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Il manifesto, 6 luglio 2016 (p.d.)

Catturare l’effimero è l’aspirazione dei poeti, degli artisti. Abbas Kiarostami (Teheran 1940, Parigi 2016) ha confermato la sua attitudine attraverso un processo di semplificazione, meccanismo imprescindibile di tutta la sua poetica che abbraccia, oltre al cinema (ricordiamo Il Sapore della ciliegia, Palma d’oro a Cannes nel 1997 e tra i numerosi riconoscimenti nel 2005 il Pardo d’onore al Festival di Locarno e il premio alla carriera del Reykjavik International Film Festival), l’opera pittorica, scultorea e grafica – si era laureato in Belle Arti all’Università di Teheran – e la poesia. Anche la fotografia è frutto del suo sguardo minimalista: era lui stesso, dichiarando l’approccio da autodidatta, ad associarla agli haiku.

Una fotografia costruita sul silenzio, quindi, che è la trasposizione dell’idea del viaggio, della distanza, di una certa fragilità connessa con la condizione esistenziale della solitudine, ma che sollecita anche una memoria sensoriale. Certamente tematiche che hanno a che fare con il vissuto personale del regista iraniano che, come è noto, iniziò la carriera cinematografico con il cortometraggio Il pane e il vicolo (1970), seguito quattro anni dopo dal film Il viaggiatore, ma che durante la Rivoluzione del ’79 – essendo impossibile girare film nel suo paese – decise di trasferirsi in campagna. È lì, nella vastità degli orizzonti dominati da forti contrasti, tra luci abbaglianti e una natura non sempre accondiscendente, che cominciò a fotografare.

Quegli scatti erano il «dono» che faceva agli amici rimasti a Teheran: il modo per condividere con loro la libertà della natura, di luoghi incontaminati. «Queste mie foto e visioni sono il contrario della società iraniana e di quello che succede in Iran» – affermò nel 2009, in occasione della personale Abbas Kiarostami. Fotografie a colori e bianco e nero, organizzata a Roma dalla galleria Il Gabbiano – «Ho iniziato a fare foto così venticinque anni fa e, se ancora oggi continuo a scattarle nello stesso modo, è perché la gente può rovinare la società, ma non le pianure e la natura».

Una natura che, con le sue interferenze emotive, si rivela profondamente diversa rispetto alla visione lucida con cui la raffigura un altro grande interprete iraniano, Nasrollah Kasraian (attivo dal 1966), primo fotografo in Iran ad occuparsi di paesaggi. Come lui Kiarostami, che ne apprezzava il rigore, alternava il linguaggio del bianco e nero con il colore. Dichiarando, tuttavia, la predilezione per il primo che gli consentiva di prendere le distanze dal soggetto, interiorizzandolo: «soprattutto quando fotografo la natura, mi permette di farla diventare la ‘mia’ natura». Diversamente dalla sequenza cinematografica – «la fotografia è la madre del cinema», sosteneva – le sue immagini fisse sono momenti isolati, inquadrati spesso attraverso il parabrezza dell’automobile: una sorta di cornice, ulteriore filtro per connettere il mondo interno con quello esterno. Nascono così, frutto di una solo apparente casualità, gli «haiku fotografici» della serie Rain (2007-2008). «Stavo guidando, pioveva e il tergicristallo non funzionava. La macchina fotografica era sul sedile, accanto a me. Mi sono fermato e ho cominciato a scattare foto».

In realtà quel momento era stato preceduto da anni di attraversamento dello sguardo, al di là del parabrezza o dei finestrini dell’automobile, in viaggio – ancora ed ancora – per le strade dell’Iran e non solo. Il viaggio stesso è un tema centrale della sua produzione cinematografica, occasione per esplorare territori lontani, dall’Africa al Giappone passando per l’Italia con Copia conforme (2010), di cui le riprese sono state effettuate in Toscana. Interamente girato in un’automobile è, ad esempio, Ten (2002), come successivamente Like someone in love (2012), mentre il treno in corsa è lo scenario di Tickets (2005) con E. Olmi e K. Loach. Però «L’attimo decisivo», tornando alla fotografia, arrivò solo quando, con l’avvento della tecnologia digitale, Kiarostami ebbe la possibilità di dominare la luce, attenuando i riflessi che inevitabilmente avrebbero creato delle interferenze. «Pensai, allora, che era arrivato il momento di tornare a quella vecchia idea. Avrei potuto fotografare guidando. Feci così: una mano sul volante e l’altra impegnata a scattare la foto».

Il fluire delle immagini, catturate in velocità, sono comunque frutto di un’«immediatezza costruita», ossimoro permettendo. La caratteristica di una dominante riflessiva che appartiene alla fotografia su pellicola – determinata dalla necessità del limite delle pose (i rullini ne contavano 24 o 36) – sembra però una costante anche della «deviazione» digitale con cui Abbas Kiarostami ha confermato la sua libertà di visione. «In quell’indefinibile danza di linee, punti e colori che forma l’immagine», la presenza dell’uomo è sempre indiretta. Ma dietro il profilo ondulato di una collina o dell’albero che s’intravede tra le gocce di pioggia c’è lo sguardo di chi lo ha fermato, per sempre.

. Il manifesto, 14 maggio 2016 (p.d.)

Sono gocce rosso-sangue, bollenti e brillanti, l’anima di questi macigni che hanno costruito la storia del mondo e della Sardegna prima degli Dei». Così aveva confidato a un amico giornalista Pinuccio Sciola una calda notte di maggio del 1974. Con la fiamma ossidrica, nel suo giardino di aranci di San Sperate, lo scultore che s’è spento ieri all’età di 74 anni per un’emorragia cerebrale era riuscito a fondere il basalto. Così era Sciola, artista di origini contadine che ai miti e agli archetipi di una terra antica era legato indissolubilmente. Quel giardino di aranci è poi diventato nel tempo il «Giardino sonoro», labirinto di blocchi di calcare e di grandi masse di basalto e di granito scolpite con una tecnica che Sciola ha inventato nel 1999: profonde incisioni parallele che segnano la pietra e che, percorse con le mani, o con un sasso o anche con l’arco di violino, producono suoni strutturati. La scultura diventava strumento musicale. «Ma – diceva Sciola – arte sono anche quelle pietre, quei sassi che io non sfioro, perché l’arte è nella natura. Non è un inno alla bellezza un prato di primule e di papaveri?».

Non c’era però niente di ingenuo in questo tenersi di Sciola dalla parte del linguaggio primario della natura. Era nato in una famiglia di contadini, in una regione della Sardegna, il Campidano, in cui la forza dei codici antichi della tradizione ha contrastato, sino a pochi decenni fa, una modernizzazione per molti versi violenta e per altri cialtrona. Quei codici, che sono stati «codici di resistenza», Sciola li ha filtrati alla scuola della grande cultura europea, li ha fatti passare al vaglio della riflessione teorica delle maggiori correnti artistiche del ’900. All’Accademia di Salisburgo, dove ha compiuto i suoi studi dopo una breve tappa fiorentina, è entrato in contatto con Minguzzi, Kokoschka («Volle conoscere tutte le chiese preromaniche sarde, gli rimase impressa San Nicola di Ottana»), Manzù, Wotruba e Sassu.

Il suo primo lavoro importante fu nel 1972, quando collaborò con Henry Moore nell’esposizione al Forte Belvedere di Firenze. Dopo quell’esperienza, altre tappe del suo percorso furono gli studi alla Moncloa di Madrid, un lungo soggiorno a Parigi e, soprattutto, la frequentazione a Città del Messico con David Alfaro Siqueiros. «Siqueiros – diceva – mi ha fatto capire il senso dell’arte e insieme il valore della vita». Tornato in Italia, Sciola trasformò il suo piccolo borgo di contadini nel luogo privilegiato di un progetto di arte sociale che si rifaceva alla lezione dei muralisti messicani (Rivera e Orozco li aveva conosciuti attraverso Siqueiros). Le case di tufo di San Sperate furono affrescate ad lui stesso e da artisti che arrivarono da tutto il mondo. L’intera comunità che, a metà degli anni 70, partecipò a un’esperienza collettiva da cui nacque un museo a cielo aperto, che tuttora si snoda nelle stradine e nei vicoli del paesino. E che va ad aggiungersi al «Giardino sonoro» della casa nella quale Sciola ha voluto continuare a vivere e dalla quale si muoveva per le mostre in Europa e in America, con le sue opere monumentali nel parco del castello di Oiodonk in Belgio, al Palace Trianon di Versailles, al Barndorf Beio Baden di Vienna, in piazze di New York e Chicago, Londra e Stoccolma, Barcellona.

Guardando la sua intera produzione, Sciola può essere iscritto a una sorta di «linea sarda», che allo scultore di San Sperate arriva partendo da Costantino Nivola e attraversando Maria Lai. Tutti e tre legati a una visione dell’arte che intreccia l’attenzione per ciò che sfugge alla storia (l’archetipo e il mito) a una fortissima connotazione relazionale del lavoro dell’artista. Dire l’ineffabile per creare nuova socialità.

Il manifesto, 14 marzo 2015

Era un canto, una bal­lata di rac­conto e di rifles­sione, una voce che rac­con­tava una sto­ria comune, sua e del pub­blico che come lei vedeva, capiva e lot­tava. L’Italia in lungo e in largo è l’attacco di una famosa com­po­si­zione di Gio­vanna Marini, vivida e pun­gente nono­stante l’apparente non­cha­lance con cui l’autrice pas­sava in ras­se­gna un paese pieno di con­trad­di­zioni, sof­fe­renze e anche invo­lon­ta­rio umo­ri­smo. Era come il film delle sue «tour­née», che erano veri viaggi di tenace mili­tanza fatti su pul­mini sgan­ghe­rati e treni ansi­manti e affol­lati. Quell’attraversamento di una con­di­zione, sen­ti­men­tale sociale e poli­tica (una sorta di inno nazio­nale alter­na­tivo allora, quando l’ascoltammo le prime volte) torna ora, dopo più di quarant’anni, a rac­con­tare un paese che nel pro­fondo non è cam­biato nelle sue sof­fe­renze, a dispetto delle molte tra­sfor­ma­zioni, spesso solo superficiali.

E torna anche, quell’attacco, a dar titolo a un cd (appena pub­bli­cato da Fini­sterre e distri­buito da Egea­mu­sic) in cui Gio­vanna Marini, assieme, in accordo o in con­tro­canto, con la più brava e solida delle sue allieve, Fran­ce­sca Bre­schi, rac­co­glie molti brani di que­gli anni e degli anni suc­ces­sivi, alcuni dive­nuti famo­sis­simi come I treni per Reg­gio Cala­bria, unica docu­men­ta­zione di una vera epo­pea libe­ra­to­ria, e altri rima­sti in una dimen­sione più intima come Lamento per la morte di Paso­lini o Ragazzo gen­tile. Can­zoni bel­li­sime tut­tora, Com­mo­venti fino alle lacrime, eppure ras­se­re­nanti per il fatto di essere sto­rica testi­mo­nianza di fatti molto importanti.

Gio­vanna Marini ha il dono della poe­sia, che non viene mini­ma­mente scal­fito dal pas­sare del tempo, e dei gusti e delle mode. È uno straor­di­na­rio monu­mento musi­cale del nostro tempo e della vita quo­ti­diana, senza alcuna reto­rica, e senza per altro alcun rico­no­sci­mento dalla cul­tura «uffi­ciale», o tanto meno di governo. Eppure il titolo di quella bal­lata, l’altra sera in una sala dell’Auditorium al Parco della musica romano, era ancora l’occasione di un viag­gio, pos­si­bile e luci­dis­simo, nell’umanità che que­sto paese è stato capace di ela­bo­rare e modu­lare. Una Ita­lia in lungo e in largo che aveva come cabina di comando le due can­tanti, con­sa­pe­voli e emo­zio­nanti, ma ha anche voluto assu­mere il corpo sto­rico e musi­cale di una comu­nità fem­mi­nile dav­vero fuori dell’ordinario, le donne di Giulianello.

Che è un pae­sino rurale in pro­vin­cia di Latina, dove però da sem­pre viene col­ti­vato il canto corale, e di ori­gine reli­giosa, che si allarga ad abbrac­ciare, e immor­ta­lare, ogni aspetto, biso­gno, spe­ranza della vita. Rac­conta la Marini che la prima volta che le incon­trò, tanti anni fa durante le sue inda­gini musi­cali sulla scia di Erne­sto De Mar­tino e Diego Car­pi­tella (cui la serata è stata affet­tuo­sa­mente dedi­cata), se le vide arri­vare su un car­rello trai­nato da un trat­tore, e can­ta­vano senza sosta. Il canto, per le donne di Giu­lia­nello, è una atti­vità a tutto campo, che quasi armo­nizza e rende pos­si­bili tutte le altre fati­che. La loro «lea­der» Lalla ha appena com­piuto 93 anni, ma non si nega vir­tuo­si­smi vocali di alto respiro. Con quel con­tral­tare vivente che dava spes­sore e radici alle loro voci, Gio­vana Marini e Fran­ce­sca Bre­schi hanno fatto bale­nare per una sera una Ita­lia che possa ancora oggi essere attra­ver­sata, nella pro­fon­dità del cuore, vin­cendo gli ammen­ni­coli e i sopram­mo­bili e gli orrori che che tante volte la ren­dono irri­co­no­sci­bile e orren­da­mente sporca.

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