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Un ricetta sarda che mi arriva in Rwanda tramite il sito di unamico maremmano. All’apparenza è una ricetta ottima;i culurgiones lo sono, sia quelli dell'Ogliastra (come questi) sia quelli del Campidano. Il mondo è bello perchè è vario. Alleo.it, rubrica "webfood", aprile 2013

INGREDIENTI

1 kg. di patate
600 gr. di farina di semola
300 gr. di pecorino fresco
200 gr. di pecorino
1 cipolla bianca
2 spicchi d’aglio
Foglie di menta
Olio extravergine d'oliva
Sale

PREPARAZIONE

Lessate le patate con la buccia e passatele ancora calde, intanto in un tegame versate un po’ d’olio con gli spicchi d’aglio, la cipolla tagliata, il sale e la mentuccia tritata finemente fate cuocere bene in modo che la cipolla perda la sua croccantezza, fate raffreddare e passate il tutto unendolo alle patate, sminuzzate il pecorino fresco ed aggiungete anche questo ingrediente, fate amalgamare bene tutti gli ingredienti in modo da formare un impasto abbastanza morbido ed omogeneo, assaggiate il composto che deve risultare alla giusta salatura non dal sale ma dal formaggio, coprite con un’asciughino e fate riposare.

Per la sfoglia impastate la farina con acqua tiepida e un filo di olio, l’impasto deve risultare elastico, sigillate la pasta con pellicola trasparente ed usatene un pezzo alla volta (la pasta non deve asciugarsi), tirate sempre una sfoglia alla volta altrimenti la pasta si asciuga e non sarà possibile eseguire la cucitura; dalla sfoglia ricavate dei dischetti del diametro di 6-8 cm. Per tagliare la sfoglia potete usare un coppa pasta o un bicchiere. Al centro di ogni disco mettete una noce abbondante di ripieno, ripiegate la pasta e saldate le due metà dell’involucro pizzicando i bordi in maniera alternata (prima a destra e poi a sinistra). Dovete arrivare a formare una sottile cordatura, simile ad una spiga, cuocete i culurgiones in abbondate acqua salata, serviranno 6-7 minuti circa (dipende dallo spessore della pasta). Condite i culurgiones con la passata di pomodoro fatta restringere su fuoco dolce con foglie di basilico, sale e olio extravergine d'oliva.
Disponete 5 culurgiones con una bella spolverata di formaggio grattugiato per ogni piatto e se qualcuno vuole fare il bis ricordate che i culurgiones si servono sempre in numero dispari.
nota La ricetta è tratta dal sito alleo.it- discovery contemporany culture, l'immagine da il mestolo magico.

E se tanto per cominciare lo chiamassimo Papocchiello, o Cionfoletto, invece di Seitan? Lo dico a uso dei cultori della cucina della mamma, col naso già pronto ad arricciarsi davanti a qualcosa che non fa parte del vocabolario più corrente, o peggio suona esotico, roba da stravaganti capelloni drogati appena tornati da uno dei loro malsani giri turistici. Allora, invece di Papocchiello o Cionfoletto chiamiamolo col suo nome tecnico, ovvero glutine di grano, perché si tratta di questo: un alimento ricco di proteine e senza grassi e colesterolo, di origine vegetale, che si usa in cucina per un’infinità di piatti unici e secondi, più o meno come se si trattasse di carne, anche se è una stupidaggine presentarlo come sostituto della carne. Ma su questo tornerò alla fine. Vediamo la ricetta vera e propria per farselo in casa.

Premetto che ci vuole un po’ di lavoro, ma nessuna abilità particolare, né ingredienti, né attrezzi. Giusto un pochino di tempo e pazienza, e alla fine si è – forse – fatta la pace con l’alieno, verificando che alieno non lo è affatto. Mentre un po’ alieno lo pare, sugli scaffali dei negozi e supermercati, venduto a caro prezzo (un paio di euro scarsi l’etto) tra i prodotti biologici. Per fare un calcolo rapido di convenienza, più o meno: quanto costa un chilo di farina? Ecco, con un chilo di farina e un po’ di sale si producono 3-4 etti di glutine pronto per la cucina. Vi conviene? A voi la scelta, una volta sommato l’olio di gomito naturalmente.

Il lavoro consiste nel preparare, con il chilo di farina (integrale, biologica, 00, come preferite e come magari vi consiglia qualcun altro) e tre cucchiai di sale, un impasto tipo pane o pizza, non troppo duro né che scappa da tutte le parti insomma. Chi ha poco spazio o non ha voglia di sporcare in giro, può usare il metodo dell’insalatiera, grande a sufficienza naturalmente per poterci lavorare un chilo di farina prima col cucchiaio di legno per incorporare l’acqua e poi impastarla un po’ a mano. Alla fine si copre e si lascia riposare un’oretta. In questa ora c’è il tempo per inventarsi il brodo vegetale di cottura, e di prepararlo materialmente, perché sarà quello che, alla fine, dà il sapore al Seitan/Cionfoletto/glutine di grano che ci siamo preparati. Nella pentola d’acqua, calcolata più o meno per contenere e coprire la massa di pasta che abbiamo lavorato (un po’ ridotta) ci possono andare verdure, odori, spezie, e la classica manciata di sale o cucchiaiate di salsa di soia. Magari anche un dado da brodo vegetale per i veri eretici che non se la tirano troppo col purismo.

Ecco, immaginiamoci quel brodo che sta sobbollendo già da mezz’ora e passa con carota cipolla sedano sale pepe o peperoncino, un mazzetto di rosmarino o quel fondo di origano restato lì dall’anno scorso ecc. Torniamo alla materia prima, che ha ancora la forma della palla di pasta da pizza. Adesso bisogna sciacquarla dall’amido, e ci vuole un po’ di pazienza, acqua corrente calda e fredda, e lo spazio per due insalatiere: una con l’acqua calda e alternativamente una con quella fredda. Si copre l’impasto e lo si lavora sott’acqua finché il liquido appare saturo di amido, poi si solleva l’impasto risciacquato e si ricomincia operazione nell’altra insalatiera. Per toglierlo tutto, l’amido, io ho impiegato una dozzina abbondante di passaggi prima di vedere che l’acqua non si intorbidiva più e la pasta cambiava decisamente consistenza. Se si usa farina integrale, il segnale che si sta finendo arriva dalla crusca che inizia a andarsene di colpo in gran quantità. Il consiglio degli esperti è di cominciare e terminare con il risciacquo in acqua fredda. In mano avete una palla, decisamente ridotta, di pasta molto plastica e un po’ appiccicosa. Pronta per essere cotta nel brodo e insaporita.

Il mio salsicciotto di seitan dopo la bollitura

La tecnica di cottura è come quella di certi insaccati: per stare insieme c’è bisogno di un contenitore di cotone o garza spessa, va benissimo un piccolo strofinaccio da cucina, o un grosso brandello di vecchia camicia se li tenete da parte. La forma più comoda poi da affettare per il consumo o la conservazione è quella del salsicciotto, naturalmente tenendo conto anche della forma della pentola in cui lo si cuoce. Ago, filo un po’ più solido di quello solito per attaccare i bottoni, ogni giro attorno al salsicciotto un punto o due dove si sovrappongono i lembi. Non c’è bisogno di essere uno stilista milanese, l’importante è fare un pacchetto che non rischi di sciogliersi sballottato nell’acqua bollente. Si cuoce a fuoco basso (per evitare eccessi di sballottamento inutili) tre quarti d’ora. Fatto.

Il brodo vegetale ovviamente non l’ho calcolato negli ingredienti, perché è cosa a parte, si usa per conto proprio, una volta estratto il salsicciotto. Io me lo metto in una bottiglia da riciclare in cucina per varie cose, altri ci fanno il risotto o la minestra o chissà. È brodo, e siamo in un paese democratico anche coi tecnici e i banchieri, per adesso. Ma dicevo all’inizio a proposito dell’idea di seitan come sostituto della carne, che è una sciocchezza: sostituisce la carne nel senso che dà un apporto nutritivo identico quanto a proteine, senza i grassi saturi e il resto, ma chi ci cercasse consistenza, o vago sapore simile, necessariamente resta deluso. L’altra cosa da lasciar perdere è l’idea di mangiarsi il seitan così com’è: non ha una sua personalità definita, anche se ovviamente sa di qualcosa e ha una propria consistenza. Ma consumato così ricorda certi piatti di maccheroni “acqua e sale” improvvisati in campeggio o a tarda notte, quando non si trova proprio nient’altro di commestibile. Allora il consiglio è di usare il glutine come se fosse appunto della pasta all’italiana, da accompagnare con altro, salsa, sughi, verdure condimenti vari, a piacere, meglio se su un modello spezzatino, tanto per tornare alla similitudine indebita con la carne.

Un metodo rapido da ultimo momento la sera è la scatoletta di piselli stufati (con le cipolle, o il sugo rosso) dentro cui si affettano sottili o a dadini 100 grammi di glutine a persona. Oppure al posto dei piselli ci possono essere le patate, o i peperoni, o i funghi. Insomma tutto ma non una fetta di quella cosa grigiastra ed elastica portata alla bocca da sola, che fa utilitaristica miseria. Se poi gli aficionados dell’alce cacciato a mani nude da Sarah Palin e cotto alla brace nella capanna di tronchi non sono ancora convinti, fatti loro. Scopo di questa facile ricetta era cercare di uscire dalla mistica del biologico o vegano come religione da strapazzo. Cosa del tutto fuori luogo, e che serve solo a qualche bottegaio per tenere prezzi assurdi. Ha senso, far pagare tutti quei soldi per il salsicciotto di glutine? Evidentemente no, ma lo si capisce appunto solo facendoselo da soli. Per chi apprezza, buon appetito.

(p.s. chi si è convinto che farsi il seitan sia complicato, provi a leggere della mia esperienza col tofu p.p.s. chi per le elezioni americane diceva che "tanto sono tutti uguali" non ha subito una quadriennale vicepresidenza di Sarah Palin, barbecue di grizzly con inni razzisti inclusi)

Si sa che la megalopoli è un grande melting pot: etnie, sostanze inquinanti, abitudini alimentari, affiliazioni politiche. Tutto scorre mescolandosi su e giù per i rivoli dei corsi d’acqua, dei nastri d’asfalto, dei binari e dei cavi in fibra ottica. E tutto cambia, a volte in meglio. È un miracolo possibile anche con Calderoli? Magari si, e vediamo la ricetta a partire dagli ingredienti ambientali.

Le orobiche valli bergamasche, oltre che per Arlecchino e le gare di moto fuoristrada, sono famose anche per la cosiddetta “polenta taragna”. Il nome taragna deriva da tarare, mischiare, perché durante la preparazione è necessario "tararla" di continuo a evitare che si attacchi sul fondo del paiolo. Non tanto la polenta, quanto il formaggio utilizzato di norma per comporre questo piatto unico: acqua, sale, farina mista di varie granaglie, burro e Bitto. Il quale Bitto viene prodotto prevalentemente nelle aree che mettono in comunicazione la Valtellina (provincia di Sondrio) con la Valbrembana (provincia di Bergamo) e che culminano nel passo dove sorge la leggendaria Ca’ San Marco, uno dei simboli mistico-territoriali della Lega Nord. Puro, inattaccabile e cristallino padanismo d’alta quota? Vediamo.

Il cuscus, dall’arabo “ rec-chesches” (=cibo tritato), poi solo “ chesches”, da cui la fonetica “ cuscus”, si accosta di solito a cibi saporiti, speziati, verdure, pesce … Va bene, va bene: ma anche qui zoccolo duro di mediterraneismo cristallino da quota zero calma piatta?

In fondo si diceva sopra che la megalopoli gira e rimestola tutto quanto, e ce lo insegna la geografia come “megalopoli” non sia quella cosa che dalle pagine dei giornali ci raccontano architetti e sociofagi di bocca buona: dentro ci stanno sia le aree di recupero urbano in joint-venture pubblico-privata, che la grande città diffusa delle pianure, dei fiumi e dei laghi, che, infine, anche le valli formaggifere. Come quella striscia di casupole che si snoda dalla “sacra” Ca’ San Marco, col suo bassorilievo cinquecentesco col Leone della Serenissima, nel verde dei pascoli. Dentro le casupole, una specie di versione locale della Maga Magò, sopra pentoloni brontolanti, produce il mitico Bitto. Ma: sacrilegio! Del Bitto si può anche fare a meno, come dimostrano generazioni di polente condite al formaggio buonissime, e come (ancora più sacrilegio!) alla polenta dalla necessariamente lunga cottura, si può sostituire il mitico cus-cus, o cous-cous per chi vuole la grafia francese a tutti i costi.


Insomma lasciamo le vette cristalline, il Leon cinquecentesco (che non mangiava el teròn, allora inesistente), e rientriamo nel mondo normale laicizzato, dove ad esempio i muratori orobici e quelli maghrebini si incrociano sui medesimi furgoni della trasformazione urbana più o meno strisciante, sui piazzali dei supermercati per lo spuntino volante di mezza giornata, o su quelli delle pompe di benzina nell’infinita coda serale che risale in disordine le arterie della megalopoli.

È con questi modi e tempi, che nasce la nuova cucina, con ingredienti trovati in fondo all’armadio, al frigo, o presi di corsa al supermercato sulla via di casa: cus-cus pronto dall’angolo farine o da quello “esotico”; un po’ di burro; una tazza di latte; sale qb; una confezione di strip-zola. Per chi non avesse colto il riferimento, dicesi “ strip-zola” quel genere di formaggio dal sapore lievemente pungente, che in effetti assomiglia un pochino al gorgonzola, viene venduto in varie forme nei supermercati lungo le strip metropolitane, e si apre strappando la strip di plastica trasparente, con gesto che libera la caratteristica invitante puzzetta, che raggiungerà l’apoteosi a fine preparazione.

Dosi, più o meno per due persone: una tazza di cus-cus; una tazza identica di latte e un bicchier d’acqua; una cucchiaiata abbondante di burro; un etto (o più, volendo) di strip-zola.

La preparazione richiede assai meno di questa infinita premessa, ovvero circa dieci minuti in tutto. Si mette a bollire il latte allungato e salato in un pentolino antiaderente. Nel momento in cui inizia a salire la schiuma si spegne, si aggiungono la tazza di cus-cus e il cucchiaio di burro. Dopo aver mescolato sino a sciogliere il burro, e aspettato alcuni minuti col pentolino coperto che il cus-cus abbia assorbito tutto il liquido, si riaccende il fuoco al minimo, e mescolando con una spatola di legno (gesto scaramantico che scaccia i fantasmi delle Magò Bittine) si incorpora lo strip-zola. Se l’insieme pare un po’ troppo compatto, basta aggiungere ancora un pochino di latte. Pronto!

Come insegnano alla fine tutte le ricette della taragna classica: sarebbe un piatto unico, però …. Però in qualunque posto, per quanto sia ricca e calorica, ve la offrono sempre accompagnata a salumi, carni ecc.

Anche il cus-cus taragno non vuole essere da meno, e si può proporre con cose sicuramente più leggere e digeribili, ma altrettanto se non più gradevoli. Si accompagna benissimo a verdure come le bietole ripassate all’aglio (meglio ancora non bollite prima, ma fatte appassire direttamente), o i porri ad anelli pure appassiti a fuoco lento, o una frittata di cipolle, per chi poi non deve fare un lungo viaggio in compagnia nell’abitacolo di un pickup regolarmente in coda sulla superstrada.

E la domanda iniziale: piacerà a Calderoli? La risposta, laicissima, suona: boh! In fondo, chi se ne frega.

Nota: per chi vuole accompagnare il cus-cus taragno a sensazioni forti, uno sfondo socio-canzonettaro, direttamente dal prato di Pontida (f.b.)

Da qualche anno è di moda il sushi, e i nostri connazionali fanno a gara a svuotare il portafoglio per gustarsi i caratteristici tagli scelti di pesce crudo accompagnato da salse varie. Per molti è davvero una scoperta esotica, quella di consumare pesce senza passare per la padella o il forno, mentre invece anche da noi esiste una consolidata tradizione di piatti di pesce crudo, spesso anche con qualità “povere”, ovvero accessibili a tutte le borse. Come gli sgombri.

Ingredienti: filetti di sgombro; sale; zucchero di canna; erbe aromatiche; olio d’oliva; aceto balsamico o succo di limone. Tempo di preparazione: dieci minuti di lavoro effettivo, e una giornata di attesa per completare la marinatura a secco.

Fatevi preparare dal vostro pescivendolo di fiducia i filetti di sgombro, o (se siete capaci, non è difficilissimo ma neppure cosa da poco) fateveli da soli. Nella maggior parte delle pescherie degli ipermercati i filetti di sgombro si vendono già pronti in vassoio, 4-6 filetti a un prezzo medio di circa 3-4 euro. La quantità a persona varia a seconda che li si voglia consumare come stuzzichino o secondo piatto vero e proprio. In questo caso servono un paio di sgombri, che significa 4 filetti a testa. Per lavorare agevolmente si consiglia di trattare 4-5 sgombri per volta.

Per la marinatura mescolare un paio di cucchiai scarsi di sale, un paio di zucchero, per ogni sgombro, una manciata di erba aromatica sminuzzata (a scelta: dragoncello, timo, rosmarino, origano ecc.), pepe in grani e macinato, uno spicchio o due di aglio. Si stendono i filetti su un piatto ribaltato posto dentro a un piatto fondo più grande – per tenerli rialzati e far colare il liquido – facendo via via degli strati ricoperti del miscuglio sale-zucchero-erbe- ecc.. Si ricopre e si lascia in frigo 12 ore.

Si puliscono lavando accuratamente con acqua corrente i filetti per eliminare il sale, si asciugano, si leva la pelle e le spine residue, e si affettano. Si posano su un piatto pulito e si condiscono con un filo d’olio e qualche goccia di aceto balsamico o succo di limone. Si accompagnano bene anche allo zenzero candito. Sono ottimi, una vera sorpresa per chi non li ha mai assaggiati.

Qualcuno sostiene che per ragioni igieniche debbano essere tenuti preventivamente in freezer un giorno o due. Noi per ora siamo sopravvissuti, ma è una precauzione da non prendere alla leggera: il pesce crudo è più pericoloso di un samurai offeso dall'accostamento dei nostri sgombri nazionalpopolari al sacro sushi.

Anche quest’anno è arrivato ottobre, e si continua a girare in maglietta, almeno nelle ore centrali della giornata, come se si fosse finalmente avverata la millenaria profezia delle vecchie zie: non ci sono più le mezze stagioni! Per fortuna qualche segnale dell’alternarsi eterno delle stagioni ce lo dà il capitalismo, nella sua versione civiltà dei consumi, che propone sugli scaffali del supermercato le classicissime pesche stoppose e insapori, o l’impennarsi dei prezzi unito al crollo di gusto dei pomodori.

Sempre sui medesimi scaffali, a confermare l’arrivo dell’autunno spuntano le patate dolci o americane, quelle bitorzolute di solito a buccia beige di cui non si sa mai bene cosa fare. Io le compro da anni soprattutto per infilarne una dentro a un vaso di vetro pieno d’acqua, e poi passare tutta la buia stagione invernale ripulendo la cascatina di foglie che ne spunta dopo qualche giorno, e ogni tanto aggiungendo un po’ di liquido. Innocenti evasioni.

Dato che al supermercato la perfida grande distribuzione ci obbliga però a comprarne un intero vassoio, di quei tuberi bitorzoluti, resta il problema di cosa farsene del resto. Un buon metodo per risolverlo è quello del purè di patate dolci, non solo variante esotica di quello comune, ma anche modo per accompagnare molto meglio certi piatti. Ingredienti semplicissimi, oltre alle patate: sale, olio d’oliva, latte di soia o riso. Le dosi variano a seconda dei gusti personali e del modo di consumo, ma più o meno per una persona bastano e avanzano un paio di patate medie, e col resto naturalmente ci si regola a occhio (mi spiace se siete il tipo di persone che non sa neppure scaldarsi l’acqua del tè: affidatevi alla vostra badante).

Preparazione pure semplicissima, le patate basta lavarle, farle a pezzi e cuocerle a vapore in pentola a pressione 7-8 minuti. La buccia si leva dopo molto più facilmente. Tagliare ancora in pezzettini più piccoli e schiacciare bene con una forchetta (o usare il passaverdura se poi vi piace scrostarlo, o il frullino, o non so cosa) aggiungendo via via sale, olio, latte di soia. Perché olio e latte “succedaneo” anziché burro e latte di vacca comune as usual con la schiacciata di tuberi della mamma? Perché l’olio – ne basta molto poco - aggiunge un po’ di gusto deciso e pungente che arricchisce il dolce delle patate, e il latte di soia è più leggero e dolce di quello munto. Con questi ingredienti poi non serve ripassare in casseruola.

Si può consumare così, come piatto unico se ci si accontenta (io mi accontento, se le patate sono tre o quattro), oppure accompagnare a formaggi dal sapore deciso, o a carni asciutte come certi tagli di maiale. In questo caso meglio abbondare un po’ col latte, e se si gradisce mescolare al tutto mezzo spicchio d’aglio lasciato a sobbollire una mezz’oretta nel latte. Buon appetito.

Come diceva già Scespir, l’inverno del nostro scontento prima o poi si fa gioiosa estate sotto il sole [1], ma in questa fine gennaio 2010 di sole se ne vede proprio pochino, la padania pullula ancora di cumuli nerastri gelati di neve, e ogni tanto la crosta si rinfresca con altri fiocchi.

È la vita, ma sono anche quei piedi gelati che sarebbe molto meglio godersi nello sfumato ricordo, in qualche appiccicosa sera di mezza estate piena di zanzare.

Per alleviare lo scontento da fine inverno, può essere utile qualcosa di caldo e pizzichino, pizzichino che prolunga la sensazione di caldo anche dopo la deglutizione e la lavatura piatti.

Ingredienti base semplici al limite della stupidità: farina 00, latte, cipolle, sale, pepe, un filo d’olio. Ingredienti complementari: inutili, o a piacere a seconda dei gusti e della voglia di cercare, vediamo poi. Ah: e la pentola, e il piatto (impossibile da preparare a cavallo, e nemmeno da infilare su un bastoncino attorno al fuoco da campo) ecc. con sottolineatura finale.

Dosi approssimative per ogni porzione: mezza cipolla, mezzo litro di latte, mezzo cucchiaio di farina, il resto q.b.

Preparazione: con un filo d’olio sul fondo di una pentola meglio se antiaderente, far appassire la cipolla a fettine leggermente salata, unire un po’ per volta la farina mescolando con un cucchiaio di legno, e poi versare il latte continuando a girare per evitare grumi. Salare ancora un po’, pepare o peperoncinare a seconda della scuola di riferimento. Coprire, e lasciar andare a fuoco MOLTO lento tre quarti d’ora o anche un’ora. Se non ci si fida troppo del fondo della pentola, della tenuta del coperchio, di quanto è bassa quella fiamma della cucina appena cambiata, si può provare naturalmente a abbondare col liquido, o a dare comunque un’occhiata ogni tanto. Superfluo aggiungere che non è il caso di partire per un fine settimana al caldo lasciando la pentola sul fuoco.

La sottolineatura finale di cui si parlava prima, è che il titolo recita Crema, non sbobba come quella che emerge alla fine della cottura. E per ottenere la crema entra in campo la tecnologia. Scegliete quella che più vi piace: personalmente in questi casi infilo il frullino a immersione direttamente nella pentola, magari partendo a velocità medio-bassa e schermandomi col coperchio. Per i teorici del bel tempo andato ci sono i passini della nonna metallici, e poi ogni altro genere di attrezzi in legno, pietra, zanne di mammut che possono venire in mente. Il risultato è lo stesso, salvo che poi occorre attraversare diversi livelli di purificazione, dal risciacquo del frullino sotto il rubinetto (9 secondi netti) al portare il mammut sulla sponda del fiume (a seconda dell’umore della bestiola). Evitate comunque di chiedere consigli pratici ai veri teorici del bel tempo andato, perché mangiano solo in trattoria e non si sono mai neppure fatti un caffè.

Per gli ingredienti complementari e creativi, con una base tanto semplice si può fare di tutto. Personalmente suggerisco cose altrettanto semplici, che si trovano magari in casa senza troppe storie, e possono aggiungersi all’effetto caldo pizzichino antiscontento invernale. A partire da un mezzo spicchio d’aglio aggiunto alla cipolla all’inizio, e a un paio di filetti d’acciuga prima di frullare, e che danno al tutto un’atmosfera da bagna caoda piemuntesa.

beh: that’s all folks!

[1]I know, I know, the Bard actually stuffed the "winter" thing inside the larger "discontent" feeling and not vice-versa, but that's only to introduce Italians to something familiar, you know ...

INGREDIENTi (6 persone)

500 gr di pasta corta

50 gr. Di bottarga grattugiata

50-80 gr di cuore ddi tonno sotto sale, sostituibile con mosciame

2 cucchiai di succo di limone

10 pomodorini ciliegina

2 spicchi d’aglio

un mazzetto di prezzemolo

olio d’oliva q.b.

PREPARAZIONE

Soffriggere in una padella abbastanza grande l’aglio con i pomodorini e schiattarli

Grattugiare a scaglie il tonno e metterlo a bagno nel limone, finchè non si ammorbidisce

Cuocere la pasta e, appena scolata, ripassarla nella padella calda, aggiungendo il tonno e la bottarga

Tolta la padella dal fuoco spargere il prezzemolo tritato e servire.

Ingredienti

Per la pasta

farina, 200 gr

zucchero, 60 gr

burro, 100 gr

buccia di limone grattata, 1 cucchiaino

vaniglia

uova, 1 tuorlo

Per il ripieno

limoni non trattati, 2 ½

uova, 4 + 1 tuorlo

zucchero, 200 gr

panna da montare, 125 gr

Per la guarnizione

zucchero a velo, 1 cucchiaio

Preparazione

1. Mettere in una ciotola lo zucchero e la farina. Aggiungere il burro tagliato a pezzettini, la buccia di limone, la vaniglia e il tuorlo

2. Mescolare la pasta. Metterla in una teglia e lasciarla riposare per un’ora al fresco

3. Riscaldare il formo a 180°

4. Lavare i limoni e grattugiare la buccia; spremerne il succo. Sbattere le uova e il tuorlo con lo zucchero. Aggiungere la buccia di limone grattugiata e il succo. Montare la panna e aggiungerla al composto

5. infornare per 10’ la teglia con la pasta. Poi aggiungete il ripieno e fate cuocere per 50’ abbassando la temperatura a 150°

6. Lasciar raffreddare la torta. Prima di portarla in tavola copritela con lo zucchero a velo, fate arroventare il grill del forno e spingetevi sotto la torta,a non oltre 10 cm di distanza. Attenzione perché si caramella in un attimo!

Kathrin Melcher è una violinista; faceva parte del famoso Quartetto Melos.

Nell'immagine, scattata a un concerto al Cortilone di Sorano (Gr), suona la viola. Con lei suonavano Cynthia Treggor (violino), Judith Treggor (flauto) e Martin Osterman (violoncello)

Sullo sfondo un quadro di Paola Doglioni

E' la stagione degli asparagi e degli agretti. Ecco quindi una semplice ricetta per un primo piatto gustoso che in queste ultime settimane cucino spesso per il piacere nostro.

Garganelli alle verdure di stagione. Per quattro persone. 200 gr di guanciale laziale tagliato in 1 o 2 fette spesse 1/1,5 cm (no pancetta, mi raccomando, nè lardo);3 porri freschi;1 mazzo di asparagi verdi;una confezione da 200/250 gr di garganelli all'uovo (scegliete una marca di pasta buona, non lesinate sennò il piatto si dequalifica).

E' un piatto gustoso e ricco, quindi, come secondo, ci aggiungo un piatto di "capelli della vecchia", cioè di agretti (ben lavati e cotti al massimo 1/2 minuti in pentola a pressione e serviti freddi ben scolati), conditi con olio extra-vergine di oliva DOP, pepe, sale e succo di limone. Poi un tocchetto di pecorino di media stagionatura, possibilmente toscano o umbro. Chiudere con una bella frutta.

Ci sono in tutto il mondo milioni e milioni di persone che apprezzano gli asparagi, impareggiabile gustoso e sano prodotto di stagione. Ci sono, parimenti, altri milioni (?) di persone che gli asparagi li detestano, ma una buona parte lo fa perché vengono puntualmente proposti nel medesimo modo: scottati in acqua bollente, da intingere in un tuorlo d’uovo, magari con un pochino di olio d’oliva e/o di formaggio grattugiato. Ottimi, ma se stufano stufano.

Così un paio d’anni fa ho preso l’abitudine di stufarli io, prima che loro stufassero me.

La cosa più importante è dividere le punte dalla parte ancora morbida ma intermedia dell’asparago. Le punte si possono anche tagliar via con un coltello, ancor prima di slegare il mazzetto in cui vengono di solito venduti. La parte intermedia è quella che, piegando l’asparago, si spezza facilmente e in modo netto, in uno o due tratti. Il resto, naturalmente, è la parte che si butta.

Agli asparagi vanno aggiunti: aglio fresco, prezzemolo, sale e olio d’oliva.

Preparare in una casseruola un fondo di olio d’oliva e aglio fresco salato (più o meno, un intero gambo di aglio molto fresco tagliato a rotelline sottili, per ogni mazzetto di asparagi). Mettere a cuocere per circa 45 minuti a fuoco lento, coperti, i pezzetti intermedi degli asparagi, con l’aggiunta di una manciata di prezzemolo tritato e mezzo bicchier d’acqua. Poi verificando che non si sia asciugata troppo l’acqua sul fondo, aggiungere le punte e proseguire la cottura per altri venti minuti. Far asciugare del tutto, ed è fatto.

Tempo di preparazione (cottura a parte) 5-7 minuti. L’unica “difficoltà” è quella di giudicare quale parte degli asparagi buttar via, ma basta eccedere un po’ per evitare di trovarsi pezzettini legnosi, che comunque poi è facile scartare da cotti.

E, volendo, per salvare la tradizione, si può intingere nell’uovo, o cospargere di parmigiano grattugiato, anche questa versione.

Le triglie alla livornese sono buonissime. Punto.

Ma ad esempio la triglia di scoglio può essere un po’ caruccia sul mercato, oppure succede che quando si cerca di squamarla, quelle placche da carro armato ti schizzano per tutta la cucina, e le ritrovi ancora dopo tre giorni, magari in un’altra stanza, sotto le lenzuola. E poi il pomodoro, che c’è già con la pasta, l’insalata mista … Insomma, capita di cercare (anche qui, come in altri campi) l’alternativa.

Alternativa al caruccio sul mercato, perché i barboni o trigliette di fango vengono sempre via a molto, ma molto meno. Eliminazione totale della squama blindata sotto il cuscino, perché il barbone praticamente non va squamato. Ultimo tocco, che caratterizza e semplifica ulteriormente il tutto: via il sugo al pomodoro, e avanti il bianco del latte ristretto alle cipolle. Potevo chiamare questa roba clochards au lait, ma ho avuto pietà per chi non apprezza le battutacce.

Ingredienti per ogni persona: una manciata abbondante di barboni (3-400 grammi); un bicchiere di latte; mezza cipolla; sale, olio d’oliva. Insomma non dovete nemmeno uscire dal quartiere, sempre che non abitiate nell’allegra città diffusa … ma questa è un’altra storia.

Per pulire i barboni, il modo più semplice e rapido è quello dei tre tagli di forbice. Uno elimina la testa, badando di tagliare anche le due pinne anteriori; uno la coda; l’ultimo, perpendicolare agli altri due, taglia il ventre, ed elimina col medesimo gesto anche le pinne ventrali. A questo punto basta rimuovere le interiora con un colpo di pollice e il gioco è fatto. Dato che i barboni sono piccolini di taglia, se ne devono pulire parecchi, e quindi serialità ed efficacia dei singoli movimenti sono importanti.

Per il sugo, si mette un cucchiaio scarso d’olio (aggiustare ovviamente se aumentano le dosi) in una padella antiaderente, di cui si ha a disposizione anche un coperchio a misura che chiude abbastanza bene. Si aggiunge la cipolla tagliata ad anelli il più possibile sottili, si sala leggermente, e si lascia appassire a fuoco lento per qualche minuto. Poi si aggiunge il latte, e lasciando scoperto si fa continuare la cottura finché evaporata gran parte del liquido e sciolta la cipolla sul fondo non resta che una specie di crema.

Si aggiungono i barboni puliti, si sala di nuovo sopra i pesci, e si copre.

Il tutto si cuoce in una decina di minuti, con qualche variante a seconda della taglia dei pesci. Se possibile, meglio non girare, perché la carne potrebbe staccarsi dalla lisca e fare un piccolo pasticcio. Eventualmente, a cottura del pesce ultimata, far asciugare il liquido residuo.

Si accompagna benissimo a verdure cotte in insalata: patate, fagliolini, carote ecc.

Buon appetito

INGREDIENTI

Per la base:

6-7 mele

succo di 2 limoni

2-3 cucchiai di zucchero di canna

pinoli, uva passa, cannella in polvere, pepe nero, anice stellata, chiodi di garofano

Per la copertura:

50 gr di burro

80 gr di farina

60 gr di zucchero di canna

60 gr di noci o mandorle tritate

PREPARAZIONE

Tagliare a pezzetti le mele, mescolarle con gli altri ingredienti della base e lasciar macerare per un paio d’ore. Se si formasse troppo sugo aggiungere un paio di fette di pane biscottato sbriciolato.

Vesare in una teglia imburrata.

Mescolare e sbriciolare con le mani il burro, la farina e lo zucchero e coprire la base con il composto così ottenuto.

Aggiungere uniformemente le noci sbriciolate

Infornare per circa 30’.

Il dolce viene altrettanto buono con altri frutti: pere, pesche e albicocche, ecc.

Animale a dir poco rustico ( le uniche cose che non mangia sono l’euforbia e il granito, ma sul granito non ci giurerei…) la capra ha dei lineamenti di eccezionale grazia; così perlomeno asseriva il mio professore di Modellazione all’Istituto d’Arte. Qui mi vorrei concentrare però sulle virtù “interne” dell’animale, e cioè sulla bontà delle sue carni.

La capra è un animale ingiustamente sottovalutato soprattutto (non capisco il perché) qui in Sardegna. Comprare carne di capra in macelleria, quando la si trova, significa spendere € 3,50 al chilo…Tanta gente non l’ha mai assaggiata, la snobba e non sa cosa si perde. Qualcuno, come mio padre ad esempio, è prigioniero di un assurdo equivoco; quello, cioè di considerare la capra cugina di primo grado della pecora, per cui se non ti piace l’odore della pecora (peraltro strepitosa secondo me) non ti piacerà neanche la carne della capra.

Ma veniamo alle caratteristiche organolettiche. Carne rossa, di eccezionale portata nutrizionale, e quindi in grado far schizzare i livelli di colesterolo verso la soglia di attenzione (io sono passato da 190 a 220mg/l in una sola estate), si avvale di un sapore forte ma allo stesso tempo in grado di esaltarsi a fronte di aromi e tecniche di cottura fra i più vari.

Io qui mi soffermerò su due ricette semplici ma efficaci (min. 10 persone: indispensabile il consenso di massa).

Capra in umido.

Tagliare la capra a tocchetti

Disporla in un recipiente largo, nel frigo, immersa nel vino rosso, per 24/36 ore

Predisporre una pentola larga, con un velo di olio d’oliva, sul fuoco allegro

Rosolare la carne per bene, dopodichè la si estrae

Sul fondo liquido così ottenuto lanciare il soffritto: cipolle in quantità, due spicchi d’aglio, alloro, tre/quattro pomodori secchi sminuzzati

Ri-immettere la capra, ravvivare il tutto con fuoco allegro, dopodichè una spruzzata abbondante di vino rosso decreterà l’abbassamento del volume di fuoco

Aggiustare di sale, pepe, peperoncino, e mandare a cottura per un’ora e mezza circa con il tappo

Un quarto d’ora prima del cessate il fuoco, aggiungere le olive (meglio se confezionate in casa

n.b. È superfluo dire che non è necessario l’antipasto o il primo, soprattutto se di dispone di Pane Carasau.

Inoltre, se si dispone di funghi in luogo delle olive, tanto meglio; in tal caso la cottura termina quando si consuma l’acqua dei funghi.

Capra marinata arrosto

Mettere la capra (coscia, costato, spalla) in congelatore per tre ore; ciò consentirà all’amico macellaio di tagliare agevolmente le fette o le braciole con la macchina dell’osso buco

Disporre le fette su un recipiente largo, avendole accuratamente ricoperte con una marinata composta da: cipolle, aglio, olio, aceto balsamico. rosmarino, pepe, sale

Introdurre il recipiente in frigo per almeno 24 ore; ciò causerà la perdita inevitabile di quanto contenuto precedentemente nel frigo, per effetto del combinato disposto capra+cipolla, potenzialmente in grado di bypassare anche le confezioni sottovuoto.

L’indomani predisporre la graticola su una distesa di brace viva e dare inizio alle danze, avendo cura di non eccedere nella cottura; meglio se un po’ al sangue.

n.b. Questo piatto è in grado di annullare completamente il senso di sazietà, nel caso qualcuno abbia già mangiato: non è uno scherzo…

Buon appetito

p.s. consiglio vivamente anche la capra con i peperoni, avanzata (arrostita allo spiedo quindi al naturale) dal giorno prima e saltata in padella, ricetta dell’Ogliastra (Baunei, Urzulei, ecc.)

Io personalmente sono in attesa di poter sperimentare la tartara di capra con i porri e il radicchio!

INGREDIENTI

100 g. di burro

150 g. zucchero

2 uova intere

230 g. farina (circa, dipende anche dal peso delle uova)

una bustina di vanillina

mezza bustina di lievito Pane degli angeli

2/3 mele golden

un limone

zucchero a velo

PREPARAZIONE

Grattuggiare la scorza del limone in una terrina, unire il burro (ammorbidito) e lo zucchero e lavorare sufficientemente con la frusta.

Aggiungere le uova, facendondole ben amalgamare una per volta.

Versare a pioggia la farina setacciata e continuare ad impastare.

Unire la vanillina e, infine, il lievito.

Intanto (io lo faccio prima di versare la farina) si erano sbucciate le mele e tagliate a fettine sottili, mettendole in un'altra terrina e cospargendole con succo di limone e qualche pizzico di zucchero.

Mettere l'impasto in una teglia tonda da 24 cm. imburrata e infarinata.

Sistemare le fettine di mele infilandole di taglio e componendo due corone.

(Eventualmente irrorare con un po' del succo di succo di limone e zucchero).

Infornare per circa 45/50 minuti a 210°, ma tutto questo dipende dal forno....e poi c'è la prova dello stuzzicadenti per la cottura!

Far freddare e sistemare su un piatto spolverizzando con zucchero a velo.

Ecco qua la ricetta scaramantica per il 9 aprile. Degustata sotto un albero di ulivo, nelle vicinanze di un seggio e con sottofondo de l’Internazionale, ha prodigiosi effetti beneauguranti.

Di antica tradizione emiliana, se ne infischia della dieta e si fa pernacchie del colesterolo. All’ingrediente canonico – il prosciutto crudo – è stata sostituita la mortadella per evidenti contingenze elettorali, ma con identica soddisfazione del palato. In tutto il territorio d’origine è prescritta la dizione “il” gnocco ingrassato, così come insegnava la saggezza della ‘sdoura’ Imelde che, durante l’operazione dell’impasto, raccontava a bimbi e ragazzetti di casa Guermandi, attirati nella grande cucina da profumi e riti conosciuti, storie infinite di faide e contese contadine, amori infelici ed eventi straordinari. Racconti immancabilmente suggellati, al momento dell’infornare, dall’insuperato aforisma sulla relatività dell’umana essenza: ‘Ciascuno siam poi fatti alla sua maniera propria’.

Buon appetito e buon voto.

Dosi per 4-6 persone

300 gr. di farina bianca

250 gr. di mortadella tagliata a fette (proibitissimi i ‘dadini’, di estetica forzista)

60 gr. di burro

20 gr. di lievito di birra

2 uova

sale q.b.

Fate sciogliere il lievito in una ciotolina con acqua tiepida. Tagliate la mortadella a striscioline sottili. Disponete la farina a fontana sulla spianatoia e versatevi al centro le uova, il lievito sciolto nell’acqua, il burro (tranne una noce), una presa di sale fino e metà della mortadella. Incorporate gli ingredienti alla farina, cominciando dal centro della fontana e aiutandovi con la forchetta o con la punta delle dita e impastate energicamente per un quarto d’ora circa. Formate un panetto, appiattitelo leggermente con il palmo della mano e mettetelo a riposare in una terrina coperta con un telo per circa mezz’ora. Imburrate e infarinate una teglia; stendete la pasta in una sfoglia alta, che disporrete nella teglia, cospargendone la superficie con la mortadella rimanente e un po’ di sale grosso. Tracciate infine sulla superficie della pasta delle losanghe, con la punta di un coltello affilato; mettetela a lievitare in un luogo caldo per circa un’ora, quindi fate cuocere nel forno preriscaldato a 180° per circa mezz’ora.

Vino d’accompagnamento vivamente suggerito (quasi obbligatorio): Lambrusco grasparossa di Castelvetro DOC.

Per 4-5 persone servono:

- un petto di pollo intero da tagliare a fette grosse e successivamente a cubetti

- un bicchiere di vino bianco o di birra o di acqua minerale

- un po' di farina bianca

- una o due chiare d'uovo.

Prendo il petto di pollo, lo taglio a fette grosse e ne faccio delle strisce per ottenerne dei cubetti.

Preparo una pastella morbida con la chiara d'uovo sbattuta, il vino bianco (o birra o acqua minerale frizzante) e il sale.

Metto i cubetti di pollo a bagno nella pastella e massaggio con le mani il tutto finché la carne non avràè assorbito tutta la pastella.

Preparo una padella con olio bollente per friggere.

Metto i cubetti di pollo in modo che siano immersi ma non ammassati.

Appena saranno imbionditi li tolgo e li lascio scolare sulla carte assorbente.

A parte cucino una salsa con olio d'oliva, un po' di salsa di soia, un po' di vino e un po' di concentrato di pomodoro. Aggiungo le mandorle tostate e tritate.

Amalgamo infine il tutto, correggo di sale se c'è bisogno, ed è pronto.

INGREDIENTI

300g cioccolata fondente

50g cioccolata al latte

175g burro

8 uova

150g zucchero

mezzo cucchiaino di vanillina

1 pizzico di sale

PREPARAZIONE

Scaldare il forno a 180°. Foderare con uno o più fogli di alluminio una tortiera a cerniera da 23cm di diametro perché la torta va cotta in forno a bagno maria. Io fodero poi l'interno della tortiera con carta da forno (alla buona). E poi:

1. sciogliere la cioccolata con il burro (preferibilmente a bagno

maria) e lasciar raffreddare.

2. nel frattempo montare gli albumi a neve ben ferma (con il pizzico di sale).

3. montare i tuorli con lo zucchero e la vanillina finché non

raggiungono una consistenza simile alla maionese.

4. aggiungere ai tuorli cioccolato e burro sciolti.

5. aggiungere una buona cucchiaiata degli albumi montati e mescolare con energia.

6. aggiungere il resto degli albumi e mescolare delicatamente.

versare il composto nella tortiera foderata. mettere la tortiera in una grande teglia da forno. versare nella teglia acqua bollente (2-3cm).

infornare e cuocere per 50-60 minuti. la torta rimane morbida

all'interno ma deve essere ben asciutta sopra. far raffreddare completamente prima di aprire la tortiera. io sposto la torta sul piatto da portata con la carta da forno che poi sfilo delicatamente da sotto. in questo modo la torta non dovrebbe rompersi.

volendo si può spolverare con zucchero a velo.

INGREDIENTI:

Per fare la base:

250 gr di biscotti secchi tipo oswego

100 gr di burro (o yogurt q.b. – a me piace al malto)

1 uovo

Per la crema:

200 gr di panna da cucina (quella usata per la minestra)

250 gr di ricotta

100 gr di mascarpone

4 cucchiai rasi di zucchero

1 bustina di vanillina

3 uova

Per la guarnizione:

1 vasetto di marmellata di mirtilli

PREPARAZIONE

Polverizzare il più finemente possibile i biscotti, aggiungere il burro sciolto a bagnomaria e l'uovo. La variante con lo yogurt al posto del burro è ovviamente più leggera, l’importante è metterne una quantità tale da poter avere un impasto morbido, facilmente distribuibile sulla teglia. Quando è amalgamato bene, mettere l’impasto in uno stampo basso, tipo quello per le torte di frutta – va bene anche di quelli apribili – con la carta forno che esca dalla base in modo tale da rendere più facile mettere la torta sul piatto di portata. Con le dita stendere la base. facendo attenzione che il bordo sia rialzato di un paio di centimetri, per contenere la crema.

Una volta preparata la base, sbattere bene zucchero e uova, aggiungere i formaggi sgocciolati bene della loro acqua e la vanillina, amalgamare bene montando con le fruste elettriche e versare sopra i biscotti. Il risultato resta ottimo se non si mette la ricotta o il mascarpone. Mettere in forno già caldo a circa 200° per circa 30-35 minuti. Per non far scurire troppo la crema, è bene cuocere con la leccarda del forno inserita sopra il ripiano su cui è la torta, come se fosse un coperchio. Questo impedisce di vedere la torta cuocersi ma è efficace per non renderla troppo scura.

Quando la torta si è raffreddata, stendere la marmellata. E procedere a festeggiare.

Ingredienti

(le quantità sono per una crostata medio/grande)

500 gr. di farina;

250 gr. di zucchero;

250 gr. di burro o di margarina (la ricetta originale prevede, in verità, lo strutto, che ormai non si trova facilmente e che, comunque, è assai pesante);

5 rossi d’uovo;

buccia grattugiata di un limone;

un pizzico di sale.

Preparazione

Su un ripiano, mettere la farina a fontana (fare, cioè, con la farina una specie di ciambella). Al centro, gradatamente, mettere lo zucchero, il burro ammorbidito (non sciolto) i rossi d’uovo, il sale e la buccia grattugiata del limone. Impastare con le mani. Questa pasta non va lavorata molto e, quindi, appena gli ingredienti si sono amalgamati, fare una palla e avvolgerla in un panno, indi porla in frigo a riposare per mezz’ora.

Comporre secondo la ricetta desiderata. Questa pasta ha bisogno (normalmente, ma dipende dagli ingredienti del dolce) di 40/50 minuti di cottura in forno preriscaldato a 180°.

Un piatto del Sud della Sardegna, ogni tempo. Le fregole sono una sorta di couscous sardo: si ottengono lavorando in grumi del diametro di 3-4 mm, acqua e farina e poi tostando. L’origine del nome è probabilmente legata al fatto che si chiama fregolo il complesso delle uova emesso dalle femmine dei pesci, ed è proprio a delle uova di pesce che somigliano le fregole). Si trovano in commercio, anche aromatizzate, in pacchi da mezzo chilo, nei negozi che vendono prodotti tipici. Arsella, invece, è il nome sardo, di origine genovese e di etimo latino (da arcella, diminutivo di arca, astuccio) della vongola. La preparazione è semplice, il risultato garantito. Si prepara un brodetto di pesce, molto liquido e un po’ rosato con aggiunta di pomodoro, con avanzi della lavorazione di altri piatti (teste, code, brodo di lessatura di calamari o polpi, ecc.), aglio, sale q.b. Si mescola il brodo all’acqua di cottura delle fregole, che vanno versate, come la pasta, a bollitura. Le fregole impiegano intorno ai dodici minuti per cuocere, per cui, dopo averle versate nell’acqua bollente, in una padella si fanno aprire 3-4 etti di vongole veraci, con pochissimo olio e un aglio vestito. A dieci minuti di cottura con coperchio, il fuoco sotto le vongole va spento. Nel frattempo le fregole saranno pronte, ma non vanno scolate, piuttosto va eliminato con il mestolo un po’ del brodo di cottura, fino a raggiungere la proporzione 1/1. A quel punto si aggiunge alla minestra di fregole la padellata di vongole aperte con tutti i gusci. Si lascia riposare qualche minuto e si porta in tavola in una zuppiera.

Si tratta di una torta al cioccolato di vecchissima tradizione, nota, in Emilia, nella versione elaborata dalla mitica pasticceria Mimì di San Giovanni in Persiceto, fornitrice della real casa. Ma dal 25 giugno 2005 è, per noi, semplicemente, la torta di eddyburg.

INGREDIENTI

cioccolato fondente 200 gr.

burro 100 gr.

zucchero 200 gr.

3 uova

2 cucchiai di farina

una bustina di vanillina

zucchero a velo (per il decoro)

PREPARAZIONE

Sciogliete a bagnomaria cioccolato e burro a pezzetti. Mescolate lo zucchero e i tuorli d'uovo, lasciando all'impasto una consistenza grumosa, aggiungete due cucchiai rasi di farina, la bustina di vanillina e il composto di cioccolato. Da ultimo, con grande delicatezza, unite gli albumi montati a neve fermissima.

In forno a 180° per 35 minuti. Spolverizzate con zucchero a velo.

Corollario birichino: la torta fa parte del pregiatissimo Ricettario del cornuto, in quanto di rapidissima esecuzione e facilissima riuscita...Il marito al rientro serale: "Cara, cosa hai fatto oggi?" "Caro, ho cucinato per te tutto il giorno, sentirai che torta sublime!"

Qui lo statuto dell'associazione Amici di eddyburg.it (onlus)

I migliori spaghetti alla carbonara che ho mangiato li ha preparati Katrin Melcher, bravissima violinista, la quale sostiene che la bontà dipende dalle freschezza delle uova e dalla qualità della pancetta (nella fattispecie, comprata a Sorano, Maremma, Toscana, Italia). Secondo me anche le dosi sono importanti. Ecco quelle che mi ha indicato Katrin

Ingredienti

1 uovo a persona, più un tuorlo (freschissime)

50 gr di pancetta a persona

30 gr di parmigiano reggiano a persona

2 cucchiai di latte per 4-6 persone

pepe

eventualmente uno spicchio d’aglio

spaghetti, o tagliatelle

Preparazione

Mescolare, con una frusta o, in assenza, con una forchetta, le uova, il latte e il parmigiano, in un contenitore di sufficiente ampiezza da poter contenere gli spaghetti

Tagliare la pancetta a pezzi molto piccoli e regolari, e farla rosolare in padella

Versare la pasta lessata nel contenitore del miscuglio, e aggiungere la pancetta e un po’ di pepe macinato fresco

Servire subito

Postilla

Secondo me il formaggio da usare è il pecorino romano. Se è vero che l'origine del frugale piatto è nella vita quotidiana dei carbonai delle foreste appenniniche dell'Italia centrale

L'articolo è intitolato "Note sull'origine e diffusione del pomodoro", ed è illustrato da alcune ricette di Ippolito Cavalcanti, tradotte dal napoletano del suo libro Cucina teorico-pratica col corrispondente riposto, Napoli 1839. Non sapevo che i vermicelli si potessero cucinare a crudo. Mario Moraca mi dice che sua nonna ancora li cucinava così.

Timpano di vermicelli con pomidoro cotti crudi

Per ogni 225 grammi di vermicelli ci vanno 900 grammi di pomidoro, peró debbono essere di quelle tonde e non molto grandi.

Prendi la casseruola proporzionata per numero di coperti, che dovrai servire, farai in essa una verniciata di sugna (strutto), dipoi dividerai per metá li pomidoro, e li porrai nel fondo della casseruola, con la parte umida al di sotto, e la pelle al di sopra, e sopra di esse ci porrai un altro filo di pomidoro anche divise per metá, con la differenza, che la parte umida delle seconde resterá alla parte di sopra, e cosí sará coverto tutto il fondo della casseruola; ci porrai del sale, del pepe, e sopra di esse adatterai li vermicelli crudi, spezzandoli siccome é la larghezza della casseruola, e ne coprirai li pomidoro; sopra i vermicelli porrai gli altri pomidoro divisi sempre per metá, che spruzzerai di sale, pepe, e sopra di esse situerai gli altri vermicelli di contraria posizione degli antecedenti, e cosí praticherai finché si sará riempita la casseruola; l'ultimo suolo (strato) di pomidoro li situerai, con la pelle dalla parte di sopra, e per ultimo ci porrai il condimento; sia olio, sia strutto, sia burro, sará sempre prima liquefatto, e quindi lo verserai nella casseruola, che farai cuocere come al timpano.

Debbo prevenirti ancora, che se ti piace farlo di magro ci farai de' tramezzi di alici salate, ed allora ci porrai foglio; se volessi condirlo con burro, o strutto, potrai farci de' tramezzi (strati) di fettoline di mozzarella; par, che mi sia bastantemente spiegato per questa inetta operazione, e laddove non giunga la mia insinuante spiegazione, supplirá la tua perspicacia.

da Ippolito Cavalcanti, Cucina teorico pratica col corrispondente riposto..., Napoli 1839, pp. 57-8.

Il sito di I frutti di Demetra, gustoso bollettino di storia e ambiente

Considero questa ricetta una delle più grandi invenzioni della cucina napoletana, è il giusto equilibrio della materia, dove i sapori degli ingredienti (poveri) si fondono trasformando una semplice verdura in una pietanza divina.

Chiaramente per ottenere buoni risultati in cucina bisogna partire dalla buona qualità degli ingredienti.

Ingredienti per 4 persone:

- 2 cespi di scarola liscia

- 50 gr di olive nere di Gaeta

- 20 gr di capperi sotto sale sciacquati, possibilmente delle isole siciliane

- 15 gr di pinoli

- 25 gr di uvetta sultanina, da lasciarla rinvenire in acqua tiepida

- un cucchiaio di pecorino grattugiato

- un cucchiaio di pangrattato fresco

- 4 filetti di acciuga sott'olio

- 2 cucchiai di buon olio extravergine di oliva

- un'idea di aglio, prezzemolo, sale e pepe

Preparazione:

Lavate le scarole lasciandole intere e scartando soltanto le foglie più esterne. Scottatele in abbondante acqua salata in ebollizione per tre quattro minuti. tiratele su con la schiumarola, passatele velocemente sotto l'acqua fredda, appoggiatele sul colapasta e lasciatele intiepidire.

Riunite in una ciotola le olive snocciolate e spezzettate, l'uvetta sciacquata e asciugata, i pinoli, i capperi, il pecorino, i filetti d'acciuga a pezzetti, poco prezzemolo e qualche pezzettino d'aglio, 1/2 cucchiaio di pangrattatto, e mescolate il tutto. Asciugate le scarole premendole delicatamente fra le mani, poi dividete ogno cespo in due.

Ponete la metà in un piatto largo, con l'interno rivolto verso di voi e il torsolo in basso, allargate le foglie ed eliminate il torsolo e farcite ogni mezza pianta con un po' del composto preparato. Partendo dal torsolo, ripiegate verso il centro i bordi delle scarole in modo da chiudere completamente l'imbottitura e da formare un grosso involtino.

Ungete una pirofila da forno con un po' d'olio e disponetevi gli involtini di scarola uno accanto all'altro, cospargeteli con il resto del pangrattato e bagnateli con un po' d'olio. Mettete nel forno precedentemente scaldato a 180 gradi per circa mezz'ora fino a che il pangrattatto non avrà formato una crosticina dorata. Togliere dal forno e lasciare raffreddare, la scarola va servita tiepida.

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