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il manifesto, la Nuova Venezia, 15 agosto 2018. Il crollo del ponte di Genova è effetto ed emblema delle politiche territoriali basate sul dominio del “blocco edilizio» in Italia. Articoli di Paolo Berdini e Andrea Fabozzi e l'intervista di Alberta Pierabon a Carmelo Maiorana.


il manifesto
CITTÀ E TERRITORIO. DA 7,3 A 2,2 EURO A KM LA SPESA PER LA MANUTENZIONE
di Paolo Berdini

«Infrastrutture. La manutenzione della rete capillare che fa vivere il sistema Italia è stata cancellata dalle politiche dei tagli di bilancio. Non c’è comune italiano che abbia le risorse per la cura ordinaria e straordinaria del proprio patrimonio infrastrutturale»

Le città e i territori costano. Bisogna costruire infrastrutture, ponti, servizi. Bisogna poi tenere in vita e in sicurezza quelle opere. Servono risorse umane ed economiche. Nella storia delle nostre città e dei territori questa legge ineludibile è stata sempre rispettata. Il sistema della manutenzione era un elemento prioritario della vita nazionale e c’erano le istituzioni pubbliche che presidiavano quella fondamentale funzione. L’Upi, Unione provincie italiane afferma che la spesa per chilometro (ci sono 152 mila chilometri di strade regionali e provinciali) in pochi anni è passata da 7,3 a 2,2 euro a chilometro. Nulla.

La manutenzione della rete capillare che fa vivere il sistema Italia è stata cancellata dalle politiche dei tagli di bilancio. Non c’è comune italiano – si può’ affermare con certezza – che abbia le risorse per la manutenzione ordinaria e straordinaria del proprio patrimonio infrastrutturale. Servirebbero somme imponenti. Lo sviluppo lineare della rete stradale comunale supera il milione di chilometri. Sicurezza e decoro della vita di tutti i cittadini necessiterebbero di alcune centinaia di miliardi di euro. Ci sono soltanto tagli.

Il ponte di Genova non era un’opera minore. Era un’infrastruttura nevralgica del sistema paese. Evidentemente la follia liberista non si è fermata alle opere minute. E’ dilagata in ogni settore, comprese le opere affidate in concessione, come il sistema autostradale italiano. E mentre l’imponente sistema nazionale va in rovina continua l’assedio per costruire altre opere stradali. Domina una cultura imprenditoriale che comprende solo i processi incrementali e non si occupa del tema della manutenzione gettando il paese intero in un pericolosissimo vicolo cieco. E’ la stessa logica perversa che sta facendo marcire un immenso patrimonio immobiliare pubblico in ogni luogo urbano poiché non ci sono risorse per rimetterlo in vita. Evidentemente qualche potentato immobiliare o finanziario vuole acquisirlo a poco prezzo impoverendo tutti i cittadini.

La manutenzione attiva viene disprezzata a confronto della cultura del “nuovo”. Un tragico errore. Non c’è giorno in cui un chiacchiericcio insopportabile ci dice che il futuro è in concetti fumosi come le smart city. Penso con dolore di fronte a tante vite umane distrutte, a quali prospettive per le più innovative aziende e per i giovani potrebbero diventare realtà avviando l’istallazione di sensori che tengano sotto osservazione tutti i ponti stradali esistenti ponendoli a sistema attraverso tecnologie satellitari. Anas ha in programma di realizzare un tale sistema sui suoi 12 mila viadotti ma bisogna passare all’immenso patrimonio diffuso di 50 mila viadotti, molti di vecchia concezione. Servono centinaia di miliardi.

Facile a dirsi. Difficile a farsi in tempi di scomparsa del concetto di Stato e di assenza di risorse pubbliche.

Solo tre esempi. Un decreto ministeriale del 2001 prevedeva la costituzione del catasto della rete stradale italiana, opera prioritaria per poter programmare. Non è stato fatto nulla e per sapere qualcosa dobbiamo ricorrere a studi di Unioncamere.

Dopo ogni terremoto si sentono le solite chiacchiere. Intanto non è ancora avviato un concreto piano di messa in sicurezza del patrimonio edilizio esistente e il recente terremoto dei monti Sibillini ha finanziamenti modesti. Un intero territorio montano è abbandonato da due anni. Frane e smottamenti sono una costante in un territorio giovane e tormentato come il nostro. Manca ancora di essere completata la carta geologica e il censimento delle frane e il loro monitoraggio.

Il tragico crollo di Genova può essere uno spartiacque per avviare il paese sull’unica prospettiva di crescita, quella della messa in sicurezza e della manutenzione specialistica che apra al settore produttivo italiano la prospettiva di un salto culturale e tecnologico. Spiace che di fronte a questo scenario ci siano importanti forze imprenditoriali che hanno preso a pretesto questa immane tragedia per portare acqua alla realizzazione di grandi opere.

L’Italia ha certo bisogno di alcune opere che rendano moderno il sistema infrastrutturale. A patto di discuterne in modo maturo e trasparente con le comunità cittadine e – soprattutto – riversare ogni risorsa umana, progettuale e economica pubblica sulla prospettiva del salto tecnologico e culturale che il paese attende.

la Nuova Venezia
«LA MAGGIOR PARTE DEI NOSTRI PONTI STA MALE

E I CONTROLLI LI FANNO SOGGETTI INTERESSATI»
Intervista di Alberta Pierobon a Carmelo Maiorana

«Da quando l'ha saputo, ha passato ogni minuto della giornata a pensarci. Va da sé, la tragedia di Genova ha sconvolto tutti ma su di lui ha scavato un baratro. Perché nella sua testa, come in un film, si sono succedute le immagini della radiografia del ponte Morandi crollato e l'elenco delle responsabilità». Lui si chiama Carmelo Maiorana, ha 64 anni, non procede per ipotesi, piuttosto per analisi: è ingegnere strutturista, ordinario di Scienza delle costruzioni all'università di Padova. Ma prima delle questioni tecniche e delle relative spiegazioni, per forza si fa strada con angoscia un'analisi anche questa strutturale. Purtroppo strutturale, che riguarda un malcostume tutto italiano.

Come mai, professore, nessuno ha colto i segnali che hanno portato a questa tragedia?
«Questo è il problema. In Italia siamo indietro e tanto. La maggior parte dei nostri ponti ha necessità di un monitoraggio ininterrotto e di manutenzione costante. Operazioni che hanno dei costi».
Quindi è mancato il monitoraggio?
«Qui un altro problema. Io sostengo che chi si occupa dei controlli dovrebbero essere persone fuori dai giochi, persone che dicano la verità, libere di dire la verità. Invece spesso proprio chi è incaricato di monitorare, la verità non la dice: il perché è facile da spiegare. Perché dicendola teme di non avere più lavori di consulenza. E' semplice, ed è questo il malcostume».
Un malcostume che quando presenta il conto, lo presenta in vite, vite umane.
«Per questo sarebbe necessario, fondamentale, che chi si occupa del monitoraggio avesse il coraggio di mettere sotto accusa chi fa male i lavori, e senza paura. Sarebbe fondamentale che fossero persone fuori dai giochi».
In Italia com'è lo stato dei ponti, in generale?
«La maggior parte risale al Dopoguerra, e il calcestruzzo armato dopo 50-60 anni ha bisogno di essere un osservato speciale».
A cosa ha pensato appena sentita la notizia dello spaventoso crollo? A quale causa?
«Subito ho pensato a un cedimento di fondazione. Invece così non è stato. Si è visto chiaramente dalle prime immagini: il pilone centrale è rimasto lì, non è crollato. Ho scrutato immagini e foto, tutto quello che ho trovato».
Quindi qual è la sua spiegazione?
«Quel ponte era una struttura fortemente degradata. Dopo 50 anni gli attacchi chimici e atmosferici hanno fatto la loro parte, a maggior ragione vicino al mare. Solfati e cloruri causano l'erosione del copriferro, la parte esterna del calcestruzzo armato. Dunque le armature rimangono a nudo e l'azione corrosiva avanza. E il pericolo di crollo diventa enorme. Questo è successo. Altro elemento che emerge è l'apparente assenza di segni premonitori, quindi di rottura fragile o dovuta a instabilità: questo fa presumere che sia avvenuta una crisi instabile delle parti compresse delle strutture di sostegno. E il crollo per instabilità dell'equilibrio è improvviso a meno che il manufatto non sia stato monitorato per lungo tempo con apposita strumentazione, anche in grado di percepire le emissioni acustiche date da eventuali microfessurazioni in atto. Per questo sono fondamentali il monitoraggio e la manutenzione: la durabilità delle strutture è un tema di cui ci stiamo occupando, le tecnologie ci sono».

Se ne vedono tanti ponti in queste condizioni?
«Sì, tanti. Troppi. Li vedi, tutti arrugginiti, malconci».
Come si possono ripristinare?
«O si smontano e direi che è una soluzione improbabile oltre che estremanente costosa o si ripristinano con varie modalità, ripeto le tecnologie ci sono».

il manifesto
QUEI LAVORI URGENTI ATTESI DA VENT'ANNI

di Andrea Fabozzi

«Il mostro di Genova. La caccia alle responsabilità parte dal pessimo stato degli "stralli" denunciato da tempo. Il governo sembra puntare l'indice sul gestore Autostrtade per l'Italia. Che ai genovesi disse: il ponte Morandi è malato, ma non crolla. Per averlo ricordato, il movimento No Gronda finisce sotto accusa. Eppure la grande opera non prevede l'abbattimento del vecchio viadotto

Era prevedibile, previsto, annunciato. Come sempre nelle tragedie, ma qui si tratta di un ponte alto 90 metri, largo 18 e lungo oltre un chilometro le cui cattive condizioni erano impossibili da ignorare. Non le ignorava Autostrade per l’Italia, la società concessionaria, che parlava di «intenso degrado della struttura» già sette anni fa. Anche se ieri ha assicurato che «non c’era nessun elemento per considerare il ponte pericoloso». E invece non si contano i pareri di ingegneri, strutturisti e tecnici delle costruzioni in genere che da tempo lanciavano allarmi sullo stato di salute degli “stralli”, i tiranti di acciaio che in questo particolare tipo di ponte sono chiusi nel cemento armato precompresso. Tant’è che, non fosse crollato ieri, il pilone al centro della ponte sarebbe stato sottoposto a un colossale lavoro di ristrutturazione da oltre 20 milioni di euro. Un’opera di retrofitting, secondo la definizione della gara di appalto chiusa a giugno, in pratica il tentativo di ammodernare una struttura vecchia di cinquant’anni.

Era l’unico ponte “strallato” di tutta la rete autostradale italiana, e «la statica di un ponte di questo tipo dipende fondamentalmente dallo stato di salute degli stralli», ha spiegato ieri il direttore dell’Istituto della costruzioni del Cnr Occhiuzzi. I tiranti del Morandi si corrodevano e perdevano tensione più velocemente di quanto era stato previsto all’epoca della costruzione, quando oltretutto il volume di traffico attuale era inimmaginabile. Tant’è che negli anni Novanta i cavi di uno dei tre piloni da 90 metri erano già stati rinforzati e nel frattempo alcuni cavi esterni erano stati montati per contenere i pericoli. C’era stata anche l’immancabile interrogazione parlamentare, del senatore genovese Rossi, che nel 2016 chiedeva senza risposta cosa il governo intendesse fare di fronte al «preoccupante cedimento dei giunti».

Nel marzo di nove anni fa, nel corso di uno dei dibattiti pubblici che si tennero a Genova sul progetto della «Gronda autostradale» a ponente, che avrebbe sottratto parte del traffico al ponte Morandi, un rappresentante di Autostrade spiegò che il viadotto «costa 250mila euro l’anno di manutenzione straordinaria». E poi aggiunse: «Il ponte non sta benissimo, ma non è ancora morto. E non crolla». Due mesi dopo davanti alle commissioni consiliari di Genova, i rappresentanti di Autostrade fornirono altre rassicurazioni sulla sicurezza e stabilità dell’opera a seguito dell’intervento degli anni Novanta (come si legge nel documento conclusivo del dibattito pubblico). Le rassicurazioni sono state poi riprese dai «No Gronda», e ieri un vecchio post sul sito del Movimento 5 Stelle in cui si parlava della «favoletta dell’imminente crollo del ponte Marconi» è stato indicato come prova delle responsabilità di chi si è opposto alla nuova opera. Resta il fatto che l’ultimo progetto della Gronda non prevede l’abbattimento del ponte Marconi.

A spingere per la nuova grande opera è ovviamente Autostrade, la società il cui 90% del capitale è nelle mani del gruppo Atlantia, maggiore azionista Benetton – ieri in borsa ha bruciato oltre un miliardo di capitalizzazione perdendo oltre il 5%. Immediatamente dopo la tragedia, i ministri Salvini e Toninelli hanno aperto la caccia ai responsabili: «Pagheranno caro». Il ministro grillino delle infrastrutture ha avvertito che «la manutenzione a qualsiasi livello compete ad Autostrade mentre ai tecnici del ministero compete seguire gli interventi straordinari». Straordinario era appunto l’intervento che, più di vent’anni dopo, avrebbe dovuto completare la messa in sicurezza. Straordinario è pagato con fondi pubblici. Mentre i lavori in corso al momento del crollo, si è chiarito nel corso della giornata, non erano altro che un intervento per «riqualificare» le barriere di sicurezza, nulla a che vedere con la statica.

La società concessionaria Autostrade per l’Italia nel 2017 ha registrato ricavi per quasi quattro miliardi. Merito quasi esclusivo dei pedaggi al casello. Una sorta di tassa i cui ricavi però vanno solo in minima parte allo stato. Come spiega l’ultimo rapporto al parlamento dell’autorità di regolazione dei trasporti, sono cresciuti del 35% negli ultimi otto anni.

Ingegneri.info, 23 maggio 2017 (m.b.)

Piano Casa, la sanatoria è illegittima. Il giudizio insindacabile è quello della Corte costituzionale che ha preso in esame la legge regionale n. 6/2016 emanata dalla Campania. Con la sentenza n. 107/2017, infatti, il massimo organo di garanzia del nostro Paese ha bocciato senza appello il documento legislativo sul Piano Casa emanato dal Governatore De Luca: la norma sarebbe in contrasto con il Testo Unico dell’Edilizia. Il Piano Casa della Regione Campania è stato prorogato al 31 dicembre 2017, e dopo pochi mesi dalla proroga è arrivata una correzione alla normativa su ampliamenti, demolizioni e ricostruzioni. Si tratta della possibilità di ottenere il titolo abilitativo in sanatoria per gli interventi che sono stati realizzati senza permesso, ma che per le loro caratteristiche risultano conformi al Piano Casa. Questa possibilità è stata prevista dalla legge regionale n. 6/2016 (collegato alla legge di stabilità regionale) che ha introdotto anche altre modifiche. Una pronuncia, quella campana, che aveva già fatto storcere il naso al Governo, che nel giugno del 2016 aveva impugnato la legge eccessivamente “buonista”.

Ora, anche la Corte costituzionale riconosce i dubbi dell’Esecutivo: non può ritenersi fondato una normativa che trasforma in legale un intervento abusivo in quanto, nel frattempo, la giurisprudenza ha subito delle variazioni. Una sorta di “condono” che ha portato all’illegittimità costituzionale della legge campana. Anche perché il Testo unico dell’edilizia (D.P.R. n. 380/2001) prevede la doppia conformità degli interventi: per beneficiare della cosiddetta sanatoria, infatti, i lavori devono risultare conformi alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento in cui sono stati realizzati e – naturalmente – in sintonia alla data di presentazione della domanda di regolarizzazione.

Come si evince dalla sentenza della Corte costituzionale, il Piano Casa iniziale originario (riferibile alla L.R. n. 19/2009) è stato più volte prorogato da leggi che hanno anche apportato modifiche o amplificato la portata delle deroghe. All’epoca dell’impugnativa, il Governo aveva fatto un esempio che è stato condiviso in pieno dalla Corte Costituzionale. La L.R. n. 16/2014 consentiva il recupero dei complessi produttivi dismessi, purché si mantenesse la destinazione ad attività produttive. La norma dichiarata illegittima, invece, ha reso conformi alla L.R. n. 19/2009 anche i lavori di recupero dopo i quali è avvenuto il cambio di destinazione d’uso. Una sanatoria giudicata inaccettabile e contraria al buon funzionamento della Pubblica Amministrazione.

«Maremma amara. Domenica la manifestazione contro la trasformazione dell'Aurelia in autostrada. A, alla vigilia della conferenza dei servizi per il via libera al progetto, sostenuto da governo, Regione Toscana, Pd e dal fuoriuscito Rossi». il manifesto, 24 febbraio 2017 (c.m.c.)

«Per la prima volta in trent’anni di lotta questo progetto ha saputo mettere tutti d’accordo contro l’autostrada tirrenica». Tutti tranne il Pd con i suoi satelliti e la Regione Toscana; per il resto Angelo Gentili di Legambiente non ha torto: alla manifestazione di domenica 26, con due cortei provenienti da Grosseto a nord e da Orbetello a sud, ci saranno fra i tanti perfino i sindaci di Grosseto, Capalbio, Magliano e Orbetello. Primi cittadini assortiti, anche di centrodestra, ma richiamati all’ordine – la volontà popolare – dall’ennesimo appello delle associazioni ambientaliste, nazionali e locali, al completo (Italia Nostra, Legambiente, Wwf, Fai) e dai numerosissimi comitati locali. Tutti convinti che l’alternativa ci sia: «Nessuno di noi pretende che l’Aurelia rimanga com’è adesso – sintetizza Nicola Caracciolo – però vogliamo che l’alternativa alla Tirrenica non sia il nulla ma l’adeguamento dell’Aurelia, meno dispendioso e con meno consumo di suolo». «L’unica soluzione di buon senso», sottolinea Gentili.

Occorre far presto, dalla Conferenza dei servizi di martedì 28 febbraio scatterà il conto alla rovescia: due mesi di tempo per un definitivo sì o no alla grande opera. Il parere della Regione Toscana è favorevole, al pari di quello del governo, non soltanto da parte del Pd ma anche da quello del fuoriuscito Enrico Rossi: il presidente toscano ha replicato agli ambientalisti che l’Anas non ha i soldi per mettere in sicurezza la variante Aurelia, e che quindi va fatta l’autostrada.

Eppure tante cose non tornano: già uno studio del Politecnico di Milano di fine anni ’90 rimarcava l’anti economicità della grande opera, visto che il traffico non pendolare sull’arteria stradale era troppo scarso. Oggi le associazioni e i comitati ambientalisti attualizzano quei numeri: «I dati del traffico non giustificano l’autostrada. Le stime, per il 2040, nel lotto 5b (Orbetello) prevedono 22mila veicoli al giorno, per il lotto 4 meno di 18mila. Pochi. Quanto alla sicurezza stradale, altro argomento usato, oggi si viaggia in media a 77 km orari, con l’autostrada si salirebbe a 127».

Intanto le autorità aspettano ancora da Sat (Società autostrade toscane) il piano finanziario della grande opera, mentre la durata della concessione, data senza gara, è stata sottoposta a una procedura di infrazione europea. Eppure si va avanti. E con una interrogazione al ministro dell’interno, la senatrice Alessia Petraglia di Sinistra italiana vuol capire cosa sta succedendo in questi giorni: «Tanti automobilisti hanno raccontato che ai controlli della polizia sull’Aurelia si affiancano persone che, approfittando del fermo e talvolta anche sotto indicazione della stessa polizia, pongono dei questionari sull’uso della strada, facendo domande in merito alla tratta percorsa, alla frequenza e al motivo per cui si utilizza l’Aurelia». Domenica anche gli attivisti di Si con i civatiani di Possibile, Rifondazione e il M5S saranno fra i manifestanti.

Riferimenti

Potete trovare su eddyburg numerosissimi articoli sulla pluridecennale vicenda dell'autostrada Grosseto- Civitavecchia rovistando nelle cartelle Sos Maremma, Sos Toscana

Il Fatto Quotidiano, 30 aprile 2016 (p.d.)

Oltre 500 posti auto interrati. Seimila camion di terra e roccia scavati nel monte di Portofino e sostituiti da cemento”. È tutto scritto in un esposto depositato presso la Procura di Genova. Racconta l’ultima pagina della febbre da box che si sta mangiando uno dei promontori più famosi del mondo e Camogli. Un nuovo posto auto ogni dieci abitanti, come se a New York ne costruissero 2 milioni.

Parliamo di uno dei borghi più belli e delicati della Liguria. Con quei suoi palazzi antichi alti sulle rive. Con i vicoli che si aprono sul mare. Era il 2009 quando venne lanciato l’allarme per la costruzione di un nuovo albergo da settemila metri quadrati, un pugno nell’occhio proprio ai margini del centro storico. Poi nuovi palazzi, case.

I veri affari, però, si fanno sotto la superficie. Con i box auto appunto. Soprattutto con la mega-operazione accanto alla stazione ferroviaria. Un piano approvato anni fa e poi via via rinnovato, ampliato. Fino all’ultima versione che prevede due lotti: uno per 235 posti interrati (più 36 all’aperto), più un secondo per 225 box (più 25 posti in superficie). Tutto su quattro piano interrati. L’esposto è firmato da decine di persone, tra l’altro da Andrea Bignone, presidente della sezione genovese di Italia Nostra. Nella premessa si legge: “Oltre all’impatto rilevante sulla città di Camogli, evidenti sono i gravissimi rischi per l’ambiente e l’assetto idrogeologico della zona, ma anche per la pubblica e privata incolumità e per la sicurezza della linea ferroviaria e la stazione a pochi metri dall’area interessata”. Emanuele Giudice, urbanista di vecchia data e socio di Italia Nostra, chiede “che sia fatta chiarezza sulle procedure che hanno portato all’assegnazione dei lavori alla società Novim di Milano, unico concorrente della gara”. Ancora: “Che si spieghino i vantaggi economici per l’amministrazione pubblica di un progetto che è chiaramente molto favorevole al privato”.

Francesco Olivari (sindaco Pd di Camogli e già in passato membro dell’amministrazione) risponde: “Quei posti auto sono necessari per la viabilità del paese”. Cinquecento posti per cinquemila abitanti? “Sono stati fatti accurati studi in proposito. E quell’area era già stata rimaneggiata in passato”. L’ingegner Giorgio Frassella della Novim assicura: “La procedura seguita è regolarissima. A noi alla fine resteranno meno della metà dei posti, gli altri diventeranno parcheggi a rotazione del Comune”.

Ma i comitati e tanti cittadini non sono d’accordo: “A Camogli hanno già costruito decine e decine di parcheggi negli ultimi anni. Mentre all’estero allontanano le auto dai borghi più belli, noi ne portiamo centinaia. Nonostante ci sia una stazione ferroviaria in centro”. E non ci sono soltanto i box di Camogli. Dall’altra parte del promontorio, a Santa Margherita, c’è il progetto per il porticciolo: un investimento da decine di milioni che prevede moli, bagni extralusso, centri benessere, oltre a posti auto interrati.

A realizzarlo la Santa Benessere & Social Srl, già guidata da Andrea Corradino, fedelissimo dell’ex senatore Luigi Grillo (Pdl). Tra i soci una società anonima lussemburghese a sua volta controllata da società delle isole Vergini e di Panama), la Rochester Holding, che fa capo a Gabriele Volpi. Lo stesso Volpi – che è diventato miliardario con il petrolio nigeriano e recentemente si è visto sequestrare un aereo privato dalla Finanza – che adesso sarebbe interessato anche ad altri progetti immobiliari tra Rapallo (con Flavio Briatore) e Recco (con imprenditori vicini alla Curia di Tarcisio Bertone). Volpi e Briatore sono compagni di cene del governatore ligure Giovanni Toti. Il padre del nuovo Piano Casa che, racconta Emanuele Giudice di Italia Nostra, “rischia di portare di nuovo il cemento sul monte di Portofino”.

Il Fatto Quotidiano, 10 giugno 2015

Orti e filari di vigne coltivati su terreni altamente inquinati nella zona dell’Alessandrino. Eccola la nuova terra dei fuochi. Inedita e impressionante. La fotografia emerge dalle carte della procura di Torino che due giorni fa ha eseguito 3 arresti, sequestrando 6 aziende tra cave e impianti di recupero rifiuti. Ben 65 le persone indagate per un’inchiesta nata nel 2011 su segnalazione di Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità di Genova. Tra loro c’è un imprenditore, il quale, secondo gli investigatori del Noe e della Forestale, ha riempito i terreni della Cascina Aliprandina (Tortona) con materiale contaminato, coltivandoci cavoli e uva.

Non manca poi il sospetto dell’infiltrazione della ‘ndrangheta nel grande business dei rifiuti. I magistrati lo dicono chiaramente affrontando la figura centrale di Francesco Ruperto (arrestato due giorni fa). Secondo gli investigatori l’imprenditore alessandrino assieme al figlio sarebbe uno dei dominus del traffico illecito. Fino all’operazione di due giorni fa, Ruperto aveva subito interdittive antimafia per i suoi presunti rapporti da un lato con il boss lombardo Carmine Verterame coinvolto nel maxi-blitz Infinito del 2010 e dall’altro con esponenti di rilievo della cosiddetta ’ndrangheta di Seminara. Nelle migliaia di intercettazioni messe agli atti, Ruperto risulta in contatto con Valerio Bonanno, anche lui indagato, e, secondo l’accusa, ras dei rifiuti nella zona di Alessandria con la sua Servizi ambientali piemontesi. È da una loro telefonata che emergono gli interessi nello smaltimento dei terreni provenienti dagli scavi del Terzo Valico per la linea dell’Alta velocità.

In particolare risulta che la società di Ruperto è assegnataria di noli a caldo di macchine operatrici da parte della Co.Ge.Fa, la società che ha vinto l’appalto (non indagata). Inoltre il Cociv (subcontraente della società Tav spa) individuò in una cava a Tortona di proprietà dell’Euroter il luogo per lo smaltimento del cosiddetto “smarino”. La Euroter, per i pm, è gestita di fatto dalla famiglia Ruperto. E del resto, sostengono le carte dei pm, lo stesso Ruperto dimostra di aver contatti con importanti partner industriali, su tutti il Gruppo Gavio. L’inchiesta ha anche un’appendice ligure sui lavori con il gruppo industriale Giacomazzi (non indagati). Sul piatto c’è la bonifica a Torre Campi in provincia di Genova. Si tratta di un’area occupata da un vecchia industria del ‘900. Quel terreno, sostiene il pm, dopo essere stato analizzato in maniera non proprio trasparente finiva nelle cave dell’Alessandrino. Accuse da verificare.

Il 6 luglio 2011, poi, il Noe esegue una perquisizione negli uffici della Soc. Torre Campi srl. Emerge che il presidente del Cda è Vittorio Piccardo, il quale risulta proprietario della Ponte X srl. Non è l’unico, oltre a lui compare anche il calabrese Gino Mamone, che, secondo informative degli investigatori, sarebbe “punto di contatto” tra ambienti ndranghetisti e politica. I fratelli Mamone sono titolari della Ecoge, anch’essa indagata nell’inchiesta. Nel novembre scorso Gino Mamone assieme a Vincenzo e Luigi è stato coinvolto nell’indagine Albatros su un giro di escort per ottenere commesse in appalti per i rifiuti. Secondo la procura di Genova, i tre avrebbero pagato cene e prostitute all’ex dirigente dell’Amiu, l’azienda municipalizzata che si occupa della gestione dei rifiuti, Corrado Grondona per ottenere appalti per loro e altri imprenditori amici. Il nome di Gino Mamone compare anche nell’indagine Pandora. Viene descritto come imprenditore amico delle cosche e amico dei politici. Intercettato dirà: “Io sono amico di tutti”.

Il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2015

Santa Margherita (Genova). Non è sufficiente il no di Renzo Piano. Non conta il parere di migliaia di cittadini, la battaglia di comitati e associazioni ambientaliste. Non importa neppure se milanesi e torinesi sono pronti ad abbandonare in massa le seconde case in Riviera. Insomma, non basta che questa politica folle si sia dimostrata un fallimento, per l’ambiente, ma anche per l’economia, per le tasche della gente.

Una nuova colata di cemento è pronta a scendere sul Monte di Portofino: nuovi moli e costruzioni a Santa Margherita. Mentre a Camogli si annunciano altri box per le auto. Se ti fermi a guardare questa terra dal mare – come fece Truman Capote e, prima di lui, Guy de Maupassant – vedrai ancora mulini e frantoi. Muretti a secco che sfidano le leggi di gravità. Sentieri che tagliano ulivi e orti terrazzati. Sì, li vedrai, ma sempre meno.

Per scoprire la Liguria di oggi e domani devi osservare i rendering (si chiamano così le simulazioni al computer degli architetti). Allora troverai cemento, posti auto, terreni da sbancare. Certo, nelle immagini taroccate dei progettisti sembrano sempre belli, poi nella realtà è tutto diverso. Nemmeno questo paradiso naturale noto in tutto il mondo è risparmiato. Con la complicità delle istituzioni, come accade da decenni in Liguria. E dietro ai progetti si ritrovano nomi di imprenditori cari alla politica e perfino alla Curia.

A Santa Margherita se ne sono accorti nel febbraio 2011, quando viene presentato il progetto del nuovo porticciolo. Un investimento da 70 milioni che prevede moli, bagni extralusso, centri benessere, oltre a 250 posti auto interrati. La firma è dello studio Gnudi di Milano, a commissionarlo la Santa Benessere & Social Srl e il suo presidente Andrea Corradino, fedelissimo del senatore Luigi Grillo (Pdl), in seguito arrestato per lo scandalo Expo 2015. E dietro c’è un po’ di tutto. Persino una società anonima lussemburghese (a sua volta controllata da società delle isole Vergini e di Panama), la Rochester Holding, che fa capo a Gabriele Volpi. Un self-made man che dalla tuta blu da metalmeccanico è passato ai pozzi petroliferi nigeriani. È qui che costruirà il suo impero, forse grazie anche all’amicizia con l’ex vicepresidente Atiku Abubakar, escluso nel 2007 dalla corsa alla presidenza perché accusato di corruzione. A dirlo non è qualche fanatico oppositore, ma il Comitato Permanente per le Investigazioni del Senato americano.

Volpi è un Berlusconi in salsa ligure: jet privato, patrimonio forse a nove zeri. Consenso guadagnato grazie allo sport: la stellare Pro Recco di pallanuoto come il Milan di Sacchi. Poi lo Spezia calcio. E, si sussurra, anche la Sampdoria: è lui il finanziatore dietro a Er Viperetta? Volpi smentisce.

Di fronte a un simile quadro - e a un progetto che promette di gettare migliaia di metri cubi di cemento sulla riva del mare – i sammargheritesi alzano la voce. Si costituiscono nel comitato “Difendi Santa”. E, alla fine, convincono il Comune a tornare sui suoi passi, forti anche di uno sponsor d’eccezione come Renzo Piano. “Qualsiasi nuovo intervento potrebbe compromettere l’intera marina” tuona l’archistar genovese. Tutto rientrato? Nient’affatto. Perché sei mesi dopo spunta un secondo progetto, presentato dall’A.T.I. Porto Cavour, un consorzio che raduna un pool di operatori portuali decisi a proseguire sul solco tracciato dalla Santa Benessere. “Parliamo di un piano meno invasivo rispetto al precedente, ma che andrebbe ad alterare in modo sensibile e permanente l’intero complesso, toccando sia il porticciolo che il retroporto” denuncia Marco Delpino del Comitato “Difendi Santa”.

Ma chi c’è dietro questa cordata nata all’improvviso che s’ispira al conte di Cavour (“il primo a voler realizzare il porto a Santa Margherita” spiegano i promotori) e ripropone, con qualche lieve modifica, un restyling già bocciato in giunta? Cambiano i nomi, si sprecano i paragoni illustri, ma le facce - e i portafogli - potrebbero essere sempre gli stessi, in una sorta di Gattopardo in salsa ligure. Il giudizio definitivo su entrambi i progetti è atteso per il prossimo 11 marzo dalla Conferenza dei Servizi. Ma la partita potrebbe proseguire ad oltranza con il ricorso al Tar e, infine, al Consiglio di Stato. “Il porto qui ha una funzione strategica cruciale - spiega Delpino - Se dovesse finire nelle mani di pochi privati, potrebbe diventare il trampolino di lancio per impadronirsi, un domani, dell’intera città”. Mentre Bruxelles impone l’azzeramento del consumo di suolo entro il 2050, la Liguria consuma fino all’8,4% di suolo (contro il 7,3% nazionale, dati Ispra). Senza contare il record di case non occupate (332mila su un milione).

Un quarto d’ora di auto al di là del promontorio ed ecco Camogli, su cui incombe un maxi-progetto per la realizzazione di due autosilos da quasi 500 posti totali, tra box e posti auto pubblici e privati, oltre a una sessantina di posteggi in superficie. Approvati dal Comune e ora al vaglio della Conferenza dei servizi, i due parking dovrebbero sorgere sull’area dell’ex scalo ferroviario, la cui riqualificazione è affidata allo Scalo Srl, una società partecipata al 51% dal Comune e al 49% dalla Novim Srl di Lecco, a sua volta controllata dalla Colombo Costruzioni.

In principio si era parlato anche di alcune palazzine residenziali, poi scongiurate dalla precedente giunta. Restano i parcheggi. Con numeri da far tremare i polsi: 4 piani interrati, 70mila metri cubi di terra e roccia movimentati, per cui saranno necessari non meno di 3 anni di lavori. “Una follia urbanistica – la definisce Stefano Massone del Comitato Scalo ferroviario Camogli – che avrebbe gravi ripercussioni non solo sul piano ambientale, ma costerebbe a Camogli anche anni di blocco della circolazione, una preoccupante riduzione dei parcheggi e un drastico impatto sul turismo, oltre a tutte le incognite idrogeologiche e di assetto territoriale”. E, infine, l’affondo. “Concediamo al privato un’area pubblica per realizzare una speculazione da oltre 6 milioni di euro stimati, senza alcun vantaggio concreto per il paese”.

Il 7 marzo centinaia di cittadini scenderanno in piazza contro il progetto più pesante degli ultimi 150 anni. Ma per centinaia di liguri che manifestano, molti altri tacciono. E magari si preparano a votare per la stessa maggioranza di centrosinistra - prima guidata da Claudio Burlando, ora da Raffaella Paita - che ha puntato sulla politica del cemento. Con i risultati noti a tutti: la Liguria è la regione del Nord con i più alti tassi di disoccupazione.

La nuova “rapallizzazione“

C’è perfino una parola apposta: rapallizzazione. Fu coniata nel secondo Dopoguerra per indicare uno sviluppo urbanistico selvaggio. Un vocabolo che nacque proprio dalla cittadina ligure di Rapallo. Oggi sono passati più di cinquant’anni, ma la Liguria si trova di nuovo minacciata dal cemento. La breccia è stata aperta dalla legge sui porticcioli voluta dall’allora ministro Claudio Burlando. Poi arrivarono i piani regionali. Memorabile una frase di Burlando pronunciata nel 2005: “Un mio amico di Bologna (Prodi, contrario alla cementificazione, ndr) si è augurato di vedere sulle nostre spiagge più ombrelloni e meno porticcioli. Io invece dico: più ombrelloni e più porticcioli”.

E così è stato, grazie anche all’appoggio del centrodestra, soprattutto di Claudio Scajola, padrino del nuovo porto di Imperia. Operazione finita con costi lievitati e moli mezzi vuoti. Così in pochi anni i posti barca sono passati da 14mila a quasi 24mila. E dovevano arrivare a 30mila. Intorno immancabili operazioni immobiliari, magari firmate da architetti amici della sinistra. Un altro porto da mille posti doveva nascere a Marinella, alle foci del fiume Magra, noto per le alluvioni. Progetto lanciato da un’impresa della banca rossa Mps. Nella società sedeva il tesoriere della campagna elettorale di Burlando. La crisi della banca ha fatto arenare il porto.

Ma la scommessa sul cemento continua. La Regione di Burlando ha varato un piano casa che gli ambientalisti Angelo Bonelli e Roberto Della Seta hanno definito “il più devastante d’Italia”. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: l’economia ligure è al collasso. Anzi, rischia di essersi mangiata la sua più grande ricchezza: l’ambiente che garantisce il 20% del pil con il turismo.

La Repubblica, 13 ottobre 2014 (m.p.r.)

Un sindaco via, l’altro, a male parole. Genova li spazza via dal suo cuore incollerito come detriti alluvionali. Nel fango, della classe dirigente galleggia solo chi ha più pelo sullo stomaco. E dunque ha l’astuzia di non farsi vedere lì in mezzo ai negozianti dell’ultimo quadrilatero commerciale sopravvissuto nel centro cittadino, sempre gli stessi, ancora una volta a spalare e buttar via merce. A loro si chiede il coraggio di ricominciare, di vincere lo scoramento, l’adesso basta. Ma chi ce l’ha ancora, il coraggio di guardarli in faccia?

Il sindaco Doria si è presentato fra i suoi concittadini alluvionati ieri, in netto ritardo. Beppe Grillo, opportunamente, ha rinviato a martedì, sempre che la pioggia e il Bisagno diano requie. Perfino i propositi insurrezionali lanciati in piazza Corvetto l’anno scorso, durante le cinque giornate di sciopero a oltranza degli autoferrotranvieri, e poi a piazza della Vittoria coi Forconi, si smorzano nell’impotenza conclamata di una classe dirigente che annaspa tutta quanta, mentre Genova resta in balia delle acque che scorrono nel suo sottosuolo.
Il premier Renzi se la cava scrivendo su Facebook che le passerelle in questi casi non servono. Il governatore Burlando, commissario dei lavori di copertura del Bisagno e dello scolmatore del rio Fereggiano rimasto sulla carta, preferisce andare in visita nei paesi sinistrati dell’entroterra. Già l’anno scorso la rivolta degli autoferrotranvieri che paralizzò Genova suggerì prudentemente a Renzi e Burlando di annullare un incontro congiunto organizzato in vista delle primarie Pd. Genova è città soggetta a moti d’ira, funesti come i cataclismi naturali che la violentano con prevedibile sistematicità. Basta che piova forte, succede tutti gli anni. Si sapeva che sarebbe successo ancora. E intanto?
Qui si percepisce il vuoto della politica. O meglio la paura di osare una forzatura che avrebbe potuto in seguito costringere le amministrazioni locali al pagamento di risarcimenti salati, nel caso avesse dato il via libera a opere su cui pendevano ricorsi al Tar. Per questo i 35 milioni già stanziati sono rimasti nel cassetto. Un caos tale che a settembre il sindaco stesso è andato in confusione: ha protestato contro gli inaccettabili ritardi provocati dalla magistratura, ignorando che due mesi prima il Tar del Lazio aveva revocato il blocco da lui denunciato. Anche se, bisogna precisarlo, l’alluvione non si sarebbe evitata comunque. Perché il tempo necessario a prevenire la nuova sciagura, uguale identica a quella del 4 novembre 2011 e delle tante altre precedenti, era già stato sprecato. La psicosi del ricorso ha prevalso sull’urgenza di impedire nuove catastrofi.
Sono centomila i genovesi che vivono nel rischio permanente di alluvione. Le stesse opere approvate per rimediare il dissesto di una cementificazione scellerata, sono antidoti parziali che non garantiscono una città che necessiterebbe di interventi radicali. I funzionari dell’Arpal, l’agenzia regionale dell’ambiente che non ha dato l’allarme, lavorano con tecnologie inadeguate. Nessuna task force per l’emergenza era stata predisposta. La retorica encomiastica sugli angeli del fango, i ragazzi senza vanghe e senza stivali accorsi in sostegno ai sinistrati, stride con la realtà di una pubblica amministrazione impreparata a coordinarli.
Così, nel disastro strutturale divenuto cronico, sprofonda anche il senso dello Stato, la fiducia nelle istituzioni. E un uomo perbene come il sindaco Marco Doria, riluttante al protagonismo mediati- co, diviene suo malgrado emblema di una debolezza inquietante. «Fossi stato il sindaco mi sarei incatenato a Roma finché non si fossero decisi a dare il via libera ai lavori», è la frase più gentile che gli ha gridato un ragazzo durante il sopralluogo di ieri. Lui incassa impietrito, gli chiedono di essere quello che non è e non sarà mai. Lo insultano. Che si dimezzi lo stipendio di cinquemila euro per dodici mensilità. Che prenda la vanga e si metta a pulire i tombini, visto che prima non ha fatto nulla.
Altro che Sbloccaitalia, e magari si potessero addossare alla non meglio precisata burocrazia tutte le colpe, come ha scritto ieri Renzi sparando la cifra stratosferica di due miliardi (certo non tutti per Genova). Intanto il sindaco ha fatto il minimo che poteva fare per alleviare la caduta in disgrazia economica dei cittadini alluvionati: ha sospeso il pagamento delle tasse municipali. Ma è su quello che Doria e Burlando non hanno fatto prima, che restano aperti gli interrogativi.
Ricordo il fastidio con cui il sindaco-professore, sollecitato a guidare una rivolta contro il patto di stabilità che rischiava di mandare in tilt i servizi pubblici, denunciava l’anno scorso la degenerazione personalistica della politica. Uomo di sinistra affezionato alle regole della rappresentanza democratica, trascinato dalla generosità di don Andrea Gallo a riempire il vuoto provocato dalle divisioni interne del Pd, Doria si negava a chi gli chiedeva prestazioni muscolari da Mission Impossible. Può anche darsi che avesse ragione, lo si è visto in primavera quando l’establishment cittadino si afflosciava miseramente a seguito dello scandalo Carige in cui il banchiere Berneschi si è portato dietro buona parte della Genova che conta.
Ma è nel rapporto con una natura maligna e con una città perennemente in pericolo che la fragilità di Doria si ritrova messa a nudo. Cosa deve fare un sindaco quando sa che alle prime piogge torrenziali sarà di nuovo alluvione? Va bene dire no alla sceneggiata di incatenarsi a Roma, ma è mai possibile che l’alternativa sia un’inazione rassegnata?
Così si è prodotto uno squarcio doloroso nel cuore stesso di Genova. Dai banchi del pesce e della frutta del Mercato Orientale ai piccoli esercizi commerciali di Borgo Incrociati, giù verso il mare fino alla Foce e a Piazzale Kennedy, senza risparmiare via XX settembre. Stavolta i danni sono stati maggiori di tre anni fa, anche se il morto è uno solo anziché sei. Negli stessi negozi in cui nel 2011 il fango si era fermato a mezzo metro d’altezza, in questi giorni è tre volte tanto. L’Arpal non lo aveva previsto, il sindaco è andato alla prima del teatro Carlo Felice. Ma la pioggia cadeva torrenziale e i torrenti ribollivano anche in assenza di segnalazioni formali. L’hanno avuta vinta il fatalismo e la rassegnazione.
Nei giorni dell’alluvione Beppe Grillo aveva convocato a Roma il raduno del Circo Massimo e non se l’è sentita di rientrare precipitosamente a Genova. Chissà, forse neanche lui è più il Grillo di una volta. Prudente è anche la sua decisione di rinviare a domani una protesta — con richiesta di dimissioni di Doria — che deve anch’essa subordinarsi alle previsioni meteorologiche avverse. Temo però che ci sia dell’altro: anche il capopopolo del “tutti a casa”, il leader dell’antipolitica, perfino Beppe Grillo forse avverte che questo fango sta trascinando con sé ogni speranza.

Articolo21.org, 12 ottobre 2014

Vorrei chiedere ai colleghi che conducono i telegiornali: non usate più l’espressione “bomba d’acqua” al posto di nubifragio, fortunale, forte temporale, ecc. A parte che tecnicamente la “bomba d’acqua” è un’altra cosa, ma, evocandola, sembra che assolviate chi ha assistito, come a Genova, inerte ad una nuova tragica alluvione. La terza disastrosa che colpisce e sconvolge il capoluogo ligure in cinque anni. Non siamo di fronte ad eventi eccezionali, né, tantomeno, a “calamità naturali”. Siamo di fronte ad un caso “di scuola” della distruzione di un sistema idrogeologico naturale manomesso e devastato dall’uomo nei decenni

Le polemiche più immediate riguardano soprattutto il mancato preallarme della Protezione Civile e del Comune, ma c’è ben altro a monte di quel pur deplorevole ritardo. Perché Genova? Ma potremmo dire perché il Gargano, Olbia, la foce del Tevere, la collina trevigiana o Messina? Perché la nostra bella Italia è sempre più sfigurata dal cemento+asfalto e quindi resa in tal modo fragilissima. Genova poi è un caso da manuale dell’imprevidenza di massa, anche della stupidità e del menefreghismo. Come si può assistere ai grovigli del Tar (la cui istituzione è fra le principali cause di rallentamento dei lavori indispensabili) senza muovere un dito, vedendo che i fondi stanziati nel 2010 non producono una sola opera di imbrigliamento, di difesa, neppure la demolizione di una tombatura di torrente, o di uno degli edifici-killer?

Sono passati ben 44 anni dalla tragica alluvione del dicembre 1970, che seminò lutti in più di quaranta famiglie e devastazioni in mezza Genova. Mi ci trovai in mezzo per caso, inviato da Milano ad un convegno marittimo alla Fiera del Mare dove rischiammo di rimanere intrappolati dalla piena di Bisagno e Polcevera. Rimasti al buio, riuscimmo a scappare, a piedi, avendo per guida il console della Compagnia portuale, Agosti, verso il centro di piazza De Ferrari. Da lì vedemmo che la città a monte era illuminata e pressoché normale, mentre verso Brignole tutto era buio e sommerso. Tragicamente buio e sommerso, con 44 morti.

Il giorno dopo scoprimmo che i letti di fiumi e torrenti su in alto non erano stati ripuliti da quando gli ultimi contadini se n’erano andati e che in basso gli stessi erano stati improvvidamente occupati, rialzati e ristretti da orti, campi da calcio e da tennis in serie, circoli sportivi e ricreativi, creando così le condizioni ottimali perché straripassero. Negli anni successivi si è continuato a cementificare le alture genovesi, quasi a strapiombo sulla città, coi Forti antichi che sorgono fra 400 e 800 metri di altitudine, a sradicare bosco e sottobosco, a desertificare campi e pascoli. Col risultato di far precipitare le acque piovane a valle, sulla città, ad una velocità un tempo rallentata da boschi, coltivi, terrazzamenti, ecc. ed ora divenuta pazzesca grazie all’asfaltatura ossessiva di ogni viottolo. In basso poi si sono lasciati costruire edifici, anche di notevole cubatura, a filo delle sponde, o sul percorso dei corsi d’acqua costretti fra argini di cemento, e magari “tombati” in città, i quali, in regime di piena, “esplodono” letteralmente invadendo case e strade divenute a loro volta vorticosi corsi d’acqua. Nel Sud tutto è aggravato da un disperante abusivismo edilizio che ha costipato colline, pianure, ripe di fiumi, alvei di torrenti e di fiumare, pareti, colate di fango. Ma anche a Genova non si è scherzato quanto a stravolgimento del tessuto urbano con le lottizzazioni, ben nel cuore del centro storico, di Madre di Dio e di Piccapietra, e con grandi quartieri in montagna, di fatto. Per una città la cui popolazione peraltro è drasticamente calata: dalla punta di 816 mila residenti del 1981 ai 586mila del 2010, con una diminuzione del 28,2 per cento. E magari si vuole “rilanciare l’edilizia”.

Ci si può rassegnare a tanto disastro? Assolutamente no. Che si può fare? Molto, se si concentrano subito fondi e investimenti sulla difesa e la ricostruzione idrogeologica dell’Italia, sulla messa in sicurezza ambientale, anche anti-sismica (dove ci sono più frane, i terremoti risultano devastanti). E’ il più vero, urgente, incombente dramma nazionale, da affrontare con un non meno urgente e adeguato piano anch’esso nazionale, articolato per regioni, per bacini idrografici. Il suo costo è stato calcolato in 40 miliardi scalati in più anni, ovviamente. Tanti. Però se non si comincia mai, lo sfacelo aumenta e con esso i danni, i morti, gli sfollati, i senza lavoro. E novembre deve ancora arrivare.
Nel 1989 la tanto deprecata Prima Repubblica si era data un’ottima legge, la n. 183, che istituiva Autorità di Bacino, da quelle nazionali (sette, dal Po al Volturno) alle locali, sul modello dell’Authority del Tamigi che aveva risanato il grande fiume, la rete idrica e protetto l’ambiente fluviale della “great London”. Là l’Autorità funziona avendo riunito in sé i poteri di ben 11mila enti. Qui Comuni e Regioni insofferenti di una Autorità superiore si sono applicati con puntiglio a smontare e a svuotare quella buona legge. Un suicidio di massa che tv e giornali dovrebbero raccontare. Altro che prendersela ogni momento con la Prima Repubblica!

Bisogna ridare poteri alle Autorità di ogni livello, stroncare l’abusivismo con pene esemplari (il 90 % delle costruzioni a Olbia o nel Gargano sono abusive, anche in pieno Parco Nazionale!), demolire subito tutto ciò che ostruisce alvei e aree di golena, ovunque, nel Po come nell’Arno e nel Tevere, creare cooperative giovanili che sistematicamente ripuliscano a monte i letti di fiumi e torrenti, canali e canalette di adduzione, concentrare su questo quadrante gran parte dei fondi pubblici. O vogliamo spendere molto di più per rattoppare, ricucire qua e là (come abbiamo fatto sin qui) e assistere a sempre nuovi lutti e rovine?

Un Salva Italia strategico, pianificato insomma: altro che questo Sblocca Italia del governo Renzi teso ad eludere vincoli e piani, a cancellare i controlli delle Soprintendenze (magari esse stesse) e di altre Autorità territoriali rendendo i costruttori, figurarsi, i responsabili di se medesimi. La semplificazione burocratica può avvenire soltanto riunendo i molti passaggi cartacei in alcuni passaggi strategici però efficaci, non eliminando i controlli. E’ il momento di riportare in onore – per un nuovo New Deal italiano del territorio e del paesaggio – la pianificazione. Altrimenti, come profetizzava Antonio Cederna, ci resteranno davvero “brandelli d’Italia”.

Il manifesto, 14 settembre 2014, con postilla

«Siamo sem­pre pronti a discu­tere di tutto. Ho rispetto per il corag­gio di chi dice no ma chi dice no non può dire stop. I cit­ta­dini hanno il diritto di vedere rea­liz­zate le opere che ser­vono». Così il pre­mier Mat­teo Renzi si è espresso ieri sul gasdotto Tap, che gio­vedì ha otte­nuto dal mini­stro dell’Ambiente Gian Luca Gal­letti, la firma sul decreto di com­pa­ti­bi­lità ambien­tale dell’opera.

Dopo aver ter­mi­nato l’intervento nel giorno dell’inaugurazione della Fiera del Levante, il pre­mier ha incon­trato i sin­daci di Melen­du­gno e Vernole.

Un’idea di demo­cra­zia alquanto biz­zarra quella di Renzi: si può dire di no, ma non ci si può met­terin mezzo ed inter­fe­rire con quanto decide un governo e le mul­ti­na­zio­nali del gas. E se poi sono gli abi­tanti stessi a non volere sul loro ter­ri­to­rio deter­mi­nate opere, non è dato sapere chi sono i cit­ta­dini citati da Renzi che hanno «diritto» a vedere rea­liz­zate opere defi­nite stra­te­gi­che per l’economia nazio­nale ed europea.

Sulla vicenda della Tap, ieri è inter­ve­nuto nuo­va­mente il gover­na­tore della Puglia Nichi Ven­dola. Sot­to­li­neando che i due no alla rea­liz­za­zione dell’opera pro­nun­ciati dal comi­tato tec­nico di Via della Regione non hanno una matrice disfat­ti­sta o aprio­ri­stica: ma si basano su delle rile­vanze, anche di natura scien­ti­fica, spo­sate in pieno dal mini­stero dei Beni Cul­tu­rali che sem­pre gio­vedì ha espresso il suo parere nega­tivo sulla rea­liz­za­zione del pro­getto in un ter­ri­to­rio, come quello del Salento, di pre­gio ambien­tale, sto­rico e turistico.

Inol­tre, Ven­dola ha mani­fe­stato la con­tra­rietà della Regione anche in merito a un altro argo­mento spi­noso e molto sen­tito dalle popo­la­zioni che affac­ciano sull’Adriatico: le tri­vel­la­zioni in mare. «Abbiamo il diritto di ribel­larci alle tri­velle in que­sta nostra stri­scia di mare, pen­siamo che l’Adriatico non possa subire l’impatto di una sua muta­zione in piat­ta­forma ener­ge­tica. Diciamo sì alla gene­ra­zione dif­fusa di rin­no­va­bili, sì alla soma­tiz­za­zione delle città, sì all’efficientamento ener­ge­tico degli edi­fici. Diciamo no a ciò che ci toglie l’orgoglio di essere pro­ta­go­ni­sti del nostro svi­luppo: la ric­chezza non è nasco­sta sotto i fon­dali, la ric­chezza è la costa, la pesca, il turi­smo, il colore del nostro mare».

Il tour pugliese del pre­mier Renzi, nella gior­nata di ieri ha toc­cato altri due luo­ghi sim­bolo della Regione: Peschici e Taranto. Nel Gar­gano il pre­si­dente del con­si­glio ha riba­dito l’impegno del governo per far sì che il ter­ri­to­rio deva­stato dall’alluvione dello scorso 5 set­tem­bre, torni quanto prima ai suoi anti­chi splen­dori. Riba­dendo che il Gar­gano non è morto ed è pronto a risorgere.

Cer­ta­mente più com­pli­cata e spi­nosa la que­stione dell’Ilva di Taranto. L’arrivo del pre­mier è stato annun­ciato da Palazzo Chigi sol­tanto nella tarda serata di venerdì. Un incon­tro in Pre­fet­tura com­ple­ta­mente blin­dato, al quale hanno pre­sto parte solo le isti­tu­zioni e i sin­da­cati. Defi­niti «i rap­pre­sen­tanti dei lavo­ra­tori»: cosa alquanto biz­zarra anche que­sta, visto che oltre il 60% dei lavo­ra­tori dell’Ilva di Taranto non ha tes­sera sin­da­cale. E che all’incontro è stata vie­tata la par­te­ci­pa­zione degli ope­rai Ilva del comi­tato «Cit­ta­dini e Lavo­ra­tori Liberi e Pen­santi». Così come è stato negato l’accesso alla stampa e soprat­tutto ai rap­pre­sen­tanti delle tante asso­cia­zioni locali che da anni si bat­tono con­tro l’inquinamento pro­dotto dal più grande side­rur­gico d’Europa. Il cen­ti­naio scarso di cit­ta­dini pre­senti in sit-in all’esterno della Pre­fet­tura, ha con­te­stato dura­mente il pre­mier, arri­vando anche al con­tatto con le forze dell’ordine: la ten­sione però è pre­sto rientrata.

Anche in que­sto caso però, Renzi è stato ina­mo­vi­bile: entro Natale tor­nerà a Taranto, per­ché entro dicem­bre l’Ilva avrà quasi cer­ta­mente un’altra pro­prietà e altri azio­ni­sti. Renzi ha con­fer­mato l’esistenza di vari gruppi indu­striali stra­nieri inte­res­sati a rile­vare l’Ilva, riba­dendo un con­cetto noto: che qual­si­vo­glia piano indu­striale dovrà rece­pire il piano ambien­tale, per con­sen­tire allo sta­bi­li­mento taran­tino la ricon­ver­sione degli impianti inqui­nanti dell’area a caldo.

Un’impresa tita­nica, che abbi­so­gna di sva­riati miliardi di euro. Ma spa­zio per altri con­fronti o per una ricon­ver­sione dell’economia del ter­ri­to­rio taran­tino non ce ne sono: per­ché anche in que­sto caso l’Ilva è un’azienda stra­te­gica per una «potenza indu­striale» come l’Italia. Sia come sia, la situa­zione finan­zia­ria dell’Ilva è tutt’altro che rosea: otte­nendo in set­ti­mana la prima tran­che del pre­stito ponte dalla ban­che ammon­tante a 155 milioni, il com­mis­sa­rio straor­di­na­rio Piero Gnudi ha dato il via al paga­mento degli sti­pendi di ago­sto, che molti ope­rai otter­ranno sol­tanto domani, in ritardo di alcuni giorni sulla data del 12 che è da sem­pre quella in cui ven­gono pagati gli stipendi.

Renzi ha con­cluso il suo tour pugliese, affer­mando che «la gente fa il tifo per me»: resta da chia­rire a chi si riferisse.

postilla

Il nostro presidente del consiglio non conosce la lingua italiana. Come farebbe altrimenti ad affermare che «chi dice no non può dire stop»? Ma non è questo il peggio. Abbiamo già denunciato le scelte sbagliate e distruttive che sono alla base dall'accettazione italiana del gasdotto Tap. Ma le parole che ha pronunciato a proposito della distruzione di Peschici sono impressionanti. Non può non sapere che il suo Sblocca Italia, e tutto ciò che il governo Renzi-Lupi nella politica del territorio è la matrice di nuove catastrofi innaturali: se non si tratta di cinismo si tratta di incapacità di comprendere le conseguenze delle proprie azioni.

«Cancellate una serie di norme e vincoli sulle aree protette, a cominciare da quella della costiera sorrentina e amalfitana. Consentiti incrementi di volumetrie persino nelle zone rosse a rischio Vesuvio se finalizzate alla stabilità e al risparmio energetico degli edifici». Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2014

La norma galeotta è contenuta nel comma 72 di un documento di 47 pagine, un maxi emendamento sul quale il governatore azzurro della Campania Stefano Caldoro ha posto la fiducia. Uno zibaldone di revisioni legislative faticoso a leggersi, portato in aula in maniera anomala sei mesi dopo al bilancio al quale era “collegato”, eppure liquidato in tempi record, che la maggioranza del consiglio regionale campano ha approvato a scatola chiusa e senza fiatare per evitare di andare a casa con un anno di anticipo. In questo modo e “con evidenti e spregiudicate finalità di campagna elettorale”, accusa il Pd, si è deciso di riaprire i termini del condono edilizio del 1985 e del 1994 in Campania, annullando la scadenza del 31 dicembre 2006 per sostituirla al 31 dicembre 2015, cancellando una serie di norme e vincoli sulle aree protette – a cominciare da quella della costiera sorrentina e amalfitana – e consentendo incrementi di volumetrie persino nelle zone rosse a rischio Vesuvio se finalizzate alla stabilità e al risparmio energetico degli edifici.

La delibera è passata con il voto di Fi e di quasi tutto il centrodestra, mentre il Pd e resto del centrosinistra hanno abbandonato l’aula per protesta con la speranza – risultata vana – di far mancare il numero legale. Dentro lo stesso zuppone, diluito in 243 commi, è passata una mini riforma elettorale che sembra scritta apposta per ostacolare le ambizioni del sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, il candidato in pectore del Pd per sbarrare il prossimo anno la strada al Caldoro-bis. L’incompatibilità dei primi cittadini campani viene infatti tramutata in ineleggibilità. De Luca, e gli altri sindaci che volessero aspirare ad entrare in consiglio regionale, dovranno dimettersi irrevocabilmente dalla carica di primo cittadino prima dell’accettazione della candidatura alle elezioni regionali. La norma finora in vigore consentiva di optare dopo il voto, e così fece De Luca nel 2010. Sconfitto da Caldoro, dopo qualche mese di doppio incarico preferì rimanere sindaco di Salerno e dimettersi da consigliere regionale. Viene inoltre alzata la soglia di sbarramento delle coalizioni dal 5% al 10%. Anche qui si odora il profumo di norma “anti personam”. In questo caso quella di Beppe Grillo e del suo M5S.

E così si rispolvera la vecchia tentazione di Forza Italia in Campania, che in prossimità di ogni appuntamento elettorale promette più cemento per tutti. Soprattutto se abusivo. Finora l’attenzione si era concentrata sulla riapertura del condono 2003, rimasto precluso alle 76.836 opere abusive censite in Campania dopo il 1994 a causa di una legge regionale voluta dall’allora Governatore Ds Antonio Bassolino che ha dichiarato insanabili gli immobili edificati senza licenze e in aree vincolate. I numerosi tentativi della pattuglia di parlamentari campani guidata dall’avvocato Carlo Sarro si sono infranti sui voti contrari della Lega Nord. Così per quegli abusi resta vigente il divieto di condono. Ma nel “collegato” della Campania si offre una seconda chance a chi riuscirà a dimostrare di aver compiuto l’abuso prima del 1994.

Il segretario campano Cgil, Franco Tavella, boccia il provvedimento senza se e senza ma: “Dà il via libera all’ulteriore cementificazione di un territorio già devastato”. E qualche mal di pancia ha attraversato anche il centrodestra. Carlo Aveta, consigliere eletto nella lista La Destra e organico alla maggioranza, ha votato contro: “E’ un atto illegittimo, il ‘collegato’ dovrebbe attenere solo a norme di natura finanziaria”.

Grifone (Siracusa), XXIII, 1 29 febbraio 2014

«Sei mai stato ad Augusta, tu, Corbera?... E in quel golfettino interno, più in su di punta Izzo, dietro la collina che sovrasta le saline?… È il più bel posto della Sicilia… la costa è selvaggia, ...completamente deserta, non si vede neppure una casa; il mare è del colore dei pavoni; e proprio di fronte, al di là di queste onde cangianti, sale l’Etna; da nessun altro posto è bello come da lì, calmo, possente, davvero divino» (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, I Racconti)

Vietato rilassarsi, i cementificatori sono sempre in agguato: ritornano a galla progetti vecchi, dannosi, pensati solo per mungere risorse pubbliche e mantenere mastodontici apparati politico-burocratici, progetti – alcuni dei quali parzialmente attuati – che speravamo ormai di esserci lasciati alle spalle assieme all’eredità dei non pochi guasti che hanno già causato. La stagione della devastazione dell’ambiente pare non finire mai e trova sempre novelli avvocati che perorano la causa del cemento inutile e manager pubblici di nomina politica che, con i soldi della collettività, sono pronti a fare i coraggiosi imprenditori, in nome del progresso e dello sviluppo.
È di nuovo la martoriata area di Augusta – il cui gravissimo stato di compromissione ambientale era ormai acclarato agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso ma trovava ufficiale riconoscimento solo nel 1990 con la dichiarazione di Area ad Elevato Rischio di Crisi Ambientale – quella nella quale, riesumando il Piano Regolatore Portuale concepito nel 1963 e finora non aggiornato né sottoposto a VAS, si vorrebbero realizzare nuovi piazzali per ulteriori 330.000 mq e nuove e più lunghe banchine containers per ormeggiare quelle meganavi che non si sono finora viste e che, a detta degli esperti, sono ormai fantasmi anche nei porti commerciali più grandi e affermati del mondo.

L’area oggetto dell’intervento secondo il proponente, l’Autorità Portuale di Augusta, sarebbe un “relitto inutilizzabile e priva di connotati naturali né antropici” o ancora in passaggi successivi “…terreni incolti e in stato di abbandono…, caratterizzato da una depressione colma di acqua stagnante che non trova sbocco sul mare”. In realtà si tratta di un'area umida salmastra che ricade nell' “Oasi di protezione e rifugio della fauna selvatica” in agro di Augusta e Melilli (D.A 17 giugno 1999, G.U.R.S. 10 set.1999, n. 43). Questo decreto è stato poi sospeso, non annullato, con D.A. 29 dicembre 1999 che ha eseguito un'ordinanza del T.A.R. Sicilia, sezione di Catania (G.U.R.S. Parte I – n.3 del 2000).

La salina, che si estende per circa 12 ettari (art. 1 D.A. 17 giugno cit.), si colloca tra un'area industriale-commerciale e un’area storico-archeologica che comprende l'hangar per dirigibili di Augusta e la zona archeologica di “Cozzo del Monaco”, e si caratterizza per la presenza di habitat d'interesse comunitario e di un habitat prioritario (habitat 1150 Lagune salmastre, Dir. 92/43/CEE); di specie vegetali di interesse conservazionistico di cui una, l'Althenia filiformis, inserita nella lista rossa nazionale, e di numerose specie ornitiche che rientrano nell'allegato I della direttiva Uccelli 2009/147/CE (ex 79/409/CEE) come l’Airone rosso Ardea purpurea; il Mignattaio Plegadis falcinellus; la Spatola Platalea leucorodia; il Falco pescatore Pandion haliaetus; il Gabbiano roseo Larus genei; il Gabbiano corso Larus audouinii; il Fraticello Sterna albifrons; il Fratino Charadrius alexandrinus e altre ancora.

Si tratta quindi di un sito le cui valenze naturalistiche sono da ritenersi pari a quelle del pSIC/ZPS “Saline di Augusta” (ITA090014), sebbene per ragioni inspiegate non ne faccia parte. Allo stesso tempo l'ISPRA, Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, riporta nel proprio elenco delle zone umide italiane per il censimento invernale degli uccelli acquatici le Saline di Punta Cugno, altra denominazione delle S. del Mulinello (codice sito SR0304).

Il Formulario Standard Natura 2000 relativo alle Saline di Augusta, sin dalla sua prima stesura nel 1995 a cura dell'Università di Catania, ha proposto a SIC l'intero sistema delle Saline megaresi – le cosiddette S. Regina, S. Migneco-Lavaggi e S. del Mulinello – nessuna esclusa. Tuttavia la perimetrazione del pSIC, ed anche della ZPS, in fase di approvazione ha incluso solo le prime due saline ed escluso le terze, al primo passaggio e così pure a tutti i successivi passaggi, lasciando il sito, sotto questo profilo, privo della meritata tutela. Ed è in assenza di tale vincolo sull'area che il progetto riesce comunque a procedere.

L'ampliamento viene così descritto dal proponente nello Studio Preliminare Ambientale: “L’opera in esame non costituisce una modifica sostanziale al progetto del nuovo terminal container/molo container approvato con decreto di compatibilità ambientale del 2007, anzi ne è parte integrante e necessaria, sia ai fini della completa funzionalità dello scalo sia ai fini della regimazione idraulica delle acque dell’area retrostante”. Esso viene quindi giustificato come il già previsto e programmato sviluppo ed ampliamento della cosiddetta banchina containers per la quale fu rilasciato parere VIA positivo con decreto DSA-DEC-2007-0000224 del 27 mar. 2007 e, infatti, al SIA presentato nel 2004 fa più volte riferimento il proponente richiamando, per quello attualmente all’esame, gli studi ed i monitoraggi allora effettuati e sottoposti. La procedura VIA non può però essere frazionata e tutte le opere dell’intero progetto devono essere valutate nel loro insieme e contemporaneamente. Si può citare la nota sentenza della Corte di Giustizia Europea del 21 settembre1999 (Causa 392/96 Commissione delle Comunità europee contro Irlanda) con la quale viene stabilito che il frazionamento costituisce un rischio di elusione della VIA ed induce ad un errato giudizio di compatibilità che, invece, per essere corretto, deve formarsi ed esprimersi sull’intero progetto. Pertanto, pena la violazione dei più elementari principi, il progetto va rigettato ed il proponente richiesto di ripresentare una richiesta di VIA che comprenda sia la banchina containers che i piazzali.

Il citato parere VIA positivo per la banchina containers fu rilasciato in data 27/03/2007, ormai quasi sette anni fa, e l’opera – ad oggi – non è stata neppure iniziata. È infatti solo di recente, febbraio 2014, che i lavori sono stati affidati alla ditta vincitrice. Pertanto, essendo trascorsi oltre 5 anni, si ricorda la “Tempistica per la realizzazione del progetto: i progetti approvati devono essere realizzati entro cinque anni dalla pubblicazione del provvedimento ovvero entro un periodo più lungo, qualora espressamente previsto nel provvedimento di VIA. Se non interviene una formale richiesta di proroga da parte del proponente prima della scadenza prevista per legge e l'accettazione da parte del Ministero dell'Ambiente, trascorso il period o di cinque anni la procedura di VIA deve essere reiterata” (fonte Mattm)

Al momento è concreto il pericolo di una trasformazione irreversibile di quest'area – benché essa sia inserita nel Piano di Gestione delle Saline della Sicilia Orientale – con conseguente perdita di preziosi habitat naturali e perturbazione di specie. E ciò a dispetto di una ricca normativa di tutela ambientale sottoscritta dallo Stato italiano: la Convezione di Ramsar (1971), la Convenzione di Bonn e la Convenzione di Berna (1979), la Direttiva Uccelli 2009/147/CE (ex 79/409/CEE), la Direttiva Habitat 92/43/CE e la legge n.66 del 6 febbraio 2006 (Adesione della Repubblica Italiana all'Accordo sulla Conservazione degli Uccelli acquatici migratori dell'Africa-Eurasia, AEWA, G.U. 4 marzo 2006), e non ultimi i basilari principi di precauzione e prevenzione.

Si cancellerebbe una significativa porzione delle antiche Saline del Mulinello, le uniche che riuscirono a continuare la produzione del sale fino ai primissimi anni Ottanta ed in cui ancora oggi sono presenti le vestigia di alcune “casi ‘i salina” e gli ultimi preziosissimi resti di mulini a vento in legno, irripetibili testimonianze di un processo produttivo che nel passato ha caratterizzato fortemente l’economia di Augusta, per far posto ad una superficie pavimentata.

È amaro constatare come, agendo in tal modo, non ci si preoccupi affatto di precludere ogni auspicabile futuro di tutela e valorizzazione naturalistica del territorio; non sono infatti contemplate opzioni alternative al progetto concepito, e ci si basa su un’idea di porto commerciale risalente a 50 anni fa, rimaneggiata più volte, che si sta oggi dimostrando palesemente sbagliata e priva dei fondamentali requisiti di sostenibilità economica ed ambientale. Il Piano Regolatore Portuale (PRP) – quella parte in variante che contiene il progetto di porto commerciale – risale al 1982, approvato nel 1986 e reso esecutivo nel 1987, mai aggiornato nonostante la legge che istituiva le Autorità Portuali lo prescrivesse e mai sottoposto a Valutazione d’Impatto Ambientale. Solo di recente, luglio 2013, si palesa il bando di gara per la redazione della Valutazione Ambientale Strategica a corredo di un nuovo faraonico PRP che prevede la realizzazione di un’altra banchina containers lunga più di tre chilometri!

Inoltre l’opera è chiaramente incoerente con le necessità passate, presenti e future del traffico mercantile. La banchina e l’ampliamento vengono giustificati con il “trend” di crescita del traffico containers che dovrebbe portare a regime la loro movimentazione nel porto commerciale di Augusta a 500.000 teu (twenty equivalent unit – containers da 20 piedi). Questa stima, già fatta nel 2004 e che avrebbe dovuto essere raggiunta nel 2013 (Studio Preliminare Ambientale, p. 48), si è dimostrata del tutto inattendibile. Anche le stime, risalenti al 2006 e che prevedevano un incremento giornaliero di approdi per 2-3 navi (ivi, p. 54) si sono rivelate fallaci.

Alla luce di tutto ciò, le Associazioni del territorio hanno espresso la loro contrarietà al progetto e presentato una serie di osservazioni a tutti gli enti competenti, dal Comune alla Regione al Ministero dell'Ambiente: le principali ragioni dell'opposizione sono costituite dalla violazione delle norme comunitarie e nazionali di tutela degli ambienti naturali, dall'inosservanza delle prescritte procedure di Valutazione di Impatto Ambientale, dalla mancanza del Piano Regolatore Portuale aggiornato, dalla sottovalutazione dei rischi e degli impatti delle opere sui beni naturali e monumentali, dallo stravolgimento paesaggistico e – non ultimo – dalla ormai comprovata inattendibilità delle stime dei bisogni trasportistici e di traffico marittimo per i prossimi decenni. In conclusione, hanno chiesto al Ministero dell’Ambiente di rigettare il progetto e di dichiarare nullo il provvedimento VIA rilasciato nel 2007 per la banchina.

Il parere della Commissione Tecnica di Verifica dell'Impatto Ambientale VIA-VAS rilasciato il 27 set. 2013, inopinatamente esclude l'opera dalla procedura di Valutazione d'Impatto Ambientale e non tiene nel dovuto conto tutte le osservazioni negative e contrarie al progetto. Sebbene non se ne siano potuto ignorare alcune – tanto da non poter evitare di porre numerose prescrizioni e di dover rimandare ad altri Enti il compito di ulteriori verifiche – la decisione della Commissione non difende adeguatamente un sito che per il suo valore naturalistico, storico e culturale merita di essere tutelato.

Il Ministro per l’Ambiente dovrebbe ormai prendere atto che la Commissione VIA abbisogna di un profondo rinnovamento.

Da qualche mese si è aperta la corsa a chi dovrà ricoprire (o tornare a ricoprire) la carica di presidente dell’Autorità Portuale di Augusta scaduta nell’ottobre 2013. Anche il Ministro dei Trasporti ha l’occasione di rinnovare persone, prassi e obiettivi. Lo faranno?
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Il Fatto Quotidiano, 13 settembre 2013

Se volete vedere, annusare, toccare con mano il più grande disastro ambientale della storia d’Italia dovete venire qui, a Giugliano, Napoli, Campania, terra di camorre, malapolitica e veleni. La gente ieri si passava di mano in mano la prima pagina de Il Mattino che ha pubblicato i risultati di una indagine dell’Istituto superiore di sanità. Tutti l’hanno letta, ma nessuno si è meravigliato. “Sappiamo da anni che il nostro destino è di morire avvelenati. Ci ha ucciso la camorra con il traffico della monnezza, i politici che prendevano i voti, ma anche lo Stato che ha trasformato questa nostra terra in una enorme Monnezza Valley”. Nino è ai cancelli della Resit, una delle discariche della vergogna, il regno dell’avvocato Cipriano Chianese, colletto bianco dei casalesi. Lì sotto c’è di tutto. “È peggio dell’Aids”, disse il pm dell’Antimafia di Napoli, Alessandro Milita, davanti ai parlamentari della commissione d’inchiesta sui rifiuti. Alle tre del pomeriggio davanti alla Resit ci sono ambientalisti, normali cittadini e preti come don Maurizio Patriciello, che da anni si batte contro camorra e monnezza e che tre giorni fa si è inginocchiato davanti al Papa. “Vai avanti così”, gli ha detto il Pontefice. E lui va avanti con questa umanità che non vuole crepare nella “terra dei fuochi”. L’analisi dell’Istituto superiore di Sanità è terribile. Tutta l’area che va da Giugliano a Villaricca fino al litorale Domiziano è inquinata, ma c’è una zona rossa dove ormai l’avvelenamento di suoli e acque ha raggiunto livelli di irrecuperabilità.

Terre morte. Per sempre. Duecentoventi ettari gravidi di veleni, un livello di inquinamento che si estende alle falde acquifere per 2 mila ettari. Qualcosa come 2600 campi da calcio. Questa una volta era Campania felix, qui si facevano tre raccolti l’anno di ortaggi pregiati e frutta ottima. Da decenni il paesaggio è mutato, ora accanto ai campi ci sono le discariche. Una ogni mille abitanti, 40 in un solo chilometro quadrato, 15 milioni di rifiuti solidi urbani interrati. I casalesi e i loro referenti politici si sono arricchiti col business della monnezza. Nella Resit del colletto bianco avvocato Chianese (ottimi rapporti col padrone del Pdl casertano Nicola Cosentino) hanno interrato i veleni dell’Acna di Cengio. “Duecentomila tonnellate di sostanze tossiche – ha rivelato da pentito l’ex trafficante di rifiuti Gaetano Vassallo – ci furono pagate 10 lire al chilo”. Di cosa si trattava? Quale morbo è stato iniettato nel ventre di questa terra disgraziata? Vassallo e i suoi amici casalesi non se ne curavano. “Quella roba friggeva, era così potente che squagliava anche le bottiglie di plastica nel terreno”.
Mario De Biase, commissario di governo in Campania per le bonifiche, è terribilmente esplicito. “La bonifica è impossibile. Se qualcuno pensa che in quei terreni si possa ricreare l’ambiente bucolico di cent’anni fa sbaglia e di grosso. Ci vorrebbero i soldi di una finanziaria intera. E poi come si fa a scavare e riportare alla luce acidi, veleni, percolato inquinato. Dove li smaltiamo?”. E allora? “Allora il mio compito è quello di mettere in sicurezza quell’area. C’è già un progetto, i soldi, 6 milioni e mezzo, le gare partiranno presto. La falda è inquinata ma si tratta di vedere il tipo di inquinamento, e poi deve essere chiaro che in tutta quella zona attorno alla Resit e alle altre discariche, si devono espiantare le coltivazioni di frutta e piantare alberi no-food. L’area deve essere isolata rispetto al resto”. Il commissario insiste, carte alla mano dimostra che “non c’è passaggio diretto di Cov (composti organici volatili, ndr) e frutta e ortaggi”, ma la gente non si fida più. A Giugliano basta andare a Taverna del Re per capire che hanno ragione.

Qui, tra pescheti e campi coltivati a ortaggi, c’è il monumento alla più grande vergogna italiana: il deposito di ecoballe. Sei milioni di tonnellate di involucri che pesano una tonnellata ognuno, pieni di rifiuti. Sono lì da anni impilate in piramidi alte decine di metri, erano i cosiddetti rifiuti trattati destinati all’inceneritore di Acerra. Balle, menzogne raccontate ai cittadini della Campania da tutti, politici di destra e di sinistra, prefetti e alti commissari. In quei grossi sacchi c’è di tutto e non possono essere inceneriti se non vengono trattati nuovamente. Altri soldi, altri miliardi. E un altro inceneritore che la Regione Campania ha deciso di costruire qui, a Giugliano, nella Monnezza Valley. Era la Campania felix, una volta, prima che gli abusi edilizi divorassero la campagna, prima della monnezza, prima della camorra e dei sindaci compromessi con i boss. Ora, scrive la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti, “la catastrofe ambientale che è in atto costituisce un pericolo di portata storica, paragonabile soltanto alla peste settecentesca”.

Riferimenti


Vedi nell’archivio di eddyburg gli articoli raccolti nelle cartelle SOS Campania felix e Rifiuti di sviluppo

AltroVE -Rete dei comitati e delle associazioni per un altro Veneto": sbugiarda la Regione e tira le orecchie al Mibac. Ecco il comunicato dell'ufficio stampa, 7 giugno 2013

La Giunta Regionale ha recentemente approvato una “Variante parziale” al PianoTerritoriale Regionale di Coordinamento (PTRC), “adottato” nel 2009 dalla precedente Giunta Galan, al fine di attribuirgli la cosiddetta “valenza paesaggistica” prescritta dalla legislazione statale (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio -D.Lgs. 42 /2004).

Le associazioni e i comitati che da anni operano in tutto il Veneto a difesa del territorio e che già nel 2009 si erano mobilitati contro il PTRC, elaborando e presentando osservazioni sottoscritte da migliaia di cittadini, hanno ricostituito un tavolo di lavoro che si riunisce presso l’Università di Architettura di Venezia. Il loro obiettivo è di analizzare tale proposta di Variante (che, dopo la fase delle osservazioni e delle controdeduzioni, dovrà essere approvata dal Consiglio Regionale), di predisporre le Osservazioni finalizzate all’introduzione di norme cogenti per una effettiva tutela del paesaggio in una prospettiva di sviluppo economicamente, ambientalmente e socialmente sostenibile del nostro territorio e di far conoscere a tutte le forze politiche, culturali ed economiche della Regione i reali contenuti, i limiti e le acrobazie procedurali di questo tentativo di aggiornamento del principale strumento della pianificazione e della programmazione regionale.

L’analisi sin qui condotta evidenzia purtroppo che, mentre nelle relazioni si affermano quali fondamentali principi ispiratori della Variante quelli del minor consumo di suolo e della tutela del paesaggio, nessuna norma è realmente prescrittiva a questo fine. Al di là dei titoli e delle dichiarazioni di principio, il Piano non contiene le indicazioni prescrittive, l’individuazione puntuale dei beni culturali e degli ambiti paesaggistici tutelati, dei relativi obiettivi di qualità e delle relative norme cogenti, che pure il Codice dei Beni Culturali esplicitamente richiede per conferirgli una reale valenza paesaggistica.

Esaminiamo dunque, in questo primo documento, tre questioni fondamentali e prioritarie che evidenziano l’inconsistenza del Piano da un punto di vista paesaggistico, nonché fondati motivi di illegittimità e di incostituzionalità.

1. La Variante proposta non presenta affatto i contenuti necessari per assumere la prescritta VALENZA PAESAGGISTICA.

L’articolo 143 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio richiede al Piano paesaggistico di effettuare la ricognizione degli immobili e delle aree dichiarati di notevole interesse pubblico ai sensi dell’articolo 136 (ville, giardini, parchi, complessi di cose immobili di non comune bellezza...), delimitandoli e rappresentandoli in scala idonea alla loro identificazione, nonché determinando le specifiche prescrizioni d’uso.

Il piano adottato non assolve a questo compito. Ad un certo punto della relazione illustrativa si legge “Nel caso dei beni oggetto di dichiarazione di notevole interesse pubblico (art. 136 Dlgs 42/2004) è già a disposizione un primo archivio multimediale per la consultazione on-line: tale archivio, in fase di continuo aggiornamento, costituisce già un primo importante passo verso la sistematizzazione del materiale documentale inerente i circa 1000 decreti di tutela paesaggistica che rappresentano il vasto insieme dei beni tutelati ex art. 136 nel territorio regionale” (vedi allegato B, pag. 24). Ma questo archivio multimediale fa parte integrante del piano? Come fa ad essere parte di un Piano se non è completo, condiviso dal Ministero e se è in “fase di continuo aggiornamento”?

Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio “richiede” inoltre al Piano paesaggistico di effettuare la ricognizione delle aree tutelate per legge (già legge Galasso del 1985, ora art. 142 del Codice: territori costieri, fiumi, corsi d’acqua, foreste, zone d’interesse archeologico, zone umide, ecc.), delimitandole e rappresentandole in scala idonea alla loro identificazione, nonché determinando le relative prescrizioni d’uso intese ad assicurare la conservazione dei loro caratteri distintivi e – compatibilmente con tali caratteri – a promuovere la loro valorizzazione.

Neppure questo compito è assolto dalla Variante al piano: non sono – per esempio – rappresentati in scala idonea alla loro identificazione, i parchi e le riserve nazionali e regionali, né i territori coperti da foreste e boschi, ecc. Sempre nella relazione illustrativa (pag. 24) si legge: “Nel caso dei beni tutelati per legge (art. 142 Dlgs 42/2004), si tratta di procedere nella verifica delle perimetrazioni al fine di una loro sistematizzazione che tenga conto delle importanti relazioni ecosistemiche, storiche e sceniche che identificano la pertinenza paesaggistica del bene da tutelare”. Se si afferma che “si tratta di procedere….”, vuol dire che non si è proceduto. Detti adempimenti sono di fatto rinviati ai Piani paesaggistici d’ambito. Ma, in assenza di questi Piani, la attribuzione della Valenza Paesaggistica è solo dichiarata e non effettiva.

Va inoltre osservato che la mancata precisazione dei vincoli ope legis (ex Galasso) e la pretesa natura di validità ai sensi del Codice della "variante parziale" vanifica gli stessi vincoli già posti dalla Galasso o dai piani che la Galasso hanno recepito (come il Palav) Non solo non si completano né si aggiungono tutele, ma si sottraggono e riducono quelle che già c'erano.
A questo punto sorge la domanda: come fa la Direzione Regionale dei Beni Culturali - soggetto copianificatore, che per conto del Ministero deve sottoscrivere con la Regione il PTRC certificandone la “valenza paesaggistica” - a convenire e a dare il via libera su questa attribuzione, quando i Piani Paesaggistici d’ Ambito sono solo enunciati e rinviati, quando nessun vincolo è tracciato sulla cartografia e quando nessuna norma prescrive tutele né, tantomeno, indicazioni per il restauro dei paesaggi degradati intervenendo in tal senso in tutte le aree non vincolate ?

2. I cosiddetti PROGETTI STRATEGICI intesi come progetti attuativi del P.T.R.C. sono solo evocati ma non selezionati e individuati.
Sarà la Giunta Regionale a disporne, quando crederà, la localizzazione, le priorità, i modi e i tempi. L’articolo 5 delle Norme Tecniche prevede che «Per l’attuazione del PTRC possono essere definiti appositi progetti strategici finalizzati alla realizzazione di opere, interventi o programmi di intervento di particolare rilevanza che interessino parti significative del territorio regionale».
Nella precedente versione delle Norme l’art. 5 elencava 12 progetti strategici, mentre nella versione attuale - eliminato l’elenco - ci si limita a stabilire che «La Giunta Regionale provvede con propri atti all’individuazione dei progetti strategici, per la cui attuazione si applica quanto previsto ai sensi dell’art. 26 della L.R. 11/2004».

Nell’articolato delle nuove Norme si individuano genericamente alcune aree preferibilmente assoggettabili a progetti strategici (art. 38, Aree afferenti ai caselli autostradali, agli accessi alle superstrade e alle stazioni SFMR; art. 39, Portualità veneziana; art. 40, Cittadelle aeroportuali; art.41, Hub logistici di Verona e dell'area Padova-Venezia-Treviso; art.54, Attività diportistiche; art.63, Dolomiti e Montagna Veneta), ma di fatto la Giunta Regionale si riserva il diritto in qualsiasi momento di individuare nuovi Progetti Strategici attuabili con accordo di programma in deroga ai piani ed alle normative urbanistiche vigenti.

Ciò contrasta con quanto disposto dall’articolo 26 della legge regionale per il governo del territorio n.11/2004, da cui deriva la possibilità di utilizzare lo strumento dei progetti strategici. L’articolo 26, comma 1, della LR 11/2004 stabilisce infatti che sia il PTRC ad individuare i progetti strategici , il che sottintende una competenza del Consiglio Regionale, anziché della Giunta.

Il richiamo ai progetti strategici, soprattutto per quanto concerne la norma di cui all’articolo 38 che attribuisce alla Regione la possibilità decidere le trasformazioni urbanistiche in prossimità dei caselli autostradali e degli accessi alle superstrade, per un raggio di 2 km dalla barriera stradale, una enorme ed imprecisata quantità di ambiti territoriali, sembra di fatto principalmente finalizzato a consentire la realizzazione indiscriminata di nuovi centri commerciali (vedi anche commi 1.a e 1.b dell’art. 46 e comma 1.g dell’art. 67 delle Norme) e quindi nuove speculazioni immobiliari decisamente contrastanti con la finalità dichiarata di riduzione del consumo di suolo.

Noi riteniamo che non possa essere considerato un vero strumento di pianificazione territoriale un documento che non contiene e non indica i progetti attraverso i quali andrà attuato. Il Consiglio Regionale non può essere chiamato ad approvare un NON PIANO affidando totalmente, per delega implicita, il Governo effettivo del Territorio alla Giunta e, al tempo stesso, i Comuni e le altre autonomie locali comunque vadano a definirsi, non possono vedersi sottrarre la potestà pianificatoria e urbanistica sulla maggior parte del proprio territorio attraverso la costellazione delle molteplici aree di 2 km di raggio intorno a tutti i caselli, agli snodi stradali, alle stazioni SFMR sulle quali la Regione vuole imporre il suo dominio (per dare un’idea: ciascuna area di raggio pari 2 km corrisponde a 1256 ettari, ovvero 20.000 ettari (200.000.000 mq.) nei soli caselli della Pedemontana veneta)

3. E’ possibile introdurre una Variante ad un Piano solo adottato nel 2009 e mai approvato dal Consiglio Regionale del Veneto ?
Sembra che la Variante venga definita come PARZIALE proprio allo scopo di eludere la necessità di predisporre e presentare un diverso e decisamente nuovo PTRC. Ma, se il fine è quello della attribuzione della Valenza Paesaggistica, senza la quale, ai sensi del D.Lgs. 42/2004, il PTRC non potrebbe mai essere sottoscritto dal Ministero per i Beni Culturali e, quindi, mai approvato, la variante sarebbe piuttosto da definirsi SOSTANZIALE.

La contraddizione non è solo in termini. Essa evidenzia invece il carattere strumentale e le finalità effettive di questa riadozione del PTRC, che sono quelle di dotare la Regione di uno strumento che è nominalmente un Piano ma che è improntato alla filosofia di Galan, fatta propria anche da Zaia, riassumibile negli slogan più volte proclamati di “nessuna norma, deciderà il mercato!” e de “il potere decisionale e la gestione vanno delegati al governo regionale”, che tratterà caso per caso direttamente con gli operatori immobiliari, come già sta avvenendo per Veneto City, per il Quadrante Tessera, per Verona sud e più recentemente per il Palais Lumiére. Il vero obiettivo è di assolvere nominalmente all’obbligo della attribuzione della Valenza Paesaggistica e di strappare al Ministero per i BB.CC. il necessario nulla-osta , per avere poi, una volta delimitate le sole aree già vincolate a norma di legge, mano libera sul restante 90 % del territorio regionale.

Sono queste alcune delle ragioni di fondo che ci inducono a denunciare l'inadeguatezza, la sostanziale non rispondenza e quindi l'illegittimità della Variante adottata alle norme di legge ed alle stesse finalità dichiarate.

Richiediamo quindi che si proceda con la massima urgenza alla redazione ed approvazione di un vero Piano Paesaggistico e di un nuovo PTRC , coerenti con le stesse analisi del Piano adottato, fondati sui principi della effettiva tutela del patrimonio storico, culturale e paesaggistico della nostra Regione, della sostenibilità ecologica ed ambientale e della drastica riduzione del consumo di suolo.
Chiediamo inoltre che, in attesa dell'approvazione di detto piano e di norme tecniche cogenti, venga stabilita con apposito provvedimento regionale una moratoria edilizia, ovvero la sospensione da parte degli enti locali di ogni determinazione sulle domande relative ad interventi di trasformazione edilizia ed urbanistica che interessino aree di espansione urbana (in particolare se utilizzate o utilizzabili a fini agricoli) ed aree poste ad una distanza inferiore al chilometro e mezzo dagli immobili individuati come beni paesaggistici.

. Un'inammissibile forzatura: subito una pista per gli aerei invece del parco. 7 giugno 2013

Incomprensibile, oltre che inaccettabile sul piano democratico, la forzatura di Rossi nei confronti del consiglio regionale: “nuova pista o tutti a casa” (Corriere Fiorentino - 5/6/13). Se il Rossi Valentino è famoso per le traiettorie inconfondibili il Rossi presidente della Toscana non ha la stessa precisione, e la pista non è il Mugello ma quella dell'aeroporto di Firenze.

Il garante della comunicazione della Regione Toscana, prof. Morisi, il 6 e 7 dicembre scorsi ha organizzato un focus sul procedimento di adozione dell’integrazione del Pit (Piano di indirizzo territoriale della Regione Toscana), la seconda partecipatissima giornata verteva su “Parco agricolo della piana e qualificazione dell’aeroporto di Firenze-Peretola”. In quella sede è emersa in maniera approfondita e articolata l'incongruenza tra i due indirizzi: il parco agricolo non è compatibile con la nuova pista. Gli interventi dei tecnici, amministratori locali e associazioni lo hanno evidenziato chiaramente; il rapporto è consultabile su www.parcodellapiana.it.

Le ragioni sono molteplici, di carattere idrogeologico, ecologico, urbanistico, sanitario. Più in generale si può immediatamente intuire che il criterio ordinatore del parco agricolo, pensato per riorganizzare la Piana secondo criteri di compatibilità urbanistica, sociale e ambientale, è diametralmente opposto alla logica sviluppista del potenziamento aeroportuale. Tanto più che lo sviluppo, persino quello buono, è svanito e la Piana è già gravata da pesantissime scelte passate e paventate: area Fondiaria/Ligresti, inceneritore di case Passerini, terza corsia A11, scuola Marescialli, Polo scientifico (realizzato in deroga alle opere idrauliche che avrebbero dovuto compensare impermeabilizzazione e obliterazione del reticolo idraulico).

Sul piano della razionalità la scelta è obbligata, in ottica regionale, per la prossimità dell'aeroporto di Pisa: Peretola ha vocazione essenzialmente turistica e sarebbe naturale pensare ad una integrazione gestionale e modale tra i 2 aeroporti e la linea ferroviaria che li unisce, invece di creare concorrenza tra loro e tra treno e aereo. In ogni caso Peretola non sarà mai adeguato ai grandi numeri dei voli low-cost, fortunatamente, avendo Firenze caratteri diversi da Disneyland e trovandosi la cupola del Brunelleschi a 5 Km dal chek in.

Non sono poi eludibili le difficoltà per la realizzazione della nuova pista: andrebbe ad interrompere il collettore idraulico (con alternative ancora non individuate), stravolgerebbe l'assetto infrastrutturale dell'intera area, sarebbe il colpo di grazia per l'oasi di Focognano e le aree umide classificate come ANPIL (aree naturali protette), produrrebbe un incremento dell'inquinamento chimico e acustico su di un area densamente abitata. Tutto ciò avrebbe un impatto e un costo che pare difficile possa superare il vaglio di una corretta valutazione ambientale, sanitaria ed economica.

Rossi trovi quindi la sua traiettoria, scelga tra l'attenzione per le documentate istanze delle componenti sociali e il parco agricolo oppure l'autismo politico e l'aeroporto.

La Campania rischia una nuova cementificazione selvaggia. Mentre dal Lazio alla Lombardia, dal Molise alla Sicilia, un'ondata di scandali riconferma la degenerazione affaristico-clientelare del regionalismo, a Napoli la maggioranza di centro-destra che fa capo al governatore Stefano Caldoro e all'ex sottosegretario Nicola Cosentino (inquisito per camorra) ha tentato proprio oggi di varare una legge regionale che prevede l'abolizione delle più importanti norme per la difesa dell'ambiente e del paesaggio: con le nuove regole, basterebbe il via libera dei politici di un singolo comune per autorizzare, in deroga a tutte le leggi nazionali, nuove speculazioni edilizie perfino nelle aree più pericolose, come la zona rossa a rischio di eruzione che circonda il Vesuvio.

Contro questa deregulation del cemento in Campania si sono mobilitati i vertici nazionali di Italia Nostra, Fai, Legambiente e altre associazioni, con un documento unitario, mentre continua la raccolta di firme tra i cittadini in calce a un appello già sottoscritto da decine tra i più prestigiosi urbanisti e intellettuali italiani, come Settis, Salzano, De Lucia, Asor Rosa, Bevilacqua, Emiliani e molti altri.

L'approvazione della nuova legge, già saltata il 18 settembre, è stata rimessa in calendario a sorpresa nella seduta di oggi del consiglio regionale, dove è stata rinviata solo per problemi di tempo: la discussione infatti è stata interamente assorbita dal tema dei costi della politica, diventato scottante dopo le dimissioni della giunta Polverini e l'apertura di indagini anche in Campania.

Il varo della legge-scandalo sul paesaggio sembrava scongiurata dopo l'ultimo infortunio politico: l'assessore regionale all'urbanistica aveva parlato di un'intesa raggiunta con lo Stato, in particolare con i tecnici dei Beni Culturali, ma è stato platealmente sconfessato dal ministro Lorenzo Ornaghi, appoggiato anche dai colleghi Passera e Catania. Con una nota ufficiale, diffusa attraverso la direzione ai beni paesaggistici guidata da Gregorio Angelini, il ministro Ornaghi ha infatti contestato severamente il disegno di legge della Campania e ha avvertito la giunta regionale che, in caso di approvazione, le nuove norme verrebbero impugnate dal governo Monti davanti alla Corte Costituzionale.

Oltre ad autorizzare una specie di piano casa nella zona di massimo rischio attorno al Vesuvio, la nuova legge campana sul paesaggio prevede l'abolizione dei vincoli che hanno finora salvato dal cemento ciò che resta di territori fragili e bellissimi come la Costiera Amalfitana e autorizzerebbe nuove speculazioni edilizie perfino nelle zone archeologiche delle antiche città greche e romane come Elea (oggi Velia). "L'Espresso" aveva denunciato la pericolosità della nuova legge già con un articolo del 29 marzo scorso.

Oltre al Pd e alla sinistra, contro la nuova legge si è schierata anche una parte dell'Udc. Ma in Campania la maggioranza di centro-destra ha i numeri per approvarla, salvo ripensamenti, già al prossimo consiglio.

Sul sito dell'Espresso on line, è possibile lasciare commenti su questa vicenda, invitiamo i lettori di eddyburg a farlo.

L'appello delle Associazioni lo trovate qui.

Si intitola “Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania”. Per il presidente della Regione, Stefano Caldoro, e per il suo assessore all’Urbanistica, Marcello Taglialatela, metterà ordine in un labirinto di leggi. Più pianificazione, meno vincoli. Ma per il fronte ambientalista è una sfacciata deregulation. Allenterà tutte le maglie che a fatica proteggono dal cemento la Costiera sorrentina e quella amalfitana. La zona rossa intorno al Vesuvio. E metterà a rischio paesaggi delicati, fortunate, mirabili sopravvivenze in una regione martoriata dall’abusivismo e da un’espansione edilizia che ha pochi paragoni in Europa.

Il provvedimento è in calendario per oggi in Consiglio regionale, dove si annuncia battaglia. Ma intanto partono gli esposti di tutte le associazioni (Italia Nostra, Legambiente, Wwf, Fai), si mobilita il web (Eddyburg) e, con un appello, personalità del mondo politico e culturale (da Salvatore Settis ad Alberto Asor Rosa, da Vezio De Lucia a Pierluigi Cervellati, da Piero Bevilacqua ad Andrea Emiliani). Persino il ministro Corrado Passera ha espresso, con una battuta, avversione nei confronti della legge. Rispetto al testo approvato dalla giunta nel marzo scorso, quello che approda in aula recepisce alcune istanze ambientaliste. Ma molte questioni restano irrisolte.

Per esempio l’indebolimento dei vincoli sulle zone ai bordi delle costiere sorrentina e amalfitana, finora protette da un Piano paesaggistico che risale alla metà degli anni Ottanta e che porta la firma di un maestro della pianificazione, Luigi Piccinato. Quel documento, frutto di un’elaborazione culturale che ora è materia di studio in alcune università, tutelava non solo i gioielli (Amalfi, Ravello, Sorrento, Sant’Agata…), ma anche il pendio che scende verso Nocera e Angri. Convinto, Piccinato, che proprio le aree meno pregiate potessero essere veicolo di manipolazioni, danneggiando l’unitarietà del sistema paesaggistico. L’assessore Taglialatela ribatte: «Non possiamo tutelare Nocera al pari di Amalfi».

Ma intanto, è la replica, quei pendii che si spingono fin quasi a mille metri, dentro il parco dei Monti Lattari, e che custodiscono terrazzamenti, monasteri e insediamenti archeologici, passeranno alla competenza dei Comuni, soggetti a molte pressioni, e perderanno un ombrello che finora li ha preservati dal diluvio cementizio scatenato sulla piana con l’assenso delle amministrazioni locali. E poi è come se si ribaltasse una gerarchia sempre rispettata fra un Piano paesaggistico, che tutela un’area vasta, e un Piano comunale, più specifico.

L’altro punto dolente è il Vesuvio, alle cui pendici è dilagata nei decenni un’urbanizzazione suicida. Dalle sette alle ottocentomila persone abitano in una zona a rischio eruzione, diventata un ammasso edilizio. Qui, sostituendo qualche parola in articoli di legge precedenti, tagliando e cucendo, la nuova norma consente praticamente di applicare il Piano casa. Mentre finora la legislazione, che risale al 2003, tendeva a bloccare ogni espansione e a favorire lo sgombero, anche con incentivi, di territori pericolosamente sovrappopolati, ora si consente di demolire e ricostruire. E persino di incrementare le volumetrie. Quindi di ristrutturare un abitato che invece si voleva diradare. L’inversione di tendenza è netta, denunciano gli ambientalisti.

Taglialatela ribatte su tutti i punti. Non ci sono aumenti di volumetria sotto il Vesuvio, assicura l’assessore. Né il cemento ha il via libera sui pendii che portano alla Costiera: «L’obiettivo è esattamente l’opposto e in tal senso ho mantenuto un costante confronto con l’Ufficio legislativo del ministero per i Beni culturali e la direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici». Ma proprio su questo punto una smentita all’assessore giunge da Gregorio Angelini, direttore dei beni culturali in Campania. Il quale avanza una serie di ben quattro osservazioni che non sono state accolte. «È improprio affermare», conclude Angelini, «che il testo presentato in Consiglio regionale sia stato condiviso con il ministero».

Sono anche altri i profili che allarmano le associazioni. Il fatto, per esempio, che nella legge si introduca una specie di compensazione ambientale se si danneggia un paesaggio. Chi commette un abuso, può sanarlo piantando qualche albero. È un provvedimento adottato in Europa, dicono alla Regione, per esempio nella zona della Ruhr, in Germania. Ma lì c’era un’area industriale che parzialmente viene riconvertita, ribattono gli ambientalisti. Il paesaggio campano mostra ancora eccellenze che non si possono svilire, incentivando di fatto pratiche abusive. Eccellenze che invece andrebbero sottoposte a un’opera di manutenzione di cui non c’è traccia nel provvedimento della Regione.

L'appello delle Associazioni lo trovate qui

«Blocchiamo l'ultimo assalto al territorio della Campania. Salviamo la Costiera Sorrentino-Amalfitana». Urbanisti, storici dell'arte, agronomi ed ambientalisti lanciano un appello a Napolitano, a Monti ed al ministro dei Beni Culturali, Ornaghi, affinché scongiurino l'approvazione del disegno di legge «Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio in Campania», che sarà discusso il 18 settembre in consiglio regionale. Firme note e prestigiose, quelle dei sottoscrittori. Eccone alcuni: lo storico della letteratura Alberto Asor Rosa; gli urbanisti Vezio De Lucia, Sauro Turroni, Paolo Berdini, Pierluigi Cervellati; l'archeologo Salvatore Settis, per 11 anni direttore della Scuola Normale di Pisa; lo storico Piero Bevilacqua; la fondatrice di Italia Nostra Desideria Pasolini dall'Onda. Ci sono il Wwf, Legambiente, Italia Nostra. Ancora, aderiscono Rita Paris, direttrice del Museo Archeologico Nazionale di Palazzo Massimo; lo storico dell'arte Andrea Emiliani; Gino Famiglietti, direttore regionale del ministero per i Beni Ambientali e Culturali; Carlo Iannello, presidente della commissione urbanistica del consiglio comunale di Napoli; l'agronomo Antonio di Gennaro.

Una chiamata agli scudi che coincide, tra l'altro, con l'appello lanciato dal presidente del consiglio Monti, durante la presentazione, insieme al ministro delle Politiche agricole Mario Catania, del «ddl quadro» in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo. «Negli ultimi 40 anni —ha detto il premier — è stata cementificata un'area pari all'estensione di Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna. Un fenomeno di proporzioni sempre più preoccupanti, che ha provocato molteplici effetti negativi: sul paesaggio, sulla produzione agricola, sull'assetto idrogeologico». Ma torniamo all'appello contro il provvedimento varato dalla giunta Caldoro su proposta dell'assessore Taglialatela. Secondo i promotori della sottoscrizione, «ha contenuti chiaramente eversivi». Sono 15 articoli in tutto; quello maggiormente incriminato è l'ultimo: «Abrogazioni e modifiche legislative». Cassa o modifica norme preesistenti. «In particolare — denuncia Vezio De Lucia — sottrae alla regolamentazione del Put, il piano urbanistico territoriale della penisola sorrentino amalfitana, la fascia pedemontana della costiera». Cosa questo significhi, quali conseguenze determinerà sul paesaggio. Lo spiega l'agronomo di Gennaro. Premette: «Parliamo di vari Comuni, tra i quali Santa Maria la Carità, le due Nocera, Angri, Cava dei Tirreni.

Siamo nei primi versanti dei Monti Lattari, in un territorio cerniera la cui tutela è essenziale anche ai fini della conservazione della fascia considerata più pregiata, da Vico Equense ad Amalfi. Non a caso furono inseriti nel Put, quanto il consiglio regionale approvò quella legge, nel 1987». Prosegue: «Scorporando quei territori dal Put, se ne affida la pianificazione ai singoli Comuni. In tal modo, in assenza del Piano paesaggistico previsto dal codice dei beni culturali e del paesaggio, nei territori in questione acquisterà direttamente efficacia il nefasto regime derogatorio del piano casa della Campania». Dunque, secondo i sottoscrittori dell'appello, il provvedimento varato dalla giunta, se sarà approvato in consiglio la prossima settimana, aprirà le porte al cemento fin sui crinali dei Lattari, la catena montuosa che corona la penisola sorrentino-amalfitana. «Una zona tra l'altro — sottolinea di Gennaro — ad elevato rischio idrogeologico». A rischio, secondo l'urbanista, Giuseppe Guida, anche alcune aree della costiera propriamente detta, da Vico Equense fin oltre Amalfi. Dice, infatti: «Si stralcia dal piano urbanistico la zona 7 di tali Comuni».

L'estrapolazione dalla tutela del Put di ampie fasce di territorio che finora ricadono in esso, peraltro, non è l'unico punto critico che Settis, De Lucia, Asor Rosa e gli altri promotori dell'appello individuano nel testo. Suscita enormi preoccupazioni, infatti, sempre all'articolo 15, la modifica di alcune previsioni normative introdotte con la legge regionale numero 21 del 10 dicembre 2003, istitutiva del piano strategico del rischio Vesuvio. Il provvedimento della giunta Caldoro restringe infatti i divieti. Non si proibisce più tout court ogni incremento dell'edificazione, ma ci si limita a vietare la «nuova edificazione». Insomma, via libera agli ampliamenti di quello che c'è già, anche grazie al piano casa ed in assoluta contro-tendenza col proposito di decongestionare la zona rossa. Altro articolo controverso il numero 7, che introduce le compensazioni ambientali. «In sostanza — dice l'ex presidente del parco delle colline metropolitane, Agostino Di Lorenzo — chi ha costruito abusivamente evita di abbattere piantando un po' di verde in un'altra zona. Si distorce uno strumento applicato con bel altro rigore in altri paesi e si garantisce l'impunità a chi abbia costruito al di fuori delle norme». Ce n'è quanto basta,insomma, per mettere in allarme chi ha a cuore il paesaggio ed il territorio.

La prima precauzione nell’analisi delle politiche pubbliche è quella di diffidare delle etichette: i titoli dei provvedimenti servono spesso più a camuffare che a svelare; tra gli obiettivi espliciti e quelli realmente perseguiti può correre a volte una bella differenza. È così per il disegno di legge regionale sul paesaggio che, dopo il via libera in commissione, approda in consiglio regionale in vista della sua definitiva approvazione, complice magari l’inevitabile disattenzione agostana.

Il fatto è che questo disegno di legge — spesso impropriamente definito in alcuni articoli di stampa come il “nuovo piano paesaggistico” — con il paesaggio e con le procedure previste dal relativo codice, non c’entra proprio niente. È vero invece che esso contiene robusti aspetti di incostituzionalità, che condurranno con tutta probabilità alla sua impugnazione da parte del ministero per i Beni e le attività culturali. Piuttosto, liberato dell’involucro propagandistico, il provvedimento può essere considerato come l’ultima puntata dell’infinita telenovela del “piano casa”, la polpetta avvelenata che il governo Berlusconi ha propinato alle 20 regioni italiane.

Il ragionamento è più o meno questo: per far ripartire l’economia occorre dar fiato all’edilizia, e questo è possibile solo sgombrando il campo da controlli e procedure autorizzative, disboscando energicamente la selva di vincoli, recidendo lacci e lacciuoli che frenano l’iniziativa. È proprio quello che si provvede a fare con il disegno di legge sul paesaggio, il cui esito certo, per ora, è il drastico allentamento dei vincoli precauzionali, a partire proprio dalla zona rossa del Vesuvio, e da territori di importanza strategica compresi nel Piano urbanistico territoriale della Penisola sorrentino-amalfitana.

Tanta audacia è controbilanciata dall’introduzione di sofisticati strumenti di contabilità e compensazione ambientale, già difficili da applicare nell’austera Germania, dove pure sono stati escogitati, con la differenza che lì non ci sono 60 mila alloggi illegali con sentenza di abbattimento, né centinaia di migliaia di pratiche inevase di sanatoria, perché a quelle latitudini il fenomeno dell’abusivismo edilizio semplicemente non esiste.

Appaiono quindi più che giustificate le perplessità sollevate da Aldo De Chiara, un’autorità in materia, sull’opportunità di abbassare la guardia proprio in contesti tanto delicati, a elevata patologia urbanistica, ma la sensazione è quella di una cambiale elettorale giunta inesorabilmente a scadenza.

Resta da capire quanto sia fondato l’assunto che è alla base della legislazione emergenziale del “piano casa”, e per far questo basta girare lo sguardo a occidente, ai nostri cugini spagnoli, che un’esperienza simile l’hanno vissuta su vasta scala, con la lunga deregulation urbanistica di Aznar e Zapatero. Il risultato è che l’economia spagnola, con un rapporto debito/pil intorno al 70 per cento, molto inferiore al nostro, sta morendo a causa dell’esposizione delle banche nei confronti del settore immobiliare, con spettrali città di nuovo impianto invendute, le sofferenze sui mutui, gli sfratti, gli indignados in strada.

Perseverare anche da noi su questa strada è spiegabile solo con una salda fiducia nel metodo omeopatico: la speranza cioè che la malattia possa essere curata continuando a somministrare al paziente la stessa tossina che l’ha provocata.

«La parola d’ordine sarà pianificare a volumetria zero». Con questa asserzione, opportunamente vaga e che ricorda il "rifiuti zero" che fino a qualche anno fa ci si vantava di poter raggiungere, la Regione Campania si è presentata ieri al Forum PA di Roma, con una tavola rotonda dal titolo "Pianificazione paesaggistica e tutela dell´ambiente", presenti il presidente Caldoro e gli assessori Taglialatela e Trombetti.

Su un altro fronte, quello da sempre impegnato nella proposizione di modelli di sviluppo alternativi e sostenibili, si replica con un perentorio «consumo di suolo zero», quello alla base del recente Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Caserta, terra di cronache di cemento, di mafie e di rifiuti, elaborato da Vezio De Lucia e da un gruppo di giovani urbanisti che con lui hanno condiviso questa esperienza.

In casi come questi si può anche essere ottimisti, ma basta osservare la realtà, le politiche pubbliche che continuano a prodursi contro il territorio e che del territorio fanno preda, il quadro economico emergenziale dove gli enti pubblici sono collocati, la qualità generale della classe dirigente, per notare come i fatti concreti purtroppo vadano in un´altra direzione.

Gli ultimi dati elaborati dalla Svimez sui Comuni italiani, ad esempio, sono chiari: dei Comuni finiti in dissesto finanziario dal 1989 al 2011 il 79 per cento è al Sud. In Campania, circa due milioni di persone ne hanno subito le conseguenze. La Regione, nonostante gli annunci governativi dei vari "Piani per il Sud", soffre di una lentezza dei trasferimenti e di una crisi strutturale di risorse finanziarie che ne riduce i margini di manovra, limitandoli al mantenimento della sovradimensionata macchina burocratico-amministrativa. Su questo sfondo di generale debolezza degli enti pubblici, è il paesaggio a emergere sempre di più come comodo arnese economico-finanziario da utilizzare per garantire una sorta di equilibrio nel breve periodo, cedendo in diverse forme alle pressioni dei privati, pronti a far tintinnare la moneta urbanistica (quando non di altro tipo) e proporsi come investitori per progetti di tipo "pubblico".

Utilizzando la fase di emergenza, la Regione, le Province, i Comuni, facilitati anche da alcuni provvedimenti governativi, stanno mettendo in gioco le proprie aree di pregio, innescando una trasformazione del territorio al di fuori di qualsiasi pianificazione e modalità di controllo degli esiti. Un processo eminentemente irrazionale che avvantaggia il privato e che spesso, a fronte di un´impostazione predatoria, non produce nemmeno l´atteso ritorno in termini di risorse pubbliche. Le modalità di intervento in tal senso sono diverse, molte non codificate e di tipo locale, tuttavia ci sono alcuni dispositivi che per la loro dimensione appaiono più critici. Tra questi il Piano Casa, i cui effetti, con un ritardo di tipo strategico, si stanno per abbattere sui territori di pregio o dal precario equilibrio urbanistico, con le prime congrue richieste di espansioni e riconversioni residenziali a Napoli, nel Cilento, nell´area domizia, in Penisola Sorrentina.

A Roma, invece, i rappresentanti della Regione hanno raccontato di un disegno di legge che si intitola "Norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio", ma che non prevede l´introduzione nemmeno di un solo vincolo o norma di tutela paesaggistica. Quattordici dei quindici articoli di cui è composto il dl (ora in discussione in commissione) infatti invocano generici principi di tutela, citano a più riprese la Convenzione europea del Paesaggio e sostengono con fermezza il principio della sostenibilità. Fino all´articolo 15, che si occupa, in maniera molto più concreta, dell´abrogazione di decine di vincoli paesaggistici, invertendo il senso del titolo stesso della legge. Sull´ultimo bollettino della Regione Campania, tanto per continuare, è stata pubblicata una leggina di due soli articoli che altera, a spese ovviamente dei beni pubblici, il regime di concessione delle aree demaniali. Ai titolari degli stabilimenti viene estesa la concessione all´intero anno ed è ammessa la realizzazione o il ripristino di piscine «rimovibili». A questa definitiva consegna della aree balneabili al privato viene aggiunta l´improbabile, e anche un po´ comica, postilla che prevede «l´accesso gratuito agli stabilimenti ai minori di anni 12».

Questa sostanziale e quasi eccitata tendenza alla deregolazione (questa sì da portare e spiegare al Forum di Roma) tende a confinare la pianificazione territoriale e urbanistica in un´area di inefficacia da cui sarà progressivamente difficile uscire. L’attività di pianificazione (dispiace per l´amico De Lucia) tende a diventare un esercizio inutile, e non è con le parole d’ordine (consumo di suolo zero, volumetria zero, rifiuti zero) che si muteranno gli esiti di un processo pernicioso e, a quanto pare, sufficientemente condiviso.

Postilla

E' veramente sacrosanta l'indignazione di Giuseppe Guida per i sistematici provvedimenti di delegificazione in materia di governo del territorio che caratterizzano l'attuale amministrazione campana. Eddyburg è stato promotore con le associazioni ambientaliste dell'appello nazionale per il ritiro del pernicioso disegno di legge "Norme in materia del paesaggio", giustamente stigmatizzato da Guida, che rischia di mettere una pietra tombale sul procedimento di pianificazione paesaggistica all'ombra del Vesuvio. Resta il fatto che, nonostante tutto, continuiamo a preferire una provincia di Caserta con un buon piano di coordinamento territoriale, ad una provincia priva di regole. Un cattivo piano regolatore di castel Volturno è stato già rispedito al mittente perchè in contrasto con il nuovo piano provinciale. E poi, fossero anche davvero solo parole, sono pur sempre parole che rompono il mortificante silenzio civile imposto da Cosentino & Landolfi. Antonio Di Gennaro

Gli ha detto «non se ne parla» il ministro dell'Ambiente, glielo ha ribadito il ministro dei Beni Culturali, glielo hanno ripetuto il sindaco di Roma, l'Unesco, Italia Nostra, la gente del posto, l'Autorità di bacino e migliaia di intellettuali di tutto il mondo. Niente da fare: il Commissario ai rifiuti vuol fare la discarica proprio lì, a due passi da Villa Adriana. All'estero non ci vogliono credere, che un paese che si vanta di essere una delle culle della cultura possa solo ipotizzare di costruire la nuova pattumiera della capitale, in seguito all'inevitabile chiusura dello storico immondezzaio di Malagrotta (dopo mille rinvii e l'ammasso di 36 milioni di tonnellate di pattume) a 70o metri dall'area vincolata della maestosa residenza dell'imperatore Adriano. «Ma siete sicuri che non è una bufala?», hanno chiesto increduli tanti professori universitari e archeologi e storici dell'arte e intellettuali vari a Bernard Frischer, direttore del Virtual World Heritage Laboratory, tra i promotori di una raccolta di firme planetaria contro l'idea scellerata: «E impensabile che la Villa e il territorio circostante debbano subire il degrado che ovviamente deriverebbe dalla discarica in progetto». Ieri sera i firmatari (appoggiati da una mozione votata dalla Société Francaise d'Archéologie Classique) erano già quasi cinquemila. Da Lisa Ackerman, vicepresidente esecutiva del World Monuments Fund, ad Alain Bresson dell'Università di Chicago, dall'archeologo Tonio Holscher di Heidelberg all'architetto Richard Meier, da Salvatore Settis a vari docenti di Oxford e Berkeley, Harvard e Cambridge. Per non dire delle personalità di spicco del Louvre, del Prado, del Getty Museum di Malibù, dell'Hermitage di San Pietroburgo, del Kunsthistorisches Museum di Vienna... Una sollevazione. Che da una parte ci consola per l'amore che riconosciamo nel mondo verso i nostri tesori, dall'altra ci fa arrossire di vergogna. E ci ricorda quella tremenda battuta che girava tra gli intellettuali stranieri dopo l'infelice insistenza di chi come il Cavaliere sbandierava che l'Italia ha «il 50% dei beni artistici tutelati dall'Unesco». Diceva quella battuta: «L'Italia ha la metà dei tesori d'arte mondiali. L'altra metà è in salvo». Umiliante. Eppure va detto che questa volta, con l'eccezione della presidente della Regione Lazio Renata Polverini, un po' tutte le autorità locali e nazionali hanno usato parole nette. «Qui la discarica non si può e non si deve fare», ha tuonato l'altro ieri Gianni Alemanno. Due ore più tardi, sul suo blog si appellava «al commissario e a tutte le autorità competenti» spiegando che lì «1'Acea raccoglie acque importanti, da qui passa l'acquedotto dell'Acqua Marcia, ci sono fonti di captazione non solo per l'acqua a uso agricolo, ma anche per quella potabile. E qui c'è un sito tutelato dall'Unesco, Villa Adriana, che deve essere rispettato». Non c'è solo la residenza imperiale famosa nel mondo per il Ninfeo e il Teatro Marittimo, i Portici e le Grandi Terme e per le «Memorie di Adriano» di Marguerite Yourcenair. Ci sono intorno ampi spazi dove ancora si può vedere quanto belli fossero quei dintorni di Roma che abbagliarono i grandi visitatori del passato e antichi manieri medievali come quello che domina l'ex cava destinata a diventare una discarica e liquidato dagli esperti prefettizi, con una definizione furbetta tesa a non impensierire i custodi delle belle arti, come un «manufatto edilizio denominato Castello di Corcolle». Macché, a stretto giro di posta il prefetto Giuseppe Pecoraro, rispondeva al sindaco a brutto muso: «Nella vita di un funzionario pubblico a volte bisogna fare scelte obbligate anche se dolorose. Da parte mia non c'è naturalmente alcuna intenzione di ledere alcun territorio, ma il mio obiettivo è superare l'emergenza, e per farlo bisogna fare delle scelte. E l'obiettivo primario che mi guida è l'interesse pubblico». Avanti tutta: la discarica la vuole proprio a Corcolle. E a questo punto lo scontro è durissimo. In una lettera del io maggio a Mario Monti, a costo di andare in conflitto con la collega Anna Maria Cancellieri, i ministri dell'Ambiente Corrado Clini e dei Beni Culturali Lorenzo Ornaghi, sono infatti irremovibili. E non solo manifestano l'irritazione per la *** scelta del prefetto di incaponirsi su Corcolle «in aperto e pubblico contrasto con i nostri ministeri». Ma ripetono che «Corcolle insiste su un'area vulnerabile del sistema acquifere o regionale caratterizzata da una presenza significativa di pozzi d'uso prevalentemente agricolo, igienico e il domestico, oltre che dalle sorgenti Acquoria e Pantano Borghese, con una portata complessiva di i.ioo litri al secondo, captate da Acea per la rete idropotabile di Roma. La discarica metterebbe a rischio un'importante quota di approvvigionamento idrico della capitale». Di più: «La barriera geologica naturale (...) necessaria alla localizzazione di un eventuale discarica, è estremamente ridotta e caratterizzata da una permeabilità non conforme ai requisiti di legge con rischi di contaminazione ambientale del sistema acquifere o regionale». Il prefetto vuole andare avanti «in deroga ai vincoli stabiliti»? Inaccettabile, per i due ministri: «Non è possibile derogare da tali vincoli, come dimostrano le numerose procedure d'infrazione a carico dell'Italia». Non bastasse, «è altamente probabile» che se andasse avanti «l'iniziativa verrebbe bloccata», presumibilmente dalla magistratura, «e di conseguenza il sistema di gestione dei rifiuti di Roma entrerebbe davvero in emergenza». E allora che senso ha insistere? Quanto a villa Adriana, la lettera ricorda che il ministero dei Beni culturali ha ritenuto «che sia assolutamente improprio consentire un intervento lesivo di un patrimonio culturale e paesaggistico di valenza universale, annoverato tra i siti Unesco e come tale oggetto di un accordo internazionale che obbliga lo Stato alla tutela e alla conservazione». Cos'altro serve ancora, con lo spettro che l'Unesco possa davvero revocare alla residenza imperiale lo status di «patrimonio dell'umanità», per abbandonare il progetto?

«Dormi, o Poppea/terrena dea», canta Amore ne «L'incoronazione di Poppea» di Claudio Monteverdi. E meglio davvero che la bella e ambiziosa moglie di Nerone riposi in pace. Tornasse in vita, la sua vendetta su chi ha ridotto così la sua villa a Oplontis, nello sfacelo economico, urbanistico e morale di Torre Annunziata, sarebbe terribile. Riuscite a immaginare cosa farebbero gli americani o i francesi se avessero la fortuna di avere loro questo tesoro inestimabile che è la «Villa di Poppea»? Vedreste un'area di rispetto tutto intorno, parcheggi, visitor center, una struttura multimediale come «anticamera» per introdurre gli ospiti a capire quanto sia importante ciò che stanno per vedere a partire dalla stupefacente parete coi due pavoni (pavoni che avrebbero fatto appunto attribuire la villa all'imperatrice) dove si vede una prospettiva studiata sui libri di scuola di tutto il mondo. E poi ristoranti, caffè, bookshop e un museo coi reperti più belli e su tutti i meravigliosi «Ori di Oplontis» trovati nel 1984 nella villa di Lucius Crassius, che sta a poche decine di metri, spersa e umiliata come la residenza più famosa dentro una casbah sgangherata di orrende palazzine tirate su per mano di geometri e architetti dementi dal dio stesso della bruttezza.

Da noi: zero meno zero. Non c'è una zona di rispetto, non c'è un cartello stradale che aiuti a non perdersi nel casino di una viabilità delirante, non c'è un visitor center, non c'è un parcheggio, non c'è un bookshop e manco un baracchino, una gelateria, un bar... Niente di niente. Uno spreco pazzesco. Che ti fa venire in mente ciò che scrisse nel 1775 sul patrimonio pompeiano, in Viaggio in Italia, Alphonse de Sade: «Ma in quali mani si trova, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?». Ebbero un successo immenso, quei 65 elegantissimi gioielli trovati addosso ai poveri resti di una ventina di persone che si erano rifugiate in una stanza della villa mentre la lava del Vesuvio inghiottiva ogni cosa, quando furono esposti la prima volta a Castel Sant'Angelo. «La tragedia», disse il sovrintendente Baldassarre Conticello, «è che poi torneranno nel caveau di una banca perché a Torre Annunziata non c'è un museo». Era il lontano 1987.

Un quarto di secolo dopo, quel museo non solo non è ancora stato fatto ma manco progettato. E i celeberrimi «Ori di Oplontis», alcuni dei quali sono stati prestati per rarissime esposizioni che hanno fatto luccicare gli occhi anche agli australiani, sono chiusi in una cassetta di sicurezza. Vietati alla vista dei visitatori insieme con tutti gli altri reperti più preziosi che sono ammucchiati in un deposito (da cui peraltro sono appena spariti due pezzi) tra gli indecorosi casotti di cemento accanto alla cosiddetta «Villa di Poppea». Ecco il direttore, Lorenzo Fergola: «Possiamo vedere queste meraviglie in magazzino?». «E tutto chiuso». «I custodi non hanno le chiavi?». «No». «Chi le ha?». «Io». «E allora?». «Le ho dimenticate a casa». E tutti a fare la lagna: «Potessemo campa' solo 'e turismo!». E tutti a ricordare i tempi belli quando la città si chiamava Gioacchinopoli in onore di Gioacchino Murat: «Quant'era bella! 'O sole! 'O mare!». E tutti a citare quanto annotò nel diario Wolfgang Goethe nel 1787: «Pranzammo a Torre Annunziata con la tavola disposta proprio in riva al mare. Tutti coloro erano felici d'abitare in quei luoghi, alcuni affermavano che senza la vista del mare sarebbe impossibile vivere. A me basta che quell'immagine rimanga nel mio spirito».

Adesso, qui, sono «felici» di vivere solo i camorristi che arricchiscono, spacciano e ammazzano la gente intorno ai clan degli Aquino-Annunziata, dei Gallo, dei Vangone, dei Gionta. Così potenti e volgari che non solo avevano allestito un quadrilatero con fortificazioni elettroniche (quindici microcamere, tre centraline invisibili a occhio nudo, più alimentatori per ovviare all'eventuale taglio della luce) ma sono arrivati, come scrisse sul Corriere Fulvio Bufi, a «sostituire la pavimentazione stradale con marmi e piastrelle del genere che abitualmente viene utilizzato all'interno delle case». Sono così forti i camorristi, in questa città che ha visto chiudere 93 dei 94 pastifici e le fabbriche siderurgiche e lo «spolettificio» militare che ormai, dopo avere ingoiato parte della vastissima Villa di Poppea, è ridotto a uno stipendificio per meno di duecento dipendenti assistiti in un'interminabile agonia, da permettersi tutto. Anni fa, per la «strage di Sant'Alessandro», quattordici sicari arrivarono in pullman (in pullman!) davanti al Circolo dei Pescatori per annientare con mitra e fucili a pompa otto uomini legati ai Gionta. E non passa mese senza la scoperta di nuovi legami tra i clan locali, la 'ndrangheta della Locride e una certa imprenditoria marcia del Nord. «Fortapaso , chiamava Torre Annunziata il povero Giancarlo Siani, il giovane cronista del Mattino che qui lavorava e venne assassinato.

E se c'è un luogo simbolo in cui lo Stato dovrebbe a tutti i costi affermare la sua sovranità, è questo. Anche per proteggere quegli abitanti presi in ostaggio che cercano di ribellarsi alla paura, come hanno fatto i ragazzi dell'Istituto d'Arte «de Chirico» che scagliarono contro la camorra, grazie a grandi pannelli, raffiche di ironie, prese in giro, barzellette che ridevano dei boss più feroci. Macché. Anche se va plaudita una crescente offensiva delle forze dell'ordine, il commissariato di polizia a dispetto di anni di denunce è ancora inchiodato in una sede infossata tra i palazzi di corso Umberto e per uscire in strada, magari per accorrere in aiuto di qualche cittadino in pericolo, le volanti del 113 devono passare attraverso l'androne di un altro palazzo: basta un'auto parcheggiata male e addio. E la situazione del Tribunale, che ammucchia i fascicoli di mezzo milione di abitanti dei dintorni, è più o meno quella di quando il procuratore Diego Marmo denunciò l'invasione di ratti e una tale mancanza di spazio che «per 59 persone non solo non sono disponibili né sedie né scrivanie, ma non vi è posto nemmeno per ospitarle in posizione verticale». Cioè in piedi. Dentro questo sfascio, la villa di Lucius Crassius, come denuncia una lettera di pochi giorni fa dell'assessore Aldo Tolino al ministro dei Beni culturali, è catastrofica: «I locali a piano terra ove furono ritrovati gli "Ori di Oplontis", versano in condizione di grave degrado per infiltrazioni di acqua, che creano pericolo di crollo e dove i resti umani dei nostri antenati giacciono ammassati in cassette di plastica e abbandonati all'oblio più assoluto, mentre la quasi totalità degli affreschi di tutto il complesso, vero vanto dell'arte pittorica romana, versa in condizioni di grave deterioramento...».

Quanto alla Villa di Poppea, suscita incanto, rabbia e malinconia. Pavimenti luridi di polvere, mosaici che qua e là si sgretolano, affreschi che si gonfiano, tubi innocenti che reggono ovunque putrelle d'incerta stabilità, nastri di plastica biancorossa di traverso, lampade orrende oscenamente arrugginite, erbacce che crescono divorando il pavimento della piscina... E sopra le teste incombono ovunque, minacciosi, i pesantissimi soffitti sorretti da ciclopiche travi di cemento armato. Li piazzarono lì pensando così di proteggere le stanze affrescate, di una bellezza ineguagliabile. La scienza ha dimostrato, purtroppo, il contrario: in caso di terremoto l'avere ammassato tonnellate di cemento armato sui mattoni e le pietre antiche può moltiplicare i danni rendendoli devastanti. Un Paese serio si precipiterebbe a mettere in salvo tanta bellezza. E tenterebbe di rimediare al disastro fatto anni fa consentendo a queste palazzine bruttissime di assediare e quasi strangolare la residenza imperiale. L'Italia no. E anche se qualche boccone dei nuovi finanziamenti per Pompei pioverà anche qui, manca del tutto, spiega Antonio Irlando, presidente dell'Osservatorio Archeologico, un progetto vero, di respiro, ambizioso. Dorme, Poppea. E certo il suo sonno non sarà disturbato, in queste condizioni, da troppi turisti. Sapete quanti custodi e addetti vari lavorano alla villa? Trentotto. Sapete quanti visitatori paganti hanno comprato il biglietto nel 2011? Tenetevi forte: 10.125. Ventisette al giorno.

Elea, la città dei filosofi, è un luogo sacro (etimologicamente: appartenente agli dei) del pensiero e della cultura occidentali. Nota la definizione che Platone assegnò a Parmenide l’eleate: «Padre venerando e terribile della filosofia». Quella città ci consegna un primato e un dovere di salvaguardia nei confronti dell’umanità intera e della nostra stessa identità.

Ma nessun timore l’antico filosofo incute all’assessore regionale Marcello Taglialatela. Del resto la definizione di Platone era riferita alle minacce che il poema di Parmenide e i paradossi di Zenone facevano incombere sulle certezze ingenue del pensare.

Taglialatela invece ha una ben fondata certezza e considera la tutela e la valorizzazione del territorio e del paesaggio intorno all’area archeologica inutile. Memore del paradosso zenoniano che lo spazio non esiste, perché salvaguardarlo? Si deve essere detto l’assessore.

Più della minaccia filosofica potè sull’assessore la pressione di un ceto amministrativo gretto e miope che, non pago di aver disseminato una plaga stupenda di orridi edificati dal bagnasciuga alla collina, ha deciso di portare l’attacco anche all’ultimo miglio.

La legge regionale per Elea-Velia, come quella di Zanotti Bianco per Paestum, apponeva un vincolo di tutela per un chilometro intorno al sito degli scavi e si proponeva l’obbiettivo di una riqualificazione. Per potere offrire ai visitatori e agli stessi abitanti un luogo consono ai valori che lo contraddistinguono e non sfigurato dalla barbarie speculativa che ha già compromesso senza rimedio un tratto di costa cilentana anch’essa dono degli dèi.

Forse anche in questo caso si saranno detti meglio un tutto omogeneo anche se brutto che introdurre la discontinuità dialettica della bellezza.

Solo un pensiero ingenuo poteva ritenere che una legge per i piani paesaggistici avesse come scopo la tutela del paesaggio e la valorizzazione dei siti culturali e storici.

Non aveva fatto i conti con «il padre venerando e terribile» dell’urbanistica campana e con la città degli edificatori che alacremente sanno produrre rovine.

Un pensiero ingenuo che inutilmente si affanna tra studio del passato e progettazione del futuro per consegnare alle generazioni che verranno l’opportunità di una eredità immensa di civiltà. Edificato l’ultimo miglio lo spazio sarà pieno: di una colpa imperdonabile.

Ma perché farsene un cruccio se il tempo non esiste e la memoria à già smarrita?

Dai marmi ai camini. La reggia rubata La villa dei Borbone a Carditello

Gian Antonio Stella - Corriere della Sera, 20 marzo 2012

A casa di quale boss sono ora le colonnine dell'altana di Carditello? Quale sicario camorrista si è rubato i cancelli settecenteschi? Quale trafficante di rifiuti tossici si è fottuto i camini e brandelli degli affreschi? Quella che fu la Versailles agreste dei Borbone, appestata dalle vicine discariche, sprofonda in un insultante degrado. Spogliata giorno dopo giorno di quanto ancora conserva di prezioso. Perché i re di Napoli avessero scelto questa campagna a sud dell'antica Capua per costruire la loro meravigliosa villa oggi semiabbandonata, lo dicono le testimonianze di tanti scrittori incantati, a partire da Plinio il Vecchio: «Da qui comincia la celebre Campania Felix, da questo punto hanno inizio i colli pieni di viti...». Un'immagine ripresa secoli dopo da Wolfgang Goethe: «Bisogna vedere questi paesi per comprendere cosa vuol dire vegetazione e perché si coltiva la terra. (...) La regione è totalmente piana e la campagna intensamente e diligentemente coltivata come l'aiuola di un giardino». E poi ancora da Charles Dickens, affascinato dalla «strada piana che si allunga in mezzo a viti tenute a tralci che paiono festoni tirati da un albero all'altro». Istituita da Carlo di Borbone come reggia di caccia perché circondata da boschi popolati da cervi, fagiani, cinghiali, e successivamente trasformata da Ferdinando IV come reggia di campagna nel cuore di una tenuta modello di 2.070 ettari, Carditello fu progettata Francesco Collecini, a lungo braccio destro di Luigi Vanvitelli. Tutto intorno, a perdita d'occhio, campi coltivati bagnati dalle acque dei Regi Lagni.

Passata con l'Unità d'Italia ai Savoia, la tenuta venne via via abbandonata finché, come ha ricostruito sul Corriere del Mezzogiorno l'architetto Gerardo Mazziotti, «nel 1920 gli immobili e l'arredamento passarono dal demanio all'Opera nazionale combattenti e i 2.070 ettari della tenuta furono lottizzati e venduti. Rimasero esclusi il fabbricato centrale e i 15 ettari circostanti» che nel Secondo dopoguerra, dopo essere stati occupati dai nazisti, «entrarono a far parte del patrimonio del Consorzio generale di bonifica del bacino inferiore del Volturno». Via via affogato in un mare di debiti. In larga parte nei confronti del Banco di Napoli il quale, di fatto, ha oggi nelle mani il destino della tenuta. Per qualche anno la reggia, a dire il vero, era tornata a vivere. I responsabili della linea ad Alta Velocità, volendo un ufficio da queste parti, si incapricciarono della splendida dimora borbonica. E dopo un restauro interessato più che altro alla facciata e alle stanze utilizzate dalla Direzione e del tutto indifferente alle cascine, alle stalle, ai magazzini della tenuta che all'intorno si sgretolavano, occuparono il loro pezzo di villa il tempo necessario e poi ciao.

Da quel momento, senza neppure un custode che desse un'occhiata a quel tesoro artistico e architettonico (ne risultano 465 in Provincia, di custodi, concentrati soprattutto alla Reggia di Caserta e all'anfiteatro romano di Capua), è cominciato a Carditello il grande saccheggio. Mentre tutt'intorno, in quella Campania feconda descritta da una Carolina Bonaparte estasiata («Questa è una terra promessa. Nella campagna si vedono festoni di viti attaccati agli alberi con sparsi grappoli di uva assai più belli di quelli che gli ebrei portarono a Mosé...») si ammucchiavano montagne di rifiuti, più o meno puzzolenti e tossici, in discariche illegali allestite dalla camorra o più o meno legali ma spropositate, la reggia è stata giorno dopo giorno cannibalizzata. Tutto, si sono portati via. Tutto. Hanno scalpellato e rubato i camini antichi scampati alla razzia dei nazisti e quelli finto-antichi che avevano preso il loro posto. I pavimenti di cotto. I gradini di marmo di una delle due grandi scalinate centrali. Le acquasantiere della cappella, spaccate durante la rimozione così da lasciare osceni spuntoni che escono dal muro. I simboli in marmo dei Borbone. Pezzi di affreschi di Jacob Philip Hackert e Fedele Fischetti staccati dalle pareti con la stolta e criminale imperizia di analfabeti attirati dall'idea di farsi qualche centinaio di euro vendendo questi ritagli sul mercato nero o a qualche capozona dei Casalesi.

Una rapina quotidiana. Incoraggiata per qualche tempo dalla stupidità della macchina burocratica dei Beni culturali che solo nel 2004 e cioè un anno dopo il pignoramento giudiziario del 2003, si è accorta (incredibile ma vero) di non avere mai messo un vincolo monumentale su questa sontuosa ma ammaccata dimora che i Borbone chiamavano «Real Delizia». E così, di settimana in settimana, sotto gli occhi esterrefatti di quanti amano il nostro patrimonio e devono assistere impotenti alla sua disfatta, la tenuta di Carditello è stata abbandonata a se stessa. Senza uno straccio di manutenzione. Aggredita e divorata dalla vegetazione che fino a poche settimane fa, quando un volontario della Protezione civile, Tommaso Cestrone, si è messo di buzzo buono a mettere un po' di ordine con le ruspe e le seghe elettriche, pareva una selva colombiana. E parallelamente crollava il prezzo con il quale il giudice delegato alla grana, Valerio Colandrea, tentava di trovare un acquirente dopo la rinuncia («troppi soldi, non ce la facciamo») della Regione. Trentacinque milioni di euro nelle intenzioni iniziali della stima, meno una quindicina necessari (allora) per i restauri. Poi sempre meno. Finché non è andata a vuoto, giorni fa, anche l'asta che partiva da una quindicina di milioni. Ovvio.

Chiunque compri, a meno che non sia un ras dei Casalesi in vena di farsi una dimora (magari attraverso un prestanome) che affermi la sua monarchia assoluta sulla zona, sa che ogni camion di cemento, ogni cassetta di piastrelle, ogni tubo di rame rischia di pagare pedaggio alla camorra. Contemporaneamente, infischiandosene delle denunce dei giornali, delle polemiche, delle grida di dolore degli esperti, degli appelli ai ministri, delle petizioni accorate per salvare la reggia come quella di «Orange Revolution», delle sporadiche intemerate delle autorità locali (Emiddio Cimmino, il sindaco del Comune di San Tammaro, ha annunciato giorni fa che entrava in sciopero della fame) il saccheggio è andato avanti. Al punto che solo in questi giorni il custode giudiziario, l'avvocato Luigi Meinardi, ha potuto accorgersi che nonostante avesse fatto murare tuffi i cancelli della villa per arginare almeno in parte la razzia, i vandali mandati forse da qualche boss camorrista deciso a «ingentilire» qualche suo villone sparso in questa ex campagna stuprata dall'edilizia più brutta del Creato, si sono portati via quasi tutto il pavimento e quasi tutte le colonnine che reggevano le balaustre dell'altana che svetta sui campi e le discariche.

Vi chiederete: ma non potevano mettere almeno un sistema d'allarme? L'avevano messo. Ma se lo sono portati via. Come si sono portati via tutto l'impianto elettrico, la centralina, i quadri di comando, i fili passati nelle canaline: tutto. Assolutamente tutto. Al punto che oggi a Carditello non c'è più neppure la luce elettrica. Questa mattina, pare, s'affaccerà da queste parti il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi. A chi l'attende avrebbe fatto sapere di avere una qualche speranzella di trovare una soluzione prima della prossima asta. Vedremo. Ma certo, mai quanto stavolta, come forma di risarcimento, in occasione dei 15o anni dell'Unità, nei confronti del Mezzogiorno anche qui tradito dai Savoia, lo Stato dovrebbe essere presente. Dovrebbe strappare Carditello al degrado, al pattume e alla camorra, restaurarlo e farne di nuovo, come merita, una «delizia». Non è solo una questione di salvaguardia. È una questione d'onore.

Carditello. Dentro la Reggia. Viaggio nell'edificio borbonico sfregiato da un sacco continuo

Tomaso Montanari – Corriere del Mezzogiorno 21 marzo 2012

Come ha scritto ieri Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera», a Carditello è in questione l'onore dello Stato. La devastazione è così totale, così umiliante, così continua da diventare un simbolo dell'umiliazione della legge e della dignità dello Stato: cioè di noi tutti. Non è incuria, né solo rapina: è piuttosto una distruzione volontaria, tenace e pianificata. E sono proprio questi caratteri a collegare il sacco di Carditello alla camorra: oltre al bestiale desiderio di impadronirsi di gradini di marmo, brandelli di affreschi, e mattonelle antiche c'è infatti una volontà di sfregio e di umiliazione simbolica, che sembra voler affermare il pieno dominio dell'anti-Stato sul territorio. Proprio da qui, tuttavia, può venire una paradossale lezione per tutti noi. Siamo ormai abituati a connettere il patrimonio storico e artistico non alla politica, all'educazione civica o alla costruzione di una cittadinanza consapevole, ma invece allo svago, al divertimento, al superfluo.

O, ancora, a considerarlo un pozzo di petrolio: da tutelare solo in quanto si può sfruttare, da curare solo quando sia redditizio. I vandali criminali di Carditello rischiano, invece, di aver capito meglio di noi quale sia il vero ruolo della storia dell'arte e dei monumenti: essi li odiano e li distruggono perché sanno leggerli come noi non sappiamo più fare. Li odiano perché nella bellezza, nell'ordine e nella gratuità della reggia borbonica vedono l'unico segno che ancora connette quel territorio alla civiltà. Ciò che, infatti, rende Carditello uno dei casi più esemplari del suicidio dell'Italia, è il fatto che in quel luogo si intrecciano in un nodo indissolubile la distruzione dell'ambiente (avvelenato capillarmente dai rifiuti tossici che inquinano la catena alimentare, condannandoci), quella del paesaggio (devastato dalla terrificante catena montuosa delle discariche), e quella del patrimonio artistico. Si fatica spesso a spiegare l'unità profonda che lega, storicamente e materialmente, questi tre profili del volto del nostro paese.

Ecco, a mente astratta, diventa concreta: orribilmente concreta. Tutti speriamo che il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi trovi proprio in Carditello l'occasione di imprimere una svolta al suo mandato, fin qui assai opaco. Quasi qualunque decisione sarebbe meglio dell'ignavia :ollettiva dimostrata da tutte le istituzioni che hanno perso la faccia nella vicenda: dal Consorzio di bonifica del Volturno, al Banco di Napoli, alla Soprintendenza di Caserta e allo stesso Mibac. La soluzione potrebbe passare attraverso una sorta di riscatto a spese pubbliche, o attraverso una severa responsabilizza-zione dei privati che di fatto la posseggono: ciò che conta veramente è che lo Stato riaffermi al più presto la propria dignità e il proprio onore. Cioè: la nostra dignità e il nostro onore.

Una delle cose che fa più impressione, visitando Carditello e il suo territorio, e che mentre nessuno monta la guardia alla reggia, l'esercito controlla in modo assai efficiente le vicinissime discariche, apostrofando con durezza i cronisti e gli studiosi che usano le macchine fotografiche per documentare lo scempio. Grandi cartelli gialli avvertono che le fotografie sono proibite perché le discariche sono «di interesse nazionale strategico», e dunque sono protette da «sorveglianza armata». Per noi, insomma, non è Carditello, non è il patrimonio storico e artistico ad essere strategico per il futuro del Paese. Mentre lo sono la monnezza e i suoi criminosi affari. E — come dice il Vangelo — dove è il nostro tesoro, là sarà anche il nostro cuore.

Se Parmenide e Zenone avessero avuto la fortuna di conoscere l’onorevole Marcello Taglialatela sicuramente l’avrebbero condotto tra le rovine di Elea, la nobile città della Magna Grecia ora strangolata dall’alluminio anodizzato, dalle targhe fosforescenti, dalle case di mattoni bucati. Se solo avessero avuto questa fortuna avrebbero guidato l’assessore regionale all’Urbanistica a osservare come si sia riusciti a ingoiare persino il loro mare, affrontando le onde col cemento, chiudendo agli occhi e al cuore ogni rispetto per la memoria comune.

Ma Taglialatela di Velia, patrimonio dell’umanità rovinato dagli umani, simbolo della mediocrità di un ceto politico che danza al ritmo del calcestruzzo, ha purtroppo scarsa stima. L’assessore, cugino alla lontana di Attila, ha pensato di segnare la sua presenza alla Regione con un grandioso piano paesistico, opera formidabile di scrittura compulsiva, legge fondamentale nella quale trovano posto tutti i più bei gnè-gnè del mondo. E infatti (e come volete che mancasse all’appello!), è previsto il solito e purtroppo inutile Osservatorio, che dovrà monitorare l’integrità del paesaggio. Dovrà. Futuro del verbo dovere.

Nell’attesa, la legge annuncia la fine dell’unica legge che ha un poco salvaguardato Velia da altro cemento, un provvedimento speciale, approvato all’unanimità dal consiglio regionale nel 2005, che riduceva - seppure in limine mortis – l’appetito agli speculatori. Sei articoli che imponevano lo stop al consumo del suolo e la misericordia collettiva per i resti che ancora restano in vita.

Era una legge di salvaguardia, che ammetteva nella sua drastica misura il default della politica, l’incapacità delle amministrazioni locali di governare lo sviluppo del territorio per colpa delle collusioni e delle corruzioni, dell’ignoranza assoluta e dell’assoluta inconsapevolezza di cosa siano la bellezza e la cultura. E che valore abbia la nostra memoria, quale saldo anche economico produca.

Cosa è cambiato dal 2005 ad oggi? Cosa? Ce lo dica Taglialatela. Ci dica per esempio cosa ne è oggi della magnifica marina di Ascea, dove le concessioni edilizie sono sempre in eruzione malgrado lo zero spaccato imposto sette anni fa. Figurarsi senza quella normativa! Magari, ecco il bel futuro, avremo il suo ottimo Osservatorio che segnalerà nuovi seminterrati di carta, nuovi piani rialzati, nuove serrande di nuove finestre affacciate sulla Porta rosa.

Se solo Taglialatela facesse amicizia con Parmenide e Zenone…

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