiono sul lavoro, il corpo oscenamente sfranto in pubblico, o affogano aggrappati al relitto di una barca, sotto l’occhio delle telecamere?

    Tutto l’establishment che chiama al conflitto contro Salvini è quello che diceva e dice che non è possibile alcun conflitto sociale: che è invece lo strumento per creare giustizia sociale, ed è stato disinnescato proprio dal Partito Democratico e dai suoi sostenitori. Quando Salvini dice «prima gli italiani», nessuna risposta è credibile se non afferma la necessità di un conflitto invece «tra gli italiani»: tra i poveri e i ricchi, che «non vogliono le stesse cose» (Tony Judt).

    Alla sinistra dei politici, professori, giornalisti paghi di appartenere alla ristretta cerchia dei salvati, disinteressati a cambiare il mondo e capaci solo di parlare di ‘austerità’ e ‘responsabilità’, è subentrata una destra con una visione terribile e propagandistica, sanguinosa e fasulla. Salvini sa benissimo che non potrà cambiare in meglio la vita degli italiani: ed è per questo che accende la miccia della caccia al nero.

    Ma nessuna risposta capace di erodere questo disperato consenso può fermarsi alla proclamazione delle ragioni dell’umanità. Carlo Smuraglia ha di recente ricordato che «ben pochi giovani sarebbero stati disposti a prendere le armi e a cacciare i fascisti solo per tornare allo Statuto albertino: quello in cui il sovrano concedeva, di sua iniziativa, i diritti al popolo». Ebbene, davvero pensiamo di convincere gli italiani a una nuova (e ovviamente diversa) resistenza, solo per tornare all’Italia del Pd (e che sia il Pd di Renzi o Zingaretti davvero poco cambia), dell’inutile e distruttivo Tav, del Jobsact, e di tutto il resto?

    Bisogna saper vedere, e saper dire, che Salvini è il sintomo terribile, e finale, della malattia che ha devastato questo Paese anche ‘grazie’ a ciò che chiamavamo ‘sinistra’. Bisogna saper indicare un’altra strada per costruire giustizia, eguaglianza, inclusione. Rompiamo il silenzio con tutta la forza che abbiamo, d’accordo: ma, per capire cosa davvero dobbiamo dire, bisogna prima saper ascoltare il Paese. Mai come oggi «ci vuole orecchio».

    Tratto dal il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2018, pagina
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