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Storie e cronache esplosive di Pfas e Spannoveneti: un libro inchiesta di Cierre Edizioni su quello che si sta rivelando il più grandeinquinamento dell’acqua nella storia d’Europa. Un disastroambientale che ha contaminato un'area estesa del Veneto con i Pfas, ad opera soprattutto della Miteni, ex colosso industriale nella produzione di materiali idropellenti. (i.b.)

Il romanzo-premonizione dell'urbanista Enzo Scadurra pubblicato da Castelvecchi. Protagonista la Città Eterna, «un organismo in putrefazione dove Crisi Economica ed Epidemia hanno sconvolto ogni cosa [...] Eppure gira voce che da qualche parte in città esista una comunità rinata che, praticando una forma di comunismo primitivo, ha trovato una nuova speranza» (i.b.)
Qui la recensione di Alberto Olivetti da il Manifesto.

E' una rivista online open access di studi urbani per approfondire attraverso un approccio transdisciplinare le trasformazioni urbane, affrontando temi quali periferie, spazio pubblico, differenze, pratiche di riappropriazione/rigenerazione, politiche urbane, nuovi conflitti urbani, produzioni culturali e diseguaglianze. Qui il link (i.b.)

Recensione al libro «Housing for Degrowth» che parte da una giusta critica della predominante narrazione di un abitare che consuma suolo, sempre più carente di spazi pubblici, e comunque incapace di soddisfare la domanda di persone in balia di un mercato del lavoro selvaggio. (m.p.r.)

Il libro uscito qualche mese fa affronta «le principali sfide dell'abitare: alloggi inaccessibili, insostenibili e anti-sociali» sostenendo la ristrutturazione piuttosto che la demolizione e affrontando le controversie sull'urbanizzazione del dibattito interno al movimento della decrescita, sul decentramento e sul localismo.
Sulla critica al capitalismo e al modello di sviluppo corrente si veda di Ilaria Boniburini Letture sulla decrescita. Sul diritto alla città si veda di Mauro Baioni, Ilaria Boniburini, Edoardo Salzano, La città non è solo un affare. Su eddyburg altri articoli sono raggiungibili digitando nel "cerca" la parola "decrescita". (m.p.r.)

Casa dolce casa. Di proprietà, in un quartiere per bene, col videocitofono e di giorno il portiere. Balcone, terrazzo, ma - osiamo! - un giardino col prato curato. Siepe, muretto e porta sicura per blindarsi al riparo da sguardi indiscreti a guardare qualcosa di discreto in tv. Posteggio comodo davanti al portone, box o posto auto per il suv di famiglia - chiaramente, s’intende, padre, madre e figli biondi.

Così appare l’abitare proposto dalle pubblicità di mutui e assicurazioni, serie televisive, romanzi e riviste patinate. Un sogno da realizzare? Non per gli autori e le autrici del libro Housing for Degrowth (Abitare per la decrescita, Routledge, 2018, a cura di Anitra Nelson e François Schneider). Questo modello viene denunciato come la narrazione dell’abitare in una società della crescita: una narrazione, cioè, utile solo a far andare avanti l'economia, ossia a giustificare affari e profitti (monetari, per pochi) ad ogni costo (sociale, economico e ambientale, da sobbarcarci tutti/e).

In Italia (ma non solo) questa narrazione è servita a industrializzare il Paese nel dopoguerra, col settore edilizio motore trainante del celebre boom economico e con la presunta solidità del mattone protagonista indiscussa dei risparmi di operai, imprenditori e travet. Ma i giovani d’oggi sono sempre più poveri e più anziani di quelli degli anni ‘60: con la sparizione dell’edilizia pubblica e la precarizzazione del lavoro, questa narrazione dell’abitare assume contorni diversi, e non sembra in fondo poi tanto auspicabile.

Non a livello individuale: un po’ perché anche chi sembra emanciparsi dall’affitto o da altre forme di abitare precario s’ingabbia nel meccanismo del debito e del lavoro ai tempi del Jobs Act (salvo lasciti di famiglia, deve cioè rimanere senza sosta e a qualsiasi condizione nel selvaggio mercato del lavoro pur di ripagare il mutuo senza farsi confiscare l’agognata casa) e un po’ perché sempre più spesso obbliga a passare buona parte della vita nel traffico di un abitacolo o su inesistenti mezzi pubblici per raggiungere e vivere nei luoghi né urbani né rurali delle nuove urbanizzazioni incontrollate - senza servizi e senza spazi pubblici così come senza i pregi di una vera campagna. Certo, a quel punto la casa può apparire un miraggio, il divano una culla, in cui anestetizzarsi dopo una giornata di stress e di lavoro. Ma a quale prezzo?

Se non è auspicabile a livello individuale, questa narrazione dell’abitare lo è tantomeno a livello collettivo: consuma suolo fertile a ritmi spaventosi coprendolo di cemento (spesso, tra l’altro, “tagliato” con i rifiuti cremati negli inceneritori), frammenta ecosistemi umani e non umani e contribuisce alla crisi ecologica generale (dunque anche sanitaria) col taglio di vegetazione, l’uso di risorse scarse e il rilascio di emissioni durante la costruzione, per il riscaldamento e attraverso gli oggetti acquisiti a riempire sempre più transitoriamente lo spazio. Il tutto senza risolvere minimamente le emergenze abitative delle città.

D'altra parte, infatti, la città storica viene smantellata, usata come oggetto di investimento finanziario ed estrazione di profitto, subisce gentrificazione, turistificazione, disneyficazione, da Lisbona a Venezia, da Palma a Barcellona.

Come si può di fronte a tutto questo costruire una narrazione alternativa? È questo il principale compito che il libro si pone, unendo i puntini di esperienze che già tentano di andare oltre il modello dominante del “produci, consuma, crepa”, inserendole nel dibattito sulla decrescita - l'idea che non solo in un pianeta limitato non si può crescere all’infinito, ma che, ridistribuendo ricchezza, lavoro e risorse si può vivere meglio tutti/e anche con meno: liberandosi dall’ossessione per la crescita e dalla corsa alla produzione, al possesso e al consumo di merci (e dallo sfruttamento, dalla frustrazione e dall’inquinamento che ciò comporta), è possibile infatti ristabilire una società più equa ed ecologicamente sostenibile (Rif. www.decrescita.it, www.decrescitafelice.it).

Organizzato in sette parti e in venti capitoli firmati da un paio di dozzine di penne, il libro affronta questa sfida con una grande varietà di contributi su proposte nella maggior parte dei casi concretamente esistenti, seppur sperimentate per ora solo in piccola scala. Abitare in un’ottica ‘decrescente’ significa quindi affrontare le sfide chiave di un abitare che è oggi, come chiariscono da subito i curatori, “spesso inaccessibile, insostenibile e antisociale”. Si parla di forme di vita collettiva, in cui l’abitare diventa il primo passo di un modo diverso di relazionarsi con la società e con la sua economia e di ricostruire comunità, ripensando vari aspetti del quotidiano, ivi compresi il lavoro e gli spazi pubblici. Da Roma a Barcellona, da Christiania a Copenaghen fino a Bangalore in India, vengono presentate esperienze di resistenza urbana e non (Elisabeth S. Olsen, Marco Orefice e Giovanni Pietrangeli; Claudio Cattaneo; Natasha Verco; Mara Ferreri; Lina Hurlin; Anitra Nelson): dal diritto alla città al diritto al metabolismo (ossia i flussi, spesso suddivisi in maniera iniqua, di energia, materiali e rifiuti), dall’auto-ristrutturazione di case popolari alle occupazioni di stabili abbandonati che mettono insieme città e campagna, da forme di co-abitazione eco-collaborativa fino ad esperimenti di vita non monetaria e di proprietà collettiva.

Di fronte al suolo sempre meno disponibile e agli impatti sociali e ambientali di case grandi, un’altra proposta è rappresentata ad esempio da un possibile limite massimo di superficie abitativa pro capite socialmente accettabile (Harpa Stefandottir e Jin Xue). Hans Widmer, François Schneider e Ted Trainer propongono nei loro capitoli dei modelli di organizzazione territoriale del mondo a partire di piccoli quartieri e paesi compatti di circa 500 abitanti con “grandi opportunità di differenziazione personale e iniziative collettive di festa” che ci offrono delle visioni di un bel mondo altro. Mentre questa proposta è utopica a livello globale, alcuni quartieri funzionanti secondo questi principi in Svizzera esistono, testimoniando livelli interessanti di vitalità urbana

In alcuni capitoli (Jin Xue; Aaron Vantsintjan; Andreas Exner; Karl Krähmer; etc.) si snoda poi un dibattito sulla questione città vs. campagna. Sarà più sostenibile e democratico un sistema territoriale organizzato attorno a delle città dense e compatte o dovremmo piuttosto pensare a un futuro di ecovillaggi? Di sicuro non possiamo ignorare la necessità di porre un freno all’inesorabile penetrazione delle città nelle campagne - garantendo uno spazio vitale per la produzione del cibo e per la rigenerazione ecologica essenziale tanto per la biodiversità che per la nostra salute. Anche pensando a forme abitative e materiali edili più sostenibili e a noi più congeniali, non possiamo non considerare ciò che già abbiamo di costruito e ancora utilizzabile, dai tanti quartieri urbani sottopopolati fino agli innumerevoli insediamenti rurali o montani in via di spopolamento.

Forse potremmo concludere che la risposta alla domanda di qualche riga fa potrebbe semplicemente essere “dipende”: non è una scelta da fare in astratto e in generale, non può prescindere cioè dal singolo luogo o territorio e da chi lo vive interrogandosi sul suo futuro. Una scelta che forse può portare a città compatte tanto quanto a (eco)villaggi legati a una campagna che produce cibo localmente e in modo ecologico, però difficilmente potrà includere l’urbanizzazione diffusa organizzata attorno a villette, centri commerciali e svincoli autostradali che dal possesso individuale dell’automobile difficilmente potranno prescindere e la cui trasformazione ci pone una delle sfide maggiori.

La proposta politica dei curatori è infine quella del localismo aperto (‘Open Localism’) - vale a dire riconoscere un maggior rilievo e una maggiore autonomia ai singoli territori, ma senza rinchiudersi di fronte all'altro, senza rifuggire il dialogo ma anzi aprendosi al diverso (attenzione, dunque, stiamo parlando dell’esatto opposto del sovranismo).

Tutti questi esempi non sono forse nuovi se presi singolarmente. Il merito del libro è quello di metterli insieme e di dimostrare come ogni proposta da sola rischia di essere cooptata dalle forze del mercato. Senza separare la questione sociale da quella ecologica, il volume “Housing for Degrowth” (con le sue sette presentazioni italiane con università, associazioni e movimenti già avvenute a Trieste, Venezia, Torino e Roma) apre quello che consideriamo un esercizio pratico per un dibattito fondamentale: riconoscere in queste esperienze un denominatore comune per iniziare finalmente a costruire insieme una storia diversa, una storia nuova, a partire dalle vertenze esistenti nelle nostre città.

Materiale aggiuntivo (in inglese):
Il sito web ufficiale del libro
Il blog del tour di presentazione in treno/bici
Il sito web della curatrice Anitra Nelson

Una rivista sulla polis che vuole diventare, essa stessa, spazio pubblico di confronto sulle idee e di proposte per la città. Noi la seguiremo con tutto l’interesse che merita, perché Genova ci riguarda. (m.b.)
Quello che accade a Genova riguarda tutti noi. Il discorso pubblico, come si sa, è polarizzato sulla ricostruzione del ponte sulla val Polcevera, collassato il 14 agosto scorso, ed è dominato dall’urgenza: ogni minuto che passa è tempo perso. Ma sotto e attorno al ponte c’è una grande città - la quarta per popolazione e il primo porto d’Italia. Un territorio che attraversa una lunga e incerta transizione produttiva per il quale non basta il ripristino infrastrutturale. Le risposte che si daranno e, soprattutto, quelle che non si daranno - per convenienze tattiche o per inettitudine - alle sue domande sociali ed economiche segneranno le traiettorie future. Con questo pensiero fisso è nata una nuova rivista che si è voluto chiamare La città. Una rivista sulla polis che vuole diventare, essa stessa, spazio pubblico di confronto sulle idee e di proposte per la città.
Quello che ci proponiamo - si legge nella presentazione on line - è di costruire uno spazio che esca dai luoghi comuni, dalla propaganda, dal diffuso conformismo del verde pesto e del rosso carpet. Che contribuisca a raccontare ciò che da tempo non è più guardato: dal lavoro alla scuola, ai quartieri, all’innovazione sociale. La diffusione delle povertà. Con l’obiettivo di contribuire alla definizione di un nuovo progetto per Genova. Senza nessuna aspirazione a definire una “linea” della rivista o un gruppo di consenso elettorale, ma a essere strumento di una sinistra plurale, anche disomogenea, che ha voglia di capire e misurarsi con il reale. Potremmo dire quella “sinistra che non c’è” e di cui in molti sentiamo la mancanza. O quella sinistra che ha compreso che la sconfitta è stata prima sociale e culturale e solo dopo politica.
Chi è interessato può leggere sul sito della rivista gli editoriali del direttore, Luca Borzani, e può abbonarsi. Noi seguiremo con tutto l’interesse che merita, perché Genova ci riguarda.

il manifesto, 3 maggio 2018. «Napoli, promemoria. Storia e futuro di un progetto per la città (Donzelli, pp. XII-116, euro 18), il libro di Vezio De Lucia, uscito per Donzelli. La narrazione di una storia fatta di alti e bassi, che tende sempre al riscatto» (m.p.r.)

Da Napoli si fugge e a Napoli si ritorna. È bastato che l’originario Progetto Bagnoli tornasse alla luce, che Vezio De Lucia, uno degli ultimi rigorosi e appassionati urbanisti che ritiene che questa disciplina possa ancora contribuire a cambiare il volto delle nostre città, avesse un sussulto di emozioni: adgnosco veteris vestigia flammae, ovvero sentisse ridestarsi il fuoco, mai sopito, dell’antica passione per la sua città.

De Lucia, proprio come, per altri versi, Ermanno Rea in Napoli Ferrovia, torna nella sua città a descriverci la sua storia recente, dove vi convivono violenza e dolcezza, in un libro: Napoli, promemoria. Storia e futuro di un progetto per la città (Donzelli, pp. XII-116, euro 18), con la bella prefazione di Tomaso Montanari. L’urbanistica da complice del neoliberismo e dal linguaggio oscuro, qui, con De Lucia, «ha il dono rarissimo di parlare in modo tale da far capire anche al più ignaro dei destinatari che il discorso sulla città è un discorso che lo riguarda personalmente».

Un libro, anzi un libricino come lo definisce Vezio con la sua proverbiale modestia, che ha il pregio di svelare le molte contraddizioni e i molti luoghi comuni che avvolgono la città. In primis il Prg del 2004 che è l’unico piano di una grande città che non prevede consumo di suolo. Eppure, dice De Lucia, se ne parla poco; forse perché siamo a Napoli. Promemoria è il sottotitolo di un racconto che si snoda dalle vicende del sindaco Valenzi (anni Settanta), al «primo» Bassolino, fino a Luigi De Magistris che ha difeso il progetto di Bagnoli, vera ossessione quasi esistenziale dell’autore. Ed è anche il racconto della storia «del successo di un gruppo di una squadra, di una comunità; l’ufficio urbanistico, i ragazzi del Piano, il Partito comunista sono i veri eroi collettivi di questo libro».
È il racconto di una città che tenta il riscatto da una immagine stereotipata che altri gli hanno cucito addosso. Col sindaco Valenzi Napoli torna a essere una capitale di cultura internazionale; elabora, prima in Italia, un piano delle periferie (1980). Poi l’occasione del terremoto si trasforma in una grande attività di ricostruzione per opera dei «ragazzi del piano», sottraendolo agli appetiti della camorra e dei costruttori.

Il 15 dicembre del 1993, in linea con la stagione dei Sindaci, viene eletto Antonio Bassolino e Vezio diventa assessore all’urbanistica. Con il G7 Napoli cambia ancora volto, viene pedonalizzata, contro ogni previsione, piazza del Plebiscito. Racconta De Lucia che prima dell’inaugurazione gli tremavano i polsi per quello che sarebbe potuto accadere. Invece, si rivelerà un successo clamoroso.
Un cenno a parte merita Scampìa simbolo della crisi sociale e abitativa di Napoli, un quartiere di 50mila abitanti, dove si concentrano povertà, disoccupazione e malavita. In effetti, più che di Scampia si dovrebbe parlare delle Vele che sono il suo nucleo abitativo più noto e malfamato, diventato poi celebre con il romanzo di Saviano. De Lucia non è convinto della sua demolizione e ricorda che: «Scrissi su il manifesto che la festa per la demolizione della vela F (dicembre 1997) non era la mia festa». Ma quello che non si dice è che Scampia non è più Gomorra: è attraversata da una vitalità prorompente. Si colgono le conseguenze del lavoro di decine di associazioni e comitati di ogni specie, laici e religiosi, come in poche altre città italiane.

La riconversione di Bagnoli (per cui Vezio si è battuto da sempre senza risparmiarsi) diventa il simbolo di rinnovamento di Napoli. Poi nel 2011, con l’elezione di De Magistris, per Bagnoli si apre una nuova stagione fra alterne vicende.

Il libro si conclude proprio sul progetto Bagnoli che, per De Lucia deve avere un’unica risposta: l’apertura al pubblico del parco, subito, con un allestimento essenziale, mentre vanno avanti i lavori di bonifica e - contemporaneamente - di trasformazione del territorio, sotto gli occhi dei cittadini informati e consapevoli. È giusto concludere con le parole di Tomaso Montanari: «un libro che, come tutto il lavoro e tutta la vita di Vezio De Lucia, è un potente, e concretamente fondato, atto di fede nella storia e nella verità».

Casa della cultura Milano. Un intervento, e insieme un passo avanti nel dibattito aperto dalla presentazione critica del filosofo dell'urbanistica Francesco Ventura a un prezioso volume curato da Anna Marson sulla sua esperienza sul paesaggio della Toscana

Un testo è sempre definito e ridefinito dalle relazioni che instaura con i lettori. Nella scrittura dei piani si è guidati da chi si immagina che possa leggerli e dai modi in cui è probabile che li si legga. Dal "lettore ideale" disposto a diventare "cittadino ideale" nella lettura di Geddes proposta da Ferraro (1998), a chi si accosta ai piani in modo discontinuo e frammentario, in arene dove si lotta per imporre il proprio punto di vista o in uffici nei quali ci si occupa dell'attuazione di singole parti. Nella scrittura dei piani, spesso si usa una prosa difensiva, per evitare di segnalare incertezze o rischi riguardo al futuro. Nei testi dei piani, i pubblici non saranno mai volubili e miopi, i leader mai confusi e incerti, le burocrazie mai incompetenti o ignoranti (Mandelbaum 1990).

Il libro curato da Anna Marson - La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il Piano della Toscana (Laterza, 2016) - non è stato scritto così, perché ha un intento diverso. Il volume, come espresso con chiarezza dalla curatrice nelle note introduttive, «approfondisce, attraverso una serie di contributi originali scritti appositamente (…), i metodi impiegati per leggere il paesaggio e le tecniche messe al lavoro nel complesso percorso di costruzione del piano paesaggistico della Toscana». Sollevando problemi, ponendo domande, affidando a più voci di diversa matrice disciplinare la ricostruzione di un percorso "faticoso e avvincente", che ha coinvolto studiosi delle cinque principali Università toscane afferenti al Centro Interuniversitario di Scienze del Territorio (CIST), il libro induce a (tornare a) leggere il piano paesaggistico della Toscana in modo riflessivo, con un atteggiamento aperto al confronto e all'apprendimento. Coerentemente con l'intento dichiarato e rimarcato dal sottotitolo, il volume offre molte suggestioni e utili indicazioni a chiunque vi si accosti con la curiosità di ricercatori e professionisti interessati a comprendere come tale percorso si sia sviluppato nella pratica: come, nella sperimentazione multidisciplinare che lo ha connotato, ci si sia misurati con il carattere polisemico e sfuggente del concetto di paesaggio, come si siano fatti interagire e convergere differenti linguaggi, chiavi di lettura, metodi di analisi, e quali esiti, inevitabilmente parziali, provvisori, incerti, si siano conseguiti.

Non è possibile rendere conto in poche righe della ricchezza e profondità dei temi affrontati nei 19 saggi raccolti nel volume. All'ampia Introduzione della curatrice, seguono i saggi di Paolo Baldeschi, responsabile scientifico degli studi affidati al CIST, e di Ilaria Agostini e Claudio Greppi. Questi forniscono prospettive ed elementi interpretativi utili a comprendere il contesto entro il quale si sono sviluppate alcune fondamentali scelte del piano: nel primo contributo sono indagati i fattori culturali, politico-istituzionali e socio-economici che, sin dalla seconda metà degli 1980, hanno favorito la progressiva maturazione in Toscana dell'interpretazione identitaria e strutturale del territorio che caratterizza il piano di indirizzo territoriale con valenza di piano paesaggistico: dal piano regolatore generale di Siena di Bernardo Secchi ai piani territoriali di coordinamento delle province di Firenze, Siena, Arezzo e Prato ai quali partecipa il Dipartimento di urbanistica e pianificazione del territorio della Università di Firenze (da Cusmano a Di Pietro, a Magnaghi); il secondo contributo rende conto della pluralità di criteri e approcci sui quali si è fondata la delimitazione degli ambiti di paesaggio richiesta dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. Il cuore del volume è costituito da 14 testi scritti da studiose e studiosi di matrice disciplinare diversa, impegnati nella ricostruzione dei processi di territorializzazione, nella indagine sulle forme di rappresentazione del paesaggio, nella analisi strutturale del territorio, e nella definizione di alcuni strumenti essenziali per garantire l'operatività del piano. Ciascun saggio restituisce le premesse e contenuti salienti del lavoro di indagine, facendo emergere il terreno comune di confronto metodologico, analitico e progettuale con gli altri saperi.

Il volume è chiuso da due Postfazioni affidate ad autori esterni al gruppo di lavoro: Salvatore Settis e Bas Pedroli. I loro contributi consentono di allargare l'angolo visuale e di osservare il piano paesaggistico toscano, nel primo caso, alla luce delle difficili convergenze ricercate nella stesura del Codice dei beni culturali e del paesaggio fra Stato titolare del vincolo paesaggistico e Regioni titolari della pianificazione; nel secondo caso, in relazione agli elementi di innovazione che il piano stesso esprime quando posto a confronto con le esperienze in atto in altri paesi europei.

Nelle righe che seguono proverò a enucleare alcuni spunti di riflessione, necessariamente limitati e parziali, fra i tanti suscitati dalla lettura del volume.

Innovazioni problematiche

I 'nuovi' piani paesaggistici previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio si misurano con innovazioni rilevanti introdotte dalla Convenzione europea del paesaggio e dal Codice stesso. Essi dovrebbero favorire il superamento di un approccio alla tutela del paesaggio essenzialmente affidato ai vincoli imposti per legge o per decreto su parti di territorio sottoposte a uno speciale regime autorizzativo che ha finito per far prevalere la componente burocratico-amministrativa su ogni altra prospettiva. Un approccio che ha dimostrato tutti i suoi limiti di efficacia, fino al punto da rendere non sempre facilmente distinguibili i paesaggi protetti da tutti gli altri. L'evoluzione normativa ha determinato un mutamento d'identità dell'interesse paesaggistico. Ora riferimento essenziale è il "paesaggio", e non il bene paesaggistico - argomentano Marzuoli e Vettori. Il Codice, pur mantenendo la distinzione fra paesaggio e beni paesaggistici, attribuisce priorità alla pianificazione (Settis, p. 275) e, in accordo con la Convenzione europea del paesaggio, richiede che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono.

Tale prospettiva pone alcuni problemi, ai quali opportunamente l'introduzione della curatrice dedica ampio spazio. Fra questi, il sovraccarico di compiti che grava sui piani paesaggistici regionali, dovuto sia alla mancanza di politiche pubbliche in materia di paesaggio sia alle resistenze, all'incapacità o alla scarsa abitudine a integrare il paesaggio nelle altre politiche che su di esso possono avere un'incidenza diretta o indiretta. Una siffatta integrazione è esplicitamente richiesta dalla Convenzione europea del paesaggio, che non manca di indicare in modo puntuale le materie nelle quali le parti si impegnano a garantirla: politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e (…) quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico (art. 5d).

La grande distanza che separa i principi stabiliti dalla Convenzione europea del paesaggio e le politiche messe in opera nei diversi settori che incidono sulle trasformazioni del paesaggio - argomenta Marson - è un problema che riguarda sicuramente l'Italia, ma non solo. Lentezze, difficoltà, incertezze, riluttanza nell'attuazione della Convenzione europea del paesaggio sono osservabili in molti stati e regioni d'Europa (Pedroli). D'altra parte, l'attenzione al paesaggio è carente anche nelle politiche comunitarie che maggiormente incidono sulla realtà del territorio e dell'ambiente rappresentata nel paesaggio. Si pensi, fra tutte, alle politiche in materia di agricoltura e ambiente, nelle quali l'Unione Europea esercita competenza concorrente con quelle degli Stati membri, e dunque legifera e adotta atti giuridicamente vincolanti. Promuovere ricerche che indaghino in modo sistematico e approfondito le trasformazioni del territorio e del paesaggio generate direttamente e indirettamente dalla combinazione di strumenti e politiche settoriali, fornirebbe elementi utili per individuare le azioni, gli attori e le risorse necessarie per tutelare, valorizzare e riqualificare i paesaggi e riflettere con maggiore consapevolezza su potenzialità e limiti di efficacia dei nuovi piani paesaggistici.

Leggere, interpretare e rappresentare il paesaggio

Le domande con le quali si è dovuto misurare il gruppo di ricerca nella elaborazione del piano paesaggistico, sollevate dalla curatrice in vari paragrafi della sua introduzione, costituiscono filo conduttore che connette la gran parte dei contributi scientifici raccolti nel volume. Per questo meritano di essere largamente riportate. «Come affrontare (…) una lettura del paesaggio non solo estetico-percettiva, e dunque esposta ai rischi dell'apprezzamento soggettivo e datato, ma capace di indagare le relazioni strutturali alla base dei paesaggi che noi vediamo? Come individuare gli ambiti di paesaggio? Come passare dalla lettura alla scala regionale a quella di maggiore dettaglio degli ambiti? Come rapportarsi alle dinamiche di lungo periodo, e alle trasformazioni in corso? Come impostare una cornice normativa in grado di tenere insieme disciplina dei vincoli e disciplina di tutto il territorio regionale?».

Sono domande ineludibili per affrontare in maniera consapevole le sfide poste dalla Convenzione e dal Codice. Questi obbligano ad allargare lo sguardo dal singolo bene al contesto, cogliendo le interdipendenze che legano fattori naturali e umani; a estendere l'attenzione all'intero territorio regionale e, allo stesso tempo, a puntarla sulla varietà di paesaggi nei quali esso si articola (a partire dagli ambiti di paesaggio); a interrogare i tempi lunghi della storia ricercandovi persistenze e permanenze ma anche discontinuità e brusche fratture.

Gli approfondimenti concettuali e i chiarimenti metodologici offerti dai saggi che compongono il volume permettono di dare risposte non generiche a queste domande. Questo - mi pare di poter sostenere - grazie a due concomitanti condizioni. Da un lato, la tensione progettuale, e la conseguente ricerca dell'unitarietà dell'atto culturale e operativo funzionale alla costruzione del piano, non ha comportato la rinuncia dei ricercatori all'utilizzo dei propri specifici strumenti disciplinari. Dall'altro lato, l'aver saldamente 'situato' concetti e metodi nel percorso di elaborazione del piano ha consentito di valorizzare la specificità delle diverse discipline, costringendole però, nello stesso tempo, a interagire in maniera profonda. Le rappresentazioni del territorio e del paesaggio, purtroppo drasticamente selezionate per la pubblicazione, sono di grande importanza a tal fine. Il metodo adottato ha fatto sì che esse agissero "in arene interattive in cui i diversi approcci disciplinari si confrontano". La stessa efficacia delle rappresentazioni è stata misurata in base alla capacità di "rendere possibile il dialogo fra diversi paradigmi descrittivi" (Lucchesi, p. 103).

Nonostante il carattere 'situato' della sperimentazione, le innovazioni proposte assumono valenza più generale, inducendo a riflettere sull'esperienza chi si sia già cimentato o si stia ancora cimentando in Italia con gli specifici profili della pianificazione paesaggistica delineati dal Codice, e rivelandosi di notevole utilità anche nel panorama europeo, come è testimoniato dal contributo di Pedroli. Questa valenza più generale si manifesta nonostante il carattere singolare dell'esperienza di pianificazione toscana, evidenziato soprattutto da Baldeschi: non solo per gli accennati precedenti ai quali si è potuta ancorare l'interpretazione strutturale e identitaria del territorio alla base del piano, ma anche per l'eccezionalità della situazione politica entro la quale l'esperienza è maturata.

Il territorio, per troppo tempo ridotto a spazio muto, inanimato, attraverso la trasformazione in paesaggio, vuole tornare a parlare, soprattutto ai suoi abitanti. Da oggetto, esso diventa "soggetto" nello scritto di Paolo Baldeschi, "neoecosistema ad alta complessità" nel saggio di Magnaghi. In entrambi i casi è interpretato come sistema vivente che si trasforma, evolve continuamente e necessita di cura costante. L'approccio strutturale alla conoscenza del paesaggio consente di coglierne la dinamica complessiva e le regole generative e coevolutive nella longue durée, e di intendere le "invarianti strutturali" - attinenti ai caratteri idro-geo-morfologici, ai caratteri ecosistemici dei paesaggi, al carattere policentrico e reticolare dei sistemi insediativi, ai caratteri morfotipologici dei sistemi agroambientali dei paesaggi rurali - non quali oggetti di valore eccezionale ma quali regole (spesso non scritte) riconosciute grazie alla interpretazione dei caratteri delle invarianti, e da seguire nelle trasformazioni ordinarie del territorio-paesaggio per conservarne o elevarne la qualità. L'approccio strutturale rompe l'isolamento nel quale i beni paesaggistici erano stati per lungo tempo confinati e favorisce un dialogo, che richiede ancora approfondimento e sperimentazione, fra quelle limitate, speciali parti territorio che si cercava (e si cerca) di difendere mediante i vincoli, e il contesto territoriale nel quale esse sono inserite, che inevitabilmente condiziona ogni possibilità di tutelarle e valorizzarle.

Fonti documentarie, bibliografiche, cartografiche, iconografiche sono state interrogate con ampiezza e profondità nel percorso di costruzione del piano per mettere in relazione passato e futuro, storia e progetto, per indagare le capacità dei territori di autoprodurre legami profondi fra popolazioni, attività e luoghi e le ragioni della perdita di qualità relazionali. Questa interrogazione delle fonti, nell'elaborazione dei piani svolta (e di rado) senza alcun rigore, è stata affidata a contributi specialistici: dall'indagine geostorica di Anna Guarducci e Leonardo Rombai, alla ricostruzione storico-archeologica di Franco Cambi e Federico Salzotti, alla ricerca storico-artistica di Valeria E. Genovese. Tratto comune di questi contributi è l'ampiezza e profondità della prospettiva spazio-temporale assunta per indagare i paesaggi, e la capacità di sottrarre l'analisi a ogni logica enumerativa, classificatoria, 'filatelica', che porta a concentrarsi sui singoli oggetti isolandoli dal contesto che li ha prodotti e con il quale essi intimamente interagiscono.

Il tema della rappresentazione del paesaggio occupa uno spazio cospicuo nel volume. Alle rappresentazioni non sono affidate solo funzioni attinenti alla sfera tecnica. Ad esse è assegnata anche una essenziale funzione culturale e sociale. La cartografia e l'iconografia del paesaggio partecipano alla costruzione del 'racconto' che il piano ha bisogno di creare per diventare patrimonio collettivo. Un racconto che invita a rileggere con sguardo critico i paesaggi contemporanei e con sguardo curioso i paesaggi storici, a scoprire paesaggi perduti e paesaggi che resistono ma che l'abitudine, l'indifferenza e la colonizzazione delle menti impediscono di riconoscere nella loro complessità di relazioni spazio-temporali. Un racconto che persuade a ricercare nelle regole statutarie messe in luce dalle rappresentazioni del piano la strada per produrre nuovi paesaggi di qualità.

La rappresentazione cartografica del paesaggio riveste un ruolo cruciale per indagarne e comunicarne caratteri, dinamiche, relazioni. La sfida, in un atto pubblico qual è un piano, consiste nella capacità di mostrare "attraverso la cartografia i caratteri del paesaggio (insieme: la sua evidenza fenomenologica e le regole che lo strutturano) (…), senza allontanarsi dal rigore della topografia e della costruzione metodica dei materiali descrittivi." (Lucchesi, p. 102). Per la ricerca sulla iconografia del paesaggio, la sfida è raggiungere l'obiettivo "di trasmettere con efficacia la conoscenza dei processi trasformativi che generano i diversi paesaggi regionali, di educare a una lettura consapevole del paesaggio in cui si vive, di immaginare con maggiore competenza e sensibilità i successivi passi del processo paesaggistico in ineludibile rapporto con il pregresso" (Genovese, p.114).

La sperimentazione delle norme figurate, della quale rende conto il contributo di Poli e Valentini evidenziandone le specificità rispetto ad altre esperienze italiane ed europee, mira a rafforzare la funzione euristica, argomentativa e orientativa della norma scritta, senza incidere sulla sua valenza prescrittiva e senza pretendere, come in altre stagioni di pianificazione, di proporre modelli e prefigurare soluzioni progettuali.

L'efficacia di un piano dipende - ci ricorda Massimo Morisi nel suo saggio - da molteplici circostanze esogene e dalla sua genesi, ed è legata alla legittimazione che al piano stesso è conferita dal contesto politico e culturale. L'osservatorio regionale del paesaggio previsto dal Codice può acquisire un ruolo cruciale nella messa in opera del piano, quale snodo tra rappresentanza politica e partecipazione civica ai fini dell'effettività del piano stesso. Questo, purché l'osservatorio sia concepito non come «un mero ufficio regionale» e «un'apposita etichetta burocratica» ma come struttura aperta e dinamica le cui funzioni e attività traggano alimento e vitalità da «una pluralità di osservatori locali con esso funzionalmente e organizzativamente interrelati». Ritengo che a tale sistema di osservatori dovrebbe essere affidato soprattutto il compito di attivare quella «conoscenza affettiva» del paesaggio che, partecipata e condivisa, maggiormente collabora alla sua tutela e alla sua progettazione rispettosa" (Genovese p. 126). Carlo Donolo, che ha dedicato gran parte del suo percorso di ricerca allo studio dei beni comuni, ci ha fatto comprendere a fondo l'importanza di questo compito e il ruolo cruciale delle istituzioni, usando anche espressioni forti per essere meglio compreso da un pubblico vasto: «solo la (…) condivisione garantisce [ai beni comuni] la riproduzione allargata nel tempo. La rilevanza dell'aggettivo "comune" viene enfatizzata dal dato di fatto che i processi dominanti oggi a livello locale e globale sono invece centrati su appropriazione, privatizzazione e sottrazione alla fruizione condivisa di tantissimi di questi beni. Da qui l'inevitabile conflitto sullo statuto dei beni comuni, un tema questo che - tanto per capirci - ha oggi lo stesso rilievo che potevano avere a metà Ottocento la lotta di classe e il socialismo» (Donolo 2011).

Una sfida di tale portata non può certamente essere affrontata restando intrappolati nei recinti della gestione burocratico-amministrativa dei beni paesaggistici o di un governo del territorio essenzialmente affidato a strumenti regolativi. Essa richiede forme di gestione attiva del paesaggio, capaci di mobilitare una pluralità di conoscenze, progettualità, risorse e attori in iniziative di tutela, valorizzazione e riqualificazione differenziate, che esaltino le specificità di ciascun paesaggio e si integrino strettamente alle politiche di sviluppo locale.

Riferimenti bibliografici Carlo Donolo, I beni comuni presi sul serio, 31 maggio 2010. Editoriale per labsus - il laboratorio per la sussidiarietà (www.labsus.org)
Ferraro, G. (1998)
Rieducazione alla speranza. Patrick Geddes planner in India, 1914-1924, Jaca Book, Milano.
Mandelbaum, S. J. (1990)
Reading plans. "Journal of the American Association", 56, 350-356.


l'articolo di Angela Barbanente e i testi di Francesco Ventura e di Anna Marson sono tutti raggiungibili qui, nel sito della Casa della cultura di Milano

casadellacultura, 15 dicembre 2017.«Se l’urbanità è illuminata dalla bellezza, senza l’urbanità la bellezza civile è impossibile». (c.m.c)

Giancarlo Consonni, Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà, Solfanelli, 2016

Il libro Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016) esprime, in modo lucido e con lo stile proprio dell'Autore, la posizione di Giancarlo Consonni sulle trasformazioni della città - specie italiana - nell'ultima fase della storia, sulle cause e le conseguenze di questa trasformazione, mettendo in evidenza quanto di positivo ha caratterizzato - e oggi drammaticamente perduto - la città, con accenni di limitata speranza. Il punto di partenza è un'osservazione del passaggio da una realtà fisica e sociale che era appropriato chiamare 'città', a una realtà di dispersione urbana, senza più nulla di connotabile in modo corrispondente alla struttura fisica della città giunta a noi dalla tradizione di secoli. Con lo stimolo del pensiero di Consonni, riteniamo di esprimere il nostro pensiero sia sulla dispersione urbana e le sue prospettive, sia - in termini ovviamente di estrema sintesi - sulla qualità della città, sul suo divenire e il suo possibile futuro, oltre ad alcune idee per politiche urbane forse perseguibili.

Dalla seconda metà degli anni Cinquanta - a partire dall'immediato Sud Milano e poi verso Nord, nella Brianza, a Ovest, nel Magentino, Abbiatense, Castanese, e a Est, verso Bergamo, nell'area della Martesana - iniziò un grande sviluppo residenziale e industriale. Non tra centri chiusi in se stessi, ma con fortissime interrelazioni. Questa vicenda della trasformazione urbana, economica, umana e sociale della Provincia di Milano in quella che in modo immediato e continuo nel tempo è stata definita "area metropolitana milanese" è stata descritta - anche col mio personale contributo - tantissime volte. Ritengo qui di enfatizzare che non abbiamo mai usato la parola 'metropoli' per indicare quella realtà. Quello che avevamo visto e di cui - studiosi e amministratori uniti insieme - eravamo consapevoli, era di essere di fronte a una realtà di insediamento umano in cui rimanevano presenti strutture e modi di vita ereditati dal passato, mentre ne sorgevano altri del tutto nuovi. E cito, come esempio di rotonda evidenza - la fine dell'agricoltura praticata fin all'interno dei borghi; il nascere e svilupparsi di attività produttive micro-industriali, talune delle quali poi venivano a estendersi nell'ambito urbano, dando luogo a problemi per la compresenza di funzioni che la cittadinanza - cui peraltro dava vita e dalla cui presenza traeva vantaggi - riteneva inaccettabili, incompatibili con le condizioni di vita considerate appropriate.

In quella realtà, in connessione con quelle modalità di crescita, e insieme al diffondersi di una cultura e consapevolezza urbanistica, vennero avviate pratiche di pianificazione, man mano sempre più diffuse. Vale a dire l'avvio di piani urbanistici che prevedevano la specializzazione territoriale per funzioni, ovvero l'azzonamento funzionale. Con l'avvento di un diffuso benessere, si ebbe la realizzazione di nuove residenze e di strutture per funzioni certo non nuove in assoluto, ma con la novità di una diffusione su grandi numeri: per lo sport, il divertimento, la cultura, l'istruzione superiore fino al livello dell'università. Con queste si ebbe anche la diffusione dell'automobile, sempre a livello di massa. Potrei fermarmi qui, prima della fase post-industriale in quest'area metropolitana, dove il dato più evidente è costituito dall'enormità dei flussi di persone, di merci, e di ogni altro bene.

Ora, quella che a suo tempo abbiamo definito, con comune diffuso consenso, "area metropolitana milanese" non è una realtà analoga a quella di Londra, né a quella di New York, e meno che mai a quella di metropoli come Città del Messico, Mumbai o anche solo Cape Town. Non lo è per dimensioni e nemmeno per assenza di polarità alternative al centro principale: la città per molti aspetti dominante da secoli. Infatti, se si passa da un riferimento generico a enormi insediamenti umani quali quelli citati alla realtà di aree metropolitane come quella di Milano - cui va il nostro preciso, puntuale riferimento - ci si può immediatamente rendere conto che, quanto meno per il momento, il confronto è improponibile. In quelle metropoli di varie decine di milioni di abitanti esiste un centro con valori estetici e architettonici significativi, conservati anche con cura dai governi locali. Questo centro, che in taluni casi è 'storico', in altri è la 'down-town' - tipica espressione dell'urbanistica contemporanea - che costituisce una piccola o piccolissima parte dell'agglomerato metropolitano.

Il resto, l'insediamento di decine di milioni di persone, è costituito da 'informal settlements', 'shanty towns' o 'bidonvilles', nelle denominazione dei diversi paesi. È mia precisa opinione e previsione che il fenomeno di espansione delle 'million cities' sopra indicate, come di molte altre nel mondo, continuerà nel tempo. Quali politiche razionali o quanto meno ragionevoli possano venire pensate in termini economici, sociali e anche urbanistici, per affrontare una situazione - che rispetto ai nostri standard di vita è considerabile semplicemente disastrosa - è un argomento che non intendo affrontare qui. Per quanto riguarda l'area metropolitana milanese si può certamente sottolineare che questa è assai più ampia di quella inclusa nel perimetro della ex-Provincia di Milano e che, se si vuole chiamarla 'città', credo proprio sia corretto e accettabile definirla 'città di città'. Possiamo cioè affermare che quella che è stata definita e posta come 'Città Metropolitana di Milano' sia da considerare - con una intuizione interpretativa che deriva da esperienze catalane e sudamericane - una 'città di città'.

Di fatto quest'area - che va da Novara a Bergamo, da Lodi al confine con la Svizzera - è formata da un insieme di diverse centinaia di insediamenti, ovvero: dai 'poli esterni' a Milano che sono appunto le città di Novara, Pavia, Lodi, Varese, Lecco, Como, Bergamo, Monza; da numerosi centri di medie e anche piuttosto piccole dimensioni; e da un cospicuo numero di paesi, anche rurali, ognuno con la sua storia, la sua cultura, le sue tradizioni. Per taluni aspetti conservate gelosamente. Certo, esistono forti relazioni tra questi centri e un'alta mobilità, specie per lavoro e funzioni eccezionali, o comunque di scala non banale e non risolubile alla scala di ogni singolo comune. E comunque, nonostante la complessità della rete dei flussi di persone e di merci, se osserviamo questa realtà, e cerchiamo di comprenderla, credo tutto sommato possibile adottare un modello gerarchico-gravitazionale. Questo per una pur controvertibile visione interpretativa complessiva. Ma se veniamo a osservare fisicamente la qualità di questi centri sul territorio, possiamo e dobbiamo riscontrare una significativa dispersione delle strutture fisiche, che - specie in determinate parti del territorio - impedisce di distinguere l'uno dall'altro centro urbano. Come si può vedere dall'aereo, o - su carta - nei fotopiani, o sullo schermo del computer. Dispersione causata dallo sviluppo economico e demografico e dalla diffusione di massa e totale del mezzo di trasporto su gomma - tanto per la mobilità personale, quanto per il trasporto delle merci - e resa possibile dalla politica urbanistica seguita dai Comuni e dai livelli superiori di governo territorio nel corso di decenni.

Abbiamo detto del fenomeno dell'urban sprawl che negli Stati Uniti, dalla seconda metà degli anni Cinquanta, caratterizza il territorio da Boston a New York a Washington dando vita a un'unica megalopoli. Questo sprawl - ovvero questa dispersione dell'edificato sul territorio - è venuto a caratterizzare quanto meno una parte dell'Italia del Nord. E Milano e il Milanese, nel cuore della Lombardia, ne costituiscono un esempio significativo, sotto i nostri occhi. Di fronte a una simile realtà territoriale e urbana di cui abbiamo definito taluni elementi essenziali di natura geografica e macro-urbanistica, si può tentare anche una lettura di altri aspetti peculiari. Vale a dire una lettura che vada al di là dell'idea che i territori caratterizzati dal fenomeno dello sprawl siano una marmellata urbana di bassa qualità, proprio perchè i centri esistenti, i comuni storici, non hanno più la forma compatta tradizionale. Sottolineiamo subito che gli elementi della grande trasformazione del territorio lombardo sono culturali oltre che fisici; politici, oltre che economici. Noi qui, in prima istanza, intendiamo considerarne soltanto alcuni, legati all'aspetto urbanistico e architettonico. Anche perchè lo stimolo di Consonni è soprattutto in questo senso. E la nostra attenzione e riflessione vanno a un tentativo di spiegazione di ciò che è accaduto e ancora accade nella realtà fisica della città e delle prospettive, sia neutrali, sia ipotizzando azioni politico-amministrative volte a guidare e indirizzare la trasformazione. Perchè la grande trasformazione avviata a fine anni Cinquanta al tempo del cosiddetto 'miracolo economico italiano' non è finita. Anzi ritengo, motivatamente, che ora più che mai ci troviamo nell'occhio del ciclone.

Nella mia, ovviamente opinabile, lettura del libro di Giancarlo Consonni, vedo: a) un giudizio negativo sullo sprawl in quanto tale; b) l'assenza di capacità e volontà da parte dell'amministrazione pubblica di governare urbanisticamente l'insieme delle strutture fisiche che nascono in connessione con le iniziative individuali; c) l'incapacità, da parte di architetti, urbanisti, imprenditori, insieme con politici e amministratori, di elaborare un linguaggio unitario, che riesca a esprimere anche nel nuovo un'alta qualità complessiva dell'habitat. Qualcosa insomma corrispondente a quella che è stata e potrebbe ancora costituire un'espressione di 'magnificenza civile'. Su queste posizioni e tesi, elaborate ed espresse con finezza letteraria e appassionato sentimento da Consonni, mi trovo in sintonia. E intendo dire: sono del tutto d'accordo. Il problema che ho posto nel passato all'Autore, e che ripropongo ora, riguarda da una parte il modo che noi meno giovani abbiamo di guardare il mondo. Vale a dire la validità o meno del nostro modo di giudicare le trasformazioni avvenute e che man mano avvengono. Da un'altra parte, il problema è anche quello di comprendere questo mondo; di capire qual è la sua cultura, che si esprime in vari ambiti e forme; che indirizza le azioni, i tempi, le scelte individuali e collettive, e che porta a un certo modo di realizzare la città, e di viverla. E intendo: di modellare e realizzare l'urbs, e insieme la civitas.

Ora, è di tutta evidenza che ciò che si e verificato su questo territorio nell'arco di mezzo secolo ha determinato una realtà fisica, un territorio, un'immagine dell'habitat profondamente diversa da quella del passato. Quello che, anche mio parere, appare più evidente è che non esiste più, nelle strutture edilizie individuali e collettive, un linguaggio comune. Non solo perché gli edifici di ciascun decennio hanno caratterizzazioni linguistico-stilistiche differenti uno dall'altro, ma proprio per il fatto che oggi ogni soggetto - singolo promotore immobiliare o singolo proprietario di un lotto di terreno che desideri costruirsi la sua abitazione - la vuole non dico uguale, ma nemmeno analoga a quella del vicino. La vuole invece diversa, diversa il più possibile, per lo stesso motivo per cui desidera una peculiare pettinatura, un peculiare abbigliamento, così come i particolari (quanto meno i particolari!) della propria auto. Questo modo di procedere ha portato a una realtà dove in generale - vale a dire probabilmente nella maggior parte dei casi - l'insieme delle strutture, cioè la realtà fisica complessiva del territorio, presenta - agli occhi di chi è adusato a vedere, gustare, apprezzare la città tradizionale e il borgo tradizionale - una visione di disordine e di confusione. Che cosa è accaduto e accade nella società è stato studiato attraverso una grande quantità di ricerche da sociologi e psicologi e, in generale, da studiosi delle trasformazioni culturali, politiche, religiose e di ogni manifestazione di comportamento umano. Secondo molte interpretazioni questa società è caratterizzata da un diffuso individualismo.

Questo significherebbe che la nostra società ha visto la caduta dei valori comunitari. Dove la presenza, l'assunzione dei valori comunitari si traduceva nel cercare di agire come singoli individui, singole persone, singoli cittadini, tenendo conto degli altri, dell'effetto sugli altri, avendo in mente quelli che Consonni chiama 'valori dell'insieme'; definibili, in termini ancor più nobilitanti, 'bene comune'. Ora, anch'io ho visto nel tempo, nell'arco dei decenni, nel nostro paese, questa grande trasformazione antropologica, con le conseguenze e le implicazioni anche sul modo di essere della città. Nell'ambito della grande trasformazione antropologica, culturale, politica, uno degli elementi significativi emersi è stata la scomparsa alla scala individuale - e di conseguenza a una scala collettiva - dei valori etici tradizionali e, accanto a questi, anche dei valori estetici. L'idea di 'buono', 'vero' e 'bello' che si fondono insieme non è che non abbia più senso. Solo ha il senso che ognuno si costruisce, alla scala individuale. E la concezione prevalente è proprio che in una simile società, dove l'unico valore condiviso è quello della libertà, una tale concezione, un tale modo di essere molto diffuso, è che tutte le concezioni del 'vero' del 'bello' e del 'buono' abbiano (e debbano avere) il medesimo valore e la medesima dignità.

Un simile relativismo non appartiene a Giancarlo Consonni e neppure a me. Però una cosa è giudicare che, in base alla nostra formazione estetica, culturale e anche politica, certe espressioni formali - dalle opere pittoriche a quelle architettoniche, dagli assetti urbanistici al paesaggio - sono preferibili ad altre, o magari esaltanti a fronte di molte altre quanto meno insignificanti se non deprimenti. Altro è pensare di riuscire - intervenendo nel dibattito pubblico con le proprie posizioni - a modificare il corso degli eventi. Pensiamo a un fatto sul quale Consonni insiste non poco. Nei centri principali - che comunque si espandono nell'area metropolitana milanese fino a raggiungere grandi dimensioni - ciò che viene realizzato in concreto, pur implicando rilevanti, magari giganteschi investimenti, non riesce - quanto meno nella stragrande maggioranza dei casi, pur in presenza di capacità e disponibilità tecniche, economiche, finanziarie enormemente superiori a quelle del passato - a realizzare qualcosa interpretabile come espressione di 'magnificenza civile'. Quale - per intendersi - quella presente nel cuore di importanti città del passato, a partire programmaticamente dall'iniziativa dei sovrani illuminati del Settecento, per giungere in pratica fino a quanto realizzato in Italia, e anche nel Milanese, fino alla Seconda Guerra Mondiale.

Questo è un punto o elemento cruciale nella riflessione di Consonni. Davvero è molto difficile (o forse impossibile) trovare in Italia, e non solo nel Milanese, espressioni di 'magnificenza civile' negli sviluppi urbani che si sono realizzati nell'ultimo mezzo secolo. Ricordo di aver scritto un saggio mentre ero nel cuore della città di Feltre (Su un'idea di verità nell'arte, nell'architettura, nella città, pubblicato poi nel volume curato da Valerio Corradi e Enrico Maria Tacchi, Nuove società urbane, Franco Angeli, Milano 2013, pp. 183 - 203). Mi domandavo, in quello scritto, perché mai in quel centro, come in molti altri del Veneto, i turisti - in conformità d'altronde a quanto presentato ed esaltato nella pubblicità delle città d'arte - mirassero soltanto al centro storico, al cuore della città ereditata dal passato o a singoli elementi esterni al tessuto urbano ritenuti, soprattutto per motivi estetici, di significativa importanza. Mentre nessuno andava, né va, in quella città, o altre analoghe, a visitare nuovi quartieri residenziali, ancorchè decorosi, bene ordinati, dotati di tutti i servizi individuali e collettivi e con elevata accessibilità anche alle funzioni rare, necessariamente uniche, ubicate nel cuore del centro urbano. La risposta che ho dato e che ritengo di poter immediatamente confermare, è che non basta il decoro e un alto livello qualitativo delle singole strutture e anche del loro insieme a rendere attraente, affascinante, meritevole di attenzione e magari ammirazione una città. È necessario qualcosa di eccezionale. Ora, per realizzare qualcosa di eccezionale significato e qualità, e non meramente il decoro urbano, devono essere presenti alcuni elementi fondamentali. Vale a dire il potere di decisione e le risorse.

Non è un caso che a Milano come a Roma talune decisioni che si inseriscono nell'ambito della 'magnificenza civile' si siano potute realizzare nel periodo fascista, mentre non si sono realizzate nella più lunga era democristiana, nè in quella successiva, dagli anni 1990 a oggi. Certo, in talune realtà - come in Francia, Gran Bretagna e Paesi Bassi - si sono potute realizzare strutture che ritengo possano essere considerate di 'magnificenza civile' anche nell'ultimo mezzo secolo, in contesti politici democratici e liberali. Ma in quelle realtà, quel tipo di democrazia consente a chi governa una dimensione di potere molto superiore alla nostra. Questo per quanto riguarda la 'magnificenza civile'. Ma Consonni non si limita a sottolineare la carenza (o la perdita) di questo modello di riferimento culturale di eccezionale livello nello sviluppo della città contemporanea. Consonni osserva anche la miriade di centri urbani minori, a iniziare da quelli diffusi sul territorio milanese e lombardo, centri che nella loro caratterizzazione, nel loro modo di essere, appaiono disordinati, sciatti e banali nel loro complesso e in generale senza qualità anche nei singoli elementi componenti.

Un ulteriore elemento non irrilevante su cui riflettere è che non è affatto detto che la popolazione che abita il territorio italiano - a iniziare da quello lombardo o milanese - abbia la medesima considerazione, i medesimi orientamenti estetici e in generale culturali di Giancarlo Consonni. L'Autore sottolinea nel modo più forte il fatto della 'crisi di civiltà' che è anche il sottotitolo del suo libro. Su questo non ho il minimo dubbio: siamo certamente in un drammatico tornante della storia; siamo certamente in una crisi di civiltà. E questo è verificabile anche - pur se non solo - per i valori estetici, siano essi riferiti alla città nel suo insieme, piuttosto che agli elementi che la compongono. Mentre scrivo, nel luogo pubblico in cui mi trovo, vedo su un gigantesco schermo televisivo l'immagine della Trinità dei Monti e di Piazza di Spagna. Rimango un attimo in contemplazione. Ma subito mi viene da pensare che non credo affatto che in quella Roma che fece nascere quelle realtà architettoniche la maggior parte della popolazione avesse un senso artistico e una formazione culturale superiore a quella della popolazione - romana o milanese - del nostro tempo. Come ho già enfatizzato, la 'magnificenza civile' nella città era determinata, stabilita, realizzata dai potenti: pontefici, sovrani, nobili; e poi, nell'Ottocento, dai grandi imprenditori delle varie iniziative industriali e finanziarie. E tradotta in concreto da architetti-artisti valenti che possedevano ed esprimevano un sentire condiviso con i loro mecenati e governanti promotori, finanziatori, autorizzatori e guide nella realizzazione dei loro progetti.

Qui emerge l'idea che la realizzazione della città e delle scelte relative che ci concernono oggi non sono state espressione nell'ultimo mezzo secolo di una plebe ignorante come quella di Roma o Milano parecchi secoli fa. Oggi il grande numero dei cittadini è composto di persone molto più istruite che nel passato, anche solo rispetto alla prima metà del XX secolo. L'elemento che mi pare dominante nella nostra società occidentale - con un tendenza a diffondersi in tutto il mondo - è che tutto sommato alla maniera del passato vi è un ethos dominante. Per molto tempo l'ethos dominante è consistito nel rifiuto dell'eredità del passato. Vale a dire le tesi espresse dal Futurismo e dal Razionalismo, di cui le generazioni nate nella prima metà del Ventesimo secolo si sono nutrite e hanno poi tradotto in concreto, con la distruzione di molta parte di quell'eredità culturale che stava nella fisicità delle nostre città. E come conseguenza di quel modello culturale si sono avute realizzazioni che non tenevano assolutamente conto del legame del passato, tranne casi veramente eccezionali, considerato irrilevante. Si pensi al caso delle ville venete, e di molte altri siti e realtà, per lungo tempo volutamente trascurati perché considerati insignificanti.

Oggi siamo in un sistema democratico e liberale in cui le decisioni collettive sull'insieme - piaccia o non piaccia - non consistono nell'imposizione di forme prestabilite in ogni aspetto della realtà, ma essenzialmente nella fissazione di regole di comportamento in vista di esiti generali: tutela della salute; tutela dell'ambiente naturale e storico; conservazione dell'eredità culturale; risparmio di suolo; tutela della biodiversità; diffusione della possibilità di accesso alle funzioni collettive nel modo più ugualitario possibile; 'sostenibilità' in ogni tipo di intervento pubblico o privato modificatore dell'esistente; massima mobilità possibile per tutti i cittadini. Non siamo più, cioè, alla ricerca di una forma prestabilita dello sviluppo urbano; di ciò che risulta o potrebbe risultare dall'insieme di azioni individuali.

Tra i fatti che mi vengono da rimarcare con forza, in questa riflessione stimolata (anzi: determinata) dagli scritti di Giancarlo Consonni, a partire da quest'ultimo, vi è che ci troviamo a vivere e operare in una società disgregata, che ha rotto ampiamente i legami culturali e quindi di ogni tipo coi valori del passato, e che d'altronde è soggetta a una gigantesca trasformazione anche per l'enorme movimento demografico alla scala mondiale. Una società dove - accanto alle conseguenze comportamentali degli autoctoni individualisti alla scala di massa - si uniscono le conseguenze già in atto di questa sorta di pacifica invasione di milioni, diecine di milioni, centinaia di milioni di persone provenienti da tutti i continenti e da centinaia di città del mondo. In tutta Europa, ma già nell'area metropolitana milanese, il recupero dei valori tradizionali, in una fusione unitaria come Consonni auspica e spera, ritengo sia un sogno, o - se vogliamo - un'ardua la speranza. E mi viene in mente qui la conclusione di La chiesa di Polenta di Carducci. Il risorgere di un ruolo unificante della Chiesa, che porta alla realizzazione del Comune, fondendo invasori e vinti, come al tempo della vendemmia, disfacendosi nei tini le uve pigiate, 'il forte e redolente vino matura'. Certo che maturerà, ma penso sia necessario un po' di tempo, e non so assolutamente prevedere che vino sarà.

Questo nel lungo periodo. Qui e ora - e intendo nel breve e medio periodo - mi viene da pensare che rimarrà, alla scala territoriale, una distinzione tra città e campagna; che nei centri minori, nelle aree non-metropolitane italiane che persisteranno, continuerà il modo di procedere oggi presente, con il mantenimento di qualcosa storicamente rilevante alla scala locale, e lo sviluppo senza qualità sperimentato dagli anni dello sviluppo economico dagli anni 1950 fino a oggi. Nelle aree metropolitane - e in quella milanese in particolare - continuerà il modo di procedere in atto oggi, con interventi urbanistici e architettonici del tipo dominante alla scala mondiale. Vale a dire in un contesto in cui si sperimenteranno le più varie, fantasiose e appariscenti modalità espressive, senza alcun nesso l'una con l'altra. Esattamente come gli abiti in una sfilata di moda; come le opere dei creativi nelle grandi exhibitions collettive alla Biennale di Venezia o nei palazzi di esposizione d'arte contemporanea.

N.d.C. - Laureato in scienze economiche, filosofia e architettura, Andrea Villani ha diretto il Centro Studi Piano Intercomunale Milanese. Ha insegnato Economia urbana all'Università Cattolica di Milano ed è stato coordinatore del programma Sulla città, oggi. Ha inoltre diretto "Città e Società", è stato condirettore di "Edilizia Popolare" e attualmente è tra gli animatori e coordinatori di ULTRA (Urban Life and Territorial Research Agency) del Dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.

Tra i suoi libri editi da ISU Universita Cattolica: La pianificazione della città e del territorio (1986); La pianificazione urbanistica nella società liberale (1993); La gestione del territorio, gli attori, le regole (2002); Scelte per la città. La politica urbanistica (2002); La decisione di Ulisse (2000); La città del buongoverno (2003).

Per Città Bene Comune ha scritto: Disegnare, prevedere, organizzare le citta? (28 aprile 2016); Progettare il futuro o gestire gli eventi? (21 luglio 2016); Arte e bellezza delle città: chi decide? (9 dicembre 2016); Pianificazione antifragile, una teoria fragile (10 novembre 2017).

Sul libro oggetto di questo commento, v. anche i contributi di: Pierluigi Panza, Se etica ed estetica non si incontrano più (16 dicembre 2016); Paolo Pileri, Se la bellezza delle città ci interpella (10 febbraio 2017); Vezio De Lucia, Crisi dell'urbanistica, crisi di civiltà (18 maggio 2017).

Del libro di Giancarlo Consonni si è discusso alla Casa della Cultura - nell'ambito della V edizione di Città Bene Comune - martedì 23 maggio 2017, alla presenza dell'autore, con Elio Franzini, Gabriele Pasqui, Enzo Scandurra.

Articolo tratto da "casadellacultura" qui reperibile in originale

Corriere della Sera, 30 novembre 2017. La recensione al saggio di Bruno Maida L’infanzia nelle guerre del Novecento. «I bambini con il fucile in mano rappresentano il fallimento degli adulti e della cultura dell’Occidente ». (m.p.r.)


Bruno Maida L’infanzia nelle guerre del Novecento, Einaudi 2017.p.360, €10,99

È difficile dimenticare «la bambina della foto», Phan Thi Kim Phúc che l’8 giugno 1972 corre corre, bruciata dal napalm durante la guerra del Vietnam. Si è strappata la vestina che aveva preso fuoco, urla e piange, le braccine spalancate, immortalata dal fotografo Nick Ut che la porterà all’ospedale dove sarà salvata.

I bambini e la guerra. Il dolore e la pietà. La violenza e l’aggressività. La vita appesa a un filo traballante. La gratuità della morte. Le stragi belluine. Le guerre patriottiche e quelle di rapina. I bambini vittime. I bambini soldato. I bambini protagonisti. I bambini testimoni di genocidi e di altri fatti atroci che non dimenticheranno mai, non diversamente dagli adulti. (La guerra, risulta da tanti segni, memorie, diari, è forse il fatto che per tutta la vita non smette di pesare sul cuore dell’uomo) .

Bruno Maida, ricercatore dell’Università di Torino, ha scritto per Einaudi un corposo saggio sui bambini e i conflitti nel mondo: L’infanzia nelle guerre del Novecento un libro importante e partecipe, fondato su una ricchissima documentazione. Autore di uno studio sulla Shoah dei bambini, Maida articola ora il suo nuovo libro in una serie di capitoli tematici: il rapporto tra infanzia e guerra, la legislazione sui civili diventati i veri attori dei conflitti, la Prima guerra mondiale, il fascismo, il nazismo e lo stalinismo, la Seconda guerra mondiale, i processi di decolonizzazione postnovecenteschi, le eredità delle guerre, i ricordi dei bambini e quelli sui bambini.

Le guerre nascono col mondo e con loro anche i bambini soldato, non sempre costretti, ma affascinati non raramente dalle divise e dalle armi. Il gioco della guerra.

Napoleone creò il Reggimento dei Pupilli della Guardia; nella guerra civile americana avrebbero combattuto centomila ragazzi di età inferiore ai 15 anni. Tra i Mille di Garibaldi risultano un undicenne, due tredicenni, tre quattordicenni e altrettanti quindicenni. Nel Cuore di De Amicis - Il tamburino sardo, La piccola vedetta lombarda - i fanciulli sono ansiosi di prender parte, le armi in pugno, alle guerre risorgimentali.

Nelle guerre del Novecento il numero dei morti è raccapricciante: 100 milioni, di cui 62 milioni di civili, senza contare quasi 100 milioni uccisi in altre stragi. Numerosi i morti bambini e ancor più gli orfani, con la conseguente degenerazione di intere comunità.

Nel 1945 si pensava che dopo la bomba atomica, dopo la Shoah, si sarebbe vissuti serenamente, al riparo dalle bombe. In Europa è accaduto, o quasi - se non si considera il terrorismo - ma si calcola che in quel secolo i conflitti siano stati nel mondo quasi 250. Soltanto negli anni Novanta del Novecento - scrive Maida - sono scoppiate 30-40 guerre. L’80 per cento delle vittime sono civili, moltissimi tra loro i ragazzini: una stima indica che tra il 1985 e il 1995 ne siano stati uccisi circa due milioni.

Fin dalle origini il fascismo è portatore della sua dottrina militaresca anche per gli innocenti pargoli. A sei anni gli scolari indossano la divisa di figlio della Lupa, il fucilino del balilla moschettiere è il gran miraggio. I maestri, che indossano la sahariana nera col pugnaletto alla cintura, predicano la fede nella grandezza imperiale di Roma. Il desiderio di arruolarsi, piccoli soldati, soprattutto al tempo della guerra d’Etiopia, è cocente. Mussolini è il mito vivente: «Giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista», recita l’obbligato giuramento. Poveri bambini, si sa come andrà a finire.

Il nazismo segue la stessa via, ogni bambino deve essere un cittadino-soldato al servizio del Führer, «da prima del suo concepimento». «A scuola - scrive Maida - le lezioni di religione terminavano con il saluto al Führer. (...) I bambini dovevano esclamare all’inizio: “Heil Hitler! Sia lodato Gesù Cristo in eterno, amen”, per concludere con: “Sia lodato Gesù Cristo in eterno, amen. Heil Hitler!”».

In Unione Sovietica le cose non andavano diversamente. I giovani pionieri dovevano essere sempre pronti alla lotta per la classe operaia: giuravano di esser fedeli ai precetti di Lenin, di voler combattere con fermezza per il comunismo. Ordine e disciplina. Libri e moschetti anche qui. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale i pionieri erano 11 milioni. Nella figura del generale Kutuzov che nel 1812 aveva sconfitto le armate di Napoleone, i piccoli russi dovevano intravedere le virtù leggendarie di Stalin.

Furono i nazisti, forse, i bambini che impararono meglio la lezione. Un esempio. Nel 1943 fu creata la 12ª SS Panzer Division Hitlerjugend, 10 mila ragazzi. Combatterono su più fronti, soprattutto in Normandia. «Fanatici e motivati», scrive Maida, «ne sarebbero tornati a casa solo seicento».

Dei sei milioni di ebrei uccisi durante la Seconda guerra mondiale almeno un milione erano bambini. Pochissimi riuscirono a salvarsi nei lager di Treblinka, Sobibór, Belzec, Chelmno. «La condizione dell’infanzia ad Auschwitz è incarnata in Hurbinek, che era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz, dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva nulla di lui, non sapeva parlare e non aveva nome»: lo racconta Primo Levi nel suo La tregua. «Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole».

Poi nella seconda metà del Novecento e nel Duemila affliggono il mondo guerre spesso sconosciute, portatrici di fame, di povertà, di disperazione, di marginalità.

Le fabbriche di armi sono sempre al lavoro. Lo insegna Trump. Ma anche negli anni passati non sono mai mancate le commesse: dal 1997 al 2000 sono state vendute nel mondo armi leggere per 51 miliardi di dollari.

Maida racconta storie di bambini che non hanno mai visto una scuola, come in Colombia; di bambini palestinesi che conoscono soltanto il campo profughi dove sono nati; di bambini che in Rwanda, secondo una ricerca dell’Unicef, sono stati testimoni di assassinii, hanno visto uccidere i famigliari, sono stati minacciati di morte. In Siria, tra il 2011 e il 2013, sono stati uccisi più di 10 mila bambini; in Pakistan, nel 2014, i Talebani hanno ammazzato in una scuola 132 bambini; in Cambogia, tra il 1975 e il 1979, morirono in guerra circa 2 milioni di persone, innumerevoli i bambini, spesso con il kalashnikov al collo. Nella guerra tra Iran e Iraq, negli anni Ottanta del Novecento, persero la vita centomila bambini iraniani, con in tasca il «passaporto per il Paradiso»; in Uganda, secondo un documento del Congresso americano del 2009, oltre 66 mila bambini.

L’Asia, l’Africa, il Sudamerica sono stati i luoghi della geografia della morte. I diamanti in Sierra Leone, il coltan, un minerale prezioso, in Uganda, la cocaina in Colombia sono serviti e servono ad arricchire i capi delle milizie armate e a procurarsi armi.

Quali sono state e quali sono le manchevolezze del Diritto Internazionale, della vecchia Società delle Nazioni, dell’Onu, della Unione Europea?

Scrive Maida: «I bambini con il fucile in mano rappresentano il fallimento degli adulti e della cultura dell’Occidente che produce armi, le vende e ci si arricchisce dopo avere avuto una responsabilità non secondaria nella povertà e nel caos di quei Paesi che vivono in uno stato di guerra perenne».

L'articolo è tratto dal Corriere della Sera on line. L'originale è accessibile qui

Atreconomia, 14 ottobre 2017«Un ebook collettivo curato da Roberto Cuda sulle infrastrutture strategiche in Italia, gli impatti sull’ambiente, la democrazia partecipata, i buchi di bilancio sui conti pubblici, lo stato delle opere dopo il nuovo codice appalti».

Salva Italia, Cresci Italia, Sviluppo, Sviluppo 2, Del Fare, Destinazione Italia e, soprattutto, Sblocca Italia: sono i decreti che dal 2011 hanno cercato di rilanciare le grandi opere nel nostro paese e che danno il senso di come il nostro destino economico sia tuttora affidato ai mega-progetti infrastrutturali.
Come negli anni Sessanta, in una specie di eterna rievocazione nostalgica. In realtà, sulle grandi opere si concentrano gli interessi di un blocco politico-industriale-finanziario ben radicato, che lavora al riparo da un vero controllo democratico e che alimenta se stesso sfornando cemento e asfalto. Ma se l’impatto ambientale è sotto gli occhi di tutti, almeno nei suoi effetti macroscopici, ben più difficile è stimarne il costo reale per la collettività. Parliamo dell’intero ciclo di vita di un’infrastruttura, dalla costruzione alla gestione, e dei tanti effetti collaterali a carico di aria, acqua e suolo, mai contabilizzati nel costo dell’opera in quanto scaricati sui cittadini e sulle generazioni future. E parliamo anche dei costi economici veri e propri e dei benefici sulla viabilità, sempre meno evidenti, sui quali vige una specie di muro di gomma.

Con il nuovo codice appalti del 2016 in cui è stato deciso il superamento della Legge obiettivo, qualcosa si è mosso nella giusta direzione ma sono ancora tante, troppe, le grandi opere inutili che proseguono la loro corsa. Con la nuova programmazione decisa dal Ministro Delrio una prima selezione è stata impostata ma ad oggi manca il DPP, il Documento che una volta adottato potrà davvero reimpostare la strategia per il futuro. Per ora il superamento delle legge obiettivo è ancora in un limbo e c’è di che preoccuparsi. Anche il Ponte sullo Stretto è tornato nella discussione elettorale per le elezioni siciliane ed anche il candidato del PD e dei suoi alleati lo reclama a gran voce. E gli ha fatto eco l’Amministratore Delegato di FS, Renato Mazzoncini, che in un’intervista ha detto di sognare il Ponte sullo Stretto per far funzionare meglio i treni per il sud.

Il libro è stato curato da Roberto Cuda - giornalista che sa fare i conti che non tornano sulle grandi opere a partire dal famoso caso delle BrebeMi autostradale - ed è il frutto di un convegno organizzato a Roma da Fondazione Lelio e Lisli Basso e da Fondazione Responsabilità Etica, da diverse angolazioni. Per riaprire il dibattito su un tema drammaticamente sottostimato e su una strategia predatoria che ci sta togliendo, letteralmente, la terra da sotto i piedi.

Il testo contiene i contributi di Alessandra Algostino, Paolo Berdini, Roberto Cuda, Anna Donati, Nicoletta Dentico, Franco Ippolito, Stefano Lenzi, Tomaso Montanari, Cesare Vacchelli, Alberto Vannucci ed Edoardo Zanchini. E’ edito da Edizioni Ambiente ed è scaricabile gratuitamente da edizioni ambiente

il manifesto, 20 settembre 2017. «Un'analisi suggestiva di Teresa Tauro ora spiegata nel volume Alle origini dell’urbanistica di Napoli». (c.m.c)

«Per le nostre città, le grandi città italiane, è (…) necessario, prima di tutto, avere consapevolezza del proprio ethos, delle proprie radici, del proprio senso storico, della propria memoria. Se non si parte da qui è molto difficile, impossibile, direi, reimmaginarle o reinventarle». Così, in un libro di interviste dedicate a Napoli, si esprimeva, vari anni fa, Massimo Cacciari. Scoprire la propria memoria, indagare le origini della propria città è dunque fondamentale, propedeutico per qualunque reale cambiamento, trasformazione, reinvenzione.

Da vari anni, Teresa Tauro, architetta pugliese d’origine che vive da tempo nella città partenopea, si dedica a studiare le origini della città che la ha accolta. Le sue indagini, le sue ipotesi e le sue scoperte sono ora esposte in un piccolo libro, scritto insieme a Fausto Longo, professore di Archeologia all’Università di Salerno, intitolato Alle origini dell’urbanistica di Napoli (Pandemos, pp. 32, euro 12). Il testo – nato inizialmente come contributo a Dromoi (volume che raccoglie una serie di studi in onore di Emanuele Greco) – seppur breve è davvero interessante e ricco di rivelazioni importanti sulla antica Neapolis.

Anzitutto si scopre che la fondazione della città, in genere fissata al 470 a. C., va retrodatata almeno all’ultimo quarto del VI secolo, in piena Megale Hellàs, quando erano attivi Pitagora e il suo circolo. Indagando la struttura urbanistica emergono poi elementi significativi legati al concetto di città ideale vitruviana, si scopre nell’impianto topografico il rapporto tra cerchio e quadrato si vede che viene utilizzato un nuovo modo di suddivisione dello spazio urbano, proporzionale e armonico, basato sulla corrispondenza numerica delle varie grandezze architettoniche.

Soprattutto emerge, sulla base della geometria frattale, che la città di Neapolis sia stata creata come un ologramma: la particella urbanisticamente più piccola conteneva in sé la forma dell’intera città. Tante le scoperte e le suggestioni che questo piccolo libro permette di conoscere e non soltanto in ambito architettonico e urbanistico. Un testo che esibisce una scrittura rigorosa e precisa, ma chiaramente comprensibile anche per i non addetti ai lavori.

Un libro utile per comprendere, con un'analisi critica a più voci, la decadenza d'una regione una volta all'avanguardia del buongoverno del territorio. Les mieux s'en vont, i migliori se ne vanno... 13 settembre 2017

Ironia della sorte (ma non troppo); l’Emilia Romagna, un tempo regione modello per l’urbanistica italiana, si appresta ad approvare una legge regionale (Disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio, n° 4223), che basandosi sulle parole d’ordine di rigenerazione/riqualificazione nelle città storiche, conclama la definitiva mutazione genetica di questa disciplina. Che da sapere finalizzato a limitare e contenere gli effetti negativi di uno sviluppismo, si trasforma in fiancheggiatrice del più bieco sfruttamento del territorio e delle città storiche. L’elemento cardine dello sviluppo del territorio non spetta infatti più al piano regolatore comunale, ma agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati che presentano al comune un’apposita proposta da approvare in 60 giorni, tempo proibitivo per i comuni.

Altro contenuto inaccettabile della nuova legge urbanistica riguarda il contenimento del consumo del suolo. Ogni comune può prevedere un consumo di suolo pari al 3% del territorio urbanizzato. Quest’espansione - ingiustificata e fin troppo generosa - è destinata a opere d’interesse pubblico e a insediamenti strategici “volti ad aumentare l’attrattività e la competitività del territorio”. Ed a conti fatti, tra eccezioni, deroghe e salvataggio di diritti acquisiti, è lecito supporre che il consumo di suolo consentito sarà di gran lunga superiore, fino al doppio o al triplo, del previsto 3% della superficie urbanizzata.

Di questo, della fine dell’urbanistica, ci parla un libricino collettivo uscito da poco, a cura di Ilaria Agostini, (Edizioni Pendragon, Bologna, pp.110, euro 8) dal titolo: Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia Romagna, che raccoglie gli scritti di: Montanari, Salzano, Marson, Agostini, Losavio, Bonora, Cervellati, Berdini, Foschi, Bevilacqua, Rocchi, Righi, Dignatici, Alleva, Quintavalla, Caserta.
Perché la proposta di legge nei fatti prevede un doppio regime urbanistico. Da una parte le iniziative immobiliari di imprese e privati godrebbero di un canale privilegiato; dall’altro le esigenze di famiglie ed attività economiche restano affidate ai vecchi dispositivi. Una proposta di legge più che inutile, dannosa, che consegnerebbe il territorio agli interessi della speculazione fondiaria e toglierebbe la sovranità ai cittadini, gli unici attori indispensabili della democrazia. C’erano già dei precedenti nei DdL del ministro Lupi, nel 2014, ministro alle infrastrutture del governo Renzi; ora quei tentativi (falliti) di smantellare l’intero impianto urbanistico, che aveva come perno il Piano, e con esso, l’autonomia dei comuni, diventano i contenuti di una proposta di legge di una regione che, nel passato, era un modello di riferimento non solo per l’Italia. Il libro è intitolato, non a caso, Consumo di luogo, perché il DdL oltre a consentire un incremento di consumo di territorio, favorisce i processi in atto che avvelenano le nostre città storiche, dove: turisti, boutique di lusso, pizzerie e kebaberie, paninerie, mini market, invadono portici, strade e piazze; luoghi privilegiati dove si svolge la vita urbana e che rischiano di diventare spettrali simulacri di città.
In sintesi tre sono i pilastri che costituiscono la più micidiale innovazione urbanistica mai pensata: 1) accordi operativi con i privati in variante ai piani urbanistici vigenti; 2) incentivi ai diritti edificatori (mai messi in discussione) definiti dai piani; 3) eliminazione degli standard urbanistici tramite l’invenzione degli standard differenziati. Tre pilastri dell’urbanistica neoliberista fondativi della subordinazione del pubblico agli interessi privati. Diceva il sindaco La Pira, nel 1955, al Convegno di tutti i Sindaci del mondo (intitolato: Per la salvezza delle città di tutto il mondo): se le città non sono cumuli di pietra, ma affascinanti quanto misteriose abitazioni di uomini…… Ora queste città non sono nemmeno più cumuli di pietra, ma solo praterie dove è consentito la più sfrenata scorreria degli interessi privati. Come si dice in premessa al libro, il messaggio è questo: non portate il cavallo di legno di questa legge dentro le mura della città. O la città sarà messa a ferro e fuoco.

La ragionata e critica recensione del saggio La questione meridionale in breve. Centocinquantanni di storia, il manifesto, 5 settembre 2017 (m.p.r.)

Scomparso da tempo dall’agenda politica dei governi e persino dagli slogan elettorali del ceto politico, il “continente Sud” riappare di tanto in tanto sullo scenario pubblico solo grazie all’ iniziativa di singoli studiosi. E’ accaduto lo scorso anno con un insieme di saggi di alcuni fra i maggiori studiosi del Mezzogiorno a cura di Sabino Cassese (Lezioni sul meridionalismo, il Mulino 2016 ) accade in questo scorcio d’anno per iniziativa di Guido Pescosolido, La questione meridionale in breve. Centocinquantanni di storia, Donzelli, pp.161 € 20).

Si tratta anche in questo caso di una lodevole iniziativa che si lascia apprezzare soprattutto per l’ardimento intellettuale e storiografico con cui l’autore affronta quella che senza dubbio resta la più controversa questione della nostra storia unitaria. Un ardimento che può possedere solo chi, com’è il caso di Pescosolido, ha dedicato al tema una parte considerevole dei propri studi. E infatti l’operazione appare perfettamente riuscita, perché l’autore, in poco più di 150 pagine di testo dell’agile collana delle Saggine Donzelli, riesce a dar conto dei problemi, dei caratteri strutturali, delle svolte, delle stagioni politiche di ben 150 anni di una storia su cui si è accumulata una letteratura sterminata. Beninteso, l’autore, il più autorevole allievo di Rosario Romeo, ricostruisce l’intera vicenda storica e interpreta l’evoluzione del divario da un punto di vista liberal-liberistico (ma non neoliberistico) che non è quello di chi scrive. Ma bisogna riconoscere che un merito di questo libretto è lo sforzo continuo del suo autore di una obiettività interpretativa dei fatti realizzata tenendo conto dei più vari contributi e punti vista emersi negli studi degli ultimi decenni.

Senza esagerare nelle polemiche con i risorgenti neoborbonismi - che offuscano anche gli sforzi di chi legittimamente vuole fare storia degli sconfitti, privati di ogni storia - l’autore rivendica il carattere positivo dell’unificazione italiana, sia da un punto di vista politico istituzionale che economico sociale. Io non sono convinto che la scelta apertamente liberistica della Destra storica, all’indomani dell’unità, sia stata la migliore politica economica possibile. Benché occorra tener conto del contesto internazionale di allora, e dei limiti di manovra dei nostri governanti. Così come credo (e come ho cercato di provare) che i gruppi dirigenti ignorarono gravemente gli specifici problemi territoriali del Sud e si disfecero, con danno e per pregiudizio politico, dell’esperienza bonificatrice dei tecnici borbonici. Ma certamente l’unità è stata una delle svolte politiche più rilevanti nella storia secolare del nostro Paese, di cui anche il Sud ha alla lunga beneficiato. Benché a prezzo di non pochi sacrifici e torti, come pure Pescosolido riconosce, ad es. nelle pagine dedicate al brigantaggio. D’altra parte l’autore non dimentica che «il Mezzogiorno è stata parte integrante dello sviluppo capitalistico nazionale, e il mercato meridionale decisivo ai fini dell’avvio e del consolidamento dell’industrializzazione del Nord».

Senza dubbio, la fase storica in cui i termini del divario si sono attenuati è quella del decennio 1962-1973, non a caso il periodo interno al trentennio d’oro delle politiche keynesiane nel mondo occidentale. Una stagione storica in cui non soltanto l’andamento del Pil tra le due sezioni territoriali del Paese tende ad avvicinarsi, ma quella in cui tanti altri indici della vita sociale, civile e culturale migliorano decisamente. Dopo quella stagione, pur conoscendo il Sud trasformazioni radicali, la divaricazione in termini di reddito non si è più attenuata e oggi, a quasi 10 anni dall’esplosione della crisi mondiale, ben 40 punti separano il pil pro-capite meridionale da quello del Centro-Nord.

L’autore non si sottrae allo sforzo di individuare le cause della crescita del divario nelle scelte di politica economica e nella condotta delle forze politiche e sindacali, che sono seguite a quegli anni - su cui non concordo del tutto - e nella grande svolta istituzionale del 1970: «il grande fallimento delle regioni e delle classi dirigenti meridionali». Un giudizio giustamente severo che io attenuerei per i governi dell’Abruzzo e della Puglia. Senza dimenticare, più in generale, «la non funzionalità del “sistema Italia”, nelle sue articolazioni, giudiziarie, istituzionali, politiche, amministrative».

C’è tuttavia un rischio oggi, nel riproporre la questione meridionale come divaricazione economica netta Centro-Nord- Sud: quella di favorire una indiscriminata prospettiva di sviluppo. Non solo perché alcune tare storiche del Mezzogiorno, come la criminalità mafiosa, sono ormai diventate nazionali. E non solo perché il Sud è un continente molto variegato con elementi di dinamismo in vari ambiti – come lo stesso Pescosolido ricorda – che non consentono una raffigurazione uniforme. Ma soprattutto perché il Sud è per eccellenza l’area delle disuguaglianze italiane, esaltate negli ultimi decenni dalle politiche neoliberistiche di tutti i governi. Qui vivono famiglie gettate nella disperazione sociale e una borghesia parassitaria che alimenta consumi sontuosi senza produrre alcunché, che distorce in senso clientelare l’amministrazione pubblica, che è generalmente incolta e dunque contribuisce ad abbassare il tono civile dell’intera società. Questa borghesia, che investe prevalentemente nell’edilizia e nel saccheggio del territorio, impegnata a intercettare le risorse che passano attraverso le regioni, è la fonte di tanti problemi del Mezzogiorno, anche per gli oscuri legami che non di rado intrattiene con la criminalità.

Uno strumento «che permette di percorrere la storia delle conoscenze della natura e dell’ambiente, della consapevolezza che molte azioni umane sono dannose agli ecosistemi da cui dipende la vita e la salute, e delle lotte per frenare o eliminare le violenze all’ambiente. 5 agosto 2017 (p.d.)
Quando è nata l’“ecologia”? negli anni ottanta? col “nucleare”? nel 1970? I più informati citano il biologo tedesco Ernst Haeckel che ha usato questa parola per la prima volta nel 1866.
Per capire qualcosa delle lotte attuali per la difesa della natura, della biodiversità, per rallentare il riscaldamento planetario, contro gli inquinamenti, contro le frane e alluvioni, è necessario fare un salto indietro e scoprire che, dalla metà dell’Ottocento, scienziati, intellettuali, scrittori, hanno denunciato le alterazioni dell’ambiente dovute alle attività umane: alle industrie, all'agricoltura intensiva, alla rapina del suolo e dei minerali e dell’acqua, alla speculazione edilizia. Chi erano questi precursori, che cosa hanno scritto, come sono stati ascoltati?
La risposta è finalmente data dalla “Cronologia ambientale” che Luigi Piccioni, dell’Università della Calabria, ha di recente “pubblicato”, cioè reso accessibile gratuitamente ai lettori (qui scaricabile), in un numero monografico di “altronovecento”, la rivista telematica della Fondazione Luigi Micheletti e del Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia.
Nelle 118 pagine della cronologia, nelle molte centinaia di schede che si snodano, in ordine cronologico, lungo un secolo e mezzo, si incontrano personaggi, eventi, titoli di libri e anche di film sui vari aspetti dell’ambiente e dell’ambientalismo. Persone e cose che ci tornano alla mente o che non avevamo mai conosciuto, eventi, lotte, battaglie per un mondo migliore e più sano, anche vittorie che ci danno coraggio per proseguire nel tormentato cammino della difesa dei valori da cui dipende la salute, la giustizia, un lavoro che assicuri un salario senza violenza a se stessi, agli altri, alla natura.
A Luigii Piccioni almeno un grazie.

«Un dialogo tra il fisico Fritjof Capra e il giurista Ugo Mattei su ecologia, scienza, politica e tutela dei beni comuni». il manifesto, 7 luglio 2017 (c.m.c.)

Fritjof Capra è un fisico austriaco, oggi responsabile del Centro per l’Ecoalfabetizzazione di Berkeley, notissimo anche al pubblico più largo per il suo Il Tao della fisica (Adelphi), in cui condannava radicalmente l’approccio meccanicistico del metodo scientifico moderno, sviluppando un pensiero antiriduzionista, ispirato al pensiero sistemico e alle teorie della complessità. Questo Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni (Aboca, euro 18, traduzione dall’inglese di Ilaria Mattei) è il frutto del suo incontro con Ugo Mattei, giurista impegnatissimo sul fronte dei beni comuni, ben noto sia per il suo lavoro teorico che per la partecipazione a un gran numero di esperienze militanti.

I due studiosi hanno obiettivi più ambiziosi che registrare lo stato dell’arte dei rapporti tra ecologia e diritto: la posta in gioco è, infatti, la critica radicale dei paradigmi fondativi che accomunano la scienza naturale e la scienza giuridica moderna. Bacone, Galileo e la fisica newtoniana distruggono l’interpretazione olistica del mondo. Alle differenze qualitative che orientavano il kosmos medioevale, sostituiscono l’omogeneità quantitativa di corpi che agiscono reciprocamente attraverso semplici rapporti di causa-effetto: un universo che diviene muto dal punto di vista etico, e sul quale, proprio per questo, il soggetto potrà infine, con Cartesio, imprimere il sigillo del suo ordine.

La metafora vincente, in questo passaggio alla modernità, sarà quella della macchina. La visione meccanicistica è il punto di congiunzione delle nuove scienze sperimentali con il mondo del diritto: anche la politica infatti si meccanicizza, passando dalla rete di comunità, organismi intermedi e connessi propri del medioevo, alla machina machinarum dello Stato moderno. Sovranità, con Hobbes, e proprietà, con Locke, saranno i due lati della «doppia morsa» all’interno della quale sarà stritolato l’ordine antico: attraverso il potere centralizzato sovrano e la proprietà assoluta, lo Stato potrà attaccare, con le enclosures, le recinzioni delle terre, il mondo dei beni comuni, e trasformarlo in capitale necessario all’accumulazione.

La potenza dell'astrazione, che caratterizza simultaneamente il metodo scientifico sperimentale e la nascente scienza giuridica, nasce così perfettamente funzionale all’estrazione capitalistica: la produzione di un ordine normativo unitario, fondato sul comando del sovrano, che fa piazza pulita degli ordinamenti plurali amministrati dalla saggezza pratica di giuristi ancora custodi degli usi, nasconde nel suo cuore la violenza dell’accumulazione originaria, per dirla nei termini in cui Marx racconta questa stessa storia. La crisi ecologica contemporanea pertanto, secondo gli autori, richiede una radicale fuoriuscita dal modello meccanicistico e cartesiano, per abbracciare uno stile di pensiero ecologico: uno sguardo che sostituisca alla forza moderna della separazione e dell’astrazione, la diversa potenza dell’interconnessione e della relazione, grazie a un paradigma sistemico che guarda al modello della rete, abbandonando finalmente quello della macchina.

Negli ultimi capitoli, questa impostazione offre preziosi materiali per sviluppare concreti esperimenti nel segno di una concezione generativa e non più astraente/estrattiva del diritto: da un diritto dell’impresa che ne imponga la responsabilità ecologica e ne impedisca lo sfruttamento senza vincoli delle esternalità ambientali, a una disciplina della responsabilità che elimini lo scudo del comportamento colpevole e imponga obblighi risarcitori, a una valorizzazione degli aspetti antiproprietari della gestione dei beni comuni.

Di particolare interesse, poi, l’insistenza sulla centralità del mondo della riproduzione sociale, del welfare e dei servizi: se davvero non si può oggi «astrarre» da qualcosa, è dalla centralità della riproduzione della vita, non più astrattamente separabile dalla produzione e occultabile negli ambiti del privato e del familiare. È molto interessante, e questo testo giunge di grande aiuto, osservare come questo paradigma generativo-ecologico apra così uno spazio per tenere insieme lotte sui beni comuni, sulla riproduzione, sul welfare: la centralità antiproprietaria dei beni comuni, la critica ecologista a una visione lineare dello sviluppo, la rottura femminista dell’invisibilità dei processi riproduttivi ,possono insieme costruire una strategia politica per il «comune».

Resta però aperto il problema di come organizzare tutto questo in modo che tale ricchezza pluralistica, autopoietica e relazionale, che è indubbio merito dei paradigmi ispirati alla complessità sistemica riuscire a cogliere, non ceda ad una pura e semplice logica della frammentazione. Le modalità di estrazione del capitalismo, nel capitalismo finanziario globale, hanno acquisito una grande capacità di cattura anche e soprattutto delle differenze, mettendo a valore direttamente le forme di vita: il neoliberalismo ha complicato alquanto la contrapposizione binaria tra olismo e comunitarismo da un lato, meccanicismo e individualismo dall’altro. e quindi costringe ancor di più chi si muove dentro le reti della cooperazione sociale ad affrontare il compito politico – ancora tutto aperto – dell’emersione ed organizzazione di un comune, oltre l’orizzonte semplicemente «comunitario», capace di potenziare e connettere esperienze e soggettività.

«La storia bella (oltreché una lezione di urbanistica sulle aree interne) di un territorio e del suo popolo "traditi", e che, con la sua poetica descrizione dei luoghi, ci invita a tentare di trasformare i sogni in realtà». casadellacultura.it, serie "Città bene comune", 26 maggio 2017

Lidia Decandia, Leonardo Lutzoni, La strada che parla. Dispositivi per ripensare il futuro delle aree interne in una nuova dimensione urbana (FrancoAngeli, 2016)

Ho sempre avuto il sospetto che essere sardi volesse dire essere, più di altri, fortemente radicati nella propria tradizione e nella propria storia. Questa particolarità la scorgo non solo nell'amore per la propria terra (che è un fatto comune anche ad altre genti), ma nell'ostinazione a opporre resistenza alle forme della modernità. Non alla modernità in genere, ma a quella specifica modernità fatta di cancellazione della memoria, di velocità, di competizione darwiniana, di sradicamento, di annullamento di ogni identità. Non sarà un caso che il sardo parla contemporaneamente il proprio dialetto e l'italiano come fossero due lingue distinte, cosa unica nel panorama italiano dove la lingua italiana, in ogni regione, si tinge sempre dell'accento dialettale. Grazia Deledda fu osteggiata dai suoi concittadini nuoresi perché, a loro parere, descriveva la Sardegna come una terra rustica, rude; dunque, arretrata, non moderna. Deledda descriveva il fascino della sua isola e della sua gente, le loro storie, tanto che venne definita anche come una scrittrice del paesaggio.

In questo libro - Lidia Decandia, Leonardo Lutzoni, La strada che parla. Dispositivi per ripensare il futuro delle aree interne in una nuova dimensione urbana (FrancoAngeli, 2016) - Decandia ritorna sui temi a lei cari e noti: l'appartenenza sentimentale (seppure vissuta in un quasi-esilio), la memoria, le feste, le cerimonie, la trama fitta degli stazzi che costituivano il territorio. Insomma, si potrebbe dire, sul tema dell'Isola (la Sardegna in questo caso) che non c'è più, quella interna, luogo dei pastori solitari, abbandonata per scivolare sulla costa, che, in passato, era costituita da "pietrarie inospitali", praticamente sconosciute alla vita dei suoi abitanti. Il libro richiama per alcuni versi (ma su questo tornerò in seguito) quello di Marco Revelli, Non ti conosco. Un viaggio eretico nell'Italia che cambia (Einaudi, 2016): un viaggio, quello di Revelli, poco sentimentale attraverso luoghi devastati dalla modernità e ridotti a simulacri; da Torino a Lampedusa, fuori dagli stereotipi comuni e dai falsi ottimismi (e su quest'ultima questione i due libri divergono assai).

Non saprei inquadrare diversamente il lavoro (assai più che una ricerca sullo spopolamento delle aree interne, come modestamente si autodefinisce) di Lidia Decandia e Leonardo Lutzoni dedicato a un'area dell'Alta Gallura in Sardegna, nel quale la passione di ritrovare i significati di una vita contadina premoderna servono a mettere a fuoco l'inganno di questa modernità che ha distrutto antichi vincoli di solidarietà, di sapienze, di custodia della sacralità della vita e delle relazioni con altri esseri umani e con la natura. Per costruire (o forse solo immaginare) un progetto per le aree interne basato sulle potenzialità ancora latenti. È su questa tradizione che il libro confida per elaborare una sorta di guida per l'insegnamento e la pianificazione del territorio in grado di riaprire relazioni significative, vitali e affettive con i territori e i luoghi attraversati nel viaggio dell'Autrice. In questo la differenza con il viaggio di Revelli è forte: "C'è forse più 'verità' in quelle travi rugginose, nelle finestre spente dei capannoni dismessi, nell'erba incolta dei vuoti industriali, che nei tronfi piani di sviluppo drogato di ieri", è il commento disincantato del sociologo torinese. Là dove Decandia invece tenta di utilizzare il passato ormai devastato per risvegliare, nei suoi allievi e negli abitanti, un desiderio di cura e di partecipazione, attraverso una prosa che, come ha affermato Piero Bevilacqua, "è in aperto antagonismo con quella dell'utilitarismo economico dominante nella lingua delle scienze sociali" e nell'urbanistica in particolare.

Ma veniamo al libro. Esso prende spunto dal tentativo di riuso di un vecchio tracciato ferroviario, nei pressi di Calangianus (città natale dell'Autrice), che diventa "la strada che parla", immersa ai piedi della montagna del Limbara che è assai di più di un semplice rilievo geografico: costituisce l'elemento dominante del territorio, la sua struttura immanente, il luogo dei pastori: la Montagna. Tutti, afferma l'Autrice, anche i bambini, un tempo, si orientavano attraverso figure di riferimento naturali: Monti di Deu, Monte Limbara, Monti Pinu, Sarra di Monti, Monti di La Signora. Un paesaggio premoderno caratterizzato da boschi di querce, macchie, spogliati, fino agli anni Sessanta, dalle capre e dai carbonai che lo popolavano. Ebbene qui nel giro di poco più di cinquant'anni "il volto di questa terra è mutato forse più di quanto non sia avvenuto nei secoli che ci separano dal Neolitico". Con l'avvento dei processi di modernizzazione, l'antico popolo di pastori che viveva negli spazi organizzati in nuclei interdipendenti, si autonomizza dal territorio abbandonando le campagne, attirato dalle nuove (e ingannevoli) promesse economiche vantate dall'industrializzazione. Così la natura riprende il sopravvento e su quel territorio magico scende - dice Michela Murgia - il silenzio, dove ancora piccole chiese campestri, case disperse abbandonate, rivelano tracce di "una vita finita, di una tradizione abbandonata".

Così, come nel viaggio di Revelli attraverso un'Italia non più riconoscibile, il lavoro dell'Autrice inizia con una passeggiata lungo un vecchio percorso ferroviario dismesso che attraversa il territorio di Calangianus, parte di una vecchia linea a scartamento ridotto Monti-Tempio. Un tracciato in parte recuperato come percorso ciclo-pedonale, ai piedi del Lambara, un territorio ora vuoto e deserto, muto e silenzioso che ha cessato di "parlare" agli uomini e che svela le macerie dello sviluppo disposte ai piedi dell'Angelo della Storia di Benjamin. Come provare a conoscere il nostro tempo fattosi ormai irriconoscibile, sembra la domanda rubata a Revelli? Qui la distanza prospettica tra l'Autrice e il libro di Revelli si fa profonda. Mentre il primo dubita che alla scomposizione possa seguire una ri-composizione, ma solo la decomposizione, perché la distruzione creatrice si limita a distruggere e basta senza creare alcun ordine nuovo, Decandia tenta di ridare voce a quel territorio coinvolgendo, nell'esperienza del racconto, comunità locali, amministratori, studenti, intellettuali di ogni provenienza.

Molti sono i riferimenti e le suggestioni culturali citati dall'Autrice: da Geddes e i suoi viaggi in India alla "via dei Canti" di Chatwin, per tentare di ricostruire la tradizione. E qui mi permetto alcune riflessioni personali. Conosco pochi colleghi capaci, come Decandia, in grado di analizzare così criticamente le forme distruttive di una certa modernità e i danni, direi molecolari, prodotti dal processo di industrializzazione sui territori e sulle comunità. Così come, lungi dal farne una nostalgia paralizzante, l'Autrice mostra sempre una acutissima conoscenza del mondo arcaico della Sardegna. Strumenti che Decandia, docente di urbanistica ad Alghero, utilizza continuamente per tentare di rifondare - nel linguaggio e nelle pratiche - la disciplina urbanistica ormai sbiadita controfigura di un pur, a tratti, glorioso sapere.

Detto a margine, rilevo semmai che s'indaga poco il tema del conflitto. A chi spetterebbe di portare a compimento il progetto così curato dall'Autrice? Agli amministratori tritati dal problema del debito e affaccendati dalla routine dell'eterno presente? Agli abitanti che nonostante la moltiplicazione del disagio e del degrado sociale, sono a pieno nell'ingranaggio del mercato? O ai gruppi, alle cooperative sociali, ai tanti movimenti locali che sono irrilevanti nel campo delle decisioni che contano? Il conflitto, seppure rimosso, è dietro l'angolo.

Ma forse non è corretto chiederne conto all'Autrice che ha voluto raccontarci la storia bella (oltreché una lezione di urbanistica sulle aree interne) di un territorio e del suo popolo "traditi", e che, con la sua poetica descrizione dei luoghi, ci invita a tentare di trasformare i sogni in realtà. "Un viaggio - dice Revelli - si fa o per fuggire da qualcosa o per cercare qualcosa". In questo caso la ricerca è quella di una dimensione perduta di chi "non si sente più a casa", che provoca spaesamento, vertigine, sradicamento, ma che può, forse, svelare il presente, indicare il futuro.

La prefazione all’instant book "Consumo di luogo - Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna" . ilmanifestobologna.it, 25 maggio 2017 (p.d.)

Nelle pagine dell’instant book Consumo di luogo è Cassandra che parla. Nel ciclo dei poemi omerici, la principessa troiana ha un terribile dono: vede in anticipo i disastri futuri, e ha la forza di descriverli a tutti. Cassandra dice la verità: è lei che prova, inutilmente, a convincere i suoi concittadini a non portare dentro le mura di Troia il cavallo di legno lasciato dai greci sulla spiaggia.

Per questo Cassandra è un archetipo dell’intellettuale fedele alla propria missione: «Be’, sai, Cassandra ha una certa fama. Non è poi così male soccombere combattendo come l’ultima persona che dice una verità spiacevole. La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo. E il ruolo dell’intellettuale è tirar fuori la verità. Tirar fuori la verità, e poi spiegare perché è proprio la verità» (Tony Judt, intervistato da Timothy Snyder, Novecento, 2012).
In questo caso la menzogna è molto semplice: la regione Emilia-Romagna presenta il suo progetto di legge sulla «tutela e l’uso del territorio» come uno «stop all’espansione urbanistica, in nome della rigenerazione urbana e della riqualificazione degli edifici»: ma in questo libro un cospicuo numero di autorevoli cassandre dimostrano che non è vero. Tirano fuori la verità, e spiegano perché è proprio la verità.
Che è questa. Non solo la legge non diminuirà affatto il consumo di suolo, ma essa consente, e anzi facilita, una doppia, drammatica distruzione: quella del passato e quella del futuro, simultaneamente divorati da un presente senza speranza. Con una drammatica inversione di marcia che porterebbe l’Emilia-Romagna dalla testa alla coda della civiltà, i centri storici non saranno più considerati organismi da tutelare nella loro organicità, ma mosaici nei quali alcune tessere potranno essere «rigenerate»: vocabolo ambiguo e pericoloso, sospeso tra il miracolistico e l’eugenetica. Di fatto vuol dire: porte aperte alle speculazioni sullo spazio pregiato, magari affidate alle archistar e certamente senza alcun profitto sociale.
E, cosa se possibile ancor più grave, i comuni verrebbero programmaticamente espropriati della facoltà di decidere il futuro del loro territorio: una possibilità interamente conferita ai privati. Dalla (pessima) urbanistica contrattata si passerebbe così alla (esiziale) urbanistica privatizzata: esattamente il contrario di ogni idea di piano.
Non solo: il contrario di ogni idea di democrazia. Perché dichiarando, di fatto, la sovranità del mercato sulla città delle pietre si stronca ogni possibile futuro della civitas, la città dei cittadini sovrani, gli attori indispensabili della democrazia. Questa perversa legge emiliana si iscrive in un contesto più ampio: perché sono innumerevoli i tentativi recenti di recidere il nesso tra volontà popolare e pianificazione territoriale e urbanistica.
Basti qua ricordare la riforma Madia (che ha espulso ciò che resta del sapere tecnico delle soprintendenze dal meccanismo della conferenza dei servizi) e la riforma costituzionale felicemente affondata il 4 dicembre del 2016 (che accentrava a Roma decisioni cruciali per il futuro di territori che venivano espropriati della loro autodeterminazione). Ora a provarci non è il governo centrale, ma un governo regionale: e non quello di una regione qualunque, ma di quella che un tempo fu lume e guida di tutto il resto del Paese.
Prima che la legge emiliana venga approvata e inizi a devastare il territorio, i massimi esperti di territorio e di città stanno dando l’allarme: e lo fanno con queste pagine. Un grande storico dell’arte, Erwin Panofsky, ha scritto che chi ha il privilegio di abitare nella torre d’avorio degli studi deve rammentare che «la torre dell’isolamento, la torre della “beatitudine egoistica”, la torre della meditazione – questa torre è anche una torre di guardia. Ogni qualvolta l’occupante avverta un pericolo per la vita o la libertà, ha l’opportunità, o anche il dovere, non solo di segnalare “lungo la linea da cima a cima”, ma anche di gridare, nella flebile speranza di essere ascoltato, a quelli che stanno a terra».
Di fronte all’enormità della posta in gioco – la nostra sopravvivenza fisica in territori devastati dal cemento, e la sopravvivenza della nostra democrazia – si potrà ritenere che la parola sia una difesa trascurabile. Si sbaglierebbe: perché questo libro dice la verità, e lo fa in modo documentato e autorevole. E il messaggio è chiaro: non portate il cavallo di legno di questa legge dentro le mura della città. O la città sarà messa a ferro e a fuoco.
Come ha scritto Hannah Arendt, «La verità, anche se priva di potere, e sempre sconfitta nel caso di uno scontro frontale con l’autorità costituita, possiede una forza intrinseca: qualsiasi cosa possano escogitare coloro che sono al potere, essi sono incapaci di scoprire o inventare un suo valido sostituto. Persuasione e violenza possono distruggere la verità, ma non possono rimpiazzarla».
Tomaso Montanari, sarà a Bologna il prossimo 16 giugno (a breve maggiori informazioni) per presentare il libro, curato da Ilaria Agostni, e a discutere di legislazione urbanistica regionale e nazionale.

«Commento all'ultimo libro di Giancarlo Consonni "Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà". Amministratori, urbanisti, architetti hanno rinunciato a interrogarsi e a discutere di questi concetti». casadellacultura.it 18 maggio 2017 (p.d.)

Un libro smilzo, ma denso e prezioso - l'ultimo di Giancarlo Consonni, Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016) -, che raccoglie tre saggi, diversi per contenuto, apparentati dal malessere per il declino della condizione urbana nel nostro Paese. "Urbanità" e "bellezza" definiscono l'oggetto della ricerca, due valori complementari: la bellezza "vista come componente primaria della cultura delle città e come fatto inscindibile dall'urbanità che - scrive l'autore - di quella cultura è il condensato, un punto di forza irrinunciabile dell'incivilimento".
All'inizio Consonni affronta questioni irrisolte, e forse irrisolvibili, di definizione. Città-regione, area metropolitana, città metropolitana, e poi città diffusa, città contemporanea, città infinita, urbanizzazione, conurbazione e via di seguito. Contesta subito la legge che prende il nome dall'attuale ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, "precipitosamente" istitutiva delle Città metropolitane destinate a sostituire le Province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli e Reggio Calabria. Una legge affetta da ambiguità terminologiche e incertezze programmatiche, con ipotesi alternative e improbabili per i modelli di governo, i cui amministratori sono scelti - aggiungo io - con elezioni di secondo grado, al riparo dal coinvolgimento dei cittadini. Poi dicono il populismo.
Nella città metropolitana - sostiene Consonni - si fa uso improprio del termine città. Città e metropoli sono realtà in conflitto, la differenza non sta solo nella dimensione ma nei caratteri costitutivi. La città non è più tale quando perde suoi attributi comunitari, quando non sta più "dentro a una misura e a relazioni vitali" e non le rende manifeste. Pare scritto per Roma, dove negli ultimi quarant'anni, più o meno con lo stesso numero di abitanti, si è quadruplicata la superficie urbanizzata e non è più riconoscibile alcuna appartenenza comunitaria. Roma non è più una città, ma non è neanche una metropoli, non essendo quel "campo di forze in cui le relazioni a distanza assumono una rilevanza (economica, ma non solo) decisamente superiore alle relazioni di prossimità".
Il secondo saggio tratta di diritto prendendo le mosse dal libro di Paolo Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014), in particolare dalla contestazione di Maddalena a Carl Schmitt sull'origine degli istituti giuridici che regolano lo spazio urbano. Lo studioso tedesco vede nell'occupazione della terra "l'origine di ogni ulteriore ordinamento concreto e di ogni ulteriore diritto". Maddalena a "occupazione" propone di sostituire "stanziarsi" o "insediarsi", evitando in tal modo che l'atto fondativo degli insediamenti sia registrato "sotto il segno della violenza e del dominio". Il che negherebbe l'affermazione del "popolo" e del "territorio" come parti costitutive della civitas. È evidente che non si discute di espressioni terminologiche più o meno politicamente corrette, ma dei connotati del diritto di proprietà che si conforma a partire dalla originaria proprietà della terra. Questione da sempre oggetto delle riflessioni disciplinari di Maddalena che insiste sul fatto che il diritto di proprietà, secondo gli articoli 41 e 42 della Costituzione italiana, debba pienamente rispondere a principi di "utilità sociale" e, quindi, svolgere una "funzione sociale".
Il libro di Consonni sarebbe solo un'indagine storica e un'astratta e amara rassegna di concetti se non planasse su circostanziate pagine di denuncia delle recenti trasformazioni di Milano. Prende infatti in esame l'area Garibaldi-Repubblica e piazza Gae Aulenti dove "ogni organismo edilizio è chiuso in una totale solitudine, incapace com'è di istituire un legame con gli altri edifici e con l'intorno, verso cui si proietta disperatamente in un'esibizione narcisistica". È la stessa lingua usata da Antonio Cederna all'inizio degli anni Cinquanta quando raccontava di una Milano che stava facendo tabula rasa del suo centro storico. Un modo di fare che incombe come un sinistro modello anche sulla prossima stagione urbanistica, quella del riuso dei sette scali ferroviari che, come una corona di spine, cingono il centro di Milano. FS Sistemi urbani, d'accordo con l'amministrazione Sala, stanno procedendo senza regole, a cominciare dalla nomina di progettisti di fiducia. L'eterno rito ambrosiano che neutralizza la cultura urbanistica.
Concludo ritornando a "urbanità" e "bellezza". Amministratori, urbanisti, architetti hanno rinunciato a interrogarsi e a discutere di questi concetti. La città, "o meglio la non città, la fanno gli operatori privati. La Pubblica amministrazione in Italia - sostiene Consonni - si limita a svolgere il compito di guardiana di regole che poco o nulla hanno a che vedere con i problemi della convivenza civile e con l'urbanità: l'urbanistica per gli Enti locali si va sempre più riducendo a un capitolo della fiscalità generale". C'è addirittura dell'ottimismo nel riconoscere il ruolo di "guardiana di regole" alla Pubblica amministrazione. Soprattutto dalla mia latitudine capitolina.

«“I vandali in casa” di Antonio Cederna e “Il grande saccheggio” di Piero Bevilacqua: due testi fondamentali per e comprendere la centralità del territorio come ambito in cui ricreare spazi pubblici sottratti alla distruttività del capitale». MicroMega online, 17 maggio 2017 (c.m.c)


«Le parole dell’iniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile».
Alessandro Manzoni, I promessi sposi[1]

«La forma di una città cambia più in fretta – ahimè – del cuore degli uomini».
Charles Baudelaire

A commento del successo internazionale della Grande bellezza, Raffaella Silipo scriveva sulla Stampa: «Gli americani si immaginano l’Italia esattamente così: splendide pietre e abitanti inconcludenti».[2] E se invece non fosse così? Se l’Italia decadente degli ultimi decenni fosse anzi l’opposto di quella imbelle, invecchiata e rassegnata, che si consola contemplando dall’alto le proprie bellezze imperiture, ritratta nel film di Sorrentino?

L’Italia è piuttosto un paese in cui sempre più persone e associazioni si ergono a difesa del bello, lottano per una riscossa civile contro la prepotenza distruttiva del cemento, rivendicano il diritto a un territorio sicuro, confortevole, funzionale; e in cui altrettante persone e associazioni, più semplicemente, si prendono cura di angoli del paese dimenticati dalle istituzioni. Si moltiplicano i comitati locali, Fai, Italia Nostra e Legambiente registrano sempre maggior seguito, l’opposizione al saccheggio del territorio è folta e coraggiosa e non teme le speciose etichette di sindrome Nimby (Not In My BackYard). I giovani rispolverano espressioni come «la bellezza salverà il mondo», figure come Tomaso Montanari e Massimo Bray divengono punti di riferimento per chi spera ancora in una rinascita della sinistra,[3] e fra le tante contraddizioni grilline prova a farsi largo (con qualche difficoltà, basti pensare alla vicenda di Paolo Berdini a Roma) la parte migliore del Movimento cinque stelle, quella che propone una gestione del territorio più democratica e avanzata.

La ragione di questa rinnovata sensibilità, di questo impegno ancora minoritario, sì, ma in costante crescita, sta forse nel fatto che, come fa notare Salvatore Settis, «la “domanda” sociale di paesaggio (con la sua sintesi fra natura e cultura, fra spazio e tempo) aumenta sempre di più perché l’offerta – la qualità – diminuisce».[4] Quasi sempre, però, si rivela un impegno vano, di fronte all’ottusità degli amministratori, all’abusivismo e al vandalismo immobiliare che hanno già fatto toccare livelli impressionanti di consumo del suolo, ferito irreparabilmente il paesaggio del paese, messo in pericolo città storiche uniche al mondo e pregiudicato la vivibilità di molte aree urbane. Nonostante queste «sacche di resistenza», siamo costretti ad assistere alla trasformazione dell’ambiente in cui viviamo da bene pubblico inestimabile in risorsa da sfruttare.

Gli storici del futuro, che guarderanno l’Italia repubblicana nell’ottica della lunga durata, non potranno più trascurare un fenomeno di rilevanza internazionale come l’«eclissi del paesaggio italiano».[5] Il nostro paese, per anni il primo produttore di cemento al mondo, è passato da un consumo di suolo del 2,7 per cento del territorio nazionale negli anni cinquanta al 7,0 per cento nel 2014, ossia da 8100 m2 a 21100 m2 (dati ISPRA). Un processo che si abbina a decisioni urbanistiche scellerate, e che non ha eguali nel resto d’Europa. Proprio nel paese dal patrimonio culturale più ricco e diffuso – e storicamente meglio tutelato, fin da prima dell’Unità –, nel Belpaese meta privilegiata, tra il Seicento e l’Ottocento, del Grand Tour dei giovani aristocratici e artisti europei, si è registrata l’espansione urbanistica più disarmonica e incontrollata di tutto il continente, la cui natura speculativa è testimoniata anche dal dato-record sul rapporto fra insediamenti abitativi e popolazione. Le conseguenze non sono state, e non sono, di natura unicamente estetica: il dissesto urbanistico e la perdita del paesaggio sono fonte di limitazioni fisiche, di paure, nevrosi, disagi esistenziali; di spaesamento, appunto.[6]

In tutto questo, l’Italia conserva comunque un primato positivo: il nostro è l’unico paese d’Europa ad aver salvato in larga misura i propri centri storici. Credo che non sia azzardato attribuirne il merito a un uomo in particolare: Antonio Cederna, padre nobile delle moderne leggi di tutela e punto di riferimento ideale e culturale per tutti i comitati e i movimenti impegnati nella difesa dell’ambiente e dei beni culturali.

Archeologo di formazione, giornalista «militante» affermatosi al Mondo di Pannunzio (più avanti collaborerà con l’Espresso, il Corriere della Sera e la Repubblica), il nome di Cederna è legato a decenni di memorabili denunce contro le offese inferte alle bellezze artistiche e paesaggistiche italiane, e ai centri storici «sventrati» di città che crescevano «a macchia d’olio», in modo sistematicamente informe, senza riguardi nei confronti dell’antico e del bello. Cederna non esitò a definire «vandali» i responsabili di tanto scempio.

Il suo primo libro, del 1956, si intitola proprio I vandali in casa, e raccoglie i migliori articoli pubblicati sul Mondo. Un testo fondamentale per comprendere la nostra storia recente, ancora oggi inarrivabile per la chiarezza espositiva, il coraggio e l’originalità dell’argomentazione, la lucidità quasi profetica con cui l’autore anticipò temi divenuti di vasto interesse pubblico, ma che nella mentalità dell’epoca lo relegavano tra gli stravaganti «oppositori del progresso». «Il controcanto a mezzo secolo di storia italiana» scrive Francesco Erbani nella Prefazione alla nuova edizione del 1996. Chi sono dunque i vandali, per Cederna?

«Sono quei nostri contemporanei, divenuti legione dopo l’ultima guerra, i quali, per turpe avidità di denaro, per ignoranza, volgarità d’animo o semplice bestialità, vanno riducendo in polvere le testimonianze del nostro passato: proprietari e mercanti di terreni, speculatori di aree fabbricabili, imprese edilizie, società immobiliari industriali commerciali, privati affaristi chierici e laici, architetti e ingegneri senza dignità professionale, urbanisti sventratori, autorità statali e comunali impotenti o vendute, aristocratici decaduti, villani rifatti e plebei, scrittori e giornalisti confusionari o prezzolati, retrogradi profeti del motore a scoppio, retori ignorantissimi del progresso in iscatola. Le meraviglie artistiche e naturali del «Paese dell’arte» e del «giardino d’Europa» gemono sotto le zanne di questi ossessi: indegni dilapidatori di un patrimonio insigne, stiamo dando spettacolo al mondo. Tra le persone civili e i vandali odierni nessun compromesso è possibile». (dall’Introduzione)

L’Italia che aveva subito danni immensi dai bombardamenti bellici, anziché impostare la ricostruzione su basi più avanzate, fece marcia indietro. Frastornata dalla fretta di ripartire, accantonò la ragionevole legge generale di coordinamento urbanistico territoriale introdotta nel 1942 derogandola con provvedimenti ad hoc (fu così inaugurata la pervicace e assurda abitudine a ricorrere a norme speciali per aggirare quelle ordinarie). All’ansia della ricostruzione subentrò poi l’ansia di un progresso spesso malinteso, ed è sull’altare di uno sviluppo economico tanto rapido e straordinario quanto contraddittorio e caotico che fu sacrificata buona parte del «patrimonio insigne». Cerimonieri: la speculazione immobiliare e una politica miope e asservita, che in nome della rendita fondiaria non risparmiarono alcuna regione italiana.

Come ricorda Vezio De Lucia, «nei primi lustri del dopoguerra l’opinione pubblica non percepiva il carattere disastroso che assunsero le politiche urbanistiche e le trasformazioni della città. Solo pochi intellettuali […] s’impegnarono in una lodevole e spesso coraggiosa azione di contestazione e di protesta. La voce più coerente e determinata fu quella di Antonio Cederna. […] Al centro dei suoi interessi è sempre stata l’urbanistica. Un’urbanistica dagli orizzonti vastissimi, tutto lo spazio comunque vissuto dall’uomo, la sua storia, le sue regole».[7]

L’originalità e grandezza di Cederna risiede proprio in questi «orizzonti vastissimi». Professionisti, burocrati e amministratori mediocri sottolineavano il proprio impegno a salvaguardia di grandi monumenti e scorci incantevoli; lui – che ebbe a definirli «esteti da strapazzo e insieme timorosi» (dall’Introduzione), il cui torto più grave era quello di spiare «con trepidazione il nascere di qualche raro capolavoro, e trascura[re] sistematicamente la realtà terribile del nostro tempo, cioè il propagarsi del brutto e dell’indecente» (da «L’architetto neo-romanesco») – oppose una più fertile visione d’insieme, scevra da ogni idealismo elitario.

Il paesaggio, la città e il territorio sono beni di tutti, sono i luoghi attraverso i quali il passato consegna alle generazioni presenti e future la loro identità. Il loro fulcro non è costituito dai singoli panorami o dalle grandi vestigia delle epoche trascorse, e nemmeno dalla loro sommatoria, ma dal rapporto fra i vari elementi, l’equilibrio ecologico e le implicazioni sociali che ne derivano. Una concezione sistemica secondo la quale il territorio è una delle principali fonti del benessere sociale e individuale, e dunque della democrazia.

Su queste basi, Cederna si spese per promuovere una tutela integrale dei centri storici, ritenendola complementare alle necessarie opere di ammodernamento:

«Dobbiamo inchiodarci nel cervello la convinzione che la salvaguardia integrale del vecchio e la creazione del nuovo nelle città sono operazioni complementari, due momenti indissolubili dello stesso procedimento, che antico e moderno hanno prerogative materiali e spirituali distinte e vicendevolmente necessarie; e che solo se si ammette la piena autonomia dei due termini, se ne può risolvere e comporre l’apparente contrasto, cioè sviluppare modernamente una città vecchia, senza distruggere le testimonianze della sua storia». (dall’Introduzione)
Il vero problema era dunque «sviluppare la città moderna non sopra ma oltre l’antica», grazie a una pianificazione e regolazione che privilegiasse l’interesse pubblico su quello privato: tutto il contrario di quanto accadeva sotto l’azione instancabile dei vandali. L’analisi documentatissima di Cederna passa in rassegna le consuete, «sballate ragioni vantate come “imprescindibili”», accampate per giustificare disastri e sventramenti: motivi di traffico, motivi variamente urbanistici, motivi di «decoro», motivi scenografici, motivi di sicurezza. Ma scavando dietro i proclami, scopre puntualmente le «ragioni autentiche, sostanziali, invincibili e micidiali, che da decenni vanno smontando l’Italia antica: le ragioni dell’anarchia, dell’ingordigia e della speculazione privata» (da «Distruggiamo le chiese»).

Particolarmente straziante per Cederna, che vi era cresciuto, è la parabola urbanistica di una Milano divenuta irriconoscibile, che a partire dagli anni trenta annientò il 90 per cento dell’«edilizia minore» di stampo settecentesco e più di una dozzina di chiese storiche (di San Giovanni in Conca rimane tutt’ora un avanzo dell’abside: una grottesca finta reliquia la cui fotografia fu scelta per la copertina della prima edizione dei Vandali in casa), e che, nell’ordine, squarciò e coprì i Navigli, spianò i Bastioni e poi i giardini del centro, sventrò l’intera zona intorno al Duomo e corso Vittorio Emanuele.

Di Venezia, Cederna denuncia – tra i primi in assoluto – il «balordo progettone comunale» che metteva a repentaglio la laguna con autostrade sublagunari e litoranee e persino nuove isole e città satellite. Trovano spazio nel libro anche gli sventramenti di Lucca, Assisi, Ravenna, mentre la data di pubblicazione precede le devastazioni di cui l’autore si occuperà in seguito: per esempio, il Sacco di Palermo perpetrato da amministrazioni mafiose, le «mani sulla città» di Napoli, deturpata dall’abusivismo promosso da Achille Lauro, lo sfregio al paesaggio veneto che addolorava Andrea Zanzotto, la cementificazione selvaggia delle coste, la mala gestione dei bacini d’acqua e dei parchi nazionali, le sciagure annunciate della frana di Agrigento e dell’alluvione di Firenze.[8]

Ma è il destino di Roma, metafora d’Italia e per lui città d’adozione, a tormentare Cederna più di ogni altra cosa, al punto che alla capitale è dedicata oltre metà del libro. La città eterna divenuta «città eternit», dove furono distrutte magnifiche ville cinque e settecentesche, in cui Borgo fu spianato per realizzare via della Conciliazione e la collina di Monte Mario rovinata da un gigantesco albergo Hilton, in cui già negli anni venti la via dei Fori imperiali voluta da Mussolini aveva demolito l’intero tessuto urbano compreso tra piazza Venezia e il Colosseo. L’Urbe che si espanse a macchia d’olio in tutte le direzioni con quelle insane e grigie periferie-dormitorio di cui Pier Paolo Pasolini indagò il degrado sociale. La «capitale corrotta» presa in ostaggio da un «Leviatano onnipossente», la Società Generale Immobiliare che «rappresenta in concentrato gli interessi dei più vari potentati economici d’Italia, dal Vaticano alla Fiat» e «monopolizza terreni, traffica in aree fabbricabili, costruisce quartieri “signorili”» (da «Il Leviatano immobiliare»).

Roma, però, fu teatro anche di molte battaglie vinte: in primis quella per la tutela della via Appia Antica, vero assillo di Cederna. «Andava salvata religiosamente perché da secoli gli uomini di talento di tutto il mondo l’avevano amata, descritta, dipinta, cantata, trasformandola in realtà fantastica, in momento dello spirito, creando un’opera d’arte di un’opera d’arte: la Via Appia era intoccabile, come l’Acropoli di Atene» scrisse nel celebre articolo «I gangster dell’Appia». E la regina viarum, straordinario museo a cielo aperto minacciato dall’abusivismo e da piani di lottizzazione sconsiderati, fu salvata nel 1965 grazie a un’instancabile campagna che portò alla costituzione di un parco archeologico.

Unita al successo della campagna del 1952 contro lo sventramento di via Vittoria e del centro di Roma, talmente devastante da risvegliare le coscienze di decine di intellettuali, che riuscirono a sventare il folle progetto e nel 1955 fondarono Italia Nostra, la vicenda dell’Appia Antica sfata la leggenda secondo cui Cederna è stato un «signor no» destinato alla sconfitta. È stato invece l’ispiratore di svariate battaglie vinte, e di grandi innovazioni come la fondamentale «legge ponte» del 1967, che obbliga i comuni a dotarsi di piani regolatori ponendo un freno alla lottizzazione selvaggia, o delle leggi per la difesa del suolo del 1989 e per la protezione della natura del 1991, promosse in veste di parlamentare. «Pensate cosa sarebbe l’Italia se Cederna fosse pigro» disse l’illustre storico dell’architettura Leonardo Benevolo; come già si accennava, il fatto che gran parte dei centri storici italiani sia stata conservata, e che la necessità della loro tutela integrale sia diventata indiscutibile, si deve anche e soprattutto alle sue campagne.

Mai sconfitto, quindi, ma certo scomodo, Cederna è stato ed è ripetutamente isolato e irriso, e il suo pensiero contraffatto e banalizzato, spesso da soggetti ambigui e tutt’altro che disinteressati. Un caso recente è l’editoriale del Messaggero firmato dal direttore Virman Cusenza, che senza sprezzo del ridicolo – come ha denunciato su MicroMega online Vittorio Emiliani – definisce il «cedernismo» un «impasto di conservatorismo ideologico, di decrescita infelice e di anticapitalismo mascherato da ecologismo, […] cultura sprezzante dei bisogni di modernità, mobilità e vivibilità».[9] Il proprietario del quotidiano Franco Gaetano Caltagirone ebbe invece a scrivere che «nel nome di Cederna a Roma si è consolidato un vincolismo selvaggio», impedendo a Roma di adeguarsi ai tempi come le altre capitali.[10]

Obiezioni evidentemente «pelose» e del tutto inconsistenti. Chiunque abbia letto un suo articolo può facilmente rendersi conto che Cederna non rinunciò mai a corredare le denunce e le proteste di dettagliate, curatissime proposte per un’urbanistica consapevole della propria rilevanza storica e sociale. Si spese perché le città italiane seguissero i virtuosi esempi urbanistici di Stoccolma, Amsterdam, Parigi, Londra, fece conoscere la meraviglia dei parchi nazionali nordamericani, fu sempre pronto a elogiare i casi di buongoverno del territorio.

L’architetto Paolo Desideri è autore di un intervento critico molto più stimolante. Su Limes, Desideri chiamava in causa la presunta ingenuità dell’autore dei Vandali in casa, reo di eccessi polemici nei confronti della famigerata Società Generale Immobiliare e delle grandi imprese edilizie, e di non comprendere che in ambito urbanistico il capitale privato può e deve essere «indirizzato e governato» affinché diventi «capitale trasformativo» (anche grazie all’«urbanistica contrattata», da sempre avversata da Cederna).[11]

Addomesticare il capitale, dunque. Cederna, di formazione borghese e illuminista, non si schierò mai contro il capitalismo in sé, né mise mai in discussione la proprietà privata. Era però convinto che la proprietà privata di un bene pubblico quale il territorio, che porta benefici a tutti, non potesse consentire un uso a beneficio esclusivo del proprietario. La salvaguardia dell’interesse generale doveva prevalere su ogni valutazione di profitto privato: un principio di democrazia, incompatibile con la contrattazione che sposta l’iniziativa in mano alla proprietà, e perseguibile solo attraverso gli strumenti della pianificazione e dello stato di diritto.

Altro che ingenuità: sapeva di vivere in questo paese, l’Italia dei poteri selvaggi e di un capitalismo in gran parte parassitario e semifeudale. L’Italia che – come ha ben sintetizzato Vezio De Lucia – ostacolò in ogni modo le riforme urbanistiche del ministro Fiorentino Sullo scatenando un assalto al territorio mai visto prima e depotenziò quelle del ministro Mancini, e in cui si udì un «balenar di sciabole» golpista ogni volta che si profilò all’orizzonte una svolta sfavorevole alle grandi immobiliari.[12]

Cederna visse l’Italia degli arcana imperii, della strategia della tensione, del Piano Solo, della P2, della pax mafiosa, e fece in tempo ad assistere all’ascesa politica di Craxi e Berlusconi e ai condoni edilizi dei rispettivi governi. Davanti a un sistema di fatto improntato alla difesa della rendita e delle cricche politico-economiche, più che addomesticare il capitale c’era da non farsi addomesticare. Antonio Cederna, insomma, è stato prima di tutto un grande difensore della democrazia, strenuo sostenitore di uno spazio pubblico sottratto a logiche di profitto e agli istinti vandalici del capitalismo.

Oggi, mentre prosegue l’eterna anomalia italiana, la crisi del capitalismo globale ha moltiplicato questi suoi istinti vandalici. Lo illustra magistralmente Piero Bevilacqua in Il grande saccheggio, un libro di qualche anno fa che ha il raro pregio di saper osservare il nostro tempo in una prospettiva storica. Bevilacqua dimostra che il capitalismo è entrato «in un’epoca di distruttività radicale: dissolve le strutture della società, decompone lo Stato, cannibalizza gli strumenti della rappresentanza politica e della democrazia, desertifica il senso della vita; va divorando, sino al limite del collasso, le risorse naturali sul cui sfruttamento ha fondato i propri trionfi economici» (p. IX).

Con buona pace dell’architetto Desideri, la vera ingenuità – oggi ancor più di quando scriveva Cederna – è credere di poter indirizzare e governare il grande capitale scendendovi a patti, mentre da anni è quest’ultimo a addomesticare la democrazia piegandola ai suoi fini privati, ponendo vincoli all’azione pubblica e svuotando la politica di efficacia.

«Il cosiddetto libero mercato ha divorato l’interesse generale. Questa conquista di civiltà politica dell’Occidente si è dissolta nel libero e caotico perseguimento degli interessi particolari da parte degli individui. Com’era prevedibile, nessuna armonia celeste ha ricomposto lo scatenamento privato degli interessi in un superiore stadio di avanzamento collettivo. Il cuore del potere politico che nella seconda metà del Novecento si era assunto il compito di rappresentare l’interesse generale è stato assediato e occupato.

[…] I grandi poteri privati assediano il potere pubblico piegandolo a servire i loro sparsi e disordinati interessi. Si è realizzata una rifeudalizzazione dello spazio pubblico, come se la storia dell’Occidente fosse tornata indietro di quattro secoli». (p. 32)

Si può concordare o meno con le conclusioni di Bevilacqua, il quale, sulla scorta della teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto, ritiene che il capitalismo sia giunto a una sconfitta storica e che sia vano attendersi una ripresa dalla crisi («Godot non arriverà»). Ma è certo che negli ultimi trent’anni il pensiero economico, sorreggendo di fatto lo strapotere del capitalismo finanziario globale, ha «distaccato l’economia dalla società, si è trasformato in una tecnologia della crescita senza fedi e senza progetti, un dispositivo neutro libero ormai da ogni contesto» (p. 22). Il risultato è la privatizzazione della politica, il trionfo dell’interesse privato sull’interesse pubblico.

Per Bevilacqua,

«Viviamo in una delle più paradossali società che la storia umana abbia mai edificato nel suo lungo cammino. Una ricchezza straripante che dilaga dappertutto e la condanna alla marginalità degli uomini e delle donne che la producono. Oceani di beni che dilagano intorno a noi, ma che non servono a darci tempo di vita, non ci liberano dalla precarietà, ci gettano nell’insicurezza, ci spingono a un lavoro crescente, a rapporti umani definitivamente mercificati e privi di senso. Una potenza tecnologica senza precedenti, che non ci libera dalle fatiche quotidiane, ma che ormai si erge come una potenza che minaccia il mondo vivente». (p. 183)

La strada del consumo si è definitivamente separata dalla strada del benessere, e in parallelo si consuma il divorzio tra la politica democratica e un potere che ormai viene esercitato al di fuori delle istituzione. È come se le storiche anomalie semifeudali del sistema italiano si manifestassero in tutto l’Occidente. Con un ulteriore paradosso, nel nostro paese, che è quello da cui siamo partiti: l’impegno civico in difesa della bellezza italiana e del territorio come bene pubblico si è fatto massa critica, ma una democrazia azzoppata lo recepisce solo sotto forma di slogan vuoti. A maggior consapevolezza corrisponde maggiore impotenza. E alla crescente e inesorabile impermeabilizzazione del suolo, causa di continui e spesso drammatici disastri idrogeologici (quelle che Cederna chiamò «alluvioni programmate»)[13] corrisponde una pari impermeabilizzazione delle classi cosiddette dirigenti alla richiesta di un modello di sviluppo alternativo.

Mentre gli investimenti pubblici per la tutela del paesaggio, la riqualificazione urbana, la preservazione degli equilibri ecologici e il risanamento fisico del territorio, di cui c’è disperato bisogno, vengono costantemente rinviati, si continua a promuovere il modello delle grandi opere, dell’alta velocità e delle mega-autostrade, dei «grandi eventi» con cui derogare alla normativa ordinaria. Creano lavoro, si dice. Ma le grandi opere sono ad alta intensità di capitale, mentre le piccole ad alta intensità di lavoro: queste ultime, a parità di investimento, produrrebbero ricadute estremamente più positive sull’occupazione, e in un’ottica keynesiana sulla domanda aggregata. L’utilità delle grandi opere, finanziate tramite il perverso meccanismo del project financing, che finisce per favorire le grandi imprese appaltatrici e le banche grazie alla garanzia dello Stato, appare del tutto sproporzionata (quando non del tutto fittizia) rispetto ai suoi enormi costi.[14]

Eppure non vi si rinuncia, nemmeno in epoca di austerity: troppo forti gli appetiti dei grandi capitalisti, troppo forti i legami coltivati nel «laboratorio segreto in cui», come ci ricorda Braudel, «il possessore di denaro incontra quello del potere politico». C’è una tendenza naturale del capitalismo a porsi al riparo dal rischio d’impresa, dalla concorrenza che per sua natura erode i margini di profitto: è nel campo politico che si determina l’esito di questa ricerca ossessiva della rendita. Se la politica è forte e democratica, può fungere da contrappeso grazie alla sua capacità di indirizzo e di legiferare in nome dell’interesse generale. Se è forte ma non democratica, oppure debole e subalterna, diviene il garante della rendita, il regista dei grandi interessi privati – come è sempre accaduto in Italia e come sempre più accade nel mondo.[15]

Come riappropriarsi della democrazia? Negli ultimi anni diversi pensatori hanno ribadito la centralità del territorio come ambito in cui ricreare spazi pubblici sottratti alla distruttività del capitale. Che la dimensione privilegiata sia quella urbana – dalle «città delle reti» di Manuel Castells alle «città ribelli» di David Harvey, fino ai sindaci a cui «far governare il mondo» di Benjamin Barber –,[16] oppure, come sostiene anche Bevilacqua, le aree interne e i borghi abbandonati,[17] è nella politica locale che può nascere la resistenza al «grande saccheggio», e insieme la proposta di un’alternativa. Se si crede che non debba essere soltanto un ripiego sul territorio, ma anche una riprogettazione del territorio – la rivendicazione dei luoghi, della città e del paesaggio come beni comuni da gestire e rimodellare secondo l’interesse generale – non dovrebbe sfuggire l’attualità di Antonio Cederna. La sua intera biografia dimostra che nel lungo periodo i «no», se non una nuova realtà, possono almeno costruire una nuova mentalità.

NOTE

[1] Antonio Cederna, racconta la figlia Camilla in Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna (a cura di M.P. Guermandi e V. Cicala, Bononia University Press, Bologna 2007), portava sempre nel portafogli queste parole, impresse su un foglietto con una vecchissima macchina da scrivere.

[2] Raffaella Silipo, «La bellezza nonostante», La Stampa, 3 marzo 2014

[3] Vedi per esempio i rispettivi interventi su MicroMega n. 2/2017.

[4] Salvatore Settis, Paesaggio, costituzione, cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Enaudi, Torino 2010, p. 74.

[5] L’espressione è tratta da Leonardo Benevolo, Il tracollo dell’urbanistica italiana, Laterza, Roma-Bari 2012.

[6] Vedi Francesco Vallerani, Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento, Unicopli, Milano 2013.

[7] Vezio De Lucia, Nella città dolente. Mezzo secolo di scempi, condoni e signori del cemento dalla sconfitta di Fiorentino Sullo a Silvio Berlusconi, Castelvecchi, Roma 2013, pp. 67-68.

[8] Gran parte degli articoli di Cederna successivi a I vandali in casa sono reperibili sul sito dell’Archivio Cederna: ww.archiviocederna.it.

[9] Vittorio Emiliani, «Il Messaggero, quotidiano di Caltagirone, all’attacco di Cederna e del “cedernismo”», in MicroMega online, 28 febbraio 2017, http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-messaggero-quotidiano-di-caltagirone-all%E2%80%99attacco-di-cederna-e-del-%E2%80%9Ccedernismo%E2%80%9D.

[10] Citato in Giulio Cederna, «Mio padre direbbe: “tirem innanz…”», in Un italiano scomodo, cit.

[11] Paolo Desideri, «Il cedernismo malattia senile del riformismo», in Limes n. 3/2007.

[12] Vezio De Lucia, Nella città dolente, cit.

[13] Antonio Cederna, «Alluvione programmata», Corriere della Sera, 10 ottobre 1977.

[14] Vedi Ivan Cicconi, Il libro nero dell’Alta velocità, Koiné, Roma 2011.

[15] Per una sintetica ma esauriente trattazione storica dell’alternarsi tra regolazione pubblica e deregolazione privata, e della sinergia fra politica e grande proprietà, vedi Pierfranco Pellizzetti, Società o barbarie. Il risveglio della politica tra responsabilità e valori, il Saggiatore, Milano 2015, cap. 2.

[16] Vedi Manuel Castells, La città delle reti, Marsilio, Venezia 2004; David Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, il Saggiatore, Milano 2013; Benjamin Barber, If Mayors Ruled the World: Dysfunctional Nations, Rising Cities, Yale University Press, New Haven 2014.

[17] Oltre al capitolo conclusivo del Grande Saccheggio, «Uno sguardo al futuro», vedi gli articoli raccolti in www.officinadeisaperi.it/author/piero-bevilacqua/.

(17 maggio 2017)

«Una storia «in cui si intrecciano tanti fattori quali il problema dei poveri, la questione delle abitazioni, la religione, il paternalismo, l’assistenzialismo, il capitalismo, gli esiti della rivoluzione industriale, l’utopia, la lotta di classe, l’urbanistica, l’archeologia industriale». il manifesto, 6 aprile 2017

Renato De Fusco è professore emerito di Storia dell’architettura all’Università Federico II di Napoli. Un fattore particolare sembra legare i numerosi scritti da lui pubblicati nel corso degli anni: il fatto di presentare tanti motivi di interesse anche per chi non sia particolarmente addentro alle questioni architettoniche pure.
NON SI TRATTA, in questo caso, di voler fare divulgazione della disciplina, ma piuttosto di offrire uno sguardo ampio che, pur rimanendo all’interno del contesto storico-architettonico, faccia emergere questioni, temi, problematiche interessanti e coinvolgenti anche per chi architetto non è. Basti pensare, a tale proposito, al confronto instaurato nei suoi saggi a partire dagli anni Settanta del secolo scorso tra storiografia architettonica e strutturalismo o al tentativo di delineare una teoria semiotica dell’architettura. Uno sguardo, poi, sempre penetrante e in grado di offrire interpretazioni illuminanti di edifici, costruzioni, manufatti. Come nel caso dell’analisi della Rotonda palladiana o di Sant’Ivo alla Sapienza, solo per fare qualche esempio.

TALI CARATTERISTICHE si ritrovano limpidamente intatte nell’ultimo lavoro pubblicato da De Fusco insieme ad Alberto Termino, intitolato Company town in Europa dal XVI al XX secolo (Franco Angeli edizioni, pp. 144, euro 19) e dedicato, appunto, a quegli «insediamenti di natura industriale nati per conciliare le esigenze di unire casa e lavoro in un unico centro abitato funzionale agli interessi dell’imprenditore e di quelli dell’operario, a seconda delle idee che stanno alla base della iniziativa imprenditoriale».
Il libro, dopo aver delimitato il proprio oggetto dal punto di vista del tempo, dello spazio e della sua definizione, si presenta come un’analisi accurata degli antecedenti – come i Beghinaggi, la Fuggerei di Augsburg o l’insediamento manufatturiero e agricolo di San Leucio presso Caserta – e delle vere e proprie Company town sorte in Europa con la rivoluzione industriale.

Non mancano, naturalmente, le esperienze più note, come New Lanark di Owen o il Falansterio di Fourier o le colonie Krupp ad Essen, ma si ritrovano anche esperienze meno conosciute o addirittura ignote, almeno per chi non è esperto della materia, come il Familisterio di Godin o Saltaire vicino Leeds.

IL DISCORSO si snoda tra analisi architettoniche ed urbanistiche, esigenze di razionalizzazione, paternalismo e tentativi di controllo ispirati al Panopticon di Jeremy Bentham. Non mancano raffronti con il resto, la maggioranza, della classe operaria esclusa da tali esperienze sulla scorta della famosa analisi engelsiana sul proletariato inglese.

AD EMERGERE non sono le figure di architetti e progettisti ma quelle degli imprenditori, veri artefici di tali siti abitativi. Ma soprattutto le Company town si confermano essere, secondo la tesi enunciata in apertura dagli autori, una sorta di «storia minore» all’interno dell’Architettura, uno snodo complesso e fondamentale, «un’occasione forse irripetibile» in cui si intrecciano tanti fattori quali «il problema dei poveri, la questione delle abitazioni, la religione, il paternalismo, l’assistenzialismo, il capitalismo, gli esiti della rivoluzione industriale, l’utopia, la lotta di classe, l’urbanistica, l’archeologia industriale».

Un'analisi del paradosso italiano: da più di mezzo secolo si costruiscono troppe case. a non ce ne sono abbastanza per chi ne ha bisogno. Ecco che succede quando si passa dalla programmazione alla speculazione (chiamala, se vuoi, "mercato"). E che cosa, invece, bisognerebbe fare


Enrico Puccini, Verso una politica dellacasa Dall’emergenza abitativa romana adun nuovo modello nazionale, Ediesse, Roma 2016

Il libro di Enrico Puccini è un vero e proprio saggio che auspico sia letto sia da addetti ai lavori che da amministratori locali e, non per ultimo, quanti hanno a cuore le sorti delle nostre città e i diritti sociali che devono essere resi esigibili.

Il libro di Puccini sostenuto da dati inoppugnabili ed in alcuni casi delle vere chicche, parte da un assunto assolutamente condivisibile: uscire dalla cosiddetta “emergenza abitativa” a “politiche abitative”.

Questo è il cuore della questione ed è la questione ineludibile infatti si tratta di abbandonare definitivamente le politiche emergenzialiste alle quali abbiamo assistito almeno negli ultimi 20 anni. Politiche emergenzialiste che hanno di fatto contribuito a recintare la questione abitativa all’interno del mantenimento delle politiche nel recinto dell’emergenza. Emergenza utile a continuare una dannosa, cementificazione del territorio senza produrre alcuna risoluzione della questione abitativa.

L’esempio più evidente deriva dalla questione “residence” ovvero quei luoghi, a dire il vero assai lugubri, nei quali a Roma sono stati costretti a vivere poco più di 1800 famiglie ad un costo esorbitante, fuori da qualsiasi contesto e corretta gestione, anche solo amministrativa, pari a circa 38 milioni di euro all’anno.

Come sia possibile che Roma Capitale di un Paese del G8 non sia in grado di assegnare un alloggio, nel corso di decenni, a 1800 famiglie non è il frutto di un destino cinico e baro ma di una scelta ben definita.

A Roma si è scelto di mantenere in vita una finta “emergenza abitativa” solo per inseguire e sostenere politiche urbanistiche che nulla avevano a che vedere con il fabbisogno reale e questo dal libro di Enrico Puccini si evince con estrema chiarezza e dovizia di particolari.

Ma quanto accaduto a Roma in materia di politiche abitative non è una questione circoscrivibile alla città di Roma, con altri numeri, è lo stesso atteggiamento sostenuto dalla varie amministrazioni locali, indipendentemente se di centro sinistra o di centro destra. Non vi è poi tanta differenza tra la scelta dei “residence” romani e gli alberghi o ricoveri presso strutture assistenziali, che vengono offerti, raramente, dai comuni in alcuni casi di sfratti eseguiti dove sono presenti minori. E’ un evidente sperpero di risorse pubbliche mai sufficientemente indagato, è la negazione dei più elementari diritti costituzionali.

Enrico Puccini non si ferma a ciò ma indica una interessante confronto con l’Europa. A parte la evidente e risaputa differenza di presenza di alloggi sociali tra i Paesi europei e l’Italia, Puccini ci aiuta a comprendere ancora meglio come la maggiore presenza di alloggi sociali si è associata, in Europa, con sussidi e contributi rilevanti che abbattono i canoni di locazione anche degli alloggi sociali garantendo al contempo la sostenibilità degli affitti e la possibilità di garantire le necessarie manutenzioni degli alloggi sociali, ossia della vivibilità degli stessi.

Questo stride fortemente con quanto avvenuto in Italia dove non solo la presenza di alloggi sociali è con tutta evidenza insufficiente, ma la qualità del vivere nelle case di edilizia residenziale pubblica è spesso pessima, a Roma sulla base dei dati forniti dal libro di Enrico Puccini si sostanzia in un fabbisogno di risorse da destinare alle manutenzioni di almeno 700 milioni di euro, questione che fornirebbe, anche, un formidabile volano occupazionale.

In Italia invece e al contrario del necessario assistiamo ad una miopia o vera e propria cecità, in materia di politiche abitative, al plurale perché ci sarebbe bisogno di politiche abitative che aggrediscono i vari segmenti del fabbisogno abitativo e del disagio abitativo. Come definire la, ancora, pervicace volontà di Governo, Regioni e Comuni nel perseguire la politica di sostegno all’acquisto in particolare per giovani coppie, quando a questi si offre un mercato del lavoro ad intermittenza, precario, pagato con voucher ?

Come è pensabile sostenere la sfida con la crisi economica se da una parte si tende sempre più ad immobilizzare un Paese con oltre il 70% di unità immobiliari in proprietà e dall’altra si sostengono politiche del lavoro basate oltre che sulla precarietà anche e soprattutto sulla mobilità. Basta vedere quanto successo nel comparto della scuola con professori, residenti a Palermo e magari inviati nelle valli bergamasche. Non può essere un caso che i Paesi europei dove gli effetti della crisi economica sono stati più pesanti sono Spagna, Italia e Grecia ovvero i Paesi europei dove l’incidenza degli alloggi in proprietà è più alta.

Quando, ad esempio, la Germania che è il motore dell’economia europea il 60% della popolazione vive in affitto e con forti sussidi all’affitto, questo dimostra la stretta correlazione tra lavoro e abitare. Uno slogan che riecheggia spesso afferma: “ Perdi il lavoro – Perdi la casa”. Casa e lavoro sono un binomio inscindibile non a caso l’innalzamento degli sfratti per morosità (incolpevole) corrisponde più o meno esattamente agli anni di crisi economica.

Nonostante ciò, in Italia, il Governo con la legge di bilancio per il 2016 ha proceduto all’azzeramento del fondo contributo affitto, riproposto anche nella legge di bilancio 2017 per gli anni fino al 2019. Quel contributo affitto che, come ben dettagliato nel libro di Enrico Puccini, dovrebbe essere uno dei pilastri per politiche abitative degne di questa definizione.

A Roma il contributo affitto ha consentito a oltre 13.000 famiglie di non cadere nel baratro dello sfratto per morosità, in Italia parliamo di 350.000 famiglie. Ora il Governo, le Regioni e i Comuni che non destinano risorse o ne destinano in forma residuale risorse a contributi per il sostegno alla locazione né perseguono seriamente il riuso dell’esistente a partire dall’enorme patrimoni del demanio civile e militare inutilizzato, scelgono la strada di aumentare il disagio abitativo, perché ancora ancorati a una strategia obsoleta che trascura il fabbisogno ma persegue la cementificazione del territorio a sostegno della rendita immobiliare e della speculazione.

Non a caso il Censimento Istat del 2011, ci dice che tra il 2001 e il 2011 in Italia si sono realizzate oltre 1,5 milioni di unità immobiliari ad uso abitativo, di queste forse meno dell’1% alloggi sociali a canoni “moderati” .

E che dire della legge sulla morosità incolpevole? Una legge che prevedeva, come giustamente sottolineato nel libro di Enrico Puccini, un percorso condivisibile ovvero la presa in carico da parte dei comuni degli sfrattati per morosità incolpevole, al fine di un accompagnamento sociale prioritariamente verso un nuovo contratto a canone agevolato, tentando di ridurre il peso delle famiglie con sfratto. La legge si basa su un contributo congruo (8000 euro ora passati a 12.000 euro) e sul fatto che i comuni stilassero un elenco delle famiglie con sfratto per morosità incolpevole per consentire ai prefetti di procedere alla graduazione degli sfratti questo per consentire ai comuni di avere il tempo necessario per l’accompagnamento sociale. Nulla di tutto questo è stato fatto anzi i Comuni, anche Roma, ha utilizzato, nella maggioranza dei casi le risorse solo per prorogare gli sfratti di qualche mese. Abbiamo, quindi, assistito ad un fallimento dovuto anche alla pretesa dei Comuni, come Roma, di limitare la definizione delle famiglie con sfratto per morosità incolpevole, applicando il decreto attuativo del ministero delle infrastrutture in maniera del tutto restringente.

Il risultato è che per il 2017 il Governo ha stanziato solo 36 milioni di euro a livello nazionale se solo rapportiamo queste risorse ai soli sfrattati per morosità del 2015 abbiamo un contributo possibile di circa 50 euro mensili, si cinquanta euro.

Il libro di Enrico Puccini non è solo una utile ed essenziale saggio, ricchissimo di dati ma affronta nella parte finale anche la questione delle proposte per politiche abitative attraverso le quali passare dall’emergenza abitativa a politiche strutturali e programmatiche basate sul fabbisogno reale come ben descritto da Enrico Puccini.

Proposte che a mio dire vanno prese in seria considerazione e credo debbano essere oggetto di approfondimento e implementazione, perché si tratta di proposte che si basano su una analisi rigorosa dei dati e del contesto vissuto dalle famiglie in disagio abitativo.

Sarebbe, infine, sbagliato catalogare, il libro di Enrico Puccini, di lettura “locale”. Quanto avvenuto a Roma, le condizioni del disagio abitativo, l’impatto urbanistico delle scelte passate e la netta necessità di procedere ad una concreta discontinuità in materia di politiche abitative, rappresentano una traccia di analisi che riveste un carattere nazionale.

Il mio auspicio e che il libro di Enrico Puccini sia letto anche al di fuori di Roma e che rappresenti un contributo scientifico per indicare un nuovo modello nazionale, regionale e comunale di politiche abitative qualificate, che non guardino, come fatto fino ad oggi, al solo fabbisogno della rendita e della speculazione immobiliare a forte impronta liberista, i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti: 700.000 famiglie collocate nelle graduatorie comunali, costrette ad “abitare” una graduatoria, circa 80.000 sentenze di sfratto all’anno, il 90% per morosità, un patrimonio di edilizia residenziale pubblica composto da circa un milione di alloggi lasciati al degrado strutturale e umano, un patrimonio immobiliare demaniale civile e militare del valore di circa 60 miliardi di euro lasciato spesso vuoto, utile solo a valorizzazioni di tipo speculativo. E’ ora di invertire lo stato di cose presenti in materia di politiche abitative ed urbanistiche, il libro di Enrico Puccini è un contributo efficace e va in questa direzione. Buona lettura.

Massimo Pasquini

«La città deve tornare a essere un motore dell'immaginario, capace di essere ospitale, di generare narrazioni, di mettere in moto emozioni e sorprese. E di educare alla vita e alla bellezza civile».
casadellacultura, città bene comune, 10 febbraio 2017 (c.m.c.)

L'ultimo libro di Giancarlo Consonni - Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016) - è semplicemente Bello. Proprio così: con la "B" maiuscola. È infatti uno di quei rari saggi che riesce a prendere fiato rispetto al parapiglia di un dibattito urbanistico spesso schiacciato sui temi della rendita e della fiscalità urbana piuttosto che sull'arte di costruire le città, o su quello o quell'altro caso di speculazione, o - come si dice oggi - di sviluppo 'smart'.

Consonni - intrecciando i mille rivoli di una cultura personale che prima di essere urbanistica è umanistica - riesce a vedere con il necessario distacco quel che sta accadendo nel dibattito sulla città e il territorio e soprattutto riesce a farci comprendere bene quanto l'idea stessa di città si sia erosa e modificata nel tempo a furia di maltrattamenti lessicali e manomissioni di senso. Questo al punto che oggi fatichiamo a vedere, a sentire, a immaginare un futuro per quella che è una delle più grandi invenzioni dell'umanità.

Sento per l'autore di questo "libriccino" - così lo definisce lo stesso Consonni nella premessa - un sentimento di vera gratitudine. Ho respirato qualcosa di nuovo leggendo quelle pagine dense di pathos e non solo di logos. In esse ho colto una critica non ideologica a ciò che succede al governo del territorio. Ho visto dove si sono ammalorate le basi del pensiero urbanistico. E ho capito. Perché questo "libriccino" ti apre gli occhi, spostando il tuo sguardo fuori dalla rissa in cui perennemente ci troviamo, per appoggiarlo sulle cose veramente importanti, quelle che fondano (e dovrebbero continuare a fondare) sia l'idea di città sia l'idea di progetto della città.

Non si può che concordare con l'autore sulla necessità di interrompere quella follia che vuole la città e la metropoli come una sola grande occasione di profitto. Questo è terribilmente svilente non solo della bellezza dei luoghi urbani ma anche e soprattutto dell'idea di cittadinanza e dell'idea stessa di città. Idee che nel nostro Bel Paese si sono formate attraverso i secoli divenendo parte del nostro carattere, del nostro pensare e agire quotidiano, del nostro sguardo, persino quando chiudiamo gli occhi.

Il problema - perché esiste effettivamente un problema - è che oggi si sta eccessivamente imponendo, a forza di proclami e false verità, un'idea di città di plastica, tutta costruita attorno alla parola magica "metropolitana". Consonni vi si sofferma, la studia, ci ragiona con maestria e leggerezza e alla fine ne deduce che non possiamo rinunciare alle chiavi basilari di ciò che è veramente la città, ad alcuni suoi caratteri essenziali come quello dell'urbanità e quello della bellezza.

Diversamente ci "sembra" di essere in una città, ma invero siamo in una sorta di set cinematografico alla "Truman Show", in un penoso spettacolo in cui ogni cosa è messa lì per soddisfare le mire di guadagno di alcuni, i soliti che mirano ad accaparrarsi la rendita, quelli della finanza, del fondo immobiliare xy, della catena commerciale zk. E loro - questo è chiaro - hanno più bisogno di consumatori che non di cittadini.

Tra le strade e le piazze di questo tipo di città non sono benvenuti coloro che vogliono semplicemente passeggiare e - consapevolmente o inconsapevolmente - praticare un'esperienza emotiva e sensoriale complessa. Sono ammessi solo clienti a consumazione obbligatoria. E la bellezza allora sbiadisce, ma soprattutto evapora la nostra capacità di coglierla, di essere fieri e consapevoli che questa esiste davvero ed è l'anima delle nostre città, quelle europee ma soprattutto quelle italiane. Finiamo così per infischiarcene: un delitto di cui non possiamo essere complici. «La città - sostiene al contrario Consonni - deve tornare a essere un motore dell'immaginario, capace di essere ospitale, di generare narrazioni, di mettere in moto emozioni e sorprese. E di educare alla vita e alla bellezza civile».

Se la nostra identità non si intreccia con l'urbanità - che per Consonni significa bellezza d'insieme, ma anche affabilità, educazione allo stare insieme di architetture e persone e molte altre cose ancora - salta per aria quella convivenza civile fatta di relazioni di prossimità, di desiderio di prendersi cura dei luoghi, di sentimento di cittadinanza. Va cioè in crisi ciò che alla fine fa la città. Dalla capacità di tenuta dei sottili fili che ancora ci annodano a quel che rimane della bellezza d'insieme e dell'urbanità che, nonostante tutto, continua a caratterizzare molti dei nostri tessuti urbani, misureremo il nostro amore per la città.

Consonni non teme di lanciare un appello alle classi dirigenti del Paese, agli architetti e agli urbanisti, invitandoli, responsabilmente, a non spezzare quei fili, già così lisi. In caso contrario, verrebbe definitivamente meno il senso di appartenenza alla città (in quanto idea, luogo e casa) e soprattutto svanirebbe quell'obbligo implicito di legittimarsi attraverso la "bellezza civile". Se ciò accadrà, se si proseguirà sulla strada che da anni abbiamo purtroppo imboccato, «si sbriciolerà - secondo Consonni - uno degli argini che tiene insieme il mondo e ne limita la bruttezza».

Per concludere, questo "libriccino" giallo non è solo bello: è uno slancio poetico (perché è di poesia che abbiamo bisogno per ragionare e vedere al futuro). È cioè qualcosa che ci ricorda con sentimento che «la bellezza è un dono. Una felicità momentanea che, più che appagarci, ci interpella». Allora chiediamoci cosa può fare ognuno di noi per tener vive le tante bellezze delle nostre città e dei nostri paesaggi: di ciò siamo tutti responsabili.

Un dialogo tra un economista e un urbanista di Giacomo Becattini e Alberto Magnaghi, "La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale". casadellacultura, città bene comune, 20 gennaio 2017 (c.m.c.)

I tempi delle idee

A lungo lontano, solo recentemente ho letto La coscienza dei luoghi* (e, su invito, mi accingo a scriverne). Fortunatamente questo non è un libro con un orizzonte temporale limitato e specifico. Anzi, riprende con forza e perseveranza idee di lungo periodo: che risalgono ai primi anni '2000 per Giacomo Becattini (l'evoluzione del tema dei distretti economici territoriali nel quadro emergente delle politiche di sviluppo locale: Becattini 2000, 2007 e 2009); al decennio precedente per Alberto Magnaghi (le questioni del "ritorno al territorio" e della "coscienza dei luoghi": Magnaghi, 1990, 1998, 2000 e 2010). Si tratta dunque di idee che hanno attraversato una varietà di congiunture.

Vi è ragione di chiedersi: con quali relazioni con il corso dei processi reali, quale attualità e quali prospettive. Mi pare questo un tema cruciale (anche se sembra rimanere al margine della già ampia discussione sul libro) che solleva più di un problema. Perché si può notare un certo décalage fra il corso dei fatti e la vita delle idee, che mette in gioco proprio le ipotesi fondamentali dei due autori.

Differenze di fase

Becattini volge l'attenzione ai temi dello sviluppo locale quando un ambizioso progetto per l'Italia - fondato appunto su un'idea forte di localismo e di territorializzazione dello sviluppo (Trigilia 2005, Consiglio italiano delle Scienze Sociali, 2005) - mostra segni evidenti di difficoltà o crisi. Non possiamo ignorare le criticità dell'esperimento più solido e vasto intrapreso dal governo italiano, nel primo decennio del secolo, grazie all'impulso di Aurelio Ciampi e alla guida operativa di Fabrizio Barca (processi che ho avuto modo di studiare da vicino: Palermo, 2004 e 2009).

Dobbiamo riconoscere che lo stesso Barca, in seguito, ha saputo apprendere dall'esperienza, cercando di rinnovare idee e pratiche dello sviluppo locale in forme più sostenibili (Barca, 2009, 2011 e 2016). Resta un fatto: sembra impossibile oggi sostenere che i principali problemi siano stati superati. D'altra parte lo stesso Becattini (2007) e altri importanti analisti (Bagnasco, 1999 e 2003) hanno messo in evidenza la crisi tendenziale di coesione - potremmo anche dire: di "coralità" - degli stessi sistemi distrettuali. Rispetto al nodo cruciale - come fare sviluppo locale nei territori della crisi, dove più debole è il capitale territoriale e sociale - mancano ancora risposte rassicuranti.

Becattini e Magnaghi condividono la necessità di un "ritorno al territorio". Certo, localities matter (Harloe et al., 1990): culture e professioni diverse convergono facilmente su questo punto. Questo non significa che la tendenza esprima un senso univoco e una chiara e comune volontà di futuro. Il richiamo al territorio di Magnaghi (che risuona da molti decenni) non si confonde con gli orientamenti della geografia critica nord-europea (Harloe, qui citato come esempio, e altri); tanto meno con le visioni della burocrazia della UE, nonostante le più recenti aperture verso un place-based approach (che peraltro rappresenta una linea ancora distinta dalle precedenti: Barca 2009 e 2011). Perciò il consenso sulla parola d'ordine può sembrare unanime, ma rinvia a una varietà di posizioni e orientamenti non equivalenti.

Questo libro mostra la sostanziale convergenza del pensiero di Becattini con la visione territorialista di Magnaghi; ne illustra magistralmente il valore utopico e soprattutto il concreto bisogno - dopo gli effetti distruttivi di altre logiche economiche e politiche, a lungo prevalenti; ma non affronta una questione a mio avviso cruciale: di quale coscienza dei luoghi si tratta nel tempo (e nei territori) della crisi? Possiamo supporre che un medesimo principio possa valere, uguale a se stesso, nell'arco di 20-30 anni e in una varietà di contesti? La domanda chiaramente si intreccia con gli interrogativi già formulati sullo sviluppo locale.

A me pare difficile negare il rischio di un décalage fra gli orientamenti suggeriti e le dinamiche sociali ed economiche in atto. In altre fasi impulsi simili sono parsi più plausibili. Si può sostenere la continuità di alcuni principi, considerati virtuosi, anche nelle congiunture meno propizie, ma non eludere le difficoltà conseguenti. Le prove dell'esperienza non hanno dato esiti sempre confortanti (anzi). Ora molti processi reali sembrano creare difficoltà ancora più gravi alle buone intenzioni dell'utopia o della politica. Perché e come potremmo sperare in esiti migliori, nel futuro che incombe? Mi sorprende che il tema sia marginale nella riflessione degli autori, e non sia stato sollevato, in sostanza, neppure dalla maggior parte dei commenti.

Paradossi del localismo

D'accordo: "lo sviluppo non può che essere locale" (De Rita e Bonomi, 1998). Perché mai non dovremmo avere cura del radicamento o quanto meno della coerenza di una politica con il suo territorio? Come mobilitare e valorizzare le conoscenze locali se le politiche non adottano un approccio place-based (Barca, 2009)? Ma questi sono solo prerequisiti necessari. Sarebbe poco saggio sottovalutare le difficoltà che, in diverse fasi e oggi ancor più, si sono chiaramente manifestate. Perché la volontà locale si può rivelare conservativa, protezionistica, miope, o può essere tradita e manipolata dalla sua classe dirigente.

A volte diventa poco sostenibile: tesa a catturare benefici di breve periodo per il contesto, anche a scapito di valori più lungimiranti (come la stessa sostenibilità dello sviluppo), o cercando di scaricare altrove effetti collaterali negativi. Fino al paradosso più radicale: lo sviluppo locale risulta tanto più arduo, talora impossibile, proprio nei territori dove più che mai sarebbe necessario. E dove la coralità della società locale può essere un auspicio, ma non è un fatto.

Dopo le prove dell'esperienza (ormai consistenti) non è più tempo di esortazioni e retoriche. Qualcosa abbiamo imparato (Palermo, 2004 e 2009):

- meno programmazione (se diventa primato del metodo, della ragione burocratica, in sostanza della tecnocrazia); le direttive europee, purtroppo, hanno esasperato questa impostazione; la migliore versione italiana (quella gestita da Fabrizio Barca) ha cercato di conciliare una guida centrale autorevole ed esigente con la liberazione e valorizzazione di energie locali (Barca, 2006), con esiti però controversi (avevano un fondamento le critiche severe di Nicola Rossi, 2005);

- più progetto, ma "vero" (come raccomandava sempre De Carlo), invece di dare vita a tante iniziative effimere o sostanzialmente arbitrarie (estranee al contesto, meramente imitative, improbabili), oppure opportunistiche e strumentali (cogliere le opportunità di bando è diventato un mestiere puramente funzionale); mentre, ovviamente, avremmo bisogno di azioni radicate e ben giustificate, realizzabili e sostenibili nel tempo; la sfida è costruire progetti partecipati e condivisi nel territorio, nel quadro di una visione e di finalità dichiarate, da assumere come misura della qualità dell'azione;

- visione e progetti locali da ancorare a robuste politiche pubbliche a grande scala (alcune tendenze neo-centraliste sembrano giustificate per dare coerenza e continuità alle azioni, altrimenti a rischio per alcune debolezze costitutive del regionalismo e dei localismi); il problema è che l'incertezza investe anche le grandi politiche per questioni rilevanti di contenuto e di metodo. Sul secondo punto possiamo apprezzare qualche saggio ripensamento (Barca, 2011 e 2016), ma sul primo pesano criticità sostanziali: di indirizzo e di risorse.

Credo che le difficoltà (se non vogliamo dire i fallimenti) del primo decennio del secolo abbiano lasciato utili insegnamenti. Non ho molta fiducia in una eventuale conversione culturale e tecnica dell'UE. Il cosiddetto place-based approach proposto da Barca (2009) non è privo di ambiguità (Palermo e Ponzini, 2015) e probabilmente non è stato recepito dalla burocrazia comunitaria come una reale discontinuità. Interessante in Italia è l'approccio più recente a problemi chiave come lo sviluppo (o il freno al declino) delle aree interne (Barca, 2016). Ma resta critico il rapporto di queste iniziative "speciali" con la classe dirigente e l'amministrazione locale - che intendono pesare e ne hanno la legittimità. Un bilancio concreto degli esperimenti più innovativi non è ancora disponibile, ma siamo ormai consapevoli che gli ostacoli sono ardui.

In conclusione: il tema dello sviluppo locale è giustamente sempre attuale, ma l'enfasi dei primi '2000 (come "nuovo progetto per l'Italia") è probabilmente superata, senza rimpianti. Certo, lo sviluppo deve essere radicato e sostenibile nel contesto. Eventi recenti come le elezioni americane (novembre 2016) dimostrano che a chi governa non basta conseguire una crescita aggregata (comunque necessaria), se non è in grado di escludere la formazione o degenerazione di importanti crisi locali. Di qui un monito che riguarda politiche a scale diverse e la loro necessaria, ma complicata integrazione. Su questi temi in Italia forse siamo solo ai primi passi, ma almeno è stata superata la fase, spesso enfatica e semplicistica, del puro inizio. Nel libro di Becattini e Magnaghi non trovo però un'attenzione rilevante per questi problemi.

Problemi di coscienza

Il riferimento alla "coscienza dei luoghi" è l'altro tema forte del libro. Non inedito, ma neppure ovvio, e spesso evocato più che discusso. Mi pare che due siano le (principali) interpretazioni possibili: come lascito pre-moderno, oppure come stato nascente (minuscolo!). La prima visione è classica. Allude a una situazione irenica, una delle forme ricorrenti di "paradiso in terra" (Mattelart, 2000; Lash, 2016). In un territorio naturalmente o storicamente bene ordinato non vi sarebbe posto per divisioni, incertezze e tensioni radicali.

Questa armonia si esprimerebbe in un senso del luogo corale, ben costituito e condiviso, in grado di ispirare e accompagnare decisioni e comportamenti virtuosi. Si tratterebbe solo di seguire la buona via, nonostante gli ostacoli che la modernizzazione (nella varietà delle sue forme successive) continua a sollevare. Un quadro inverosimile? Probabilmente, ma il modo in cui si discorre di "coscienza del luogo" è spesso congruo con queste premesse (forse ne ha bisogno per trovare una giustificazione argomentativa). La seconda visione è più fluida. Forse un ordine felice e compiuto ancora non è dato, ma - pur tra grandi difficoltà - non mancano tracce significative di orientamenti e comportamenti edificanti.

Una "coscienza del luogo" sarebbe dunque (solo) in formazione, ma il movimento indica una direzione: chiara, sostenibile e virtuosa. Questa è la prospettiva che emerge da culture di matrice diversa (come Revelli, 2001, o Magatti, 2012). Comune è l'appello a un profilo di soggetto autonomo, sobrio e responsabile, tollerante e solidale. Non mancano manifestazioni locali in questo senso; si deve auspicare che possano consolidarsi, diffondersi e fare rete (come in un quadro lillipuziano). Forse è questa la sola speranza possibile nel nostro tempo, ma (per ora) poco più che una speranza: Revelli delineava questa prospettiva alle soglie del secolo; siamo oggi in grado di documentare sviluppi significativi di quella visione? Immaginare che questo nucleo precario di soggettività, reti e pratiche locali possa esercitare un'influenza decisiva su processi chiave della politica e dell'economia sarebbe forse imprudente, al momento, ma è difficile proporre alternative.

La seconda interpretazione sembra essere la più pertinente per questo libro. La concezione del territorio come bene comune evidentemente rinvia a fasi ed esperienze premoderne, ma gli autori riconoscono che "un percorso di trasformazione culturale" è indispensabile affinché gli abitanti/produttori ne riconoscano il "valore essenziale per la riproduzione della vita individuale e collettiva". Di una presa di coscienza si dovrebbe trattare, dunque, come processo necessario per garantire "la ricostruzione di elementi di comunità in forme aperte, relazionali, solidali" (p.165). Un processo in atto - pertanto ancora incompiuto e non immune da rischi - le cui difficoltà restano latenti nel testo, anche se potrebbero essere non marginali in tempi di crisi. Forse dovremmo concludere che la coscienza chiamata in causa da Becattini e Magnaghi non è la soluzione, ma una parte cruciale del problema (l'osservazione vale anche per altri orientamenti al bene comune: come alcune posizioni semplicistiche, fortemente ideologiche, a sostegno del cosiddetto beni-comunismo: Mattei, 2015).

La politica perduta

Perciò penso che il libro richiami immagini edificanti ed esperienze emblematiche di un mondo che non è più o non è ancora, senza dare risposte, però, a un insieme di criticità che da tempo ci affliggono e continueranno a ostacolare il rinnovamento auspicato. Criticità rispetto alle quali la politica ora sembra disarmata. Restano pochi dubbi sulla caduta dei principali modelli concepiti ed esperiti nel Novecento (Revelli, 2003). Non alludo soltanto ad alcune conseguenze estreme della modernizzazione: quando e dove la politica si è configurata come volontà di potenza fondata sulla tecnica, disposta a qualunque compromesso sui valori pur di raggiungere alcuni risultati. Con effetti che a posteriori si sono sempre rivelati disastrosi (Revelli, 2001 e 2003). Credo che difficoltà notevoli riguardino anche le principali pratiche correnti, anche se hanno perso, ormai, ogni aspirazione prometeica. Non hanno credito, ai miei occhi, le politiche di destra, che promettono meno tasse e più libertà, ma non sarebbero in grado di assicurare i servizi fondamentali di welfare in tempi di grave e diffuso disagio sociale.

Non trovo credibili le politiche di sinistra che mirano a estendere ancora il controllo pubblico e a rilanciare misure redistributive, quando non esiste crescita da distribuire e manca il coraggio di riformare un settore pubblico (l'amministrazione, la scuola) in parte pletorico e inefficiente. Né una visione, né l'altra sembrano avere la forza per affrontare le difficoltà attuali, che hanno radici di lungo periodo, ma stanno assumendo forme sempre più eclatanti (non solo in Italia). Non si tratta solo di problemi crescenti di povertà (indiscutibili, se pur difficili da misurare in contesti nei quali l'economia del sommerso assume un peso tanto rilevante). A me pare che due tendenze in atto siano altrettanto o forse più preoccupanti. Crescono le popolazioni e i territori al margine - se non come soggetti potenziali di consumo - dei processi più intensi di globalizzazione.

Non si tratta necessariamente di "vite di scarto" (nel senso di Bauman, 2005), ma di pezzi cospicui di società a cui sembrano negate possibilità e persino speranze di partecipare, come cittadinanza attiva, ai processi decisivi del nostro tempo. Questo stato di esclusione non può che accrescere timori e chiusure, e può spiegare reazioni sommarie contro le innovazioni che pur sarebbero necessarie: come se inerzia o ritorno al passato potessero risolvere la crisi incombente (quando sarà chiara questa impossibilità, la situazione sarà probabilmente aggravata). In termini più specifici, credo che il disagio possa essere inteso come una conseguenza diffusa di alcuni processi di individualizzazione in atto da tempo (che Ulrich Beck ha bene anticipato nel caso delle società dell'Europa orientale dopo il crollo del muro di Berlino: Beck, 2000a e 2000b). La progressiva liberazione dell'individuo è una delle conquiste della modernità, ma il venire meno della tutela dello Stato per molte funzioni cruciali suscita grande incertezza e sgomento in molti segmenti della popolazione (per primi quelli più marginali).

Sulla scena si muovono oggi soggetti più autonomi che però fanno fatica a reggere il peso delle nuove responsabilità. Dubito che questi soggetti siano pronti a ricreare comunità di luogo coese e felici, come auspicano Becattini e Magnaghi. Tra le loro file riemerge più facilmente la nostalgia per la protezione e forse (di nuovo) un esteso primato dello Stato, anche se questa soluzione appare sempre meno sostenibile, oggi e in prospettiva. Dovrebbe essere chiaro che il Novecento è finito e che certe vie ormai sono precluse (Revelli, 2001).

In questo quadro, avremmo bisogno di politiche ibride rispetto ai modelli canonici, alla ricerca di un mix giusto, sostenibile ed efficace di misure di riforma, competitività e redistribuzione, che incontra ovviamente ostacoli gravosi, richiede costruzione del consenso e relazioni di fiducia (sempre più a rischio), capacità di apprendere dall'esperienza e la possibilità di correggere gli errori (mentre il consumo delle leadership politiche sembra sempre più accelerato). Credo che il nostro paese, negli ultimi anni, abbia provato a fare qualche passo in questa direzione, con esiti al momento non confortanti (ma non si esce facilmente da errori e inerzie di lungo periodo).

I temi dello sviluppo locale e della coscienza dei luoghi (quantomeno se intesa come "stato nascente") sono certamente parte rilevante di questo scenario. Il problema è indagare e praticare questi temi nei processi reali, a partire dalle criticità più evidenti. Perché non basta l'etica delle intenzioni: i riformisti sono quello che fanno (Revelli, 2014). Il libro di Becattini e Magnaghi è un degno manifesto di valori rispetto ai quali misurare la coerenza e la forza delle nostre pratiche. Mi sembra più difficile intenderlo come un programma d'azione.

Riferimenti

Bagnasco, A. (1999) Tracce di comunità, il Mulino, Bologna

Bagnasco, A (2003) Società fuori squadra. Come cambia l'organizzazione sociale, il Mulino, Bologna

Barca, F. (2006) Italia frenata. Paradossi e lezioni della politica per lo sviluppo, Donzelli, Roma

Barca, F. (2009) An Agenda for a Reformed Cohesion Policy. A Place-based Approach to Meeting European Union Challenges and Expectations, Independent Report prepared at the request of the Commissioner for Regional Policy, Brussels

Barca, F. (2011) "Alternative Approaches to Development Policy: Intersections and Divergences," OECD Building Resilient Regions for Stronger Economies, 215-225

Barca, F. (2016) "La diversità come rappresentazione del paese" in Munarin, S. e Velo, L. (a cura), Italia 1945-2045. Urbanistica prima e dopo, Donzelli, Roma, 13-22

Bauman, Z. (2005) Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari (ed. or. Oxford, 2004)

Becattini, G. (2000) Dal distretto industriale allo sviluppo locale. Svolgimento e difesa di un'idea, Bollati Boringhieri, Torino

Becattini, G. (2007) Il calabrone Italia. Ricerche e ragionamenti sulla peculiarità economica italiana, il Mulino, Bologna

Becattini, G. (2009) Il ritorno al territorio, il Mulino, Bologna

Becattini, G. (2015) La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Donzelli, Roma

Beck, U. (2000a) La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma (ed. or. Frankfurt a. M. 1986)

Beck, U. (2000b) I rischi della libertà. L'individuo nell'epoca della individualizzazione, il Mulino, Bologna (ed. or. Frankfurt a. M. 1994, 1996, 1997)

Consiglio italiano per le Scienze Sociali (2005) Tendenze e politiche dello sviluppo locale in Italia. Libro bianco, Marsilio, Venezia, 2005

De Rita, G. e Bonomi, A. (1998) Manifesto per lo sviluppo locale, Bollati Boringhieri, Torino

Harloe, M., Pickvance, C. e Urry, J. (1990, a cura) Place, Policy and Politics. Do Localities Matter? Unwin Hyman, London.

Lash, C. (2016) Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Neri Pozza, Vicenza (ed. or. 1991, New York)

Magatti, M. (2012) La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto, Feltrinelli, Milano

Magnaghi, A. (1990, a cura) Il territorio dell'abitare. Lo sviluppo locale come alternativa strategica, Angeli, Milano

Magnaghi, A. (1998, a cura) Il territorio degli abitanti. Società locali e auto-sostenibilità, Masson, Milano

Magnaghi, A. (2000) Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino

Magnaghi, A. (2010) Il progetto locale. Verso la coscienza dei luoghi, Bollati Boringhieri, Torino

Mattei, U. (2015) Il benicomunismo e i suoi nemici, Einaudi, Torino

Mattelart, A. (2000) Storia dell'utopia planetaria, Einaudi, Torino (ed. or. 2000, Paris)

Palermo, P.C. (2004) Trasformazioni e governo del territorio, Angeli, Milano

Palermo, P.C. (2009) I limiti del possibile. Governo del territorio e qualità dello sviluppo, Donzelli, Roma

Palermo, P.C., e Ponzini, D. (2015) Place-Making and Urban Development. New

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Revelli, M. (2001) Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino

Revelli, M. (2003), La politica perduta, Einaudi, Torino

Revelli, M. (2014) Post-Sinistra. Cosa resta della politica in un mondo globalizzato, Laterza, Roma-Bari

Rossi, N. (2005) Mediterraneo del Nord. Un'altra idea di Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari

Trigilia, C. (2005) Sviluppo locale. Un progetto per l'Italia, Laterza, Roma-Bari

«Nulla è più lontano da una saggia comprensione e da una concreta politica dei beni culturali di quanto non sia il consumismo». Presentazione di un libro di Andrea Emiliani, Il paesaggio italiano. casadellacultura, città bene comune, 13 gennaio 2017 (c.m.c.)





Andrea Emiliani, Il paesaggio italiano, introduzione di Pierluigi Cervellati, Minerva, Argelato 2016, pp. 103

Una passione conoscitiva coltivata a tutto campo e una non meno solida passione civile; il tutto ben rispecchiato in una scrittura rapsodica, fatta di accensioni, aperture, sospensioni, svolte inattese. Il risultato è un libro* raro in cui il vissuto dell'autore sollecita e lascia spazio a quello del lettore, lo spinge a ricercare nella memoria; e, quando questa non basta, a reperire i documenti iconografici di cui il libro - suo unico limite - è, in vero, parco (a eccezione della splendida Galleria fotografica con gli scatti di Paolo Monti relativi per lo più all'Appennino emiliano).

Il richiamo all'esperienza diretta è d'obbligo: il paesaggio è un aspetto del reale in cui oggetto e soggetto sono insieme distinti e interdipendenti: è il mondo fisico per come è percepito (visivamente, ma non solo) e, insieme, il contesto in cui si svolge la vita degli individui e della società (non sempre e, anzi, sempre meno consapevoli dei profondi condizionamenti che dall'ambiente fisico derivano).

Quello rivisitato da Andrea Emiliani è in primo luogo il paesaggio inteso come: «il nostro specchio prediletto, il teatro di molti tra i nostri sentimenti» (p. 15); ovvero il paesaggio nel suo splendore, in cui rifulge il suo essere, con la lingua, la più grande opera collettiva: «Il paesaggio non ha un autore solo, ma infiniti inventori che ne hanno perfezionato il volto nel corso della secolare opera di umanizzazione che il territorio, il nostro spazio di vita, ha ospitato» (ibid.).

Emiliani insiste sulle «relazioni genetiche» (p. 19) che intercorrono tra il paesaggio reale e l'interpretazione che ne hanno dato la pittura e la letteratura; in questa linea, non manca di richiamare come nelle varie restituzioni abbiano operato influenze fra le arti - in particolare tra la fotografia e la letteratura, fra la letteratura e il cinema - e come il nostro stesso sguardo, lo sguardo di ciascuno di noi, sia stato segnato da queste interrelazioni.

Lo straordinario corrispondersi fra i singoli contesti e la loro 'ricreazione' nelle arti visive e nella pagina scritta, secondo Emiliani, è venuto in qualche modo a costituire un'«autobiografia del paesaggio» (p. 17); un concetto, questo, di grande valenza conoscitiva e progettuale: vi è implicita una linea programmatica dove l'esperienza diretta, la memoria collettiva e le interpretazioni illuminanti si tengono per mano e sono riferimenti imprescindibili per un'"idea di cultura" che intenda prolungarsi «operativamente nel presente» (p. 34).

Le circostanze hanno voluto che quell'«autobiografia» conoscesse una battuta d'arresto proprio in coincidenza con la «nascita dell'ente Regione, tra il 1970 e il 1975» (p. 19). Un rapporto di causa ed effetto? No: la caduta di attenzione verso il paesaggio nella letteratura e nell'arte ha ragioni profonde: è piuttosto riconducibile, dice Emiliani, «alle forti correnti che trascinano la complessa forma umanizzata che è il paesaggio verso la banalizzazione e l'annullamento»: è il frutto della «silenziosa omologazione ai prodotti di consumo» (ibid.). Come dargli torto? Non è questa la condizione in cui siamo immersi? Semmai è ulteriore motivo di preoccupazione la difficoltà della letteratura e dell'arte, ma anche delle scienze umane, nel dare conto di questo passaggio epocale.

Con rapidi accenni lo studioso non manca di richiamare alcune delle pietre miliari che in ambito letterario hanno concorso a delineare un'autobiografia del paesaggio italiano: da Alessandro Manzoni (l'Adda e dintorni) a Giovanni Pascoli (giustamente definito "conoscitore poetico e "tecnico" del paesaggio rurale italiano"), da Massimo Bontempelli, a Ugo Ojetti, Emilio Cecchi, Carlo Emilio Gadda, Guido Piovene, Corrado Alvaro, Ignazio Silone, Mario Soldati. Una galleria che ognuno può completare.

Per parte mia, aggiungerei almeno i nomi di Federico Tozzi (le splendide istantanee su Siena) e Carlo Levi (le pagine memorabili su Matera e su Torino); e anche di non pochi poeti italiani del novecento (ma il discorso ci porterebbe troppo lontano). Dopo una ricognizione d'assieme, il libro prende il volo. In brevi, intensi passaggi, vengono restituite le emozioni vissute dall'autore stando su una soglia ideale tra la memoria personale del paesaggio reale e le sue restituzioni nella letteratura e nell'arte (senza dimenticare gli apporti preziosi della storiografia e della geografia umana, a cominciare da quelli di Emilio Sereni e di Lucio Gambi).

Ci vengono così regalate sei perle - L'aurora sul Metauro di Baldasar Castiglione, Il teatro prospettico di Federico da Montefeltro, Il silenzio di Ferrara, La luce di Venere sul borgo del Pratello [Bologna], L'occhio di Napoleone a Catania, Le Ricordanze [Giacomo Leopardi] - che lascio interamente alla scoperta del lettore.

Ma ecco, in un sapiente montaggio, irrompere la sera del 28 agosto 1944, quando sotto i cingolati del «più grande esercito di tutti i tempi» le strade di Urbino, città che la guerra aveva risparmiato, «si sbrecciavano per sempre» (p. 29). L'immagine, efficacissima, è assunta da Emiliani come emblema di «uno storico trapasso», da lui lapidariamente riassunto nella formula: «C'era dunque, una volta, l'Italia» (p. 30). Il giudizio apodittico è subito spiegato: il variegato e pur unitario paesaggio italiano si è estesamente sfaldato, prima ancora che per l'edificazione selvaggia, per il dissolversi della «sofferta, ma misurata, paziente trama secolare" dell'«Italia dei contadini»: di quell'«accudire attività produttive» da cui ha preso corpo il «più gigantesco e qualificante profilo e onnipresente disegno italiano» (p. 31).

A questo punto il libro concentra l'attenzione sui rapporti tra il paesaggio e l'istituzione museale, tema centrale nell'opera e nella vita stessa dell'autore. Come non manca di rimarcare Pierluigi Cervellati nella bella introduzione, nel «rinnovo critico/espositivo della Pinacoteca» di Bologna, Andrea Emiliani è stato tra i protagonisti di una rivoluzione museografica che, nel capoluogo emiliano ma non solo, ha puntato sullo stretto legame e sulla reciproca valorizzazione fra quanto raccolto ed elaborato nei musei e il contesto geografico di loro diretta pertinenza: le città e le campagne intese quali straordinari depositi di cultura materiale in cui rifulgono - anche se sempre meno - saperi, tecniche e, più complessivamente, culture dell'abitare.

La rivoluzione museografica propugnata da Emiliani «in parallelo - ricorda Cervellati - con le ricerche elaborate dall'amministrazione comunale di Bologna sulla città storica» (p. 7), ha puntato a ristabilire un legame virtuoso fra museo e territorio attraverso «campagne di rilevamento» in cui la fotografia di Paolo Monti ha svolto un ruolo fondamentale (si spiega così la Galleria fotografica posta in fondo al libro). Dico ristabilire, dal momento che si è trattato di uno sforzo, quanto mai apprezzabile, di rinnovare una storia che in Italia - è lo stesso Emiliani a ricordarcelo - ha visto l'istituzione museo rispondere alla «dimensione geografica […] con l'inventario delle peculiarità "locali", dando così voce a ogni città - e si può ben dire - a ogni paese della fittissima rete creativa italiana» (p. 39).

Ed è, appunto, nel vivo di questo ordine di problemi che il volume si addentra negli ultimi due capitoli (Il Museo, laboratorio della storia; Dall'ambiente al museo). L'autore fornisce a grandi linee le coordinate delle vicende della museografia italiana dal Settecento in poi; una storia in cui già dalla seconda metà del XVIII secolo sono riconoscibili indirizzi che «forniscono un apporto insostituibile alla nozione di bene culturale», destinata a coagularsi «nel concetto (per il vero un po' tesaurizzante, ma insostituibile) di patrimonio» (p. 41). Già nell'abbrivio settecentesco, nella vicenda museale emerge la tensione a «unire il tempo, e cioè la storia, con lo spazio e cioè il luogo» (ibid.): un'impostazione che ha consentito al museo di interagire con la sete di conoscenza de visu (il Grand Tour ecc.) che animava la società europea coeva e, allo stesso tempo, di assumere una duplice valenza: antropologica ed educativa. Questo ha collocato da subito il museo fra le istituzioni civili per eccellenza, a fianco della biblioteca e della scuola. Infatti, rimarca Emiliani, «il museo civico italiano dopo l'unità nazionale, e cioè dopo il 1860 e fin verso il 1910, [ha assolto] anche a compiti di rappresentanza delle civiche virtù» (p. 43).

Cosa è successo da allora? Accennando al possibile ruolo di un «museo della città», Emiliani fa osservare che, quando diviene il ricettacolo di frammenti più o meno preziosi derivanti da «sventramenti e abbattimenti urbanistici», «il museo civico assume l'immagine della buona e della cattiva coscienza urbanistica e culturale della città e del suo crescente suburbio» (pp. 44-45). Questo serve a richiamare come i rapporti fra il museo e il paesaggio si siano alquanto complicati da quando, lo dico con parole mie, l'intervento umano sui contesti rurali e urbani ha perso il suo legame con l'abitare e con la cura, principi cardinali tanto dell'agri coltura quanto dell'urbis coltura a cui dobbiamo la parte preponderante del nostro patrimonio culturale. Come non bastasse, l'onda del degrado non ha risparmiato l'istituzione museale.

Lo attesta, per un verso, il venire avanti di sistemazioni da fiera campionaria rispondenti a «modelli di intervento architettonico e conservativo di bassissimo livello museologico e anche di mediocre levatura progettuale» (p. 46) e, per altro verso, il proliferare di iniziative che tradiscono una solida tradizione: la linea che l'autore definisce «incisivamente antropologica» (p. 41). Un esempio, a quest'ultimo riguardo, è il fiorire di "musei" della cultura contadina, di cui Emiliani salva solo rare esperienze: «da San Michele all'Adige al Pitré di Palermo, da San Marino di Bentivoglio a Villa Sorra e più ancora a Forlì» (p. 33).

Sul resto ha un giudizio durissimo: «il dissennato smontaggio dell'economia e della cultura contadina italiana» ha prodotto un'infinità di 'reperti', facendo affluire in strutture spesso improvvisate «masse imponenti di materiali […] usciti dalla funzione d'uso» (p. 60) e incapaci sia di svolgere un ruolo di documentazione scientifica sia di fare da innesco per una crescita culturale.

La gran parte di quei "musei", sostiene a ragione l'autore, sono luoghi in cui in omaggio al "modello mercantile" si è preteso «di violentare e assoggettare le forme e gli oggetti dei contadini e di asservirli a rozze apparizioni ripetitive e decorative: proprio come per gli oggetti di conquista o per le teste imbalsamate di animali cacciati» (p. 32). Per contro, Emiliani vede positivamente il costituirsi di «veri e propri parchi museografici»: strutture diffuse sorte soprattutto a partire dalla «cosiddetta archeologia industriale» (dove quel "cosiddetta" è ancora una volta l'indice di un uso sorvegliato della lingua, oltre che un modo di evitare ogni corrività con le mode). Lo studioso vi scorge il fiorire di estese opportunità per rinnovare la funzione del museo sia sul versante didattico che su quello di un'acculturazione estesa su nodi strategici quali i rapporti "fra cultura e tecnica" e «fra cultura e scienza» (p. 48). E questo in continuità con la funzione svolta egregiamente da specifiche declinazioni dell'istituzione museale («Il museo tecnico, il museo naturalistico, il museo scientifico, il museo di oggetti speciali, dalle armi ai tessuti, dai vetri alle ceramiche e infine alla macchine», p. 47).

Nell'ultimo capitolo il libro affronta la questione delle fratture e degli ostacoli che impediscono ai contesti socio-territoriali di ritrovare nel museo un «cantiere attivo della propria osservazione sulla storia» (p. 45). All'origine di tutto c'è il fatto che «la nozione di "merce" [ha preso] ad attraversare sempre più frequentemente il museo» (da cui un feticismo dell'oggetto in sé, in coerenza, verrebbe da aggiungere, a quel che accade nel territorio con il disfarsi della trama complessa che teneva insieme i paesaggi e che ha tra le sue conseguenze il degradarsi degli organismi architettonici alla condizione di oggetti 'spaesati').

L'autore punta quindi il dito sullo scollamento fra «amministrazione del cosiddetto patrimonio culturale e il patrimonio stesso» (p. 53) indicando fra le cause la mancata attuazione di un effettivo decentramento amministrativo. Si richiamano, in proposito, le speranze che, in una stagione ricca di fermenti, venivano da più parti attribuite alle autonomie locali: «In questo disegno proiettivo, in fondo al quale era pur sempre la nascita dell'ente Regione e l'adempimento al dettato costituzionale (art. 117), consistette l'apporto più alto delle amministrazioni locali, degli studiosi che gradualmente vi afferivano, dei tecnici impegnati».

E subito Emiliani precisa: «Diciamo con serietà: pur nella modestia dei risultati particolari, fu un cammino che valeva la pena di ricordare e di studiare, perché inedito nel nostro Paese; perché facile a tramontare, di fronte a disegni di diversa, centralistica democrazia che più tardi vinsero» (p. 56). Debolezza del movimento innovatore? Forza dello schieramento avverso? Comunque sia, in un bilancio storico andrà considerato che, fatte salve rare eccezioni (fra le quali si colloca senz'altro la situazione emiliana, direttamente vissuta dall'autore), è tutto da dimostrare che, sul fronte delle articolazioni locali della Pubblica amministrazione, alla prossimità ai beni da tutelare abbia corrisposto (e corrisponda) in Italia una coscienza e una preparazione, e ancor più una tensione condivisa, in grado di fare della questione della tutela del patrimonio culturale, dentro e fuori dai musei, una priorità sociale e politica.

Emblematica l'esperienza dei piani paesistici: quanto lavoro, talora pregevole, è finito su un binario morto per il persistere della svendita del suolo agricolo e della devastazione dei paesaggi (rurali e urbani) da parte degli Enti locali! In un bilancio storico - e ancor più nella messa a punto di linee d'azione - andranno comunque soppesate queste parole di Andrea Emiliani: «nulla è più lontano da una saggia comprensione e da una concreta politica dei beni culturali di quanto non sia il consumismo, il ritmo stesso di crescita del sistema capitalistico, con l'imposizione dei suoi raddoppi di produzione-consumo nel giro breve di anni, e dunque vissuto lungo una spirale che si avvita verso l'alto liberando a terra unicamente rovine e orrende montagne di rifiuti, simbolo repellente dello spreco e dei veri risultati di quel modello. Non è un caso se, a fronte di tanta distruttiva voracità, una quota assai alta di beni culturali, quella ovviamente più appetibile - e dunque la città, la casa, l'oggetto di antiquariato - sia già da tempo entrata in una masticazione inesorabile: destinata forse a sopravvivere, in qualche ibernata forma ma totalmente aliena rispetto al contesto, alla nozione di patrimonio, all'idea di cultura» (p. 63).

* Andrea Emiliani, Il paesaggio italiano, introduzione di Pierluigi Cervellati, Minerva, Argelato 2016, pp. 103.

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