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Una parole per me importante è la parola “politica”. Una parola oggi molto di moda, anche se in senso prevalentemente negativo. Una parola che viene adoperata spesso rovesciata nel suo significato fino a divenire un'arma contro l'avversario: si rovescia in “anti-politica”. Per me la “politica” non è solo quella che si fa nelle istituzioni e nei palazzi del potere, è anche quella che si promuove là dove si è accusati di praticare l'”anti-politica”.

La definizione di politica che a me pare eccellente – negli anni in cui la “politica” ufficiale sembra più interessata all'accumulazione del potere da parte di chi ce l'ha già anziché al realizzarsi di interessi generali della società – è quella che ne diede don Lorenzo Milani, quando fece esprimere a uno scolaro della sua Scuola di Barbiana il concetto di politica:

«Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» (Lorenzo Milani, Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967).

Politica è insomma, anche per me, l'unirsi tra più persone per “uscire insieme” da un problema che è di tutti – o almeno di molti, dei “tutti” di una determinata comunità – o dell'intera società.

Intendo per pianificazione territoriale ed urbanistica (non faccio nessuna distinzione tra l’una e l’altra) quel metodo, e quell’insieme di strumenti, che si ritengono capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.

Per completare questa definizione, devo precisare ancora il significato che assumono i termini che ho adoperato per qualificarla, e in primo luogo devo precisare qual è il suo oggetto. È facile affermare che sono oggetto della pianificazione territoriale ed urbanistica le trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell’assetto dell’ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.

A questo campo, solo a questo campo (ma, insieme, a tutto questo campo) deve essere diretta la responsabilità e la competenza della pianificazione.

Gli obiettivi posti alla pianificazione, come abbiamo visto, variano in relazione al contesto storico. [...] È certo che tutti i possibili sistemi di obiettivi formulabili ne contengono comunque due: il funzionamento efficiente del sistema insediativo, e la tutela dell’integrità fisica e dell’identità culturale del territorio. I primi riguardano le condizioni relative alle esigenze dell’abitazione e dei connessi servizi, della produzione e dei relativi servizi, della mobilità e dei trasporti delle merci, persone ed energia ecc. I secondi riguardano la tutela e la valorizzazione (due finalità strettamente connesse) delle qualità culturali, storiche, naturali dell’ambiente, la prevenzione dei rischi e la riduzione delle pericolosità, la salvaguardia delle risorse e il loro accorto impiego e così via.

Naturalmente i diversi obiettivi possono essere tra loro concorrenti: in certe situazioni, raggiungere l’uno può voler dire non poter raggiungere l’altro, o raggiungerlo in modo solo parziale, oppure raggiungerlo in tempi dilazionati. L’articolazione degli obiettivi, la loro qualificazione in termini dei ceti sociali cui l’uno o l’altro obiettivo procurano vantaggi o perdite, e in termini di priorità temporali e di prezzi economici che per raggiungere l’uno e l’altro devono essere pagati (e da chi), dovrebbe essere una operazione fondamentale per poter effettuare in modo consapevole le scelte della pianificazione. In questa valutazioni sta forse la chiave del passaggio dalla pianificazione come attività tecnica al governo del territorio come attività politica.

Uno dei compiti della pianificazione (anzi, della definizione di un metodo e un meccanismo di pianificazione) è comunque quello di consentire che la determinazione degli obbiettivi sia compiuta dai soggetti giusti, con procedure certe e trasparenti, e sia tradotta nelle scelte operative in modo verificabile sia a priori (nella certezza che la catena degli effetti sia suscettibile di provocare quelli voluti) che a posteriori. È nella capacità di definire un siffatto metodo e meccanismo che sta anche la garanzia di base di un soddisfacente rapporto tra l’apparato tecnico della pianificazione e la rappresentanza della società.

Ideologia è un termine screditato: uno dei tanti di questi anni carichi di “revisioni” tese a cancellare la memoria del passato per rendere il presente funzionale agli interessi dominanti.

Certo, «se si intende per “ideologia” un credo cieco e catechistico» sarebbe stato bene lasciar estinguere quella parola e, soprattutto, la prassi che esprime, e attribuire al termine “ideologico” un significato negativo. Ma ideologia significa un’altra cosa. Essa infatti, per adoperare termini semplici e chiari, è «quell’insieme di credenze condivise da un gruppo e dai i suoi membri che guidano l’interpretazione degli eventi e che quindi condizionano le pratiche sociali» (T. A. Van Dijk, Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Carocci, Firenze 2004).

Screditare quel termine è stata, in Italia, un’operazione culturale che ha voluto cancellare un preciso fatto storico: che l’ideologia è stata, nei decenni che hanno preceduto il neoliberalismo, «quel sistema di ideali e di valori grazie ai quali la politica si è mossa in vista di interessi generali e di obiettivi di largo respiro» (A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, a cura di Simonetta Fiori, Roma-Bari, Laterza, 2009).

Sostenere che l’ideologia è morta, rendere il termine sinonimo di “dogmatismo” e “preconcetto”, ha aiutato a inculcare l’idea (e la prassi) che la politica è pura amministrazione. E quando la politica si riduce a pura amministrazione, la gestione della macchina prevale sugli obiettivi la macchina dovrebbero guidare. La politica diventa gestione del potere fine a sé stessa: gli unici iteressi da servire sono quelli di chi della politica è il gestore.

E significa, soprattutto, lasciare libero campo all'ideologia dominante, cancellando il diritto di altre ideologie a presentarsi, essere discusse affermarsi.

Esistono molti modi di ripartire le competenze tra soggetti di diverso livello. Un tempo si praticava una ripartizione basata sulle “materie” (gli acquedotti spettano a Tizio, i trasporti a Caio, l’ambiente a Sempronio). Si può dire che questa concezione ha prevalso nel nostro paese grosso modo fino al completamento e al riordino del trasferimento e della delega delle competenze alle regioni, nel 1977. Fino alla ventata del “federalismo all’italiana” e delle “devoluzioni” il criterio che si cominciava ad adottare era quello di riferire le competenze a oggetti[1] e aspetti, adoperando per la ripartizione un criterio adottato dagli organismi europei per distinguere le competenze tra la responsabilità comunitaria e quella dei singoli stati. Si tratta del “principio di sussidiarietà”, ancor oggi celebrato a parole.

In Italia questo termine viene infatti adoperato spesso (come del resto il termine “sostenibilità”) in modo approssimativo. Nel linguaggio della Lega di Bossi, “sussidiarietà” significa tutto il potere al basso, il più lontano possibile da “Roma ladrona”. Nel linguaggio dei variopinti fautori (a destra, al centro e a sinistra) del “meno Stato più mercato”, significa delegare tutto il possibile ai privati. In un linguaggio più accettabile significa delegare ai livelli più vicini all’elettorato il maggior numero possibile di competenze. In realtà nella cultura europea il termine ha un significato alquanto diverso[2].

In omaggio al principio vichiano che “natura di cose altro non è che nascimento di esse” , è utile ricordare che il principio di sussidiarietà venne proposto da Jacques Delors, allora Presidente della Commissione europea, per individuare i poteri degli organismi sovranazionali europei distinguendoli da quelli dei governi nazionali: una definizione “dall’alto”, quindi, e non “dal basso”, come tutte quelle che circolano in Italia. Riferiamoci al testo del Trattato dell’Unione Europea, solennemente sottoscritto a Maastricht dai rappresentanti di dodici governi il 7 febbraio 1992, in cui il lungo dibattito trovò sbocco e sistemazione. L’articolo 3b afferma:

La Comunità interviene entro i limiti dei poteri ad essa conferiti da questo Trattato e degli obiettivi ad essa assegnati. Nei campi che non ricadono nella sua esclusiva competenza la Comunità interviene, in accordo con il principio di sussidiarietà, solo se, e fino a dove, gli obiettivi delle azioni proposte non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri e, a causa della loro scala o dei loro effetti, possono essere raggiunti meglio dalla Comunità[3].

Il principio di sussidiarietà significa perciò che là dove un determinato livello di governo non può efficacemente raggiungere gli obiettivi proposti, e questi sono raggiungibili in modo più soddisfacente dal livello di governo sovraordinato (lo Stato nei confronti della regione, o l’Unione europea nei confronti degli stati nazionali) è a quest’ultimo che spetta la responsabilità e la competenza dell’azione. E la scelta del livello giusto va compiuta non in relazione a competenze astratte o nominalistiche, oppure a interessi demaniali, ma (prosegue il legislatore europeo) in relazione a due elementi precisi: la scala dell’azione (o dell’oggetto cui essa si riferisce) oppure i suoi effetti.

Così, ad esempio, si può mai ipotizzare che una strada di grande comunicazione, magari connessa a un sistema di itinerari europei, abbia rilevanza solo regionale? È certamente un’opera di scala almeno nazionale, come lo è un elemento del sistema portuale o aeroportuale nazionale: per la sua scala, appunto, e non per l’ente che vi ha competenza amministrativa o patrimoniale. Forse che la grande rete dei trasporti, che connette le varie parti del paese e i nodi del sistema insediativo e di quello produttivo, non è al servizio della “Azienda Italia” nel suo complesso? E non richiede perciò forse un loro “governo” alla scala dell’intera nazione?

Del tutto analogo il ragionamento nel campo dell’ambiente. Del resto, con la legge 431/1985 si era affermato un modo di connettere le responsabilità dei livelli di governo, distinguendone le competenze in relazione alla scala degli interessi territoriali coinvolti, del tutto coerente con il principio di sussidiarietà (nella sua accezione europea, non in quella padana). Quella legge determinava infatti e vincolava, come abbiamo visto, i grandi elementi del paesaggio nazionale, rilevanti alla scala dell’intera Penisola (l’orditura del paesaggio costituita dalle montagne, le coste, i fiumi, i boschi) impegnando regioni, province e comuni ad approfondire l’analisi e le scelte di tutela alla loro scala.

E ancora. Se le opere di grande scala e la tutela del paesaggio sono responsabilità e competenza del governo nazionale (poiché solo a questa scala possono essere efficacemente governati), se alla medesima responsabilità e competenza appartiene orientare l’insieme delle politiche economiche e sociali (poiché il nostro capitalismo a tutto è disposto a rinunciare, non a essere assistito), come quelle per la mobilità e i trasporti, è davvero “moderno” e “federalista” rinunciare ad applicare quella responsabilità di definizione delle “linee fondamentali dell’assetto territoriale nazionale”, che il Dpr 616/1977 attribuiva allo Stato? In effetti, se il principio della sussidiarietà ci dice che il l’assetto del territorio nazionale non può nascere dall’assemblaggio delle singole decisioni regionali, il principio della pianificazione ci dice che i problemi delle reti e delle loro connessioni, quello dell’ambiente e delle risorse naturali e storiche, quello del sistema insediativo, non possono essere affrontati separatamente: a meno che non si vogliano rischiare ancora i conflitti, le paralisi, le inefficienze che inevitabilmente nascono quando le decisioni relative a singole parti di un sistema solidale vengono prese separatamente.

[1] Con il termine “oggetti” non si indica qui l’elemento materiale dell’assetto del territorio (la strada o il centro storico, il centro commerciale o il bosco ecc.): Il termine “oggetto” è adottato invece in una logica simile a quella in cui è usato normalmente il termine “beni”. L’uno e l’altro termine configurano entità immateriali che, quand’anche si riferiscano a “cose” materiali, non si identificano con esse. Talché su di un’unica “cosa” può fondarsi una pluralità di beni ogniqualvolta in essa siano separabili diverse utilità o valori autonomamente riconoscibili. Ed analogamente un’unica “cosa”, un unico elemento materiale, può costituire il riferimento materiale di una pluralità di “oggetti” ogniqualvolta in essa siano separabili diversi “aspetti” autonomamente riconoscibili e incidenti su interessi la cui titolarità (esclusiva o prevalente) appartenga a diversi soggetti.

[2]L’interpretazione adottata in Italia è configurata nel seguente testo legislativo: “il principio di sussidiarietà, con l'attribuzione della generalità dei compiti e delle funzioni amministrative ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le rispettive dimensioni territoriali, associative e organizzative, con l'esclusione delle sole funzioni incompatibili con le dimensioni medesime, attribuendo le responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l'assolvimento di funzioni e di compiti di rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità territorialmente e funzionalmente più vicinaai cittadini interessati”. Legge 15 marzo 1997 n. 59, articolo 4, comma 3, lettera a).

[3] Il testo dell’articolo è stato confermato nel Trattato di Amsterdam il 2 ottobre 1997, ed è divenuto l’articolo 5 del Trattato istitutivo della Unione europea.

La governance, come nasce

L’attenzione degli studiosi e degli operatori si è decisamente spostata, da qualche tempo, dal government alla governance: dalla formazione e dall’esercizio delle regole che l’autorità pubblica definisce in ragione dell’interesse pubblico, ai procedimenti bottom-up di partecipazione e negoziazione che tendono ad allargare il consenso attorno alle scelte e a coinvolgere nel processo delle decisioni gli attori pubblici e privati [1]. Si tratta di comportamenti applicati con fortuna in altre realtà nazionali, ed è quindi al modo in cui sono stati applicati altrove che è opportuno fare riferimento.

La governance nasce, mezzo secolo fa, tra gli economisti americani. Nasce come procedura aziendale più efficace del mercato per gestire determinate transazioni con protocolli interni al gruppo o con contratti, partenariati, regolamenti quando si tratta di rapporti con attori esterni. Ma sono molto interessanti la ragione e il modo in cui il ricorso al termine (e alla problematica) della governance si sposta dal terreno economico delle aziende a quello politico e amministrativo dei poteri locali: ciò avviene, alla fine degli anni Ottanta, nella Gran Bretagna in occasione di un programma di ricerca sulla ricomposizione del potere locale.

Il Centre de documentation de l’urbanisme del Ministère de l’equipement, des transport et du logement francese ha preparato un dossier molto utile sull’argomento, dal quale traggo alcune citazioni [2].

[…] a partire dal 1979 il governo di Margaret Tatcher ha varato una serie di riforme tendenti a limitare i poteri delle autorità locali, giudicate inefficaci e troppo costose, attraverso un rafforzamento dei poteri centrali e la privatizzazione di determinati servizi pubblici. I poteri locali britannici non sono tuttavia scomparsi, ma si sono ristrutturati per sopravvivere alle riforme e alle pressioni del governo centrale. Gli studiosi che hanno analizzato queste trasformazioni nel modo di governare delle istituzioni locali inglesi hanno scelto il termine di “ urban governance” per definire le loro ricerche. Hanno tentato così di smarcarsi dalla nozione di “ local government”, associata al precedente regime decentralizzato condannato dal potere centrale [3]

L’applicazione della governance al campo dei poteri pubblici locali nasce insomma come difesa dallo smantellamento dei medesimi poteri da parte un governo centralizzato e privatizzante, come quello della Tatcher. (Ciò testimonia, tra l’altro, che il buon funzionamento della pubblica amministrazione non è un obiettivo bipartisan, ma è strettamente correlato all’impostazione politica complessiva di chi governa).

Nel medesimo testo del CDU del ministero francese che ho prima citato si riportano alcune definizioni della governance che esprimono contesti diversi, e che corrispondono a una fase ulteriore di applicazione del termine a realtà istituzionali meno anguste di quella aziendale e meno difensive di quella britannica. Alcuni definiscono infatti la governance come

un processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, d’istituzioni, per raggiungere degli obiettivi specifici discussi e definiti collettivamente in territori frammentati e incerti [4]

altri come

le nuove forme interattive di governo nelle quali gli attori privati, le diverse organizzazioni pubbliche, i gruppi o le comunità di cittadini o di altri tipi di attori prendono parte alla formulazione della politica [5].

La Commission on global governance, costituita nel 1992 su promozione di Willy Brandt, ha definito nel 1995 la governance come

la somma dei diversi modi in cui gli individui e le istituzioni, pubbliche e private, gestiscono i loro affari comuni. È un processo continuo di cooperazione e d’aggiustamento tra interessi diversi e conflittuali [6].

È proprio la presenza di “interessi diversi e conflittuali” uno dei punti sui quali è necessario porre attenzione, nella ricerca di una comprensione della governance e della sua applicabilità a contesti come quelli italiani.

Non è vero che tutti gli attori sono uguali

Possiamo leggere quindi la governance, e la sua applicazione in Italia, anche come un tentativo di coinvolgere nel meccanismo delle decisioni sul territorio soggetti diversi, i quali tutti concorrono ai processi di trasformazione e utilizzazione dello spazio, ma non sono adeguatamente riconosciuti nel meccanismo definito dalle procedure vigenti. Nell’affrontare questo tema occorre però partire da una consapevolezza. Non è vero che tutti gli attori sono uguali. Ogni attore esprime un interesse. E non è vero che tutti gli interessi debbano avere la stessa rilevanza. Non è vero che si garantisce l’interesse generale se si assegna lo stesso peso, attorno alla stessa tavola, a portatori d’interessi generali e a portatori di, sia pur legittimi, interessi parziali.

La prima grande distinzione che occorre compiere è quella che seleziona gli enti che esprimono interessi generali della collettività in quanto tale: si tratta, in Italia, delle istituzioni elettive. Sono queste che devono costituire il primo tavolo della concertazione. E però, per ciascun argomento in discussione e co-decisione, occorre stabilire con chiarezza a chi spetta la responsabilità ultima di decidere, se il consenso (che è un obiettivo, non una certezza) non viene raggiunto. Allo stesso tavolo è giusto che siedano, e ugualmente concertino, i portatori d’interessi pubblici specializzati, sovrani ope legis nel campo del loro specialismo: dalla tutela dei beni architettonici e culturali al paesaggio, dalla difesa del suolo alla pubblica sicurezza agli enti funzionali. La co-decisione, o l’intesa, può snellire in modo sostanziale le procedure senza togliere a nessun il proprio legittimo ruolo.

Anche a questo proposito le innovazioni introdotte dalle leggi regionali recenti colgono alcuni risultati rilevanti, senza cedere a mode tendenti alla “concertazione assoluta” e, di conseguenza, alla deresponsabilizzazione di ciascuno dei soggetti coinvolti. Si tratta delle “conferenze di pianificazione” (o simili), cioè di incontri istituzionali dei diversi soggetti pubblici interessati a una questione nella quale sia coinvolta la responsabilità di ciascuno di essi. Si riuniscono, opportunamente documentati; esaminano la questione collegialmente; esprimono illico et immediate il loro parere, se possibile; se le posizioni sono contrastanti, discutono e cercano la mediazione; se è necessario un supplemento di analisi o d’istruttoria decidono lì per lì la data della prossima riunione, nella quale decideranno.

Un tavolo diverso è quello al quale il pubblico siede e coopera con i portatori d’interessi parziali: dalle imprese ai portatori di interessi diffusi. Questo tavolo, il tavolo pubblico-privato, è essenziale per due aspetti, entrambi rilevanti, del processo di governo delle trasformazioni urbane e territoriali: per la verifica delle scelte pubbliche, prima della loro definizione ed entrata in vigore; e per la loro implementazione e attuazione, nella quale il ricorso degli “esterni” alla pubblica amministrazione, e in particolare dei privati, è essenziale.

Gli interessi privati

Ma quali “privati”? Anche qui, è necessario distinguere. Una cosa è il privato espressione di interessi diffusi: il soggetto che esprime interessi di gruppi di cittadini che si animano per la soluzione di questo o quel problema d’interesse di una comunità, piccolo o grande che sia: si tratta di attori che normalmente ricevono poco spazio nel processo delle decisioni. Altra cosa è l’attore che rappresenta interessi imprenditoriali maturi, finalizzati ad associare fattori di produzione per produrre merci o servizi, innovazione, profitto ed accumulazione. Si tratta di attori cui non manca la capacità di esprimersi e di svolgere un ruolo forte: un ruolo molto positivo, a meno che non esprima la copertura di un terzo tipo di attori.

Altra cosa ancora sono gli attori che esprimono meri interessi di valorizzazione immobiliare. Questi aspirano a inserirsi nei processi delle scelte pubbliche per ottenere che il pennarello dell’urbanista colori di particolari tinte – o copra di particolari retini – i loro terreni e i loro edifici. Chiunque abbia avuto a che fare con la pianificazione urbanistica ha incontrato spesso casi simili. Si tratta di quei casi che indussero il presidente del Consiglio Aldo Moro, quattro decenni fa, a coniare – per la riforma urbanistica – l’obiettivo della “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani”. E si tratta di quei casi che hanno indotto a parlare di “economia del retino”: quella “economia” per la quale l’obiettivo non è realizzare e rendere operativa l’industria per la quale si è chiesto, e ottenuto, il cambiamento della destinazione d’uso (e quindi del retino) da agricola a industriale, ma semplicemente aumentare il valore del patrimonio per ottenere un maggior livello di credito dalle banche.

Governare la governance

Mi sembra quindi che, mentre la governance istituzionale non pone problemi che non siano “tecnici” alla sua utilizzazione in supporto al government, particolare attenzione deve essere posta a inserire correttamente nel processo delle decisioni i portatori d’interessi privati, in particolare quelli economici. L’ipotesi che si può formulare è che la governance, nel campo del governo del territorio , funzioni, e funzioni bene, là dove esistono due condizioni:

1. gli attori privati che si coinvolgono nel progetto comune esprimono interessi nel cui ambito la valorizzazione delle proprietà immobiliari (e in generale le rendite parassitarie) svolgono un ruolo marginale;

2. gli attori pubblici che promuovono la governance, e quindi in qualche modo la “governano”, sono soggetti forti, autorevoli, competenti, efficaci ed efficienti.

Credo perciò che si debba procedere con molta attenzione nell’abbassare la guardia delle procedure consolidate per innovare – come pure è necessario – nel campo intricato e delicatissimo dei rapporti tra bene pubblico e interessi privati. Soprattutto in Italia, dove l’intreccio rendita-profitto è molto forte ed è generalmente a vantaggio del primo termine, dove gli interessi diffusi stentano ad affermare la propria rappresentazione, e dove l’amministrazione pubblica è tradizionalmente debole. Ed è certo che il primo passo necessario per sperimentare procedure innovative nelle pratiche del governo del territorio è quello di dotare i poteri elettivi di strutture tecnico-amministrative autorevoli, competenti, consapevoli del proprio ruolo, motivate, e perciò efficaci ed efficienti.

E la partecipazione?

Coinvolgere nella pianificazione i cittadini (in quanto tali, in quanto utenti della città e suoi “padroni”, e non in quanto proprietari di sue singole parti) è ambizione che l’urbanistica ha sempre coltivato. Con risultati, mi sembra, insoddisfacenti, salvo casi limitati che non hanno costituito precedenti significativi di pratiche diffuse. Il coinvolgimento è relativamente facile (là dove si adoperano tecniche adeguate e, soprattutto, volontà politica determinata) quando si tratta di trasformazioni urbane limitate: l’apertura di una strada, la ristrutturazione di un quartiere esistente, la progettazione di un intervento pubblico d’interesse locale [7]. Ed è facile là dove si tratta di opporsi a un intervento negativo: lì la tensione NIMBY ( Not In My Back Yard: non nel mio cortile) costituisce un buon alimento se l’intervento proposto è negativo. Molto più complesso è lì dove l’argomento è un intero progetto di città o di territorio. Probabilmente non si tratta di un problema tecnico, ma politico. Lo sostiene un intelligente urbanista a tutto campo, Silvano Bassetti. Secondo Bassetti

se per urbanistica intendiamo la pratica di governo con cui una comunità insediata su un brano di territorio regola e amministra le trasformazioni fisiche e funzionali di quel territorio e dei suoi insediamenti; e se per partecipazione intendiamo il coinvolgimento consapevole, diretto e responsabile dei cittadini alle decisioni che condizionano il destino presente e futuro della comunità insediata, allora “urbanistica partecipata” è davvero una tautologia [8].

Del resto, ho più volte affermato che urbanistica e politica sono due aspetti connessi d’un medesimo campo di interessi, obiettivi, procedure. In una civiltà politica che si è data la democrazia come regola generale, l’urbanistica è allora necessariamente anch’essa “urbanistica democratica”. Solo che, prosegue Bassetti,

La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie. Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione [9].

Per concludere che

la partecipazione è un esercizio complesso di democrazia reale. Non ce la regala nessuno e non è un optional. Va costruita pazientemente sulla conoscenza, sulla responsabilità, sulla distinzione dei ruoli, sulla trasparenza [10].

Con la stessa pazienza con la quale vanno ricostruite la politica e la democrazia.

[1]Si veda: P.L.Crosta, La politica del piano, Franco Angeli, Milano 1995; L. Bobbio, La democrazia non abita a Gordio, Franco Angeli, Milano 1996-

[2] N. Holec, G. Brunet-Jolivald, Go uvernance: dossier documentaire, Direction generale de l'urbanisme, de l'habitat et de la construction, Centre de Documentation de l'Urbanisme, Paris 1999.

[3] Ibidem.

[4] A. Bagnasco e P-J. Le Gales, cit in Holec, Brunet, op. cit.

[5] G. Marcou, F. Rangeon e J-L. Thiebault, cit. ibidem.

[6] Ibidem

[7]Si veda R. Lorenzo, La città sostenibile: partecipazione, luogo, comunità, Eléuthera, Milano 1998; La costruzione sociale del piano, a cura di P. Bellaviti, in Urbanistica n. 103/1995.

[8] S. Bassetti, Urbanistica partecipata, in: “Atlas - Rivista quadrimestrale dell’INU Alto Adige”, n. 22, dicembre 2001.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

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