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La Santa Sede online 19 gennaio 2018. Non molti si sarebbe aspettati che da un papa venisse una critica a una società maschilista

«Mai prima d'ora Bergoglio aveva usato quella parola. L'ha fatto a Trujillo, invitando a "promuovere una legislazione e una cultura di ripudio di ogni forma di violenza"»

Femminicidio. Per la prima volta Francesco usa questa parola invitando a "lottare" contro "i numerosi casi di femminicidio", una "piaga" che colpisce in particolar modo il Sudamerica. E lo fa ricordando che "sono molte le situazioni di violenza che sono tenute sotto silenzio al di là di tante pareti". E invitando, insieme, "a lottare contro questa fonte di sofferenza chiedendo che si promuova una legislazione e una cultura di ripudio di ogni forma di violenza".

Trujillo, penultimo giorno di permanenza del Papa in Perù. Nella città dell'eterna primavera, nel nord del Paese, durante una celebrazione mariana a Plaza de Armas, Francesco torna a parlare contro la violenza sulle donne usando un termine per lui inedito. Trujillo è città che soffre particolarmente questa piaga, così tutto il continente. E Francesco usando questa parola vuole mostrare da che parte egli stia, sposando la battaglia per un cambio culturale e di mentalità a troppi ancora inviso. Anche al suo interno, la Chiesa, è a volte stata tiepida al riguardo. Non così la vuole Bergoglio.

Già ieri a Puerto Maldonado, incontrando la popolazione, Papa Bergoglio aveva detto che "non si può normalizzare la violenza verso le donne, sostenendo una cultura maschilista che non accetta il ruolo di protagonista della donna nelle nostre comunità». E ancora: «Non ci è lecito guardare dall'altra parte e lasciare che tante donne, specialmente adolescenti, siano calpestate nella loro dignità».

Parole analoghe Francesco le aveva usate anche in Amoris Laetita, parlando esplicitamente della «vergognosa violenza che a volte si usa nei confronti delle donne». Penso - disse - alla grave mutilazione genitale della donna in alcune culture, ma anche alla disuguaglianza dell'accesso a posti di lavoro dignitosi e ai luoghi in cui si prendono le decisioni... ricordiamo anche la pratica dell''utero in affitto' o la strumentalizzazione e mercificazione del corpo femminile nell'attuale cultura mediatica».

L'articolo è tratto dal sito web La Santa Sede, e la paginaè raggiungibile qui

La Santa Sede online 19 gennaio 2018. Un discorso pienamente politico, che parla dell'Amazzonia, ma si riferisce al mondo. È solo un papa della chiesa cattolica che parla, ma meriterebbe di guidare il mondo

"I popoli originari dell'Amazzonia non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora". È il primo storico incontro tra Francesco e l'Amazzonia, quello di quest'oggi a Puerto Maldonado, la capitale della biodiversità del Perù situata all'interno del più grande polmone verde del mondo. Qui i primi missionari domenicani arrivarono nel 1902, a piedi, dopo un viaggio lungo e molto pericoloso.

Oggi Francesco arriva in aereo per un appuntamento a lungo atteso: "Ho molto desiderato questo incontro", dice nel Coliseo Regional Madre de Dios davanti a 4mila rappresentanti delle popolazioni indigene, occasione per Francesco per toccare temi a lui cari: le periferie, i poveri, le popolazioni indigene, la custodia del creato, la "resilienza" che le stesse popolazioni devono mantenere di fronte a chi separa terra e popolo, a chi sfrutta le infinite risorse della foresta facendo a meno della gente che la abita.

"Il tesoro che racchiude questa regione", dice il Papa, non può essere compreso, capito, "senza la "vostra saggezza" e le "vostre conoscenze". Francesco conosce "le profonde ferite che portano con sé l'Amazzonia e i suoi popoli" e per questo ha voluto venire fin qui, per unirsi "alle vostre sfide e con voi riaffermare un'opzione convinta per la difesa della vita, per la difesa della terra e per la difesa delle culture".

I popoli dell'Amazzonia sono minacciati, oggi più di prima. Francesco riassume così queste minacce: "Da una parte, il neo-estrattivismo e la forte pressione da parte di grandi interessi economici che dirigono la loro avidità sul petrolio, il gas, l'oro, le monocolture agro-industriali". Dall'altra la minaccia "viene anche dalla perversione di certe politiche che promuovono la 'conservazione' della natura senza tenere conto dell'essere umano e, in concreto, di voi fratelli amazzonici che la abitate".

Il Papa dice di essere a conoscenza "di movimenti che, in nome della conservazione della foresta, si appropriano di grandi estensioni di boschi e negoziano su di esse generando situazioni di oppressione per i popoli originari per i quali, in questo modo, il territorio e le risorse naturali che vi si trovano diventano inaccessibili".

È questa problematica che soffoca i popoli e che "causa migrazioni delle nuove generazioni di fronte alla mancanza di alternative locali". Francesco chiede di "rompere il paradigma storico che considera l'Amazzonia come una dispensa inesauribile degli Stati senza tener conto dei suoi abitanti".

L'appello del Papa è che si aprano "spazi istituzionali" di rispetto, riconoscimento e dialogo con i popoli nativi, assumendo e riscattando cultura, lingua, tradizioni, diritti e spiritualità che sono loro propri.

I primi interlocutori di questo dialogo interculturale, tuttavia, devono essere le stesse popolazioni amazzoniche, affinché le risorse prodotte dalla stessa conservazione delle foreste "ritornino a beneficio delle vostre famiglie, a miglioramento delle vostre condizioni di vita, della salute e dell'istruzione delle vostre comunità". La vita dei popoli amazzonici è per il Papa "un grido rivolto alla coscienza di uno stile di vita che non è in grado di misurare i suoi costi".

Bergoglio, che ha indetto un Sinodo Pan Amazzonico convocato per il 2019 in Vaticano, entra ancora più in profondità nelle ferite di questa terra, la cui difesa non ha altra finalità "che non sia la difesa della vita". Dice: "Conosciamo la sofferenza che alcuni di voi patiscono per le fuoriuscite di idrocarburi che minacciano seriamente la vita delle vostre famiglie e inquinano il vostro ambiente naturale". Insieme, "esiste un'altra devastazione della vita che viene provocata con questo inquinamento ambientale causato dall'estrazione illegale. Mi riferisco alla tratta di persone: la mano d'opera schiavizzata e l'abuso sessuale. La violenza contro gli adolescenti e contro le donne è un grido che sale al cielo".

Fra i tanti popoli indifesi, i più indifesi di tutti: "Sto pensando - dice Papa Bergoglio - ai popoli denominati 'Popoli Indigeni in Isolamento Volontario' (Puav). Sappiamo che sono i più vulnerabili tra i vulnerabili". Francesco chiede si continui a stare dalla loro parte perché "è necessario che esistano limiti che ci aiutino a difenderci da ogni tentativo di distruzione di massa dell'habitat che ci costituisce". A loro, e a tutti, Francesco chiede "resilienza": "Confido nella capacità di resilienza dei popoli e nella vostra capacità di reazione davanti ai difficili momenti che vi tocca vivere".

L'articolo è tratto dal sito web La Santa Sede, e la paginaè raggiungibile qui

Toscana oggi, 18 gennaio 2018.«Cercare spazi sempre nuovi di dialogo più che di scontro; spazi di incontro più che di divisione; strade di amichevole discrepanza, perché ci si differenzia con rispetto tra persone che camminano cercando lealmente di progredire in comunità»

Educare alla convivenza. «La convivenza nazionale è possibile – tra le altre cose – nella misura in cui diamo vita a processi educativi che sono anche trasformatori, inclusivi e di convivenza». Ne è convinto il Papa, che visitando, al tremine della sua seconda giornata in Cile, l’Università Cattolica di Santiago ha ricordato come tale «casa di studio», nei suoi 130 anni di storia, abbia «offerto un servizio inestimabile al Paese», intrecciando la sua storia con quella del Paese. Dopo aver citato ancora una volta la figura di S. Alberto Hurtado, tra gli studenti più illustri, Francesco ha spiegato che «educare alla convivenza non significa solo aggiungere valori al lavoro educativo, ma generare una dinamica di convivenza all’interno del sistema educativo stesso». «Non è tanto una questione di contenuti, ma di insegnare a pensare e ragionare in modo integrale», ha precisato il Papa traducendo «quello che i classici chiamavano il nome di forma mentis». Per raggiungere tale obiettivo, la tesi di Francesco, è necessaria una «alfabetizzazione integrale, che sappia adattare i processi di trasformazione che avvengono all’interno delle nostre società». «Un tale processo di alfabetizzazione – ha spiegato il Papa – richiede di lavorare contemporaneamente all’integrazione delle diverse lingue che ci costituiscono come persone, ossia un’educazione (alfabetizzazione) che integri e armonizzi l’intelletto (la testa), gli affetti (il cuore) e l’azione (le mani). Ciò offrirà e consentirà la crescita degli studenti in maniera armonica non solo a livello personale ma, contemporaneamente, a livello sociale». [...]

Essere a servizio della persona e della società. «È urgente creare spazi in cui la frammentazione non sia lo schema dominante, nemmeno del pensiero; per questo è necessario insegnare a pensare ciò che si sente e si fa; a sentire ciò che si pensa e si fa; a fare ciò che si pensa e si sente». È la ricetta del Papa per l’educazione, illustrata nel suo discorso all’Università Cattolica di Santiago, alla quale ha chiesto «un dinamismo di capacità al servizio della persona e della società». «L’alfabetizzazione, basata sull’integrazione dei diversi linguaggi che ci costituiscono, coinvolgerà gli studenti nel loro processo educativo, processo di fronte alle sfide che il prossimo futuro presenterà loro», ha assicurato Francesco, secondo il quale «il divorzio dei saperi e dei linguaggi, l’analfabetismo su come integrare le diverse dimensioni della vita, non produce altro che frammentazione e rottura sociale». «In questa società liquida o leggera, come alcuni pensatori l’hanno definita – l’analisi del Papa – vanno scomparendo i punti di riferimento a partire dai quali le persone possono costruirsi individualmente e socialmente»: «Sembra che oggi la ‘nuvola’ sia il nuovo punto di incontro, caratterizzato dalla mancanza di stabilità poiché tutto si volatilizza e quindi perde consistenza.

Questa mancanza di consistenza potrebbe essere una delle ragioni della perdita di consapevolezza dello spazio pubblico. Uno spazio che richiede un minimo di trascendenza sugli interessi privati (vivere di più e meglio), per costruire su basi che rivelino quella dimensione importante della nostra vita che è il ‘noi'». Senza la consapevolezza del «noi», la tesi di Francesco, «è e sarà molto difficile costruire la nazione, e dunque sembrerebbe che sia importante e valido solo ciò che riguarda l’individuo, mentre tutto ciò che rimane al di fuori di questa giurisdizione diventa obsoleto». «Una cultura di questo tipo ha perso la memoria, ha perso i legami che sostengono e rendono possibile la vita», il grido d’allarme: «Senza il ‘noi’ di un popolo, di una famiglia, di una nazione e, nello stesso tempo, senza il ‘noi’ del futuro, dei bambini e di domani; senza il ‘noi’ di una città che ‘mi’ trascenda e sia più ricca degli interessi individuali, la vita sarà non solo sempre più frammentata ma anche più conflittuale e violenta».

«La cultura attuale richiede nuove forme capaci di includere tutti gli attori che danno vita alla realtà sociale e quindi educativa». Ne è convinto il Papa, che all’Università Cattolica di Santiago ha chiesto di «ampliare il concetto di comunità educativa», per «non rimanere isolata da nuove forme di conoscenza» e per «non costruire conoscenza al margine dei destinatari della stessa». Di qui la necessità di «generare un’interazione tra l’aula e la sapienza dei popoli che costituiscono questa terra benedetta». Francesco ha auspicato «una sapienza carica di intuizioni, di ‘odori’, che non si possono ignorare quando si pensa al Cile». In questo modo, per il Papa, «si produrrà quella sinergia così arricchente tra rigore scientifico e intuizione popolare»: «Questa stretta interazione reciproca impedisce il divorzio tra la ragione e l’azione, tra il pensare e il sentire, tra il conoscere e il vivere, tra la professione e il servizio», ha assicurato Francesco, perché «la conoscenza deve sempre sentirsi al servizio della vita e confrontarsi con essa per poter continuare a progredire». In questa prospettiva, «la comunità educativa non si può limitare ad aule e biblioteche, ma è sempre chiamata alla sfida della partecipazione», attivando un dialogo basato su «una logica plurale, che fa propria l’interdisciplinarità e l’interdipendenza del sapere». «Prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali», l’invito del Papa: «Non sono una semplice minoranza tra le altre, ma piuttosto devono diventare i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi progetti che interessano i loro spazi. La comunità educativa porta in sé un numero infinito di possibilità e potenzialità quando si lascia arricchire e interpellare da tutti gli attori che compongono la realtà educativa. Ciò richiede uno sforzo maggiore in termini di qualità e di integrazione».

«L’università diventa un laboratorio per il futuro del Paese», se «sa incorporare in sé la vita e il cammino del popolo superando ogni logica antagonistica ed elitaria del sapere». «Un’antica tradizione cabalistica racconta che l’origine del male si trova nella scissione prodotta dall’essere umano quando mangiò dell’albero della scienza del bene e del male. In questo modo, la conoscenza acquistò un primato sulla Creazione, sottoponendola ai propri schemi e desideri». «Sarà la tentazione latente in ogni ambito accademico, quella di ridurre la Creazione ad alcuni schemi interpretativi, privandola del mistero che le è proprio e che ha spinto generazioni intere a cercare ciò che è giusto, buono, bello e vero», ha affermato il Papa: «E quando il professore, per la sua sapienza, diventa ‘maestro’ è in grado di risvegliare la capacità di stupore nei nostri studenti. Stupore davanti a un mondo e un universo da scoprire!». «Siete chiamati a generare processi che illuminino la cultura attuale proponendo un umanesimo rinnovato che eviti di cadere in ogni tipo di riduzionismo», la «missione profetica» dell’università, secondo il Papa: «E questa profezia che ci viene chiesta ci spinge a cercare spazi sempre nuovi di dialogo più che di scontro; spazi di incontro più che di divisione; strade di amichevole discrepanza, perché ci si differenzia con rispetto tra persone che camminano cercando lealmente di progredire in comunità verso una rinnovata convivenza nazionale».

Questo testo è stato ripreso da "Toscana oggi", con qualche modifica redazionale. Qui accanto il testo integrale

La Santa Sede, 24 dicembre 2017 Dal massimo della tensione religiosa di questo Grande si sprigiona il massimo della passione civile e umana che questa triste stagione riesca a darci, «mentre sul mondo soffiano venti di guerra e un modello di sviluppo ormai superato continua a produrre degrado umano, sociale e ambientale»

Cari fratelli e sorelle, buon Natale!

A Betlemme, dalla Vergine Maria, è nato Gesù. Non è nato per volontà umana, ma per il dono d’amore di Dio Padre, che «ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).

Questo evento si rinnova oggi nella Chiesa, pellegrina nel tempo: la fede del popolo cristiano rivive nella liturgia del Natale il mistero di Dio che viene, che assume la nostra carne mortale, che si fa piccolo e povero per salvarci. E questo ci riempie di commozione, perché troppo grande è la tenerezza del nostro Padre.

I primi a vedere la gloria umile del Salvatore, dopo Maria e Giuseppe, furono i pastori di Betlemme. Riconobbero il segno annunciato loro dagli angeli e adorarono il Bambino. Quegli uomini umili ma vigilanti sono esempio per i credenti di ogni tempo che, di fronte al mistero di Gesù, non si scandalizzano della sua povertà, ma, come Maria, si fidano della parola di Dio e contemplano con occhi semplici la sua gloria. Davanti al mistero del Verbo fatto carne, i cristiani di ogni luogo confessano, con le parole dell’evangelista Giovanni: «Abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (1,14).

Oggi, mentre sul mondo soffiano venti di guerra e un modello di sviluppo ormai superato continua a produrre degrado umano, sociale e ambientale, il Natale ci richiama al segno del Bambino, e a riconoscerlo nei volti dei bambini, specialmente di quelli per i quali, come per Gesù, «non c’è posto nell’alloggio» (Lc 2,7).

Vediamo Gesù nei bambini del Medio Oriente, che continuano a soffrire per l’acuirsi delle tensioni tra Israeliani e Palestinesi. In questo giorno di festa invochiamo dal Signore la pace per Gerusalemme e per tutta la Terra Santa; preghiamo perché tra le parti prevalga la volontà di riprendere il dialogo e si possa finalmente giungere a una soluzione negoziata che consenta la pacifica coesistenza di due Stati all’interno di confini concordati tra loro e internazionalmente riconosciuti. Il Signore sostenga anche lo sforzo di quanti nella Comunità internazionale sono animati dalla buona volontà di aiutare quella martoriata terra a trovare, nonostante i gravi ostacoli, la concordia, la giustizia e la sicurezza che da lungo tempo attende.

Vediamo Gesù nei volti dei bambini siriani, ancora segnati dalla guerra che ha insanguinato il Paese in questi anni. Possa l’amata Siria ritrovare finalmente il rispetto della dignità di ogni persona, attraverso un comune impegno a ricostruire il tessuto sociale indipendentemente dall’appartenenza etnica e religiosa. Vediamo Gesù nei bambini dell’Iraq, ancora ferito e diviso dalle ostilità che lo hanno interessato negli ultimi quindici anni, e nei bambini dello Yemen, dove è in corso un conflitto in gran parte dimenticato, con profonde implicazioni umanitarie sulla popolazione che subisce la fame e il diffondersi di malattie.

Vediamo Gesù nei bambini dell’Africa, soprattutto in quelli che soffrono in Sud Sudan, in Somalia, in Burundi, nella Repubblica Democratica del Congo, nella Repubblica Centroafricana e in Nigeria.

Vediamo Gesù nei bambini di tutto il mondo dove la pace e la sicurezza sono minacciate dal pericolo di tensioni e nuovi conflitti. Preghiamo che nella penisola coreana si possano superare le contrapposizioni e accrescere la fiducia reciproca nell’interesse del mondo intero. A Gesù Bambino affidiamo il Venezuela perché possa riprendere un confronto sereno tra le diverse componenti sociali a beneficio di tutto l’amato popolo venezuelano. Vediamo Gesù nei bambini che, insieme alle loro famiglie, patiscono le violenze del conflitto in Ucraina e le sue gravi ripercussioni umanitarie e preghiamo perché il Signore conceda al più presto la pace a quel caro Paese.

Vediamo Gesù nei bambini i cui genitori non hanno un lavoro e faticano a offrire ai figli un avvenire sicuro e sereno. E in quelli a cui è stata rubata l’infanzia, obbligati a lavorare fin da piccoli o arruolati come soldati da mercenari senza scrupoli.

Vediamo Gesù nei molti bambini costretti a lasciare i propri Paesi, a viaggiare da soli in condizioni disumane, facile preda dei trafficanti di esseri umani. Attraverso i loro occhi vediamo il dramma di tanti migranti forzati che mettono a rischio perfino la vita per affrontare viaggi estenuanti che talvolta finiscono in tragedia. Rivedo Gesù nei bambini che ho incontrato durante il mio ultimo viaggio in Myanmar e Bangladesh, e auspico che la Comunità internazionale non cessi di adoperarsi perché la dignità delle minoranze presenti nella Regione sia adeguatamente tutelata. Gesù conosce bene il dolore di non essere accolto e la fatica di non avere un luogo dove poter poggiare il capo. Il nostro cuore non sia chiuso come lo furono le case di Betlemme.

Cari fratelli e sorelle, anche a noi è indicato il segno del Natale: «un bambino avvolto in fasce...» (Lc 2,12). Come la Vergine Maria e san Giuseppe, come i pastori di Betlemme, accogliamo nel Bambino Gesù l’amore di Dio fatto uomo per noi, e impegniamoci, con la sua grazia, a rendere il nostro mondo più umano, più degno dei bambini di oggi e di domani.

A voi, cari fratelli e sorelle, giunti da ogni parte del mondo in questa Piazza, e a quanti da diversi Paesi siete collegati attraverso la radio, la televisione e gli altri mezzi di comunicazione, rivolgo il mio cordiale augurio.

La nascita di Cristo Salvatore rinnovi i cuori, susciti il desiderio di costruire un futuro più fraterno e solidale, porti a tutti gioia e speranza. Buon Natale!

Articolo tratto da "La Santa sede", qui raggiungibile in originale

Avvenire, 21 ottobre 2017. Ancora una lezione sul perché occorre cambiare dalla radice la società di oggi. «Se prevale come fine il profitto, la democrazia tende a diventare una plutocrazia in cui crescono le diseguaglianze e lo sfruttamento del pianeta». a.
llustri Signore e Signori,

saluto cordialmente i Membri della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e le personalità che partecipano a queste giornate di studio, come pure le istituzioni che sostengono l’iniziativa. Essa attira l’attenzione su un’esigenza di grande attualità come è quella di elaborare nuovi modelli di cooperazione tra il mercato, lo Stato e la società civile, in rapporto alle sfide del nostro tempo. In questa occasione, vorrei soffermarmi brevemente su due cause specifiche che alimentano l’esclusione e le periferie esistenziali.

La prima è l’aumento endemico e sistemico delle diseguaglianze e dello sfruttamento del pianeta, che è maggiore rispetto all’aumento del reddito e della ricchezza. Eppure, la diseguaglianza e lo sfruttamento non sono una fatalità e neppure una costante storica. Non sono una fatalità perché dipendono, oltre che dai diversi comportamenti individuali, anche dalle regole economiche che una società decide di darsi. Si pensi alla produzione dell’energia, al mercato del lavoro, al sistema bancario, al welfare, al sistema fiscale, al comparto scolastico. A seconda di come questi settori vengono progettati, si hanno conseguenze diverse sul modo in cui reddito e ricchezza si ripartiscono tra quanti hanno concorso a produrli. Se prevale come fine il profitto, la democrazia tende a diventare una plutocrazia in cui crescono le diseguaglianze e anche lo sfruttamento del pianeta. Ripeto: questo non è una necessità; si riscontrano periodi in cui, in taluni Paesi, le diseguaglianze diminuiscono e l’ambiente è meglio tutelato.

L’altra causa di esclusione è il lavoro non degno della persona umana. Ieri, all’epoca della Rerum novarum (1891), si reclamava la “giusta mercede all’operaio”. Oggi, oltre a questa sacrosanta esigenza, ci chiediamo anche perché non si è ancora riusciti a tradurre in pratica quanto è scritto nella Costituzione Gaudium et spes: «Occorre adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita» (n. 67) e – possiamo aggiungere con l’Enciclica Laudato si’ – nel rispetto del creato, nostra casa comune.

La creazione di nuovo lavoro ha bisogno, soprattutto in questo tempo, di persone aperte e intraprendenti, di relazioni fraterne, di ricerca e investimenti nello sviluppo di energia pulita per risolvere le sfide del cambiamento climatico. Ciò è oggi concretamente possibile. Occorre svincolarsi dalle pressioni delle lobbie pubbliche e private che difendono interessi settoriali; e occorre anche superare le forme di pigrizia spirituale. Bisogna che l’azione politica sia posta veramente al servizio della persona umana, del bene comune e del rispetto della natura.

La sfida da raccogliere è allora quella di adoperarsi con coraggio per andare oltre il modello di ordine sociale oggi prevalente, trasformandolo dall’interno. Dobbiamo chiedere al mercato non solo di essere efficiente nella produzione di ricchezza e nell’assicurare una crescita sostenibile, ma anche di porsi al servizio dello sviluppo umano integrale. Non possiamo sacrificare sull’altare dell’efficienza – il “vitello d’oro” dei nostri tempi – valori fondamentali come la democrazia, la giustizia, la libertà, la famiglia, il creato. In sostanza, dobbiamo mirare a “civilizzare il mercato”, nella prospettiva di un’etica amica dell’uomo e del suo ambiente.

Discorso analogo concerne il ripensamento della figura e del ruolo dello Stato-nazione in un contesto nuovo quale è quello della globalizzazione, che ha profondamente modificato il precedente ordine internazionale. Lo Stato non può concepirsi come l’unico ed esclusivo titolare del bene comune non consentendo ai corpi intermedi della società civile di esprimere, in libertà, tutto il loro potenziale. Sarebbe questa una violazione del principio di sussidiarietà che, abbinato a quello di solidarietà, costituisce un pilastro portante della dottrina sociale della Chiesa. Qui la sfida è come raccordare i diritti individuali con il bene comune.

In tal senso, il ruolo specifico della società civile è paragonabile a quello che Charles Péguy ha attribuito alla virtù della speranza: come una sorella minore sta in mezzo alle altre due virtù – fede e carità – tenendole per mano e tirandole in avanti. Così mi sembra sia la posizione della società civile: “tirare” in avanti lo Stato e il mercato affinché ripensino la loro ragion d’essere e il loro modo di operare.

Cari amici, vi ringrazio per l’attenzione a queste riflessioni. Invoco la benedizione del Signore su di voi, sui vostri cari e sul vostro lavoro.

il manifesto, 6 ottobre 2017. Ancora una volta, nel mondo secolare solo un quotidiano comunista è capace di pubblicare un libro di un Papa che a sua volta è uno dei pochissimi che sanno pronunciare le parole di verità sul mondo di oggi: quello che malauguratamente è e quello che potrebbe e dovrebbe essere

Per Francesco la terra è innanzitutto il campo: la sede in cui si svolge e da cui dipende la vita di quei contadini di quei braccianti che, insieme ai recuperatori di rifiuti e di strutture abbandonate, costituiscono la base sociale principale dei movimenti popolari.

Quei movimenti radunati dal papa per offrire loro una sede dove coordinarsi, definire i propri obiettivi, far sentire la propria voce. A loro sono infatti rivolti tre dei principali discorsi che hanno caratterizzato la svolta che Francesco ha cercato di imprimere al ruolo della chiesa con il suo pontificato. Ma campo è inseparabile dal lavoro che lo rende fertile; e lavoro è un diritto di tutti, che va rivendicato con forza ed a cui va restituita la dignità negata dallo sfruttamento di un sistema fondato sul dominio incontrastato del dio denaro. Ed è inseparabile anche da tetto, il diritto a una casa, che fin dal suo primo discorso rivolto ai movimenti popolari Francesco declina nel senso di comunità, di vicinato, mutuo aiuto: il “fuori” senza il quale il “dentro” della casa si risolve in una prigione.

Ma Terra – questa volta con la maiuscola – è anche il pianeta in cui si svolge e da cui dipende la vita di noi tutti: un ambiente indissolubilmente trasformato dallo sviluppo storico, dalle opere, dai manufatti e dalle produzioni in cui si è concretizzata l’attività del genere umano, che è anche e soprattutto lavoro; come è inseparabile dal concetto di dimora: il luogo in cui le facoltà umane di ciascuno si possono sviluppare attraverso la convivenza e l’interscambio con il territorio e gli altri esseri umani che lo abitano.

In questa connessione tra il locale e il globale, tra il mondo del vissuto quotidiano e le prospettive dello sviluppo storico, tra il comportamento di ciascuno – analizzato fin nei minimi e apparentemente insignificanti particolari – e le scelte politiche da cui dipende il futuro dell’umanità e del pianeta sta la grandezza del pensiero di Francesco, che non ha eguali in nessuno dei leader politici e del personale di governo che oggi opprimono la popolazione del pianeta.

Francesco è un papa: si ritiene, e viene da molti considerato, il vicario di dio in terra; il suo pensiero è indissolubilmente legato al suo ruolo; e non potrebbe essere altrimenti. Per lui la Terra è parte del “creato”. Ma anche così, o proprio per questo, la Terra assume nel suo pensiero una propria autonomia e, attraverso i suoi cicli e i suoi equilibri, un ruolo regolativo nel definire che cosa è lecito e che cosa non è lecito nei comportamenti umani: non si può distruggere o sottrarre agli esseri umani campo, lavoro e tetto, ossia un ambiente sano, la possibilità di agire nella storia e le condizioni di una convivenza fondata sulla giustizia – che certo non esclude, ma anzi impone, il conflitto, e su questo Francesco è perentorio – senza far venir meno le possibilità di sopravvivenza per tutto il genere umano.

L’essere umano è per lui parte della Terra; non può contrapporsi più di tanto ai meccanismi che ne regolano cicli ed equilibri e ad essi si deve conformare. Non, quindi, la ubris del dominio sulla natura e sugli altri esseri, come per secoli è stato interpretato il messaggio biblico, bensì una consonanza con essi che fa del genere umano il custode, o uno dei custodi del, creato. Sono sanciti così sia l’abbandono di una concezione antropocentrica, prevalsa soprattutto con l’avvento dell’era moderna, sia l’adesione alla visione propria di quell’ecologia profonda che sta affermandosi, pur con grandi difficoltà, in molti campi della cultura e in gran parte dei movimenti autorganizzati del nostro tempo: una visione che Francesco abbraccia senza remore nell’enciclica Laudato sì.

È solo così, infatti, che si può riportare il lavoro, insieme alle sue finalità, ai suoi prodotti, ai suoi effetti sull’ambiente e sugli esseri umani, entro i limiti della sostenibilità, restituendo agli emarginati della Terra dignità e qualità della vita. Perché le vittime dell’aggressione alle risorse del pianeta sono soprattutto i poveri e sono loro, per forza di cose, quelli maggiormente interessati alla salvaguardia e al risanamento di tutto l’ambiente in cui vivono: dal “campo” al pianeta Terra; dall’aria che respiriamo e dal cibo che mangiamo – o che vorremmo mangiare – agli equilibri climatici globali. Per questo la giustizia sociale non è perseguibile al di fuori della giustizia ambientale, del rispetto della Terra, della salvaguardia dei suoi cicli e di tutto il vivente.

È in questo contesto che si situa l’impegno di Francesco a favore dell’accoglienza e dell’inclusione di tutti i migranti, che considera la conseguenza più evidente degli squilibri ambientali e sociali del mondo d’oggi: quelli che costringono milioni di esseri umani a fuggire da paesi che al momento, e forse per un lungo periodo, e forse anche per sempre, non danno loro più alcun accesso a un campo, a un tetto e a un lavoro, spingendoli a cercare queste cose in paesi lontani e sempre più ostili.

È un impegno non privo di ondeggiamenti e contraddizioni, come quelli testimoniati dagli scarti tra il discorso di Francesco in vista della giornata mondiale del migrante del 2018, e quel “primo, quanti posti ho?” pronunciato in aereo, di ritorno dall’America Latina, che ha dato modo a una parte della gerarchia ecclesiastica di fornire un assist immediato agli obbrobriosi respingimenti del ministro Minniti; per poi contraddirsi ancora nell’invito ad accogliere tutti i migranti “a braccia aperte”; aperte come il colonnato di san Pietro: quello sotto cui Francesco aveva invitato a trovar rifugio i senzatetto di Roma prima che le gerarchie vaticane li cacciassero di nuovo per non turbarne il decoro. Sono segni evidenti del fatto che quando dalle enunciazioni di principio si scende ai fatti, si aprono conflitti a tutto campo che non risparmiano nessuno, costringendo a continui ondeggiamenti.

Ma l’approccio che unisce giustizia sociale a giustizia ambientale resta comunque il tema di fondo che attraversa e domina tutta l’enciclica Laudato sì: un testo che riposiziona radicalmente le priorità e le prospettive della politica, della cultura e dell’agire quotidiano. Per i cattolici, nel solco di una continuità, che Francesco rivendica, con encicliche di precedenti pontefici; per i non credenti, in piena sintonia sia con il pensiero ecologista più radicale sia con le culture indigene, soprattutto quelle dell’America Latina, che hanno giocato un ruolo fondamentale in questa elaborazione.

La pubblicazione, per iniziativa del manifesto, di questo libro – che contiene, oltre ad alcune note di commento e di contestualizzazione, il testo integrale dei tre discorsi che Francesco ha rivolto al mondo in occasione degli incontri mondiali con i movimenti popolari – è anch’esso il segno di una volontà di rinnovare il proprio repertorio politico attingendo a fonti ed ambiti fino a pochi anni fa quasi impensabili.

il manifesto, 4 ottobre 2017. «Rivoluzione in Vaticano (e al manifesto)? No, ma per la Chiesa certamente una discontinuità forte. Il comunismo non c’entra ma il focus delle parole del papa ha a che fare con i movimenti rivoluzionari».

Le parole del Papa veicolate da il manifesto: uno scandalo? Saranno in molti a gridarlo. Già parecchi hanno cominciato minacciosamente a chiamare Bergoglio «comunista in tonaca bianca», figurarsi quando scopriranno che i suoi discorsi agli Incontri Mondiali dei Movimenti Popolari (EMMP) – Roma 2014; Santa Cruz in Bolivia 2015; di nuovo Roma 2016 (il prossimo era ipotizzato nientemeno che a Caracas) – vengono addirittura distribuiti in abbinamento al quotidiano dei comunisti senza tonache quali siamo noi.

Di comunisti (o simili) in effetti agli incontri ce ne sono stati e anche importanti: all’ultimo Pepe Mujica, guerrigliero coi Tupamaros e quindi presidente dell’Uruguay, calorosamente salutato da Papa Francesco; con Evo Morales, presidente indio della Bolivia, c’era stata quasi una cogestione della conferenza. E poi, con i movimenti, provenienti da 68 paesi diversi, ce ne sono stati molti altri, ancorché non presidenti, ma a capo di assai importanti organizzazioni di sinistra: João Pedro Stedìle, leader dei Sem terra brasiliani e il coordinatore della rete internazionale Via campesina tanto per fare un esempio, ambedue – fra l’altro – membri del comitato internazionale del Forum Sociale Mondiale, con cui la EMMP ha molti tratti comuni nonostante qualche dissenso. Era stato peraltro invitato anche Bernie Sanders che poi non è potuto venire e a seguire i lavori ci sono stati Indignados, Confederazioni sindacali, persino il Leoncavallo.

Rivoluzione in Vaticano, dunque (e al manifesto)? No, ma per la Chiesa certamente una discontinuità forte, pratica e teorica. Il comunismo non c’entra ma il focus significante delle parole del papa ha certo a che fare con i movimenti rivoluzionari: per via dell’insistente richiamo alla soggettività, al protagonismo delle vittime, che debbono prendere la parola e non solo subìre. Perciò occorre dar valore alla politica con la P maiuscola, di cui «non bisogna avere paura, perché è anzi la forma più alta della carità cristiana». Non politica «per» i poveri, però – che «è carro mascherato per contenere gli scarti del sistema» (Francesco parlava dei «bonus»?), ma politica «dei» poveri, e cioè praticata direttamente da loro. Questo significa «rifondare la democrazia», che è oggi recinto dai «confini ristretti», è solo quella èlitaria, ufficiale, inservibile.

Alla denuncia dell’ingiustizia da parte della Chiesa – espressa sia pure con maggiore prudenza di quanto accade oggi che si condanna senza mezzi termini la globalizzazione neoliberista, la corruzione della finanza, il terrorismo del danaro – qualche papa ci aveva già abituati. In questo senso il Concilio Vaticano II è stato una straordinaria porta spalancata su un pensiero cristiano fino ad allora per i più inimmaginabile. Colpì anche noi comunisti che del Vaticano, e non senza ragioni, eravamo abituati a sospettare.

Nelle tesi per il IX congresso del PCI fu inserita una affermazione significativa: la religione sentitamente vissuta può essere un contributo importante alla critica anticapitalista. Un concetto su cui Togliatti tornò in modo più netto nel discorso, diventato famoso, tenuto al primo convegno su cattolici e comunisti promosso da una organizzazione comunista: dalla federazione della «bianchissima» Bergamo (di cui mi piace ricordare che era segretario uno dei fondatori de Il Manifesto, Eliseo Milani). E poi c’erano stati in America Latina, negli anni ’70, Puebla e la Liturgia della Liberazione.

Ma la grande innovazione di cui Papa Bergoglio si fa ora paladino sta nel dire che i poveri bisogna amarli e aiutarli e che poi andranno in paradiso, ma che devono alzare la testa e combattere qui e oggi, su questa terra e in questo tempo. E nel chiedere ai movimenti, e cioè alla politica, di farsi carico di generare i processi necessari. Se il manifesto veicola i discorsi di papa Francesco, non è per ospitalità, o per strumentale ammiccamento. È perché questo suo messaggio lo sentiamo nostro. Utile anche ai nostri lettori. Molti generosamente impegnati nella solidarietà, e però spesso, per disillusione, ormai scettici verso la politica.

Da domani, 5 ottobre, in edicola con il manifesto «Terra, casa, lavoro. Discorsi ai movimenti popolari» di papa Francesco. Un libro edito da Ponte alle Grazie curato da una delle nostre firme Alessandro Santagata. Introduzione di Gianni La Bella.

la Repubblica, 2 ottobre 2017. Il significato del gesto di papa Francesco, nell'incrociare la sua mano di rifugiato con la mano d'un altro rifugiato. I tre diritti: il diritto alla cultura, come spirito critico, il diritto alla speranza, il diritto alla pace

Il polso del Papa col bracciale giallo col quale si numerano i profughi il suo- 390003 - non fornisce solo una immagine potentissima della visita di Francesco a Bologna. È un gesto profetico: riconfermato poco dopo davanti al corpo dell’università con una citazione, solo apparentemente innocua. In quel porgere il polso di Francesco c’è la profezia del vangelo di Giovanni (“Quand’eri giovane ti cingevi da te”). C’è la denuncia mite e durissima del tentativo di ridurre la sua istanza evangelica a espressione di un “un certo cattolicesimo”, da squalificare perché ingenua o potenzialmente “eretica” (come dice il tradizionalismo piccolissimo e rumorosissimo che si sforza di sembrare metà della Chiesa).

Tant’è che la forza profetica chiusa in quel 390003 non s’è esaurita all’hub dei profughi. Ha come riverberato nel discorso davanti all’università di Bologna, dove Francesco s’è rivolto all’ateneo più antico del mondo. Un discorso lontano da quelli d’occasione dei decenni passati e che ricorda per importanza quello di Ratisbona.
Nel settembre 2006 la prolusione tenuta da papa Ratzinger nell’ultimo ateneo dove aveva insegnato, diventò casus belli per una citazione bizantina contro l’islam. Il vezzo professorale per la citazione ad effetto (dicono che il cardinal Sodano lo avesse avvertito) si trasformò in una parola d’ordine per quel mondo xenofobo e relativista in materia di democrazia, a dispetto delle intenzioni del Papa. E ancora oggi le frange del tradizionalismo lo citano come il modo in cui un “vero” Papa dovrebbe farla vedere ai musulmani.
A Bologna Francesco ha fatto un discorso non meno denso, teologicamente e politicamente impegnativo: carico del sogno europeo e di una visione del mondo che relega la prolusione di Ratisbona al rango di precedente. L’ha fatto in un ateneo che in un certo modo è “suo”, non solo perché, come gli ha ricordato il rettore Ubertini, ha una sede a Buenos Aires: ma perché nella storia del papato le bolle del pontefice entravano in vigore quando venivano insegnate a Bologna, non quando venivano firmate a Roma.
E a Bologna Francesco ha portato un contributo alla concezione del diritto post-moderno individuando tre diritti — il diritto alla cultura, il diritto alla speranza, il diritto alla pace — che ha consegnato agli scolari e ai loro maestri.
Il diritto alla cultura, come coltivazione di un senso critico opposto ai “teatrini dell’indignazione”. Il diritto alla speranza come contrasto alle “frasi fatte dei populismi” e al “dilagare inquietante e redditizio di false notizie”. E infine il diritto alla pace.
Lo ha fatto glossando il magistero di Benedetto XV — il Papa che condannò la guerra come “inutile strage”. E lo ha fatto dichiarando che la Chiesa non è “neutrale, ma schierata per la pace” con una frase di Giacomo Lercaro: «La Chiesa non può essere neutrale di fronte al male, da qualunque parte esso venga: la sua vita non è la neutralità, ma la profezia». Quella frase Lercaro la disse il primo gennaio del 1968, prima giornata mondiale della pace, facendo suo un testo di Giuseppe Dossetti. Detta in piena guerra del Vietnam, mentre si inseguiva la chimera di favorire un cessate il fuoco con la neutralità sui bombardamenti a tappeto, quella profezia costò all’anziano cardinale la rimozione dalla sede, al culmine di un complesso complotto, con mandanti ed esecutori. Bergoglio lo ha usato senza enfasi e senza riduzioni: perché la profezia è il suo registro.
Ricevendo il Papa, sia l’arcivescovo Zuppi sia il rettore Ubertini hanno ricordato l’altro Francesco venuto a Bologna nel 1222: che predicava modus concionandi e si faceva intendere da tutti. L’altro Francesco andato ieri a Bologna ha usato quel modus. E s’è fatto intendere.

Avvenire.it, 30 settembre 2017. E' ancora dal papa che arrivano parole sensate e politicamente rilevanti per gestire e custodire le nostre città: la passione del bene comune, non alzare torri ma allargare le piazze, prudenza nel governare ma coraggio. (i.b.)

Accogliere, integrare e dialogare. Papa Francesco torna a indicare alcune strade maestre da percorrere nell'accoglienza dei migranti, fenomeno che in questi ultimi anni scuote soprattutto l'opinione pubblica europea. Lo ha fatto nel discorso che ha rivolto alla delegazione dell'Associazione nazionale comuni italiani (Anci) ricevuta questa mattina nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico. Un intervento breve, ma intenso, su un tema che a papa Francesco sta molto a cuore. "La città di cui vorrei parlarvi riassume in una sola le tante che sono affidate alla vostra responsabilità - ha esordito il Papa -. È una città che non ammette i sensi unici di un individualismo esasperato, che dissocia l’interesse privato da quello pubblico. Non sopporta nemmeno i vicoli ciechi della corruzione, dove si annidano le piaghe della disgregazione. Non conosce i muri della privatizzazione degli spazi pubblici, dove il “noi” si riduce a slogan, ad artificio retorico che maschera l’interesse di pochi".

"Un sindaco - ha detto ancora Francesco - deve avere la virtù della prudenza per governare, ma anche la virtù del coraggio per andare avanti e la virtù della tenerezza per avvicinarsi ai più deboli". "Vi auguro di potervi sentire sostenuti dalla gente per la quale spendete il vostro tempo, le vostre competenze, quella familiarità del sindaco con il suo popolo, quella vicinanza, se il sindaco è vicino la cosa va avanti, sempre".

Custodire la passione del bene comune

Per costruire e servire una città "serve un cuore buono e grande, nel quale custodire la passione del bene comune". Ecco allora che "non bisogna alzare ulteriormente la torre, ma di allargare la piazza, di fare spazio, di dare a ciascuno la possibilità di realizzare sé stesso e la propria famiglia e di aprirsi alla comunione con gli altri". Anzi, il Papa consiglia i sindaci di "frequentare le periferie, quelle urbane, quelle sociali e quelle esistenziali. Il punto di vista degli ultimi è la migliore scuola, ci fa capire quali sono i bisogni più veri e mette a nudo le soluzioni solo apparenti". C'è dunque bisogno di "una politica e di una economia nuovamente centrate sull'etica: quella della responsabilità, delle realzioni, della comunità e dell'ambiente".
Migranti, superare le paure

Il Papa non si nasconde che "molti vostri concittadini avvertono un disagio di fronte all'arrivo massiccio di migranti e rifugiati. Ecco trova spiegazione dell'innato timore verso lo straniero, un timore aggravato dalle ferite dovute alla crisi economica, dall'impreparazione delle comunità locali, dall'inadeguatezza di molte misure adottate in un clima di emergenza". Ma tale disagio, aggiunge ancora Francesco, "può essere superato attraverso l'offerta di spazi di incontro personale e di conoscenza mutua". Un invito rivolto a tutti i comuni italiani, anche se il Papa si è rallegrato del fatto che "molte delle amministrazioni qui rappresentate possono annoversarsi tra i principali fautori di buone pratiche di accoglienza e di integrazione". E lascia agli amministratori un compito: aiutare a guardare con speranza al futuro, perché questo fa emergere "le energie migliori di ognuno, dei giovani prima di tutto".

Decaro: parole che ci incoraggiano

Di fronte alla sfida del cambiamento e delle migrazioni "spesso ci capita di avere paura. Spesso vorremmo tornare indietro - commenta il presidente dell'Anci Antonio Decaro -. Soprattutto quando ci sentiamo soli", ma "con la Sua parola, non lo saremo mai". "Questa incontro, ci consente di guardare avanti con più fiducia e più coraggio".

Corriere della Sera, 15 giugno 2017

La corruzione, nella sua radice etimologica, definisce una lacerazione, una rottura, una decomposizione e disintegrazione. Sia come stato interiore sia come fatto sociale, la sua azione si può capire guardando alle relazioni che ha l’uomo nella sua natura più profonda. L’essere umano ha, infatti, una relazione con Dio, una relazione con il suo prossimo, una relazione con il creato, cioè con l’ambiente nel quale vive. Questa triplice relazione — nella quale rientra anche quella dell’uomo con se stesso — dà contesto e senso al suo agire e, in generale, alla sua vita.

Corruzione

Quando l’uomo rispetta le esigenze di queste relazioni è onesto, assume responsabilità con rettitudine di cuore e lavora per il bene comune. Quando invece egli subisce una caduta, cioè si corrompe, queste relazioni si lacerano. Così, la corruzione esprime la forma generale della vita disordinata dell’uomo decaduto. Allo stesso tempo, ancora come conseguenza della caduta, la corruzione rivela una condotta anti-sociale tanto forte da sciogliere la validità dei rapporti e quindi, poi, i pilastri sui quali si fonda una società: la coesistenza fra persone e la vocazione a svilupparla. La corruzione spezza tutto questo sostituendo il bene comune con un interesse particolare che contamina ogni prospettiva generale. Essa nasce da un cuore corrotto ed è la peggiore piaga sociale, perché genera gravissimi problemi e crimini che coinvolgono tutti. La parola «corrotto» ricorda il cuore rotto, il cuore infranto, macchiato da qualcosa, rovinato come un corpo che in natura entra in un processo di decomposizione e manda cattivo odore.

All’origine dell’ingiustizia

Cosa c’è all’origine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Cosa, all’origine del degrado e del mancato sviluppo? Cosa, all’origine del traffico di persone, di armi, di droga? Cosa, all’origine dell’ingiustizia sociale e della mortificazione del merito? Cosa, all’origine dell’assenza dei servizi per le persone? Cosa, alla radice della schiavitù, della disoccupazione, dell’incuria delle città, dei beni comuni e della natura? Cosa, insomma, logora il diritto fondamentale dell’essere umano e l’integrità dell’ambiente? La corruzione, che infatti è l’arma, è il linguaggio più comune anche delle mafie e delle organizzazioni criminali nel mondo. Per questo, essa è un processo di morte che dà linfa alla cultura di morte delle mafie e delle organizzazioni criminali. C’è una profonda questione culturale che occorre affrontare. Oggi molti non riescono anche solo a immaginare il futuro; oggi per un giovane è difficile credere veramente nel suo futuro, in qualunque futuro, e così per la sua famiglia. Questo nostro cambiamento d’epoca, tempo di crisi molto vasta, ritrae la crisi più profonda che coinvolge la nostra cultura. In questo contesto va inquadrata e capita la corruzione nei suoi diversi aspetti. Ne va della presenza della speranza nel mondo, senza la quale la vita perde quel senso di ricerca e possibilità di miglioramento che la rende tale.

L’uomo va visto in ogni suo aspetto

In questo libro il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, oggi prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, e già presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, spiega bene la ramificazione di questi significati di corruzione, e lo fa concentrandosi in particolare sull’origine interiore di questo stato che, appunto, germoglia nel cuore dell’uomo e può germogliare nel cuore di tutti gli uomini. Siamo, infatti, tutti molto esposti alla tentazione della corruzione: anche quando pensiamo di averla sconfitta, essa si può ripresentare. L’uomo va visto in ogni suo aspetto, non va scisso a seconda delle sue attività, e così la corruzione va letta — come si legge in questo libro — tutta insieme, per tutto l’uomo, sia nelle sue espressioni di reato sia in quelle politiche, economiche, culturali, spirituali. Nel 2016 si è concluso il Giubileo straordinario della misericordia. La misericordia permette di superarsi in spirito di ricerca. Cosa avviene se ci si arrocca in se stessi e se il pensiero e il cuore non esplorano un orizzonte più ampio? Ci si corrompe, e corrompendosi si assume l’atteggiamento trionfalista di chi si sente più bravo e più scaltro degli altri. La persona corrotta, però, non si rende conto che si sta costruendo, da se stessa, la propria catena. Un peccatore può chiedere perdono, un corrotto dimentica di chiederlo. Perché? Perché non ha più necessità di andare oltre, di cercare piste al di là di se stesso: è stanco ma sazio, pieno di sé. La corruzione ha, infatti, all’origine una stanchezza della trascendenza, come l’indifferenza.

L’identità e il cammino della Chiesa

Il cardinale Turkson — come si comprende da questo dialogo che via via si snoda secondo un itinerario preciso — esplora i diversi passaggi nei quali nasce e si insinua la corruzione, dalla spiritualità dell’uomo fino alle sue costruzioni sociali, culturali, politiche e anche criminali, ponendo insieme questi aspetti anche su quel che più ci interpella: l’identità e il cammino della Chiesa. La Chiesa deve ascoltare, elevarsi e chinarsi sui dolori e le speranze delle persone secondo misericordia, e deve farlo senza avere paura di purificare se stessa, ricercando assiduamente la strada per migliorarsi. Henri de Lubac scrisse che il pericolo più grande per la Chiesa è la mondanità spirituale — quindi la corruzione — che è più disastrosa della lebbra infame. La nostra corruzione è la mondanità spirituale, la tepidezza, l’ipocrisia, il trionfalismo, il far prevalere solo lo spirito del mondo sulle nostre vite, il senso di indifferenza. Ed è con questa consapevolezza che noi, uomini e donne di Chiesa, possiamo accompagnare noi stessi e l’umanità sofferente, soprattutto quella che più è oppressa dalle conseguenze criminali e di degrado generate dalla corruzione.

Cristiani, come fiocchi di neve

Mentre scrivo mi trovo qui in Vaticano, in luoghi di una bellezza assoluta, nei quali l’ingegno umano ha cercato di elevarsi e trascendere nel tentativo di far vincere l’immortale sul caduco, sul corrotto. Questa bellezza non è un accessorio cosmetico, ma qualcosa che pone al centro la persona umana perché essa possa alzare la testa contro tutte le ingiustizie. Questa bellezza deve sposarsi con la giustizia. Così, dobbiamo parlare di corruzione, denunciarne i mali, capirla, mostrare la volontà di affermare la misericordia sulla grettezza, la curiosità e creatività sulla stanchezza rassegnata, la bellezza sul nulla. Noi, cristiani e non cristiani, siamo fiocchi di neve, ma se ci uniamo possiamo diventare una valanga: un movimento forte e costruttivo. Ecco il nuovo umanesimo, questo rinascimento, questa ri-creazione contro la corruzione che possiamo realizzare con audacia profetica. Dobbiamo lavorare tutti insieme, cristiani, non cristiani, persone di tutte le fedi e non credenti, per combattere questa forma di bestemmia, questo cancro che logora le nostre vite. È urgente prenderne consapevolezza, e per questo ci vuole educazione e cultura misericordiosa, ci vuole cooperazione da parte di tutti secondo le proprie possibilità, i propri talenti, la propria creatività.

eddyburg, Roberto Caristi, ci ha inviato questo puntuale resoconto del discorso di papa Francesco, tenuto a Genova il 27 maggio scorso, di cui la stampa ha dato frammenti d'informazione. Lo ringraziamo molto-

«Sono un lavoratore e sindacalista genovese: vi mando - se può essere utile - un mio resoconto dell’incontro di sabato scorso, all’ILVA, fra papa Francesco e il mondo del lavoro. Avendo avuto l’opportunità di partecipare, ho ascoltato un messaggio forte, denso e organico a favore della dignità e del valore sociale - oltreché individuale - del lavoro. Parole veraci e schiette - per alcuni aspetti "inaudite", specie a quel livello - che mettono a nudo menzogne e ipocrisie, dichiarando che è possibile una "buona economia", a servizio dell’uomo, e che stare da una parte è sempre più necessario. Un caro saluto e grazie per quanto fate con eddyburg. Roberto Caristi»

PAPA FRANCESCO E IL LAVORO
Genova, 27 maggio 2017


Circa 3.500 lavoratori genovesi e liguri hanno accolto Papa Francesco nel capannone 11 dello stabilimento genovese dell’Ilva di Cornigliano.

«E' la prima volta - ha detto il Papa - che vengo a Genova: essere così vicino al porto mi ricorda da dove è uscito il mio papà, mi fa una grande emozione. Grazie dell'accoglienza!». Poi è entrato subito nel merito della sua visita allo stabilimento, rispondendo a Ferdinando, Micaela, Sergio, Vittoria, ovvero un imprenditore, una lavoratrice interinale (in rappresentanza di CGIL, CISL e UIL), un lavoratore, una disoccupata che hanno parlato al Papa in rappresentanza del mondo del lavoro

Il vero imprenditore conosce i suoi lavoratori perché lavora accanto a loro, lavora con loro. Non dimentichiamo che l’imprenditore deve essere prima di tutto un lavoratore! Se lui non ha questa esperienza della dignità del lavoro non sarà un buon imprenditore. Condivide le fatiche dei lavoratori e condivide le gioie del lavoro, del risolvere insieme i problemi, del creare qualcosa insieme. Un buon imprenditore ha a cuore la propria azienda e i lavoratori che ne fanno parte e ne sostengono i risultati con la loro opera…

È importante riconoscere le virtù dei lavoratori e delle lavoratrici. Il loro bisogno è il bisogno di fare il lavoro bene perché il lavoro va fatto bene. A volte si pensa che un lavoratore lavori bene solo perché è pagato: questa è una grave disistima dei lavoratori e del lavoro, perché nega la dignità del lavoro: le persone lavorano bene innanzitutto per la propria dignità e il proprio onore.

Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente! Un buon imprenditore non licenzia e se è costretto a farlo soffre, lotta, perché è la sua gente, la sua famiglia… perché privare una persona del lavoro significa privarla della dignità. Da questa sofferenza nascono spesso buone idee per limitare i licenziamenti.

Chi pensa di risolvere i problemi della sua impresa licenziando non è un buon imprenditore, è un ‘commerciante’: oggi vende la sua gente, domani la sua stessa dignità. La mancanza di lavoro è molto più del venir meno di una fonte di reddito per vivere. Il lavoro è anche questo, ma è molto di più: lavorando diventiamo più persone, la nostra umanità fiorisce. […] Il lavoro è partecipazione alla creazione, che continua grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori.

Sulla terra ci sono poche gioie più grandi di quelle che possiamo sperimentare lavorando. Come ci sono pochi dolori più grandi di quando il lavoro schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro. Con il lavoro gli uomini e le donne sono unti di dignità.

Una malattia dell’economia è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori, sono due tipi diversi. […] Lo speculatore non ama la sua azienda e i lavoratori ma li vede come mezzi per fare profitto, licenziare, chiudere spostare l’azienda: tutto questo non gli crea problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, mangia persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto.

Quando l'economia passa nelle mani degli speculatori tutto si rovina, l'economia perde il suo volto… e i volti dei lavoratori… E’ una economia senza volti, astratta. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone e quindi non si vedono le persone da licenziare, tagliare...

Se l’economia perde contatto con i volti delle persone concrete diventa un'economia senza volto e quindi spietata. Bisogna temere gli speculatori, non i bravi imprenditori.

Ma paradossalmente qualche volta il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro. Perché? Perché crea burocrazia e controlli partendo dall’ipotesi che gli attori dell’economia siano speculatori, e così chi non lo è, è svantaggiato, chi invece lo è, trova i mezzi per eludere i controlli. Si sa che i regolamenti e le leggi pensati per i disonesti finiscono per penalizzare gli onesti.

Bisogna guardare senza paura e con responsabilità alle trasformazioni tecnologiche e non rassegnarsi all’ideologia che immagina un mondo dove solo la metà o i due terzi dei lavoratori lavoreranno, mentre gli altri saranno disoccupati, mantenuti da un assegno sociale. Senza lavoro si può sopravvivere, ma per vivere occorre il lavoro… la scelta è tra il sopravvivere e il vivere.

Dunque, la risposta non deve essere reddito per tutti ma lavoro per tutti, perché altrimenti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso, pensiamo alla rivoluzione industriale. Ci sarà una rivoluzione, ma dovrà essere lavoro, non pensione! Non pensionati, lavoro! Si va in pensione all’età giusta. E’ un atto di giustizia ma contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 35-40 anni, con assegno dello Stato. Se mi metto nei panni di un prepensionato posso dire: "Ho per mangiare? Sì. Ho la dignità? No, perché non ho il lavoro”.

I valori del lavoro stanno cambiando molto velocemente e molti dei valori della grande impresa e della grande finanza non sono in linea con la dimensione umana e pertanto con l’umanesimo cristiano.

Molte persone sono messe sotto un ‘ricatto sociale’: quello di chi - facendo leva sul dramma della disoccupazione - le vorrebbe costringere ad accettare le più infime condizioni pur di lavorare. Occorre invece promuovere, attraverso il lavoro, un ‘riscatto sociale’.

L’accento sulla competizione, oltre a essere un errore antropologico, è anche un errore economico perché dimentica che l’impresa è cooperazione mutua. Un sistema che mette in competizione i lavoratori tra loro - fin dentro l’impresa, attraverso sistemi incentivanti - magari nel breve periodo può ottenere qualche vantaggio economico ma finisce col minare quel tessuto che è l’anima di ogni organizzazione e così quando arriva una crisi l’azienda si sfilaccia e implode, perché non c’è più nessuna corda che la tiene. Questa cultura competitiva è un errore, è una visione che va cambiata se vogliamo il bene dell’impresa, dei lavoratori e dell’economia.

Un altro valore che in realtà è un disvalore è la meritocrazia oggi tanto osannata, che affascina molto perché usa una parola bella: il ‘merito’; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. Al di là della buona fede di tanti che la invocano, la meritocrazia sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono ma come un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi.

Così, se due bambini nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente. E quando quei due bambini andranno in pensione, la diseguaglianza tra di loro si sarà moltiplicata.

Una seconda conseguenza della cosiddetta “meritocrazia” è il cambiamento della cultura della povertà: il povero è considerato un demeritevole, e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa. Questa è la vecchia logica degli amici di Giobbe che volevano convincerlo che fosse colpevole della sua sventura, ma questa non è la logica del Vangelo e della vita. La meritocrazia nel Vangelo la troviamo nella figura del fratello maggiore del figliol prodigo che disprezza il fratello minore e pensa che debba restare un fallito. Il padre invece pensa che nessun figlio si ‘merita’ le ghiande dei porci.

C’è anche chi è pagato molto perché il lavoro prenda tutta la vita, senza orari: è un paradosso della nostra società la presenza di una moltitudine di persone che vorrebbero lavorare e non hanno l’opportunità, mentre altri che vorrebbero lavorare meno non possono perché sono stati comprati dalle imprese.

Il lavoro diventa fratello quando accanto a esso c’è la festa, il tempo libero. Senza questo aspetto diventa lavoro schiavistico, anche quando è superpagato. Nelle famiglie dove ci sono disoccupati non è mai veramente domenica, perché manca il lavoro del lunedì: per celebrare le feste è necessario poter celebrare il lavoro, vanno insieme, l’uno scandisce il tempo dell’altro.

Il consumo è un idolo del nostro tempo, è il centro della nostra società. Oggi ci sono i nuovi templi aperti 24 ore, che promettono la salvezza, punti di puro consumo e presunto ‘piacere’.

Il lavoro è fatica, e sudore: quando una società edonista vede e vuole solo il consumo, non capisce il valore della fatica e del sudore, non capisce il lavoro. Tutte le idolatrie sono esperienze di puro consumo. Senza ritrovare una cultura che stima la fatica e il sudore, non ritroveremo un nuovo rapporto con il lavoro e continueremo a sognare il consumo del puro piacere.

Il lavoro è il centro di ogni patto sociale non un mezzo per potere consumare. Tra il lavoro e il consumo ci sono tante cose, tutte importanti e belle: libertà onore, dignità, diritti di tutti. Se svendiamo il lavoro al consumo, svenderemo presto anche queste parole sorelle.

Attorno al lavoro, dunque, si edifica l'intero patto sociale: quando non si lavora, si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia a entrare in crisi.

Mi piace molto il primo articolo della Costituzione italiana: possiamo dire che togliere lavoro alla gente o sfruttarla con un lavoro indegno e malpagato è anticostituzionale! Se non fosse fondata sul lavoro la Repubblica italiana non sarebbe una democrazia, perché il posto del lavoro lo hanno sempre occupato privilegi, caste, rendite.

Oggi il lavoro è a rischio e nel mondo non si considera con la dignità che ha, invece il lavoro è una priorità umana… e pertanto è una priorità cristiana, e anche una priorità del Papa.

la Repubblica, 30 aprile 2017

«Sono preoccupato per il caso Regeni, la Santa Sede si è mossa ». Così Francesco durante il volo di ritorno dal Cairo, diciottesimo viaggio fuori dai confini italiani. Il Papa parla del caso Regeni, dei populismi in Europa, della necessità che in Corea del Nord «si proceda con la strada della diplomazia».

«Una guerra allargata oggi – dice – distruggerebbe buona parte dell’umanità, è terribile. Fermiamoci! Serve una soluzione diplomatica e un intervento delle Nazioni Unite che hanno il dovere di riprendere la loro leadership perché si è un po’ annacquata ». È ancora il tempo di un partito dei cattolici? «No, non siamo nel secolo scorso». «L’unico estremismo ammesso per i credenti – ha invece detto nella messa della mattina – è quello della carità».
Ha incontrato il presidente Al Sisi: avete parlato di diritti umani e del caso di Giulio Regeni? Si potrà conoscere la verità?
«Quando sono con un capo di Stato in dialogo privato quello rimane privato, a meno che si sia d’accordo nel renderlo pubblico. Io ho avuto quattro dialoghi privati qui, e credo che se è privato, per rispetto, si deve mantenere la riservatezza. A proposito di Regeni: sono preoccupato, e dalla Santa Sede mi sono mosso su quel tema, perché anche i genitori lo hanno chiesto. La Santa Sede si è mossa. Non dirò come ma ci siamo mossi».
Lei ha parlato molto della terza guerra mondiale a pezzi. Sembra però che questa guerra si sia concentrata in Corea del Nord. Trump ha mandato navi militari, la Corea del Nord ha minacciato di lanciare missili. Cosa vuole dire ai leader politici che hanno la responsabilità nel mondo?
«Li chiamo e li chiamerò a un lavoro per risolvere i problemi sulla strada della diplomazia. Ci sono i facilitatori, tanti nel mondo, i mediatori. Ci sono Paesi come la Norvegia, soltanto per fare un esempio, che è sempre pronta ad aiutare. La strada è il negoziato, la soluzione diplomatica, che è il futuro dell’umanità. Questa guerra mondiale a pezzi della quale parlo da due anni si è concentrata in punti che già erano caldi. La questione dei missili in Corea c’è da tempo e si è riscaldata troppo. Chiedo di risolverla con la strada diplomatica. Perché una guerra allargata distruggerà non dico la metà dell’umanità, ma una buona parte dell’umanità sì. Sarebbe terribile. Guardiamo ai tanti Paesi che soffrono una guerra al loro interno, nel Medio Oriente ma anche in Africa e nello Yemen. Fermiamoci! E cerchiamo una soluzione diplomatica. Credo che le Nazioni Unite abbiamo il dovere riprendere la loro leadership perché si è un po’ annacquata ».
Vuole incontrare Trump?
«Non sono stato ancora informato dalla segreteria di Stato se è arrivata una richiesta, ma ricevo ogni capo di Stato che chiede udienza».
Ieri ha parlato del fatto che la prosperità e lo sviluppo meritano ogni sacrificio e che insieme è importante il rispetto dei diritti inalienabili dell’uomo. È stato il suo un supporto al governo egiziano che cerca di difendere i cristiani?
«Ho parlato dei valori in sé stessi, del difendere la pace, l’armonia dei popoli, l’uguaglianza dei cittadini, qualsiasi sia la religione che professano. Sono valori e io ho parlato dei valori. Se un governante difende uno o l’altro di questi valori è un altro problema. Ho fatto finora 18 viaggi e in parecchi Paesi ho sentito: “Il Papa appoggia questo o quel governo”. Sempre un governo ha le sue debolezze o i suoi avversari politici che dicono una cosa e un’altra. Io non mi immischio, parlo dei valori, ognuno veda e giudichi se un governo o uno Stato porta avanti questi valori».
Parliamo della Francia. I cattolici francesi sono tentati dal voto populista ed estremo e sono divisi tra due candidati. Quali elementi di discernimento può dare a questi elettori?
«C’è un problema dell’Europa e dell’Unione Europea. Ogni Paese è libero di fare le scelte che crede convenienti, io non posso giudicare se una scelta la si fa per un motivo o per un altro, perché non conosco la politica interna. È vero comunque che l’Europa rischia di sciogliersi. Dobbiamo meditare. C’è un problema che spaventa e forse alimenta questi fenomeni, ed è il problema dell’immigrazione. Ma non dimentichiamo che l’Europa è stata fatta dai migranti, da secoli e secoli di migranti, siamo noi. Sulla Francia: dico la verità, non capisco la politica interna francese e ho cercato di avere buoni rapporti anche col presidente attuale. Dei due candidati francesi non so la storia, non so da dove vengono, so che una è una rappresentante della destra, ma l’altro non so da dove viene e per questo non so dare un’opinione. Parlando dei cattolici, un giorno uno mi ha detto: “Perché non pensa alla grande politica?”. Intendeva fare un partito per i cattolici! Ma questo signore buono vive nel secolo scorso!».
Qualche giorno fa ha paragonato i campi dei rifugiati e i campi di concentramento. È stato un lapsus?
«Esistono però campi per rifugiati che sono veri campi di concentramento. Ce n’è qualcuno forse in Italia, qualcuno in qualche altra parte, in Germania no. Cosa può fare la gente che è chiusa in un campo e non può uscire? Mi ha fatto ridere – è un po’ nella cultura italiana — quanto avvenuto in un campo di rifugiati in Sicilia, me lo ha raccontato un delegato dell’Azione Cattolica della diocesi di Agrigento. I responsabili di un campo hanno parlato alla gente del posto e hanno detto ai rifugiati che rimanere chiusi dentro avrebbe fatto male alla loro salute mentale: “Dovete uscire ma per favore non fate cose brutte. Noi non possiamo aprire la porta, ma facciamo un buco dietro, così uscite e fate una passeggiata”. E così si sono costruiti buoni rapporti con gli abitanti di quel paesino: i migranti non fanno atti di delinquenza o criminalità. Ma stare chiusi è un lager...».

la Repubblica, 13 aprile 2017

«Penso che oggi il peccato si manifesti con tutta la sua forza di distruzione nelle guerre, nelle diverse forme di violenza e maltrattamento, nell’abbandono dei più fragili. Il mondo deve fermare i signori della guerra. Perché a farne le spese sono sempre gli ultimi, gli inermi». Papa Francesco arriva oggi nella Casa di Reclusione di Paliano (Frosinone) per celebrare la Messa in Coena Domini con il rito della lavanda dei piedi ad alcuni detenuti. La visita ai carcerati è occasione per una riflessione più ampia che Francesco accetta di fare con Repubblica su una missione che la Chiesa non può eludere: «Farsi prossima degli ultimi, degli emarginati, degli scartati». Dice Papa Bergoglio: «Chi non è colpevole scagli la prima pietra. Guardiamoci dentro e cerchiamo di vedere le nostre colpe. Allora, il cuore diventerà più umano».

Ma come sta vivendo Francesco questa vigilia di Pasqua caratterizzata da uno scenario mondiale ad alta tensione?
« Mi viene solo da chiedere con più forza la pace per questo mondo sottomesso ai trafficanti di armi che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne »

Santo Padre, anche questo giovedì santo si recherà in carcere. Perché?
«Il brano evangelico del giudizio universale dice: “Sono stato prigioniero e siete venuti a trovarmi”. Ecco, il mandato di Gesù vale per ognuno di noi, ma soprattutto per il vescovo che è il padre di tutti».

Lei ha più volte detto che si sente peccatore come i carcerati. In che senso?
«Alcuni dicono: sono colpevoli. Io rispondo con la parola di Gesù: chi non è colpevole scagli la prima pietra. Guardiamoci dentro e cerchiamo di vedere le nostre colpe. Allora, il cuore diventerà più umano».

È questo che devono fare i pastori, essere al servizio di tutti?
«Come preti e come vescovi dobbiamo sempre essere al servizio. Come dissi nella visita in un carcere che feci il primo giovedì santo dopo l’elezione: è un dovere che mi viene dal cuore».

Chi le ha insegnato questa che ormai è divenuta una tradizione?
«Molto mi ha insegnato l’esempio di Agostino Casaroli, scomparso nel 1998 dopo essere stato Segretario di Stato vaticano e cardinale. Da sacerdote ha svolto per anni apostolato nel carcere minorile di Casal del Marmo. Tutti i sabati sera spariva: “Si sta riposando”, dicevano. Arrivava in autobus, con la sua borsa da lavoro, e rimaneva a confessare i ragazzi e a giocare con loro. Lo chiamavano don Agostino, nessuno sapeva bene chi fosse. Quando Giovanni XXIII lo ricevette dopo la sua prima visita nei Paesi dell’Est, in missione diplomatica in piena Guerra Fredda, al termine dell’incontro gli chiese: “Mi dica, continua a andare da quei ragazzi?” “Sì, Santità”. “Le chiedo un favore, non li abbandoni mai”. Fu quella la consegna lasciata a Casaroli dal Papa Buono, che sarebbe morto qualche mese dopo».

Secondo lei, insomma, la Chiesa deve anzitutto andare incontro agli scartati. È questa l’azione principale che le è chiesta?
«Io credo di sì. Andare, farsi prossima degli ultimi, degli emarginati, degli scartati. Quando sono davanti a un carcerato, ad esempio, mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro».

Nella sua intervista a “La Civiltà Cattolica” alla domanda su chi fosse Jorge Mario Bergoglio rispose: «Un peccatore ». È così?
«Mi sento tale, certo. Il motto del mio stemma è una frase di San Beda il Venerabile a proposito di San Matteo: “Dio ha rivolto i suoi occhi”. “Miserando atque eligendo”, “Lo guardò con sentimento d’amore e lo scelse”. È di più di un semplice motto. È la mia stella polare. Poiché in essa è contenuto il mistero di un Dio disposto a portare su di sé il male del mondo pur di dimostrare il proprio amore all’essere umano».

Il Vangelo è pieno di episodi in cui Gesù si fa prossimo a coloro che la società scartava.
«“Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata”, dice con grande fede l’emorroissa (una donna che aveva perdite di sangue da dodici anni, ndr) che sente dentro di sé che Gesù può salvarla. Secondo i Vangeli era una donna scartata dalla società, alla quale Gesù dona la salute e la libertà dalle discriminazioni sociali e religiose. Questo caso fa riflettere sul fatto che il cuore di Gesù è sempre per loro, per gli esclusi, come fra l’altro la donna era percepita e rappresentata allora».

Anche oggi continua in parte questa discriminazione.
«Tutti siamo messi in guardia, anche le comunità cristiane, da visioni della femminilità inficiate da pregiudizi e sospetti lesivi della sua intangibile dignità. In tal senso sono proprio i Vangeli a ripristinare la verità e a ricondurre a un punto di vista liberatorio. Gesù ha ammirato la fede di questa donna che tutti evitavano e ha trasformato la sua speranza in salvezza».

Quella donna si sentiva esclusa anche a causa del suo peccato.
«Tutti siamo peccatori, ma Gesù ci perdona con la sua misericordia. L’emorroissa era timorosa, non voleva farsi vedere, ma quando Gesù incrocia il suo sguardo non la rimprovera: la accoglie con misericordia e tenerezza e cerca l’incontro personale con lei, dandole dignità. Questo vale per tutti noi quando ci sentiamo scartati per i nostri peccati: oggi a tutti noi il Signore dice: “Coraggio, vieni! Noi sei più scartato, non sei più scartata: io ti perdono, io ti abbraccio”. Così è la misericordia di Dio. Dobbiamo avere coraggio e andare da lui, chiedere perdono per i nostri peccati e andare avanti. Con coraggio, come ha fatto questa donna».

Spesso chi si sente escluso si vergogna.
«Chi si sente scartato come i lebbrosi o i senzatetto, si vergogna e come l’emorroissa fa le cose di nascosto. Gesù invece ci rialza in piedi, ci dà la dignità. Quella che Gesù dona è una salvezza totale, che reintegra la vita della donna nella sfera dell’amore di Dio e, al tempo stesso, la ristabilisce nella sua dignità. Gesù indica così alla Chiesa il percorso da compiere per andare incontro a ogni persona, perché ognuno possa essere guarito nel corpo e nello spirito e recuperare la dignità di figlio di Dio».

Ancora in questi giorni le armi uccidono. Cosa ne pensa?
«Penso che oggi il peccato si manifesti con tutta la sua forza di distruzione nelle guerre, nelle diverse forme di violenza e maltrattamento, nell’abbandono dei più fragili. A farne le spese sono sempre gli ultimi, gli inermi. Mi viene solo da chiedere con più forza la pace per questo mondo sottomesso ai trafficanti di armi che guadagnano con il sangue degli uomini e delle donne. Come ho detto anche nel recente messaggio per la giornata mondiale della pace, il secolo scorso è stato devastato da due guerre mondiali micidiali, ha conosciuto la minaccia della guerra nucleare e un gran numero di altri conflitti, mentre oggi purtroppo siamo alle prese con una terribile guerra mondiale a pezzi. Non è facile sapere se il mondo attualmente sia più o meno violento di quanto lo fosse ieri, né se i moderni mezzi di comunicazione e la mobilità che caratterizza la nostra epoca ci rendano più consapevoli della violenza o più assuefatti a essa».

Qual è lo scopo secondo lei di queste continue guerre?
«Me lo chiedo anche io sempre. A che scopo? La violenza permette di raggiungere obiettivi di valore duraturo? Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi “signori della guerra”? L’ho detto più volte e lo ridico: la violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti».

In carcere porta un messaggio di pace e anche di speranza nonostante tutto?
«A volte, una certa ipocrisia spinge a vedere nei carcerati solo delle persone che hanno sbagliato, per le quali l’unica via è quella del carcere. Ma, ripeto ancora una volta, tutti abbiamo la possibilità di sbagliare. Tutti in una maniera o nell’altra abbiamo sbagliato. E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società. Ma in questo modo si dimentica che tutti siamo peccatori e, spesso, siamo anche prigionieri senza rendercene conto. Quando si rimane chiusi nei propri pregiudizi, o si è schiavi degli idoli di un falso benessere, quando ci si muove dentro schemi ideologici o si assolutizzano leggi di mercato che schiacciano le persone, in realtà non si fa altro che stare tra le strette pareti della cella dell’individualismo e dell’autosufficienza, privati della verità che genera la libertà. E puntare il dito contro qualcuno che ha sbagliato non può diventare un alibi per nascondere le proprie contraddizioni».

il manifesto, 29 marzo 2017

Speriamo che i milanesi abbiano preso nota. La voce più autorevole ma inascoltata del mondo, dopo aver maltrattato i leader della Ue che festeggiano al capezzale di se stessi, ieri ha cercato la complicità di un milione di persone lungo un percorso studiato con molta cura. Non è un caso se non era previsto alcun incontro ufficiale con le autorità durante la storica visita a Milano di papa Bergoglio. Ha pontificato restando ai margini.

Quello che aveva da dire l’aveva già detto prima ancora di profferire verbo, la traccia del suo itinerario vale più di mille discorsi. E le sue prime parole, pronunciate la mattina in una cosiddetta “periferia difficile”, in via Salomone, sono significative quanto quelle recitate per la messa pomeridiana al parco di Monza davanti a centinaia di migliaia di persone. “Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Vi ringrazio per la vostra accoglienza, tanto calorosa. Grazie, grazie tante! Siete voi che mi accogliete all’ingresso in Milano, e questo è un grande dono per me”.

Quel “voi” sono due anziani, una famiglia musulmana con tre bambini e un’altra con un disabile molto grave, e poi un pezzo di popolo delle periferie che ai tempi del governo Renzi-Gentiloni-Minniti è più facile che venga premiato con un Daspo piuttosto che con una carezza papale. Francesco sta con gli ultimi, non dà peso al decoro, “il sacerdote cristiano è scelto dal popolo e al servizio del popolo”.

Il passaggio dall’estrema periferia est alla cattedrale di Milano è salutato da migliaia di persone sorridenti in sciarpetta bianco-gialla (marketing divino). Sono milioni di foto rubate. Mille scritte di benvenuto. La pipì del papa in un bagno chimico. Bambini scaraventati tra le sue braccia. Un piatto di risotto. I carabinieri che lo circondano per un’istantanea che finirà appesa in chissà quale caserma. Regali e il servizio d’ordine col mal di testa.

In Duomo, seguito come un’ombra dal cardinale Scola, il pontefice ha incontrato quattromila religiosi della Diocesi ambrosiana, la più grande d’Europa. Ai preti, scalmanati con i cellulari sulla testa, ha fatto coraggio invitandoli a non temere le sfide, “si devono prendere come il bue per le corna, sono segno di una fede viva, le sfide ci aiutano a far sì che la nostra fede non diventi ideologica”. Fuori dal Duomo ha scherzato con le ottantamila persone rilassate sotto il sole, “la nebbia se ne è andata…le cattive lingue dicono che verrà la pioggia, ma non so…io non la vedo ancora”.

Dopo la recita dell’Angelus, nonostante il ritardo sulla tabella di marcia, il papa si è concesso un giro di piazza sulla Papamobile scoperta per dare soddisfazione ai fans adoranti e ai turisti felici di portarsi a casa il ricordo di una brigata di suore svolazzanti disposte a mettersi in posa.

La terza tappa, prima della messa oceanica, al carcere di San Vittore. Era luogo privilegiato del cardinale Carlo Maria Martini. Lì il papa ha voluto incontrare tutti i detenuti (novecento, molti più di quelli che può “ospitare” il penitenziario) e ha mangiato con loro. Una tensione emotiva difficile da raccontare. Risotto allo zafferano, cotoletta e patatine, “vi ringrazio mi sento a casa con voi”. Dopo pranzo, l’ufficio del cappellano, don Recalcati, è stato trasformato in una camera da letto per un po’ di meritato riposo.

Nel parco di Monza, a metà del suo tour de force, il papa è affaticato ma dà soddisfazione a una folla immensa. L’invito è a sovvertire il presente, a credere all’incredibile, come incredibile era stato l’annuncio a Maria di una gravidanza molto speciale. “Guardiamo al presente con audacia”. Il mondo così non va, il mondo “specula” dice Francesco. “Specula sul lavoro, sulla famiglia, sui poveri, sui migranti, sui giovani”. Ma non bisogna rassegnarsi a vivere da spettatori, aspettando che “smetta di piovere”. Non c’è nulla di naturale in quello che sta accadendo al mondo.

Il suo è un appello a ritrovare la memoria, “a guardare il nostro passato per non dimenticare da dove veniamo, questa terra e la sua gente hanno conosciuto il dolore di due guerre mondiali” e quindi non bisogna rimanere “prigionieri dei discorsi che seminano fratture e divisioni come unico modo di risolvere i conflitti”. Invita ad abbracciare i confini e ad accogliere. “Il popolo di Dio” è un popolo “multiculturale e multietnico”, è un popolo “chiamato ad ospitare le differenze, ad integrarle con rispetto e creatività, a celebrare la novità che proviene dagli altri”. Non ha “paura di abbracciare i confini, le frontiere, è un popolo che non ha paura di dare accoglienza a chi ne ha bisogno”.

La fine della giornata è nell’intimità dello stadio Meazza, con 80 mila cresimandi. Ha parlato con i bambini e li ha invitati a giocare senza fare i bulli. Oggi, domenica, come pretende il suo datore di lavoro, per papa Francesco sarà giorno di riposo. Assoluto.

«Sapremo presto come Bergoglio valuta l'”idea di Milano” che politica e cultura oggi mostrano di avere e quanto essa sia sintonica con la visione di Chiesa». Arcipelago Milano online, 14marzo 2017 (m.c.g.)


Un messaggio di novità a Milano papa Francesco l’ha anticipato prima di venire. Fuori dalla comprensibile retorica della vigilia e fatta salva la semina che comunque un grande evento di natura spirituale di per sé produce in una comunità civile e culturale oltreché religiosa, la visita di papa Bergoglio si annuncia molto diversa dalle tre che dei suoi predecessori.

Giovanni Paolo II nel 1983 e nel 1984 e Benedetto XVI nel 2012 si sono presentati con la caratura del loro essere Pontefici e sono stati accolti con fastosità; si sono fermati più giorni; hanno dato spunto a incontri e interventi formali con le autorità cittadine (basti ricordare l’accoglienza di Pisapia a Ratzinger in piazza Duomo e il concerto la sera alla Scala); hanno trascorso le notti in Arcivescovado. Papa Bergoglio, invece, va e torna in giornata. Sala lo accoglierà a Linate e nient’altro è previsto per amministratori e politici.

Il Cardinale Scola lo accompagnerà (non dappertutto: a San Vittore, ad esempio, papa Francesco ha già fatto sapere di voler andare da solo), rimanendo sullo sfondo: l’Osservatore Romano del 9 marzo riferiva della visita senza nominare né l’Arcivescovo né altre cariche ecclesiastiche e parlava del programma «predisposto dalla Prefettura della Casa Pontificia». In Duomo, simbolo della Chiesa Ambrosiana e della città Francesco «parlerà ai sacerdoti e ai consacrati» recita il programma, pregherà nello Scurolo di San Carlo, risponderà ad alcune domande dei presenti, dal sagrato reciterà l’Angelus e benedirà i fedeli. Quindi al carcere, di corsa, come da agenda.

Di non amare gli appuntamenti solenni, perché forse valuta il pericolo che, di là dai buoni propositi, essi pagano un largo tributo al clamore ma poi possono non lasciare traccia nel cuore degli uomini oltreché non produrre significativi cambiamenti nella realtà delle cose una volta spenti i riflettori, Francesco lo aveva fatto capire due anni fa in occasione di Expo.

Secondo il comune modo di sentire e il politicamente corretto che cosa ci sarebbe stato di più appropriato d’una visita del Papa autore proprio in quella stessa primavera 2015 dell’Enciclica ecologista Laudato si’? All’Esposizione Universale non si celebrava il grande tema Nutrire il pianeta, energie per la vita? Bergoglio affidò allora al linguaggio dei segni il suo pensiero. Declinò l’invito e scelse un videomessaggio per l’augurio a Expo. Il successo di presenze e mediatico dell’evento ha tenuto banco per mesi, sotto gli occhi di un’opinione pubblica all’inizio incredula, poi entusiasta.

La “Carta di Milano”, la sollecitazione «ad assumersi le proprie responsabilità per garantire alle generazioni future di poter godere del diritto al cibo» raccolse un milione di firme. Ma quanto il documento abbia inciso e lasciato un segno profondo sul lungo periodo è tuttora materia di riflessione. Insomma, è acquisito che l’effetto Expo abbia prodotto risultati benefici sul “brand Milano” sotto il profilo turistico ed economico, ricevendo poi aiuto insperato anche dalla Brexit. Ricadute importanti.

Sapremo presto come Bergoglio valuta l'”idea di Milano” che politica e cultura oggi mostrano di avere e quanto essa sia sintonica con la visione di Chiesa e di società del Papa venuto dalla fine del mondo, quanto cioè corrisponda alle attese per un'”idea di città e di convivenza” di Francesco.

Bisogna partire da considerazioni del genere se si vuol cercare di capire il significato della venuta di Bergoglio, delle scelte dei luoghi, delle persone con cui intrattenersi e renderla fruttuosa nel tempo, oltre l’occasione. Dopo i discorsi della politica, il Papa delle «periferie del mondo e dell’anima» va nelle Case bianche di via Salomone; qui incontra due famiglie nei loro appartamenti, nel piazzale antistante si mischia alla gente del quartiere: musulmani, immigrati, rom; starà quasi tre ore a San Vittore (un terzo del tempo della sua intera visita), entrando in alcune celle e pranzando con un centinaio di detenuti nel 3° raggio; solo Martini prima di lui mostrò tanta cura per il carcere.

Che cosa accoglierà dentro di sé da queste persone probabilmente lo apprenderemo da lui stesso, quando racconterà le sue emozioni e i suoi pensieri, magari alla Messa al Parco di Monza e all’incontro con i cresimandi a San Siro, ultime due tappe del viaggio-lampo. È un fatto che prima ancora di essere atterrato a Linate con il programma imposto dai suoi collaboratori all’Arcivescovado e al Comune, Francesco sfida Milano e la provoca sul terreno dei valori: giustizia, solidarietà, accoglienza, integrazione, beatitudini evangeliche, interiorità; ideali che dovrebbero essere patrimonio peculiare della città e che invece i milanesi, e talvolta i loro stessi rappresentanti, magari dimenticano o pospongono rispetto ad altri obiettivi immediati, di efficacia apparente.

Di come Francesco sa accarezzare Milano in contropelo, in perfetto spirito evangelico, lo capiremo presto, quando renderà noto il nome dell’Arcivescovo che prenderà il posto del Cardinale Scola. Probabilmente la visita servirà al Papa anche per verificare di persona lo stato di salute spirituale, umano, culturale, civile della città, dopo tanti racconti che gli son stati fatti: privatamente e dai media. In quel momento conosceremo qual è il sogno di Bergoglio per Milano e se la città sa ancora sognare.

«Sconfiggere l’idolatria del denaro alimentata da un’economia centrata solo sul profitto. E’ il monito lanciato da Francesco nell’udienza ai partecipanti all'Incontro "Economia di Comunione", promosso dal Movimento dei Focolari. Il apa ha messo in guardia dal “sistema dell’azzardo” che sta distruggendo milioni di famiglie. Ancora ha affermato che l’evasione fiscale viola la legge “basilare della vita”: “il reciproco soccorso”. Infine, ha esortato a mettere sempre la persona, soprattutto se debole o povera, al centro del sistema economico. Il servizio di Alessandro Gisotti:

Unire “economia e comunione”, raccogliendo l’invito di Chiara Lubich. Papa Francesco ha sottolineato l’importanza dell’esperienza promossa dal Movimento dei Focolari, 25 anni fa in Brasile. E subito ha constatato con amarezza che la cultura attuale tende a separare l’economia e la comunione con conseguenze disastrose.

No al capitalismo che fa del denaro un idolo, contrastare sistema dell’azzardo

Innanzitutto, ha avvertito, bisogna guardarsi dal fare del denaro un idolo. “Il denaro - ha tenuto a precisare - è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola, il futuro dei figli. Ma diventa idolo quando diventa il fine”:

“Quando il capitalismo fa della ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura idolatrica, una forma di culto. La 'dea fortuna' è sempre più la nuova divinità di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i telefoni…) invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso acquistarne immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte”.

Ecco perché, ha soggiunto, è di grande “valore etico e spirituale” la “scelta di mettere i profitti in comune”. E ha soggiunto che “il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è condividerlo con altri, soprattutto con i poveri”. Ricordarsi sempre, ha soggiunto, che non si possono servire due signori, due padroni e che “il diavolo entra dalle tasche”.

L’evasione delle tasse viola la legge basilare del reciproco soccorso

Ha così rivolto il pensiero al tema della povertà. Il Papa ha rilevato che ci sono sempre state forme di aiuto verso i poveri ma nonostante gli aiuti, gli scarti della società “restavano molti”:

“Oggi abbiamo inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso”.

Il capitalismo crea scarti e non riesce più a vedere i suoi poveri

Francesco ha così denunciato che il capitalismo “continua a produrre gli scarti che poi vorrebbe curare”. “Il principale problema etico di questo capitalismo - ha ripreso - è la creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più vedere. Una grave forma di povertà di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima vengono scartati e poi nascosti”:

“Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia!”.

A tutto questo, ha affermato, si contrappone l’economia di comunione che non scarta mai la persona. Per il Papa, “bisogna allora puntare a cambiare le regole del gioco del sistema economico-sociale”, non basta comportarsi come buoni samaritani. E ha sottolineato che il grande lavoro da svolgere è “cercare di non perdere il principio attivo” che anima l’economia di comunione, puntando sulla qualità, non sulla quantità:

“Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra economia, restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché tutto decade con il passare del tempo”.

Mettere al centro la comunione, il capitalismo conosce solo la filantropia

“L’economia di comunione - ha ripreso - avrà futuro se la donerete a tutti e non resterà solo dentro la vostra ‘casa’. Donatela a tutti, e prima ai poveri e ai giovani, che sono quelli che più ne hanno bisogno”, perché “il denaro non salva se non è accompagnato dal dono della persona”:

“Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone che ricevono quelle 'briciole'. Invece, anche solo cinque pani e due pesci possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza”.

“Il 'no' ad un’economia che uccide - ha concluso Francesco - diventi un 'sì' ad una economia che fa vivere, perché condivide, include i poveri, usa i profitti per creare comunione”.

Il Fatto Quotidiano online, blog di Marco Politi, 17 dicembre 2016 (c.m.c.)

Papa Francesco ha raggiunto gli ottant’anni. Tra poco cade il quarto anniversario della sua elezione. Il primo tempo del pontificato è passato, quanto durerà il secondo è incerto. Pende sulla missione di Bergoglio una premonizione da lui ribadita appena pochi giorni fa: «Io ho la sensazione che il mio pontificato sarà breve… 4-5 anni».

In un arco ristretto di tempo Francesco ha lasciato un segno forte sulla Chiesa di Roma, proiettandola come “ospedale da campo” per gli uomini e le donne del mondo globalizzato (al di là di frontiere confessionali), in grado di interloquire con ebrei, musulmani, atei.

Ha rimodellato la figura papale, togliendole il carattere di monarca assoluto, presentandosi soprattutto come discepolo di Cristo e lavorando per una Chiesa più comunitaria. L’istituzione di un consiglio dei cardinali, chiamati ad assisterlo nella governo della cattolicità, e specialmente la piena libertà di parola e di proposta concessa al Sinodo dei vescovi manifestano l’obiettivo di realizzare quella collegialità sancita e richiesta dal concilio Vaticano II.

Ha realizzato una serie di riforme concrete. Una grande pulizia alla banca vaticana, la creazione di un comitato anti-riciclaggio all’interno della Santa Sede, l’adesione alla convenzione Onu contro la corruzione, la firma di accordi di cooperazione con vari Stati per perseguire crimini finanziari, l’istituzione di una Segreteria per l’economia per vigilare su correttezza e trasparenza dei bilanci dei dicasteri vaticani. Scandali, quando si tratta di soldi, non sono mai esclusi. Però il pontefice argentino ha fatto riforme strutturali.

Francesco è il primo ad avere processato in Vaticano un arcivescovo-nunzio colpevole di delitti sessuali e aver istituito un tribunale speciale per vescovi negligenti nel perseguire abusi sessuali nelle proprie diocesi.

Francesco ha realizzato un pezzo di riforma della Curia, creando due dicasteri sui Laici e sullo Sviluppo umano nei quali per statuto posizioni direttive dovranno essere riservati a laici: uomini e donne. Un primo passo verso la declericalizzazione della Curia e della Chiesa cattolica.

Tutto questo ha naturalmente bisogno di rodaggio. E contemporaneamente la via delle riforme è suscettibile di sabotaggi. A tuttora – per restare nel campo degli abusi sessuali – la conferenza episcopale italiana e tante altre nel mondo non prevedono strutture di ascolto e accoglienza per gli abusati né indagini sui crimini nascosti né sistemi di risarcimento. L’esperienza del Concilio dimostra che servono decenni per ancorare le riforme nella realtà quotidiana della Chiesa.

Francesco è inoltre il primo pontefice ad avere indicato che le donne nella strutture ecclesiastiche devono andare in posti dove si «decide e si esercita autorità». E’ anche il primo ad avere istituito una commissione per studiare il diaconato femminile. Francesco, infine, ha chiaramente fatto capire che la Chiesa cattolica deve uscire dall’ossessione in materia sessuale, che l’ha caratterizzata per decenni e secoli interi: divorzio, pillola, convivenze pre-matrimoniali, rapporti omosessuali.

Il 17 dicembre rappresenta tuttavia un compleanno amaro per il pontefice argentino. Si è scatenata nelle file della gerarchia cattolica e del clero una guerra sotterranea contro la sua linea riformista. Una guerra fatta di mugugni, critiche diffuse, aggressività crescente nei siti internet. Fino a culminare le settimane scorse nell’attacco senza precedenti di quattro cardinali contro il suo documento post-sinodale Amoris laetitia. Non si tratta qui di critiche nel segno di un confronto tra punti di vista differenti. Si tratta di una campagna sistematica di delegittimazione, che chiama in causa l’autorità stessa del pontefice e la giustezza della sua guida (e della sua sintesi). Al punto che uno dei firmatari, il cardinale Burke, prevede persino una “correzione” pubblica della sua linea in campo di etica matrimoniale.

Credere che i quattro cardinali siano soltanto quattro “cattivi” significa stare fuori dalla realtà. I Quattro sono la punta dell’iceberg di una parte consistente del clero e dell’episcopato. Perché in seno alla cattolicità è in corso una battaglia identitaria. Il no alla comunione ai divorziati, il rifiuto di accettare la positività di rapporti di coppia omosessuali, il rigetto nei confronti dell’idea che le donne possano occupare ruoli guida in Curia o possano (“orrore!”) accedere agli ordini sacri, il mantenimento della sacralità autoritaria di un papato, immaginato semidivino – tutto ciò per una parte ancora oggi notevole dei quadri ecclesiastici costituisce elemento irrinunciabile di identità.

Per questo la battaglia sotterranea è aspra. «Il clericalismo è uno dei mali più seri nella Chiesa», ha detto il mese scorso Francesco ai suoi confratelli gesuiti. I suoi oppositori vogliono metterlo nell’angolo pur esprimendogli formale riverenza. Soprattutto vogliono impedire ad ogni costo che al prossimo conclave sia eletto un Francesco II. Se si prende la lista di cardinali e vescovi, che a partire dal primo Sinodo sulla famiglia nel 2014 hanno firmato libri, appelli e lettere si vedrà che si tratta di una rete influente e radicata nella Chiesa universale. Rispetto alla quale lo schieramento riformista si sta mostrando straordinariamente impacciato e silenzioso. Timoroso persino di difendere apertamente il papa.

Il secondo tempo del pontificato si preannuncia dunque difficile. Pesa sul futuro la frase che Bergoglio (dopo averla detta nel 2015) ha voluto ribadire proprio per il suo compleanno al fido padre Spadaro di Civiltà Cattolica: «Ho come la sensazione che il Signore mi ha messo qui per poco tempo». C’è qualcosa di non detto in queste parole, che ha un suono inquietante. Il prossimo biennio, quando il papa riunirà un nuovo Sinodo, sarà certo ricco di sorprese.

«Se la misericordia,porterà a un sostanziale cambiamento di punto di vista, questo potrà scuotere davvero i pilastri che fanno della donna l’altra-altro, da venerare sugli altari e da condannare all’inferno del corpo e dell’istinto». il manifesto, 22 novembre 2016 (c.m.c.)

Non cambia strada, papa Francesco. Alla chiusura del Giubileo, licenzia la Lettera Apostolica “Misericordia et misera” e istituisce la giornata mondiale dei poveri. Nello stesso testo conferma quanto stabilito all’inizio del Giubileo: ciascun sacerdote avrà la facoltà di assolvere, nell’ordinaria confessione, senza procedure particolari, donne e medici che praticano l’aborto.

Di fatto il papa abolisce la scomunica, prevista nel Codice di diritto canonico all’articolo 1398. Bergoglio procede dritto sulla strada della misericordia, la virtù che tutti hanno imparato a conoscere nell’affannato mondo dei consumi, un mondo che pure depreca, per voce degli albergatori romani, che questo giubileo non abbia portato un incremento di guadagni.

E soprattutto nonostante le critiche interne alla Chiesa, le prese di posizione ostili. Ultimi a venire allo scoperto erano stati qualche giorno fa quattro cardinali ultraconservatori, Walter Brandmüller, Raymond L. Burke, Carlo Caffarra e Joachim Meisner, che in una lettera pubblica si sono detti preoccupati degli effetti confusivi della pastorale sul matrimonio e i divorziati. Non si preoccupa, Bergoglio, procede nella sua opera che si ispira direttamente al Vangelo.

Lo si comprende dal titolo della Lettera: «Sono le due parole che sant’Agostino utilizza per raccontare l’incontro tra Gesù e l’adultera (cfr Gv 8,1-11). … ’Rimasero soltanto loro due: la misera e la misericordia’». Una posizione molto chiara, anche nel merito dell’aborto: «Vorrei ribadire con tutte le mie forze che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente. Con altrettanta forza, tuttavia, posso e devo affermare che non esiste alcun peccato che la misericordia di Dio non possa raggiungere e distruggere quando trova un cuore pentito che chiede di riconciliarsi con il Padre».

E se per i praticanti il senso di quanto sostiene il Papa è all’interno della loro fede, non meno forte è l’impatto per tutti. Per la centralità del cristianesimo, nella costruzione del mondo di parole e simboli in cui siamo immersi, soprattutto in Italia. Per le domande che vengono poste.

Cosa è il peccato? Cosa il perdono? Detti così sembrano i dubbi che affliggono Pio XIII, il protagonista di The Young Pope, la serie appena conclusa che ha dato voce a parole che non risuonano più nel discorso pubblico contemporaneo. Un papa immaginario – integralmente reazionario per debolezza e paura della vita – che nella penultima puntata, proprio sull’aborto e in generale il peccato, si chiede se non condannare «tutti, tranne le donne».

In un discorso laico, fuori dal contesto della fede, appare chiaro che nella via tracciata da papa Francesco l’aborto non è più una colpa speciale, in quanto tale imperdonabile, che quindi pone fuori dalla comunità. Come altro, per esempio l’omicidio, non esclude dal contesto umano, dalla comunità dei credenti. Se questa de-rubricazione sia a tutti gli effetti un mattone rimosso, un varco che smuove la millenaria costruzione patriarcale di cui la Chiesa cattolica è parte integrante, è tutto da vedere.

Soprattutto va considerato se la misericordia, che secondo Francesco non è un’astrazione, ma pratica, vita vissuta, porterà a un sostanziale cambiamento di punto di vista. E se si scuotano davvero i pilastri che fanno della donna l’altra-altro, da venerare sugli altari e da condannare all’inferno del corpo e dell’istinto.

Come si è già detto in altre occasioni, non è questo il terreno in cui papa Bergoglio apre nuove porte. Il gesto più forte, a chiusura del Giubileo, è la giornata mondiale dei poveri, la via maestra di questo pontificato.

SIR online, 5 novembre, il manifesto online, 7 novembre 2016


SIR Servizio informazione religiosa online, 5 novembre 2016
PAPA FRANCESCO: AI MOVIMENTIPOPOLARI,
«DEMOCRAZIA ATROFIZZATA,
FATE POLITICA MA NON LASCIATEVI
INCASELLARE E CORROMPERE»


"Non abbiate paura di entrare nelle grandi discussioni, nella Politica con la maiuscola”: è l’appello che il Papa ha rivolto oggi alle “organizzazioni degli esclusi e tante organizzazioni di altri settori della società” perchè rivitalizzino e rifondino “le democrazie che stanno attraversando una vera crisi”. Il rapporto tra popolo e democrazia, ha osservato, “dovrebbe essere naturale e fluido”, ma “corre il pericolo di offuscarsi fino a diventare irriconoscibile”. “Il divario tra i popoli e le nostre attuali forme di democrazia – ha sottolineato – si allarga sempre più come conseguenza dell’enorme potere dei gruppi economici e mediatici che sembrano dominarle”. I movimenti popolari, che “non sono partiti politici” esprimono una “forma diversa, dinamica e vitale di partecipazione sociale alla vita pubblica”.

Il Papa ha però messo in guardia contro “due rischi che ruotano attorno al rapporto tra i movimenti popolari e politica: il rischio di lasciarsi incasellare e il rischio di lasciarsi corrompere”. “Finché vi mantenete nella casella delle ‘politiche sociali’ – ha osservato -, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei i poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema”. Invece quando si osano “mettere in discussione le ‘macrorelazioni’, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste”.

Così “la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino”. “Non cadete nella tentazione della casella che vi riduce ad attori secondari o, peggio, a meri amministratori della miseria esistente – ha avverito -. In questi tempi di paralisi, disorientamento e proposte distruttive, la partecipazione da protagonisti dei popoli che cercano il bene comune può vincere, con l’aiuto di Dio, i falsi profeti che sfruttano la paura e la disperazione, che vendono formule magiche di odio e crudeltà o di un benessere egoistico e una sicurezza illusoria”.

il manifesto online, 7 novembre 2016
MOVIMENTIPOPOLARI,
L’ESODO POSSIBILE QUI DA NOI
di Giuseppe De Marzo*

Una Terra senza male, una casa da cui nessuno possa cacciarti, un lavoro giusto e dignitoso. Tierra, techo y trabajo, terra, casa, lavoro sono le 3T del Papa, da garantire a tutte e tutti.

L’incontro mondiale dei movimenti popolari appena concluso a Roma con Papa Francesco è molto più che un grande segno. Giustizia ecologica, ambientale e sociale per la prima volta connesse ed interdipendenti tra loro. Si parte da chi sta in basso per ricostruire una pratica dell’emancipazione sociale che non solo condanni il modello neoliberista ma interroghi nel profondo la nostra idea di giustizia, partendo da un’etica fondata sul Diritto della vita alla vita.

Questo Papa mette tutti con le spalle al muro, facendoci fare i conti con la realtà di un’umanità e di una Terra vivente ferita dalle ingiustizie e dall’aggressione costante di un sistema economico insostenibile. Ma Francesco, partendo dalla forza degli esclusi e dalle lotte dei movimenti popolari, ci chiede anche di superare astrazioni, tatticismi e paure ricordandoci che siamo tutti direttamente o indirettamente complici di quel modello che vorremmo cambiare.

È questo il tema da sviluppare se vogliamo essere all’altezza della sfida e di una proposta che impone un radicale cambiamento a tutti noi. La forza degli esclusi chiamati a raccolta sta proprio nella forza dell’esodo. L’esodo da un modello che produce scarti, considera la Terra materia inerme e che per sua natura non consente alternative. Un esodo di cui sono unicamente capaci proprio gli esclusi, dai quali il Papa parte per definire la speranza.

Quegli esclusi che si sono organizzati come movimenti popolari negli ultimi 25 anni per rispondere alla crisi di valori e di civiltà che svilisce la dignità di miliardi di esseri umani e che per la prima volta mina le stesse basi di riproducibilità della vita. Nuove soggettività nate a partire dai sud del mondo come forme di resistenza e risposta a megaprogetti estrattivi, privatizzazioni, land grabbing, guerre, distruzione delle foreste, brevetti sulla vita, urbanizzazione selvaggia. Movimenti che parlano lo stesso linguaggio delle soggettività nate da diversi anni anche nei nord del mondo come risposta alla crisi, sulle stesse emergenze e per la stessa necessità di sopravvivenza, per difendere l’acqua, il cibo, la terra, i diritti sociali, rigenerare spazi per garantire il diritto alla casa, difendere economie locali e paesaggi.

Movimenti popolari che rappresentano oggi una ricchezza di saperi e di pratiche enorme, per nulla marginali, che hanno come caratteristica l’informalità non per scelta ma come unica strategia disponibile per sopravvivere davanti all’impossibilità di entrare all’interno del settore “formale”.

Come viene ricordato nell’incontro, è questa l’unica risposta possibile davanti all’esclusione di un modello che produce forme di razzismo istituzionale al cui servizio la legge viene piegata. Un’idea distorta della legalità fondata su una perenne emergenza che genera ingiustizie sociali ed ambientali, uccide con le guerre, avvelena la nostra casa comune, nega diritti sociali e produce quella disumanizzazione che scarica le colpe sui più deboli.

Il Papa ci ricorda che solo attraverso la forza e l’immaginazione dei movimenti popolari sarà possibile l’esodo per costruire “una patria senza schiavi né esclusi”. Francesco ci chiede di stare con il cuore, la mente ed il corpo da questa parte e di impegnarci concretamente per costruire una patria grande, rinunciando al “dominus” in cambio del “frater”.

Tutto questo ha bisogno di una nuova consapevolezza ed una rinnovata coerenza nelle nostre azioni quotidiane. Quella consapevolezza di cui hanno parlato Pepe Mujica e don Ciotti quando ci ricordano che la politica è muta ed incapace in questa fase storica persino di pensare al cambiamento perché ha smesso di essere servizio al bene comune e non è in più in grado di affermare i diritti: “Bisogna avere il coraggio di avere più coraggio”.

Allora sta a noi, movimenti popolari, riorganizzare lo spazio politico per la difesa del bene comune, portando avanti il manifesto delle 3T di cui parla Francesco. L’impegno e la responsabilità che si fanno lotta come unica strategia per sopravvivere, combattere l’esclusione e modificare gli assetti di potere. Concretamente, qui da noi significa rimettere al centro la questione sociale e l’impegno per eliminare le disuguaglianze e la povertà che colpiscono un terzo degli italiani, lavorare per introdurre anche nel nostro paese un Reddito di Dignità per rispondere alle necessità basiche di 5 milioni di italiani in povertà assoluta, combattere le politiche di austerità che hanno demolito le politiche sociali, avere il coraggio di denunciare ed impedire le violazioni dei diritti umani dei migranti, lottare giornalmente contro le mafie ed il gioco d’azzardo dando voce a chi sul territorio fa antimafia sociale ed educazione popolare, camminare insieme agli studenti che si battono per il diritto allo studio mentre la dispersione scolastica è tra le più alte d’Europa, lavorare per dare dignità e forza ai tanti progetti di mutualismo sociale che danno risposte concrete a quanti sono in difficoltà con la casa ed il lavoro, sostenere e dare priorità a tutte le forme di economia informale che rispondono alle esigenze basiche di chi non ce la fa.
Francesco e i movimenti popolari dei sud del mondo ci chiedono apertamente di fare la nostra parte per difendere la dignità e la vita, abbandonando equilibrismi, rendite e paure.

* rete Miseria Ladra, Libera/Gruppo Abele.

on è umano chiudere le porte ai rifugiati », ma insieme ci vuole prudenza per integrare bene». La Repubblica , 2 novembre 2016, con postilla

on è umano chiudere le porte ai rifugiati », ma «insieme ci vuole prudenza per integrare bene». Sul volo Malmö-Roma, di ritorno dalla commemorazione per i 500 anni della Riforma luterana, Francesco ricorda «che il cuore deve essere sempre aperto all’accoglienza» anche se «per accogliere bene, occorre integrare ». Ciò significa che ci vuole anche prudenza «perché un’imprudenza nei calcoli si paga politicamente».

Santo Padre, sempre più persone provenienti dalla Siria e dall’Iraq cercano rifugio in Europa. C’è chi risponde con la paura. Che cosa ne pensa?
«Si deve distinguere tra migrante e rifugiato. Il migrante deve essere trattato con certe regole: emigrare è un diritto, ma deve essere regolato. Il rifugiato viene da una situazione di guerra e di angoscia, fame; lo status del rifugiato ha bisogno di più cura, più lavoro. Che cosa penso dei Paesi che chiudono le frontiere? Credo che in teoria non si possa chiudere il cuore a un rifugiato. C’è anche la prudenza dei governanti, che devono essere molto aperti a riceverli, ma anche a fare il calcolo di come poterli sistemare, perché non solo un rifugiato lo si deve ricevere, ma lo si deve integrare.

Se un Paese ha una capacità di integrazione, faccia quanto può. Se un altro ne ha di più, faccia di più, sempre con il cuore aperto. Non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore e alla lunga questo si paga politicamente, come si paga anche l’ imprudenza nei calcoli e ricevere più di quelli che si possono integrare. Qual è il rischio se un migrante o un rifugiato non viene integrato? Si ghettizza! Entra in un ghetto, e una cultura che non si sviluppa in un rapporto con un’altra cultura entra in conflitto e questo è pericoloso.

Credo che il più cattivo consigliere per i Paesi che tendono a chiudere le frontiere sia la paura. E che il più buon consigliere sia la prudenza. Ho parlato con un funzionario del governo svedese e mi diceva di qualche difficoltà perché vengono in tanti e non si fa a tempo a sistemarli e a trovare scuola, casa, lavoro. La prudenza deve fare questo calcolo. Se la Svezia ha diminuito la sua capacità di accoglienza, non è per egoismo ».

È realistico pensare a donne- prete nella Chiesa cattolica?
«L’ultima parola è chiara e l’ha data Giovanni Paolo II e questa rimane. Ma le donne possono fare tante cose meglio degli uomini e anche nel campo dogmatico. La Chiesa è donna. È “la” Chiesa, non “il” Chiesa. La Chiesa sposa Gesù Cristo. Non esiste la Chiesa senza questa dimensione femminile».

Per sempre mai donne prete?
«Se rilegge bene la dichiarazione di san Giovanni Paolo II va in questa linea».

Perché ha ricevuto il presidente del Venezuela?
«Ha chiesto un appuntamento perché veniva dal Medio Oriente e faceva scalo tecnico a Roma. Quando un presidente chiede lo si riceve. Il dialogo è l’unica strada per tutti i conflitti. La gente impegnata nel dialogo in Venezuela è gente importante, c’è il presidente Zapatero... Entrambe le parti hanno chiesto che la Santa Sede fosse presente. La Santa Sede ha designato il nunzio in Argentina per il negoziato».

Stiamo tornando dalla Svezia dove la secolarizzazione è molto forte. La secolarizzazione tocca l’Europa in generale. È una fatalità? Chi sono i responsabili?
«Una fatalità? Non ci credo. Quando la fede diventa tiepida è perché si indebolisce la Chiesa. Possiamo dire che c’è qualche debolezza nell’evangelizzazione, in tempi secolarizzati. Ma c’è anche un processo culturale, quando l’uomo riceve il mondo da Dio per farlo cultura. A un certo punto l’uomo si sente tanto padrone di quella cultura e si arriva al peccato contro Dio creatore: l’uomo autosufficiente. Ci sono queste due cose, l’autosufficienza dell’uomo di cultura che va oltre i limiti e si sente Dio e anche una debolezza nell’evangelizzazione che diventa tiepida. Il cardinale De Lubac disse che quando nella Chiesa entra questa mondanità è il peggio che possa accadere, peggio ancora di quello che è accaduto nell’epoca dei Papi corrotti. La mondanità è pericolosa».

Qualche giorno fa ha incontrato Krupp che si occupa di schiavitù e della tratta di esseri umani. Perché?
«Da vescovo di Buenos Aires ho lanciato iniziative contro la schiavitù nel lavoro. Ho lavorato con due congregazioni di suore che si occupano di prostitute, donne schiave della prostituzione (non mi piace dire prostitute, schiave della prostituzione). Lavoravamo insieme e qui in Italia ci sono tanti gruppi di volontariato che lavorano contro ogni forma di schiavitù. Mesi fa ho visitato una di queste organizzazioni. Si lavora bene, non pensavo succedesse. È una cosa bella che ha l’Italia, il volontariato, ed è merito dei parroci: l’oratorio e il volontariato sono nati dallo zelo apostolico dei parroci »

postilla
"Integrazione" è una parola che, come tante, può essere declinata in molti modi. Può significare dire all'Altro: devi diventare come Noi, abbracciare le stesse credenze, costumi, principi, lingua; è la declinazione, pessima, della "razza padrona", xenofoba e neonazista. Può significare spingere l'Altro a cedere alla sua tentazione più immediata, cioè rimanere stretto ai "Suoi", chiudersi nel cerchio delle credenze, costumi, principi, lingue della Sua storia: in una parola, chiudersi (o lasciarsi rinchiudere) in un ghetto; è la soluzione, cattiva, di chi ha paura dell'altro. Può significare lavorare perché le diversità sussistano ma si aprano al dialogo, al confronto, allo scambio, al mutuo arricchimento: diventino esse stesse un valore aggiunto.
Naturalmente la condizione preliminare per condividere, nei fatti, quest'ultima declinazione della parola "integrazione" è praticare, fin da subito, le tre "virtù civili" dell'accoglienza, della solidarietà, del reciproco rispetto.

». La Repubblica, 31 ottobre 2016 (c.m.c.)

Cinque secoli sono passati da quel giorno in cui un monaco agostiniano affisse sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg il suo “manifesto” che chiedeva una riforma della vita e della dottrina allora dominante nella chiesa cattolica. Iniziava in quel giorno una “protesta” che aveva come fine il ritorno al vangelo: Martin Lutero — un uomo “morsicato” da Dio e assetato di una salvezza misericordiosa — scoperto che l’amore di Dio non deve mai essere meritato, diventò la voce possente, tesa a ridare il primato alla Scrittura, alla grazia-amore gratuito di Dio e a Cristo, Signore della sua chiesa.

Il bisogno di una riforma della vita della chiesa romana era da decenni avvertito con dolore e manifestato anche da alti rappresentanti della curia romana — quali i cardinali Chieregati, Pole e Contarini — oltre che da molti umanisti come Erasmo e altri testimoni presenti nelle diverse aree europee, tuttavia avevano sempre prevalso una sordità e una mancanza di volontà nel mutare atteggiamenti e costumi, soprattutto nella vita dei prelati e del clero.

E così, a poco a poco, accadde l’irreparabile: lo scisma della cristianità occidentale tra cattolici e protestanti, il dramma più lacerante nella storia della cristianità occidentale perché ben presto la chiesa cattolica si vide privata di molte membra nel Nord Europa. Lutero non prevedeva né voleva quella frattura, ma la sordità di Roma e soprattutto gli interessi della politica dei regnanti portarono in modo accelerato all’elaborazione di due vie cristiane diverse, non nella confessione battesimale trinitaria di Cristo Signore, ma nella forma della chiesa.

Sono passati cinque secoli e non possiamo tacere la tragedia, fatta non solo di scomuniche reciproche, ma anche di guerre, di roghi e di torture che manifestarono come quelle chiese, pur di difendere la propria verità, facessero ricorso a mezzi in contraddizione radicale con quel vangelo che ciascuna di esse professava di voler difendere e conservare puro. Cinque secoli di cammino percorso gli uni senza gli altri, con sviluppi teologici e anche violenze concrete gli uni contro gli altri, con concorrenza missionaria e permanente ostilità, sicché il cristianesimo in Occidente appare da allora irrimediabilmente lacerato.

Solo all’inizio del secolo scorso, a motivo degli ostacoli incontrati nella missione delle chiese nei Paesi coloniali, dovuti alla divisione, si è cominciato a percepirne lo scandalo. Da allora si è intrapreso un lungo cammino, accelerato per i cattolici dal concilio Vaticano II. E oggi, a che punto siamo nei rapporti tra i cattolici e i “protestanti”, cioè i cristiani nati dalla riforma e distinti in chiese e comunità ecclesiali? Va riconosciuto che papa Francesco, proprio nei confronti dei protestanti, ha segnato un atteggiamento nuovo anche rispetto alle proprie posizioni del passato, un atteggiamento peraltro non condiviso da una parte dei cattolici stessi.

Non a caso la sua partecipazione alla “commemorazione” della riforma ha posto e pone dei problemi. Se infatti la celebrazione era prevista da anni nel mondo protestante ed è stata preparata anche da un documento redatto da una commissione teologica bilaterale cattolico- luterana che invita a passare “Dal conflitto alla comunione”, ci si è tuttavia interrogati fino allo scorso anno sulla possibilità e l’opportunità che anche la chiesa cattolica partecipasse a tale evento. È infatti pensiero consolidato nel mondo cattolico che i protestanti hanno abbandonato la chiesa cattolica per altre vie e che, di conseguenza, non hanno conservato la tradizione della chiesa universale. Si può festeggiare insieme un evento che è stato inimicizia tra fratelli, rottura, divisione, contraddizione alla volontà dell’unico Signore?

Ma papa Francesco, con la sua capacità di porre gesti profetici, ha manifestato la volontà di prendere parte oggi alla memoria celebrata a Lund in Svezia dove cinquant’anni fa iniziarono i dialoghi di riconciliazione tra chiesa luterana e chiesa cattolica. Alla sua audacia ha risposto l’altrettanto sofferta e coraggiosa decisione della Federazione luterana mondiale di accogliere l’inattesa richiesta e invitare formalmente il papa. E così l’apparentemente impossibile, con papa Francesco è diventato possibile: cattolici e protestanti possono stare insieme davanti al Signore, confessare la fede nella sua qualità di Risorto vivente e salvatore del mondo, ringraziarlo perché ha dato oggi ai suoi discepoli di comprendere insieme che il vangelo ha il primato nella vita di ogni cristiano e che la chiesa abbisogna sempre di essere riformata per essere il corpo di Cristo nella storia.

Le divisioni per ora permangono e paiono lontane dalla ricomposizione, anche perché nel frattempo cattolici e protestanti hanno elaborato aspettative e forme diverse dell’unità ricercata. Se molti protestanti pensano alla comunione tra le chiese come diversità che si accettano reciprocamente, la chiesa cattolica e la chiesa ortodossa conservano dell’unità il concetto tradizionale: unità non solo nel battesimo, ma anche nella fede e nella celebrazione eucaristica, unità sinfonica plurale sì, ma compaginata dai vescovi successori degli apostoli e presieduta nella carità dal vescovo di Roma, successore di Pietro.

Oggi siamo tutti convinti che l’elemento decisivo resta il battesimo, la vita di fede conforme al vangelo: e questo lo possiamo affermare insieme. Le diffidenze reciproche ancora esistono e sono sovente alimentate ed espresse soprattutto dove e quando si accende un conflitto di etiche. Per molti aspetti, infatti, il fossato tra cattolici e protestanti si è fatto più profondo in questi anni, proprio sui temi della morale sessuale. Ma nell’approfondimento della fede ci sono stati passi significativi di profonda convergenza su alcune verità, come la giustificazione attraverso la fede, cioè il riconoscimento che Dio rende giusto il peccatore gratuitamente, per l’abbondanza del suo amore che non va mai meritato.

Questo, unitamente alla forza dirompente dell’“ecumenismo del sangue”, cioè la testimonianza offerta dai martiri di ogni chiesa, ha reso possibile ciò che fino a pochi decenni fa pareva utopia: il volto di Dio testimoniato insieme dai cristiani risplende di luce evangelica, meno deformato dalle antiche rivalità tra confessioni contrapposte.

In ogni caso papa Francesco pratica testardamente la cultura dell’incontro, del dialogo, della vicinanza concreta all’altro e li rinnova ogni giorno in questo mondo sempre più segnato da scontri, distanze, innalzamenti di muri, esclusione del diverso.

La Repubblica, 27 ottobre 2016 (c.m.c.)

Il vento è una grande figura biblica. È il Soffio che accarezza il mondo vuoto, la Voce dell’impalpabile silenzio che parla ai profeti, l’irruento Respiro che divide il mare della liberazione. Ed è un vento di questa caratura biblica quello che percorrerà l’Europa e porterà il Papa di Roma a Lund,in Svezia, luogo di fondazione, della federazione mondiale delle Chiese evangeliche — quelle che il gergo chiama protestanti o luterane.

Francesco infatti parteciperà ad un giubileo non suo: quello che prepara il 500° anniversario dell’inizio della riforma di Lutero (quando, si racconta, vennero affisse le 95 tesi alla porta del duomo di Wittenberg), con cui egli manifestava cos’è la sete cristiana di salvezza e l’insofferenza per l’abuso nella chiesa.

Quello di Francesco sarà «un gesto senza precedenti», ripeteranno enfaticamente tutti. Pur sapendo che vedere un Papa fare qualcosa di mai fatto prima, non sorprende ormai nessuno. E anzi, volendo andare di fino, si potrebbe dire che anche questa usuale ricerca dell’inusuale potrebbe apparire come una scivolosa analogia col registro della politica e della sua fame di exploit, e potrebbe far correre al magistero il rischio di venir ascoltato quando fa cose strane e di venir ignorato — come ad esempio accade davanti alla tragedia di Aleppo o di Mosul — quando annuncia il vangelo della pace.

In realtà ciò che c’è di storico nel gesto di Lund non consiste nel fare a favore di telecamera qualcosa di “nuovo”: ma nel dimostrare che alla fine del mondo latinoamericano, dove la teologia europea ha spesso visto dilettantismi e pericoli, una chiesa aveva custodito i grandi semi del Concilio e del Novecento, vivi e vitali. E fra quei semi c’è l’ecumenismo.

Un movimento che in Occidente s’è talmente rinsecchito fra cortesie di capi e negoziati fra teologi che il termine ha finito per essere utilizzato da non pochi cialtroni per indicare il rapporto fra cristianesimo e religioni.

Però il seme ecumenico che Francesco riporta al centro della scena era ed è altro: non compromessi tessuti all’ombra dei rapporti di forza, ma il desiderio di sperimentare che anche la Chiesa può vivere una unità come tensione che continuamente la riforma e la aduna.

Per i cattolici era stata una gigantesca conversione dall’utopia del “ritorno” dei fratelli separati alla chiesa del papa alla ricerca. Nella quale la maggiore o minore prossimità rituale e dottrinale costituiva un banco di prova: Roma si sarebbe fermata al dialogo apparentemente più “facile” con l’ortodossia o avrebbe cercato l’unità anche con le Chiese della e dopo la riforma?
Questa domanda ha segnato la primavera ecumenica del cattolicesimo romano: e ha avuto un grande peso nel dialogo cattolico- luterano. Il centenario della nascita di Lutero nel 1983 fu l’occasione per un primo grande passo: grazie a un lavoro storico intenso l’intensità cristiana di Lutero ricominciava a parlare ad entrambe le chiese. Liberava Lutero dai miti e dagli anti-miti e consegnava a tutte le Chiese la passione di un un uomo che dopo un secolo in cui la riforma da tutti attesa era stata rinviata, la imboccava a proprio rischio e pericolo, ritenendo ogni compromesso impossibile in vista della salvezza.

Questa testimonianza luminosa e irruenta, non portò però a passi di comunione fra le Chiese: neppure il fondamentale accordo sulla dottrina della giustificazione del 1999, che riconosceva come le due dottrine sulle quali i cristiani si erano divisi e uccisi erano compatibili e convergenti, veniva seguito da gesti di comunione effettiva. Fornendo argomenti non piccoli a chi riteneva che l’ecumenismo fosse giunto al capolinea: o perché aveva conseguito l’enorme risultato di disarmare cristiani che si erano odiati e che imparavano a stimarsi; o perché aveva fallito l’unità dell’altare, celebrando ancora e sempre eucarestie divise. A Lund, dunque, il papato di Francesco riprende il filo di quella ricerca: a partire da una dimensione del Corpo di Cristo, che è il Corpo del povero.

Là dove era stata massima per Roma l’asimmetria fra il rapporto con l’Oriente e il rapporto coi Protestanti, Francesco reinventa un ecumenismo nel corpo del povero e del rifugiato. Questo, che sarà uno dei contenuti della dichiarazione di Lund siglata dal Papa di Roma e dal presidente della Federazione Luterana mondiale può avere due significati: trovare ancora una volta un modo per evitare il problema di fondo — e cioè quanta unità dottrinale serve per poter celebrare la stessa eucarestia; o un modo per aprire quel capitolo a partire da un corpo nel quale c’è una presenza reale del Cristo.

In attesa che da quella sottomissione alla verità cristiana spiri un altro Vento che darà alla Chiesa quella unità che non serve ad avanzare pretese più violente, ma a mostrare al mondo che è il soffio del perdono che ne impedisce il crollo sotto il peso della crudeltà e della indifferenza umane.

«Il criterio seguito da Bergoglio è quello di una rappresentanza non ancorata al prestigio, alla forza o alla tradizione cattolica di una nazione».Internazionale online,12 ottobre 2016 (c.m.c.)

Superata la boa dei tre anni e mezzo di pontificato e mentre si avvicina la fine del giubileo della misericordia (il 20 novembre), Jorge Mario Bergoglio prosegue nel suo tentativo di capovolgere le gerarchie e i poteri che governano la chiesa. Su questa strada sta incontrando oppositori interni e consensi. Il metodo scelto da Bergoglio è in ogni caso quello di una trasformazione progressiva e non traumatica, destinata a lasciare il segno, almeno nelle intenzioni, per lungo tempo. Resta da vedere se la riforma riuscirà sul serio a prendere il largo e a rafforzarsi, se insomma nel futuro della chiesa ci sarà un Pio XIII – per dirla con il regista Paolo Sorrentino – o invece un altro vescovo che viene dalla “fine del mondo”.

Il papa una strada l’ha indicata, come emerge anche dall’ultima serie di nomine cardinalizie da lui annunciate all’angelus di domenica 9 ottobre. La cerimonia di consegna delle berrette rosse avverrà il giorno prima della fine dell’anno santo della misericordia, il 19 novembre in piazza San Pietro. Francesco si appresta dunque a dare 17 nuovi cardinali alla chiesa universale, ma i nuovi elettori in un eventuale conclave – cioè quelli con meno di 80 anni – sono 13.

Tra di loro c’è un solo italiano, monsignor Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria. Zenari tuttavia non viene “premiato” con la dignità cardinalizia per aver terminato il suo incarico, ma resta – come ha precisato il papa – «nell’amata e martoriata Siria». Al nunzio, uomo super partes, non colluso né con il regime di Assad e i suoi alleati né con i gruppi ribelli, e tanto meno con il gruppo Stato islamico, resta il compito di ricordare al mondo la ferocia di un conflitto interminabile. Lo stesso diplomatico vaticano ha più volte ripetuto che le violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario di guerra hanno provocato enormi sofferenze alla popolazione civile siriana di tutte le fedi e di tutti i gruppi etnici. La scelta di Zenari da parte del papa, inoltre, indica un metodo generale: la nomina cardinalizia non può essere il punto d’arrivo di fortunate carriere, ma deve connotare un servizio alla chiesa.

Con le ultime nomine, a partire dal 19 novembre i cardinali elettori saranno 121 (228 compresi quelli che non entreranno in conclave). Nei suoi tre concistori Francesco ha nominato finora 56 cardinali, di cui 44 con diritto di voto. Il fattore Bergoglio, insomma, comincia a sentirsi nel sacro collegio ed è destinato ad avere il suo peso nel conclave del futuro. Anche perché nei prossimi mesi diversi altri porporati supereranno la fatidica soglia degli 80 anni, per cui è immaginabile che il papa, se sarà ancora al suo posto, procederà a colmare quei vuoti. Il numero da tenere presente è quello di 120 elettori, indicato da Paolo VI come riferimento.

Ma i numeri ci dicono pure altro e aiutano a capire come stanno cambiando le cose. Degli attuali 121 elettori, 54 sono europei, 17 nordamericani, 13 latinoamericani, 4 centroamericani, 15 africani, 14 asiatici, 2 dell’Oceania. Con questi dati è possibile fare varie combinazioni, tuttavia un fatto risulta evidente: esiste una maggioranza extraeuropea significativa. Di certo il criterio dell’appartenenza geografica non è l’unico da tenere presente, ci sono diversità d’opinione e di sensibilità trasversali, eppure la tendenza è chiara: l’asse della chiesa si sta spostando al di fuori del vecchio continente che tuttavia continua ad avere ancora il suo peso.

Non solo: se “periferie” è parola chiave del pontificato, guardando all’insieme delle scelte cardinalizie, il criterio seguito in modo costante da Bergoglio è quello di una rappresentanza quanto più possibile vasta e articolata e non ancorata per forza al prestigio, alla forza o alla tradizione cattolica di una nazione. Così Haiti, Tonga, le isola Maurizio, la Papua Nuova Guinea, Panama, il Burkina Faso, l’Etiopia, solo per citare alcuni casi, hanno un cardinale che porta la voce di queste realtà nel mondo.

Si tenga presente, inoltre, che nei tre concistori, il papa ha nominato solo tre cardinali già vescovi diocesani. Le altre nomine italiane hanno riguardato soprattutto uomini di curia scelti tra i più stretti collaboratori del papa e in molti casi ex nunzi apostolici. Invece, tra i nuovi cardinali appena nominati vanno segnalati Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui (Repubblica Centrafricana), la città dove il papa – a sorpresa – aprì il giubileo della misericordia, in una terra segnata anche dai conflitti interreligiosi. Blase J. Cupich, arcivescovo di Chicago, il primo cardinale nettamente di tendenze liberal in un episcopato dai tratti decisamente conservatori; quindi due nomine europee di peso a Madrid e Bruxelles – Carlos Osoro Sierra e Jozef De Kesel – che pure segnano il ritorno di un cattolicesimo più aperto e in linea con il magistero di Francesco in diocesi importanti del vecchio continente.

La casa bruciava

Nel frattempo, sul fronte per così dire più interno della battaglia tra chi spinge per un ritorno al passato e chi sostiene il cambiamento, si distingue l’ex segretario di Joseph Ratzinger, don Georg Gänswein, la cui appartenenza ai circoli vaticani più conservatori è cosa nota. Il papa emerito ha scritto di recente, con il giornalista tedesco suo amico Peter Seewald, un libro che ha il sapore di un testamento pubblico, Ultime conversazioni. Ratzinger tende a giustificare e addomesticare, forse un po’ troppo, molti passaggi tra i più delicati del suo pontificato: un tentativo di mettere a posto le cose nel quale tra l’altro ammette, e non è la prima volta, di avere scarsa attitudine al governo. Don Georg, da parte sua, ha cercato di trasformare le dimissioni di Benedetto XVI, obiettivamente uno dei fatti storici più clamorosi degli ultimi secoli nella vita della chiesa, in un semplice problema medico-sanitario.

In questo è stato in parte aiutato dalla versione che lo stesso papa emerito ha dato nel libro in questione. Sul Corriere della Sera, ripercorrendo quei passaggi, Gänswein ha infatti scritto: «Il papa emerito continua a chiarire: non si trattò di una fuga, Roma non bruciava, non c’erano lupi che ululavano sotto la sua finestra e la sua casa era in ordine quando riconsegnò il testimone nelle mani dei carissimi fratelli del collegio cardinalizio. Il medico gli aveva detto che non poteva più attraversare l’Atlantico. Ma la Giornata mondiale della gioventù successiva che avrebbe dovuto aver luogo nel 2014 era stata anticipata al 2013 (a Rio de Janeiro, ndr) a causa dei Mondiali di calcio. Altrimenti avrebbe cercato di resistere fino al 2014». Insomma, non potendo fare voli troppo lunghi, il papa lasciava il suo incarico per la prima volta dopo secoli. Una versione quanto meno improbabile ma con la quale si è cercato di accreditare una presunta normalità dell’evento e quindi l’assenza di una crisi gravissima che l’avrebbe determinato.

D’altro canto la casa bruciava eccome, ne è simbolo la celebre foto che immortala Ratzinger mentre consegna a Francesco uno scatolone pieno di carte raccolte dalla commissione interna al Vaticano, composta da tre cardinali e istituita dallo stesso Benedetto XVI, che aveva ricevuto dal papa il compito di indagare – senza fermarsi davanti a nessuna porta – sugli scandali della curia il cui clamore stava mettendo a dura prova la credibilità della chiesa. È poi storia che lo stesso Ratzinger, a dimissioni già annunciate e quindi libero da condizionamenti, nominò a sorpresa il nuovo presidente dello Ior, la banca vaticana, fuori da ogni schema preordinato di potere, nella figura del tedesco Ernst von Freyberg: da lì è cominciato un lungo lavoro di pulizia non ancora concluso.

Chissà se nell'ampia congrega dei governanti del Globo c'è qualcuno che comprende e condivide.. Il manifesto, 21 settembre 2016

«Tutti, con la guerra, sono perdenti, anche i vincitori». Si è conclusa con una severa condanna della guerra, sottoscritta dai leader religiosi di tutto il mondo, la Giornata mondiale di preghiera per la pace che si è svolta ieri ad Assisi, a conclusione di un meeting di tre giorni promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e dai francescani.

Cristiani, ebrei, musulmani, induisti, buddhisti (ma non c’era il Dalai Lama, non invitato evidentemente per non turbare il percorso di riavvicinamento fra Santa Sede e Pechino), oltre 500 rappresentanti delle diverse religioni del mondo si sono ritrovati trent’anni dopo il primo incontro convocato sempre ad Assisi da Giovanni Paolo II nel 1986, quando il mondo era diviso in due blocchi, e papa Wojtyla voleva issare più in alto di tutti il vessillo della pace, anche in funzione anticomunista.

Oggi la guerra fredda non c’è più, ma c’è una «terza guerra mondiale a pezzi», come papa Francesco ha più volte chiamato l’insieme dei conflitti che devastano il mondo. E allora le religioni, sostiene il pontefice, possono collaborare per la pace, perché «mai il nome di Dio può giustificare la guerra, solo la pace è santa e non la guerra», condannando implicitamente secoli di «guerre sante» fatte pretendendo di avere Dio – anche e soprattutto il Dio dei cristiani – dalla propria parte («dobbiamo essere capaci fare autocritica», ha detto nel suo intervento finale il patriarca ecumenico ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo).

La guerra, più che il terrorismo. Non perché il terrorismo non vada condannato, ma perché la guerra è molto più grave. «Ci spaventiamo per qualche atto di terrorismo», ma «questo non ha niente a che fare con quello che succede in quei Paesi, in quelle terre dove giorno e notte le bombe cadono e cadono» e «uccidono bambini, anziani, uomini, donne», ai quasi «non può arrivare l’aiuto umanitario per mangiare, non possono arrivare le medicine, perché le bombe lo impediscono», ha detto Bergoglio durante la messa mattutina a Santa Marta, prima di lasciare il Vaticano per Assisi, dove è arrivato poco dopo le 11. Al convento della basilica di San Francesco ad attenderlo c’erano Bartolomeo, il primate anglicano Justin Welby, il patriarca siro ortodosso di Antiochia Ignatius Aphrem II, il rabbino capo della comunità ebraica di Roma Riccardo Di Segni, il vicepresidente dell’università islamica di Al Azhar Abbas Shuman e gli altri leader religiosi. Pranzo nel refettorio del convento, a cui hanno partecipato anche 12 rifugiati provenienti da zone di guerra.

Nel pomeriggio i rappresentanti delle fedi si sono riuniti in preghiera in luoghi separati, anche per allontanare quelle accuse di «sincretismo» e di «relativismo» rivolte dai settori cattolici più conservatori a papa Francesco – e trent’anni fa a Wojtyla – ma anche agli altri leader religiosi, perché gli integralisti non sono un’esclusiva di nessuno.

I cristiani (cattolici, ortodossi, luterani e anglicani) si sono ritrovati nella basilica inferiore di San Francesco. «Le vittime delle guerre implorano pace», ha detto il papa, «implorano pace i nostri fratelli e sorelle che vivono sotto la minaccia dei bombardamenti o sono costretti a lasciare casa e a migrare verso l’ignoto», ma «incontrano troppe volte il silenzio assordante dell’indifferenza, l’egoismo di chi è infastidito, la freddezza di chi spegne il loro grido di aiuto con la facilità con cui cambia un canale in televisione». Quindi una lunga preghiera per 27 territori dilaniati dai conflitti: dall’Afghanistan al Congo, dall’Iraq alla Libia, dal Sud Sudan allo Yemen, la Palestina, la Siria.

Tutti insieme poi – vescovi, patriarchi, pastori, rabbini, imam e tutti gli altri – in piazza San Francesco per i messaggi conclusivi. «Non ci può essere pace senza giustizia, una rinnovata economia mondiale attenta ai bisogni dei più poveri» e la «salvaguardia dell’ambiente», ha detto Bartolomeo. «La storia ci ha mostrato che la pace conseguita con la forza sarà rovesciata con la forza», ha ammonito Morikawa Tendaizasu, leader del buddhismo Tendai. «L’islam è una religione di pace, oggi ci sono gruppi che usano il nome dell’islam per perpetrare azioni violente, è responsabilità di noi musulmani mostrare il vero volto della nostra fede», ha esortato il presidente del Consiglio degli Ulema indonesiani Din Syamsuddin. La pace «non può scaturire dai deserti dell’orgoglio e degli interessi di parte, dalle terre aride del guadagno a ogni costo e del commercio delle armi», dalle «chiusure che non sono strategie di sicurezza ma ponti sul vuoto», ha detto papa Francesco.

Infine l’appello conclusivo, sottoscritto dai leader religiosi e inviato agli ambasciatori di tutto il mondo. «Imploriamo i responsabili delle Nazioni perché siano disinnescati i moventi delle guerre: l’avidità di potere e denaro, la cupidigia di chi commercia armi, gli interessi di parte, le vendette per il passato. Aumenti l’impegno concreto per rimuovere le cause soggiacenti ai conflitti: le situazioni di povertà, ingiustizia e disuguaglianza, lo sfruttamento e il disprezzo della vita umana».

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