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Enzo Scandurra è un ingegnere sui generis, perché è al tempo stesso un versatile intellettuale, ma anche un tecnico con una focalizzazione tematica persistente, quasi ossessiva: la città. Lo dichiara esplicitamente nel suo ultimo libro, Vite periferiche. Solitudine e marginalità in dieci quartieri di Roma. Presentazione di B.Amoroso, Ediesse Roma, 2012. «Come urbanista - egli scrive - o, diciamo meglio, come docente universitario di una disciplina che si chiama Urbanistica, ho passato buona parte della mia vita accademica a cercare di interpretare il mistero delle città: come nasce una città? Chi sono i suoi progettisti e che ruolo hanno gli urbanisti nel modificarla, renderla più o meno bella, più o meno brutta? Possono essi, coi loro progetti, incidere nella vita quotidiana degli abitanti della città?» In questo testo, più esplicitamente che nei suoi precedenti lavori, Scandurra si cimenta in un “genere ibrido” tutto suo, nel quale mescola le analisi specialistiche dell'urbanista, la ricognizione sociologica sui luoghi della città, alla finzione del racconto, dell'invenzione narrativa. Si tratta di due piani, uno scientifico e l'altro letterario, che scivolano l'uno nell'altro e che si tengono insieme in un equilibrio sorprendentemente naturale. Il libro è infatti composto da brevi saggi che indagano la Roma dei nostri anni – nel suo insieme e nella specificità di alcuni suoi quartieri – con una evidente predilezione per il versante sociale e antropologico della realtà cittadina. Se ne può dare un esempio citando le note efficaci con cui Scandurra tratteggia la fisionomia del quartiere San Basilio oggi: « Avverti che questo è un pezzo di Roma, di quella Roma rappresentata nei film degli anni cinquanta con l'arrivo degli immigrati dal Sud. Una realtà urbano-rurale, un mondo pasoliniano ancora premoderno. Tracce di questo mondo affiorano continuamente: i piccoli edifici a schiera, le corti rimaste non asfaltate, le file dei panni stesi ai balconi come fossero bandiere colorate e, poi ancora, i dialetti. »

Ma le notazioni che riguardano il “costruito”, i manufatti, il disegno e l'occupazione degli spazi sono solo lo sfondo entro cui si svolgono le vite varie e multiformi di quelle strane creature che sono diventati i cittadini. Ciò che costituisce il vero centro dell'interesse dell'autore. Perciò a queste analisi e ricognizioni si alternano e mescolano brevi racconti, piccole storie di impronta crudamente realistica, che continuano o anticipano in forma letteraria le analisi propriamente saggistiche. E l'autore giustifica e motiva questa mescolanza in maniera semplice e persuasiva, senza ricorrere a lunghe analisi sulla potenza conoscitiva che la letteratura pur sempre possiede. A «me pare - egli scrive - che narrare non sia un cedimento al personale, all'intimo, al confessionale ma una rivalutazione dell'esperienza singolare della via umana in cerca di senso, una testimonianza autentica di vita.»

Raccontare storie è uno strumento di conoscenza appropriato al suo oggetto:« Le nostre città brulicano di vite invisibili, uomini e donne comuni, corpi senza parola, senza relazioni, persone affannate dall'alba al tramonto, abitanti indistinti e anonimi, che pure rendono vive e anzi formano queste città.»

C'è qualcosa di nuovo e non solo di più umanamente partecipato rispetto alle analisi della sociologia novecentesca sull'anomia della vita urbana. A mio avviso Scandurra coglie, con la semplicità di una testimonianza diretta, una specifica e aggiornata condizione del vivere nelle città del nostro tempo. E Roma è diventata amaramente esemplare di una situazione più ampia, forse accentuata, rispetto ad altre città italiane, dalle sue dimensioni metropolitane. Chi gira oggi per questa città, prende gli autobus, si muove in metropolitana, se ha occhi per osservare può cogliere in certi visi chiusi e rassegnati, in tante donne accasciate sul sedile di un tram, i segni profondi di un dolore pietrificato, diventato quasi tratto fisiognomico degli individui. Accanto alla solita massa frettolosa o alle torme di turisti che fagocitano la spazzatura della società dei consumi, trasuda una una sofferenza umana che ti sfiora continuamente. E' senza dubbio una condizione inedita, una novità storica. Il portato ormai visibile anche nella vita quotidiana delle nostre città, della violenza del capitalismo neoliberista e delle politiche di austerità. Per i tanti e crescenti “ultimi” che affollano le nostre periferie (extracomunitari, anziani, sbandati) o che si muovono come intrusi spaventati nei nostri quartieri-bene , la vita urbana è oggi un inferno non molto dissimile da quello delle città inglesi della rivoluzione industriale. Se si fa eccezione per il problema della fame, tamponato dalle organizzazioni caritative, la disperazione esistenziale di queste vite, che spesso hanno visto spezzarsi relazioni con figli, mariti, mogli, madri, rimasti in paesi lontani, è forse più irrimediabile di quella dei proletari di due secoli fa.

La città conquistatrice. Un secolo di idee per l’urbanizzazione. Antologia, Corte del Fontego editore, Venezia 2012, pp.340, euro 20

Una raccolta di testi eterogenei, costruita con acutezza e originalità per dimostrare le tappe dell’avanzare – tra Otto e Novecento – dell’idea di città come ordinatrice di spazi e modi di vita dell’uomo moderno. Questa è La città conquistatrice. Un secolo di idee per l’urbanizzazione, antologia di testi italiani e stranieri, molti dei quali di difficile reperibilità o inediti. Le scelte testuali e le traduzioni di Fabrizio Bottini, insieme al suo saggio introduttivo, ricostruiscono le ragioni del percorso che ha portato più di metà della popolazione mondiale a vivere in città, seguendo le tracce del depositarsi di progetti e pratiche che costituiscono le radici profonde dei temi oggi più frequentati dal dibattito urbanistico: dalla sostenibilità ambientale, al consumo di suolo, alla partecipazione dei cittadini nelle scelte sul futuro della città.

Ma ricostruisce insieme anche il moltiplicarsi nel tempo dei significati del termine “urbano”, aggettivo attribuito a luoghi, modi di vivere, specie di città sempre più vari. Dalla definizione di un disegno elementare ed efficace come la griglia di Manhattan, al progetto dei rettifili e sventramenti ottocenteschi nelle città storiche, fino all’invenzione del pervasivo paradigma della città giardino, l’urbanistica moderna si è dotata di strumenti di conoscenza ed intervento capaci di mantenere la città e il suo montante successo in equilibrio tra tradizione e innovazione.

Ma ha anche prodotto derive, che ritroviamo nel volume già identificate e stigmatizzate tra gli anni ’20 e ’30, riconosciute da un lato all’altro dell’Atlantico come fonti di degrado del territorio: la parola sprawl viene usata per la prima volta nel 1937 dal responsabile per la pianificazione territoriale della Tennessee Valley Authority, che vi riconosce sia la trasformazione delle campagne nella caricatura di una città, sia il principio della corsa al dissennato consumo di risorse territoriali che sarebbe esploso dopo la guerra.

Questa antologia di idee per il futuro della città, elaborate da soggetti diversi – di grande interesse il brano estratto da un testo per le scuole medie di Chicago del 1911, che testimonia l’importanza di educare i cittadini, per assicurare il buon futuro del loro luogo di vita – vuole perciò riproporre alcune delle molte ipotesi che lungo due secoli hanno inteso migliorare la città. E propone di tornare ad attingere a questo ricco serbatoio, per tentare, come sostiene l’autore, di “trasformare l’incubo dell’urbanizzazione globale in un bellissimo sogno”.

«Siamo il 99%» di Noam Chomsky per Nottetempo L'autogoverno che può contrastare il potere oligarchico. L'esperienza di Occupy ripercorsa dal linguista e filosofo statunitense

Noam Chomsky è uno studioso che non ha bisogno di grandi presentazioni. Uno dei maggiori linguisti del Novecento, certo, ma anche uno dei più puntuali fustigatori della politica estera del suo paese. Non è certo incline all'ottimismo, quando prova a individuare una via d'uscita a una gestione oligarchica del potere politico negli Stati Uniti. Ma da quando Occupy Walla Street ha fatto la sua comparsa a New York per poi diffondersi in altre metropoli ha fatto trasparire la convinzione che quel movimento era l'unica novità politica negli Stati Uniti dagli anni Sessanta. Lo scrive e afferma anche in questo volume edito da Nottetempo, che raccoglie interviste, articoli e relazioni tenute da Chomsky nel 2012 (Siamo il 99%, pp. 106, euro 10,50). Occupy non sta cambiando la politica americana, afferma, ma sta, come un virus, trasformando la società oltreoceano.

In primo luogo perché Occupy sta sperimentando forme di autogoverno che potrebbero diventare la leva per «democratizzare la democrazia americana», ormai ostaggio delle lobby economiche e delle grandi imprese. Ma anche perché stanno diventando l'occasione di una presa di parola di quel 99 per cento della popolazione sulla quale sono stati «scaricati» i costi della crisi.

Vittime della crisi

L'ottimismo di Noam Chomsky si ferma qui. Non è infatti convinto che Occupy abbia la capacità di elaborare un programma che abbia la capacità di aggregare politicamente le «vittime della crisi». Rimprovera, affettuosamente, gli attivisti di non avere una lettura delle dinamiche del capitalismo statunitense, al quale dedica però poche pagine, proponendo una analisi incardinate sull'egemonia della finanza, un parassita che sta uccidendo l'economia reale. C'è però un passaggio in questo volume che merita la dovuta attenzione. Chomsky afferma che Occupy è un insieme eterogeneo, che muta da metropoli a metropoli, da regione e regione. Ha cioè una composizione sociale variabile. Vi sono «i nuovi poveri», ma anche quel settore del lavoro vivo che negli anni Novanta è stato considerato il sale della terra e che la saggistica anglosassone, nella sua tensione normalizzatrice, ha definito la «classe creativa». Ma dentro Occupy ha svolto un ruolo importante anche il tema del «colore della pelle», declinato in una prospettiva emancipatrice, ma potremmo dire postcoloniale, quasi a ratificare che i dispositivi di inclusione ed esclusione della «società affluente», cari alla sinistra liberal statunitense sono inceppati.

È questa eterogeneità il punto di partenza, anche nel vecchio continente. Ogni movimento sociale europeo è stato segnato da eterogeneità da differenze interne. Ne ha costituito un punto di forza, garantendone la diffusione, ma non è da considerare certo la soluzione, ma parte del problema. È ormai diventata una banalità affermare che i movimenti hanno dinamiche che ricordano quello degli sciami, che si costituiscono e disperdono in base a fattori imperscrutabili. Senza cadere in una misera narrazione del presente, Occupy - e sotto molti aspetti anche gli indignados spagnoli - pongono il problema proprio della composizione sociale dei movimenti, dell'impossibilità di «pensarli» come una sommatoria di differenze, dove la regola aurea per stabilirne la potenza è il loro grado di condizionamento è la capacità di influire nella produzione dell'opinione pubblica.

Il libro di Noam Chomsky tocca marginalmente questo aspetto, ma va comunque accettato l'invito a non imboccare la scorciatoia della riduzione del grado di «eterogeneità» presenti nei movimenti. Tutt'al più si potrebbe assistere a un ripiegamento identitario, che più che risolvere il problema lo rende irrisolvibile.

Dunque, fare i conti con la composizione sociale dei movimenti. E qui, nuovamente, Chomsky fornisce un'indicazione preziosa, anche se, come già detto, si astine dall'affrontarla. Il linguista e filosofo statunitense afferma che il vero ventre della bestia sono i rapporti sociali. Per un movimento sociale questo significa produzione della ricchezza, cioè come interviene il lavoro nel capitalismo. Dentro Occupy, ma questo vale anche per gli indignados, ci sono gli «scarti umani» della produzione capitalistica, ma anche chi lavora nei settori produttivi ad alta specializzazione e, in misura minore, anche nel settore industriale. Sono accomunati da quella precarietà che è diventata la regola generale nei rapporti contrattuali di lavoro. Sono cioè quella nuova «classe pericolosa» descritta efficacemente dallo studioso anglosassone Guy Standing nel suo libro finalmente tradotto da Il Mulino (Precari).

La scommessa da giocare

Dire che è una «classe pericolosa» perché accumunata da una stessa condizione è come dire che sono tutti essere umani. Più realisticamente ci troviamo di fronte a un lavoro sans phrase, senza aggettivi, che produce ricchezza attraverso la valorizzazione degli eterogenei stili di vita che caraterizzano la cooperazione sociale. Senza cadere in un facile determinismo, la proliferazione delle identità parziali, degli stili di vita va dunque messa in relazione con il lavoro svolto e le gerarchie che lo caratterizzano. Il problema, allora, è la costruzione di quello spazio pubblico in cui le differenze entrano in una relazione produttiva di politicità.

È questa la scommessa che Occupy chiede di giocare. Sia ben chiaro, assumerla come orizzonte teorico non ha nulla di accademico. Perché parlare di Occupy vuol dire parlare degli indignados e dei movimenti sociali che in Europa si oppongono alle politiche di austerity varate dai governi nazionali su sollecitazione dell'Unione europea. E parlare di Occupy vuol dire parlare anche della realtà italiana, dove i conflitti sociali continuano a manifestarsi senza che abbiano la capacità di costruire una lingua comune che contrasti quella «rivoluzione dell'alto» avviata dal capitalismo per uscire dalla sua crisi.

Guy Standing, che insegna “Sicurezza economica” all’università di Bath in Inghilterra, ha collaborato a lungo con l’Organizzazione internazionale del Lavoro e vi ha ricoperto incarichi di primo piano. In tale ruolo ha pubblicato vari saggi e rapporti che hanno al centro l’idea di “lavoro dignitoso”. Inoltre ha messo in piedi una rete internazionale di ricercatori che studiano sul campo come esso sia presente oppure no in aziende di diversi settori. La stessa idea permea ogni pagina di questo suo ultimo libro. Che si intitolaPrecari. La nuova classe esplosiva, e che esce per il Mulino (pagg. 304, 19 euro).

Il lavoro viene considerato dignitoso quando offre al lavoratore una serie di sicurezze fondamentali per poter condurre un’esistenza che consenta il pieno sviluppo della persona e dei suoi rapporti sociali. Sono indicate in dettaglio nel libro (a pagina 27). La precarietà, intesa soprattutto come una prolungata sequenza di lavori di breve durata, non offre nessuna di tali sicurezze, e dove esse esistono le distrugge.

La prima sicurezza che il lavoro precario viene a negare è ovviamente quella del reddito. Pur nei casi in cui un singolo periodo di occupazione sia ben retribuito, è raro che un precario arrivi a mettere insieme più di otto o nove mensilità l’anno. Ma la sua condizione non è gravata soltanto dell’ammontare del reddito. Ciò che rabbuia la vita dei precari è il non sapere se, dove, quando troveranno un’altra fonte di reddito, una volta scaduto il contratto in essere. Altre pesanti insicurezze derivano dal potere arbitrario di cui un datore di lavoro dispone nei confronti del precario in tema di costi che questi deve sopportare e regole che deve seguire; di possibilità di mantenere il proprio ruolo professionale; di potersi esprimere per mezzo di una rappresentanza collettiva sul mercato del lavoro. Per tacere della protezione dai rischi di incidente e malattia, e della sicurezza di ricevere una formazione adeguata. Nessuna impresa investe volentieri un euro in tali ambiti, quando sa che la lavoratrice che dovrebbe esserne oggetto se ne andrà presto perché ha un contratto in scadenza.

I precari costituiscono ormai una grossa minoranza

dei lavoratori nel mondo, e potrebbero diventare tra non molto la maggioranza. Sono il prodotto della globalizzazione, del conflitto che è stato scientemente provocato tra i lavoratori dei paesi sviluppati con salari da 25 euro l’ora e quelli dei paesi emergenti che ne guadagnano uno e fanno orari doppi. Nonché delle forti pressioni che i politici come le imprese hanno esercitato per rendere più flessibile l’occupazione, dando a intendere sin dagli anni Ottanta che in tal modo sarebbe cresciuta.

Formano una classe in sé, i precari, in quanto condividono tutte le insicurezze sopra ricordate; tuttavia, sottolinea l’autore, sono lungi dal formare

una classe per sé, ossia una collettività consapevole della propria situazione e capace di intraprendere adeguate iniziative politiche al fine di migliorarla. Rappresentano una classe pericolosa (come forse si doveva tradurre nel titolo l’originale dangerous)

per diversi motivi. Essendo attraversata da sentimenti di frustrazione, rabbia, disperazione, essa tende a scaricarli sugli immigrati, le minoranze etniche, o coloro che ancora godono, forse non per molto, di un’occupazione stabile.Inoltre, essendo pressoché priva sia di un’efficace rappresentanza sindacale, sia di un solido riferimento politico,e meno che mai di una qualche guida, il suo comportamento politico ed elettorale rischia di oscillare tra il consenso per l’ultimo pifferaio di Hamelin che capiti sulla scena e il voto per le formazioni di estrema destra che promettono soluzioni facili e immediate per problemi terribilmente difficili. Il che potrebbe spiegare come mai vi siano almeno una decina di paesi, in Europa, in cui i voti pe

V’è però un’altra idea degna d’attenzione che sottende il libro di Standing. Tra le fila dei precari ha poca presa la convinzione che l’uscita dalla precarietà potrebbe essere un ritorno al lavoro che offre sì stabilità di occupazione di reddito, e però consiste nello svolgere ogni ora, giorno, settimana, per anni e anni, la stessa stupida mansione che si impara in due giorni e si svolge, sotto il controllo implacabile di un capo o di un computer, in due minuti. Per essere poi ripetuta sempre uguale. Che è il tipo di lavoro imposto dalle imprese a milioni di persone in tutti i paesi sviluppati, e con ancora maggiore durezza a decine di milioni di altre nei paesi emergenti, in forza delle moderne tecniche organizzative.

Perciò, se a qualcuno venisse in mente di proporre alla classe sociale dei precari di guardare a un futuro diverso, e ad organizzarsi politicamente per realizzarlo, dovrebbe provare a disegnare con loro un lavoro che oltre a garantire le sicurezze che lo rendono dignitoso, permetta di esercitare mentre lo si svolge intelligenza, autonomia, immaginazione, libertà di muoversi e di inventare. Un tema di cui si discuteva molto, ricorda in questo caso non Standing ma chi scrive, forse mezzo secolo fa, prima che la ristrutturazione produttiva e l’ideologia della flessibilità distruggessero, insieme con la stabilità dell’occupazione, anche la capacità di pensare il lavoro. Questo libro, oltre che una denuncia dei danni sociali della precarietà, è anche un invito a ritrovare tale capacità come programma culturale e politico.

Postilla

Magari sarebbe il caso di fare un passettino più verso la radice, domandarsi come quando e perché il lavoro è stato ridotto a una merce finalizzata alla produzione di altre merci. Qualche accenno lo trovate anche su eddyburg, nella bozza di visita guidata Il lavoro su eddyburg, che ci piacerebbe molto se qualcuno completasse.

«Scrivo da sempre lo stesso articolo, finché le cose non cambieranno continuerò imperterrito a scrivere le stesse cose», così ripeteva Antonio Cederna (1921-1996) alla sorella Camilla.

Ed è questo il destino di tutti coloro che mettono la propria penna al servizio della salvezza del patrimonio storico e artistico e del paesaggio italiani: ma quanti sono, oggi? È impossibile non chiederselo, leggendo il bel libro che Francesco Erbani ha dedicato a Cederna (Antonio Cederna. Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza, Legambiente 2012). E la risposta è che si contano – alla lettera – sulle dita delle mani.

In parte è colpa dei giornali. Erbani – che è uno di quei pochissimi, e scrive su «Repubblica» – lo sa molto bene, e cita un’attualissima analisi dello stesso Cederna: «Quando bruciano i boschi ti mandano a fare un articolo inutile, deploratorio: se invece d’inverno quando piove proponi un articolo sugli incendi boschivi ti guardano come se fossi matto. Hanno cioè rinunciato ad ogni impegno formativo, preventivo: se domani il Colosseo vacilla, tutti giù a scriverne, mentre i pericoli per l’Italia, antica e moderna, nascono nel silenzio, nel chiuso degli uffici: se si vuole evitarli bisogna parlarne prima che diventino fatto compiuto».

In parte, invece, è colpa degli addetti ai lavori: quanti archeologi o storici dell’arte seri accettano l’impegno civile di una scrittura giornalistica che non si riduca alle proficue marchette degli ‘eventi culturali’ a cui i grandi quotidiani italiani dedicano ormai pagine e pagine a noleggio? Quasi nessuno tra i veri studiosi italiani di storia dell’arte pensa che tra i suoi doveri ci sia anche quella educazione dei cittadini al patrimonio e al paesaggio che è la premessa indispensabile di ogni tutela. E le cose peggiorano quando si parla di televisione: il piccolo schermo italico tollera il discorso sull’arte solo quando è ridotto ad una favoletta raccontata da intrattenitori, eccentrici quanto basta, ma rassicuranti.

Cederna, invece, era tutto tranne che rassicurante. La sua prosa incalzante, sarcastica e acuminata da far male ha bombardato per decenni una nazione di dormienti: fedele a se stesso che scrivesse sul «Mondo» o sul «Corriere», su «Repubblica» o sul «manifesto», l’archeologo Cederna è stato uno dei grandi giornalisti italiani del Novecento.

E lo è stato in un modo che non ha a tutt’oggi eguali, soprattutto per tre rarissime caratteristiche: la vastità degli argomenti che copriva (l’urbanistica e la salvaguardia del territorio; la distruzione del patrimonio monumentale diffuso; le operazioni di speculazioni sui siti monumentali – come quella, terrificante, dei principi Torlonia a Roma –, ma anche le scempiaggini della cosiddetta politica culturale, a partire dalla follia delle grandi mostre promozionali, oggi al loro apice); la dimensione profondamente politica (e giammai estetica) delle sue idee e della sua scrittura; la durezza con cui attaccava frontalmente figure potentissime, anche all’interno della burocrazia della tutela. Bisognerebbe ristampare la galleria di ritratti dei soprintendenti e dei direttori generali corrotti, incapaci, servilmente disposti a tradire la propria missione per compiacere «i pezzi più grossi di loro».

Se Cederna non è mai apparso una vestale piangente del patrimonio in rovina, ma piuttosto il comandante di una efficace resistenza civile, lo si deve al fatto che non era possibile tacciarlo di passatismo, nostalgia, elitarismo: «Solo le teste dure possono pensare, solo i distruttori d’Italia possono avere interesse a farci credere che la salvaguardia dell’antico è opera puramente passiva e di conservazione. Solo menti retrograde arrivano a pensare che si possano attribuire ai nuclei antichi, straziandone il tessuto, capacità e funzioni proprie dell’urbanistica moderna. Solo i vandali possono pretendere che la città moderna nasca dalle macerie della città antica. Dobbiamo inchiodarci nel cervello la convinzione che la salvaguardia integrale del vecchio e la creazione del nuovo nelle città sono operazioni complementari, due momenti indissolubili dello stesso procedimento, che antico e moderno hanno prerogative materiali e spirituali distinte e vicendevolmente necessarie … Insomma, solo chi è moderno rispetta l’antico, e solo chi rispetta l’antico è pronto a capire la necessità della civiltà moderna.» (dall’introduzione a I vandali in casa, 1956).

Francesco Erbani ci ricorda che «Cederna ha perso molte battaglie, ma molte le ha vinte». E che molto spesso il successo del suo impegno va misurato sull’entità degli scempi evitati: a cosa sarebbe ridotta oggi la, pur devastata, Appia Antica, se Cederna non l’avesse strenuamente difesa con una lotta lunga una vita?

Se Cederna potesse vedere oggi l’Italia delle associazioni (prima tra tutte la sua Italia Nostra), e dei comitati civici che crescono ovunque per difendere l’ambiente e il patrimonio dalle speculazioni e dal cemento in nome della Costituzione e del bene comune, sarebbe felice di constatare che il seme che ha instancabilmente sparso per tutta la vita ha, in qualche modo, attecchito. Come scrive ancora Erbani, «tra le lezioni che Cederna lascia, figura anche quella che battersi sia necessario, occorra farlo bene e convenga pure».

A quindici anni dalla sua morte, dobbiamo riconoscere che il patrimonio storico e artistico italiano deve più a lui che a Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e Federico Zeri messi insieme. Possiamo dunque ben chiederci, con Leonardo Benevolo: «cosa sarebbe l’Italia se Cederna fosse stato pigro»?

Parla Jeffrey D. Sachs tra gli economisti più celebri del mondo, mentre in Italia viene pubblicato il suo nuovo saggio che propone una terapia per uscire dalla crisi

«Stiamo vivendo sotto gli effetti di un tracollo finanziario, ma la crisi finanziaria è solo una parte di un problema più vasto: le dinamiche sociali legate alla globalizzazione. Quel che sta accadendo nell’eurozona non si capisce altrimenti: come gli Stati Uniti, molte nazioni europee non hanno affrontato la dimensione sociale della globalizzazione; i ricchi si sono dissociati, abbandonando il resto della società al suo destino ». Jeffrey Sachs è uno degli economisti più celebri nel mondo. Docente alla Columbia University di New York dove dirige lo Earth Institute, in passato Sachs ha esercitato la sua analisi e la sua verve polemica soprattutto contro due bersagli: il fallimento delle tradizionali politiche di aiuto allo sviluppo; e la distruzione dell’ambiente. Nel suo ultimo libro, Il prezzo della civiltà,che esce in Italia da Codice Edizioni, il tema è ancora più vicino a noi: è la nostra crisi, le cause, la terapia per uscirne. Il titolo si riferisce alle tasse: quasi parafrasando la definizione che ne diede Tomaso Padoa-Schioppa, Sachs vede nelle imposte il prezzo da pagare per la costruzione di una società solidale, un patto sociale inclusivo, un modo civile di convivere. In questa intervista, Sachs mi spiega anche perché la sua analisi rivaluta proprio il modello sociale europeo, nella sua versione più riuscita.

Il mondo intero guarda all’eurozona come all’epicentro della nuova crisi. Per lei invece è solo un capitolo di una vicenda generale?

«La crisi europea è la manifestazione finale degli effetti patologici della deregulation finanziaria, che ha esaltato la mobilità dei capitali, ha ingigantito il potere delle banche nei nostri sistemi politici, ha portato a bolle speculative, bolle immobiliari, accumulazione di debiti. Tutti i paesi sviluppati sono coinvolti: Stati Uniti, Europa, Giappone. Il punto di partenza comune risale a 25 anni fa, all’ascesa della Cina nell’economia globale, al modo in cui questo fenomeno è stato gestito politicamente, alle sue conseguenze sociali: un aumento delle diseguaglianze, l’impoverimento dei lavoratori e del ceto medio. Questa evoluzione del capitalismo contemporaneo ha indebolito le democrazie, il peso del denaro nella politica è aumentato a dismisura: l’Italia di Silvio Berlusconi è stata un esempio estremo, ma anche l’America soffre di un problema analogo».

Nel suo libro infatti lei non si occupa solo di economia, ma invoca la costruzione di una “società consapevole”. Più del capitale finanziario le interessa il capitale sociale, in particolare le “virtù civiche”. E alla fine il modello che le piace di più, lo trova proprio nella vecchia Europa?

«C’è una parte dell’Europa che sta andando bene, è la Scandinavia. Io sono un socialdemocratico, ammiro il modo in cui i paesi nordici affrontano questa crisi. Non cercano di risolvere tutto attraverso i tagli alle spese sociali. Hanno trovato un felice equilibrio tra un modello industriale fondato sulle produzioni di alta qualità, le tecnologie avanzate, insieme con un notevole livello di investimenti pubblici a favore della scuola e delle politiche familiari. Sono paesi che non voltano le spalle ai poveri».

Ciò che lei dice della Scandinavia è un tabù qui negli Stati Uniti, dove in piena campagna elettorale la destra demnizza ogni intervento pubblico, e perfino i democratici non si sentono di sfidare apertamente l’atmosfera anti-Stato.

«La retorica dominante nel discorso politico americano indica come unica soluzione della crisi i tagli alla spesa pubblica. Ma un’analisi seria dei paesi che hanno i migliori risultati a livello internazionale, ci rivela che sono quelli che investono di più in favore dei giovani. Qui a New York i ristoranti di lusso sono pieni, si respira l’atmosfera di un nuovo boom, la vita per chi sta ai vertici è un party, non c’è mai stato così tanto denaro in circolazione, e il candidato repubblicano Mitt Romney può impunemente dare la scalata alla Casa Bianca pur essendo un multi-milionario coi conti offshore. Anche in Italia avete conosciuto un’era di connubio tra politica e denaro. Paesi come Stati Uniti e Italia non hanno fatto nulla per affrontare le dislocazioni e i traumi della globalizzazione. Il problema lo affrontano correttamente quelle socialdemocrazie dove ad ogni bambino che nasce, si cerca di garantire un percorso di opportunità: servizi sociali alla famiglia, scuole pubbliche di qualità, assistenza sanitaria».

Il paradosso dell’eurozona, però, è un paese come la Germania che in casa sua ha un modello sociale avanzato, ma sta imponendo ad altri delle politiche di austerity che impoveriscono il Welfare.«È lo stesso errore che viene commesso qui negli Stati Uniti: basta ascoltare gli attacchi della destra contro la riforma sanitaria di Barack Obama, che sono perfino rinvigoriti dopo la sentenza della Corte suprema. La destra americana continua a ripetere che l’unica soluzione è meno Stato, più mercato. Mentre le migliori socialdemocrazie europee dimostrano che lo Stato eroga servizi – per esempio per la salute – in modo meno costoso e più efficiente del settore privato. Sta di fatto che, per l’effetto dell’ideologia o di interessi costituiti, la crisi sta conducendo molti governi ad abbandonare i più deboli al loro destino».

Nel Prezzo della civiltà

lei si occupa della radice politica di questi mali. Pur essendo un economista, lei vede le cause altrove: nella politica, nell’erosione

delle virtù civiche. Perfino nell’ambiente universitario.

«Il degrado viene dai vertici. In 25 anni di docenza universitaria ho visto un peggioramento etico anche nelle grandi facoltà di élite degli Stati Uniti: il potere delle grandi imprese ha fiaccato il senso etico tra molti professori. Ovunque vediamo un’epidemia di comportamenti criminali e corrotti ai vertici del capitalismo. Gli scandali bancari non sono delle eccezioni né degli errori, sono il frutto di frodi sistemiche, di un’avidità e di un’arroganza sempre più diffuse. Anche in Europa ormai le banche contano più dei governi. Nel mondo s’impongono i metodi cinici alla Rupert Murdoch. Non è una decadenza generalizzata della società civile, è un fenomeno che riguarda prevalentemente le élite, sono loro ad avere un senso del privilegio, dei diritti acquisiti. Voi avete Berlusconi, in altre nazioni il connubio avviene in modo indiretto; il risultato però è sempre di creare nel pubblico un rumore di fondo, confusione e distrazione dai problemi veri».

Come può reagire la società civile? Lei ne ha avuto un assaggio di recente partecipando al vertice di Rio sull’ambiente, nel ventennale del primo summit?

«L’esperienza che ho avuto a Rio è illuminante. Rispetto al 1992, lo stato dell’ambiente è peggiorato. Eppure l’impegno dei governi si è affievolito: a questo vertice di Rio nessuno dei grandi leader è venuto. In compenso c’è stata una straordinaria attenzione e partecipazione della società civile, degli scienziati, delle ong. I politici sono controllati da poteri forti, mentre l’opinione pubblica è molto più consapevole di vent’anni fa. È il fallimento della politica, quello che m’induce a cercare altrove delle forme d’azione diverse. Quando apparve il movimento Occupy, lo vidi come un segnale premonitore: anche agli albori del New Deal, il cambiamento ebbe origine al di fuori dei partiti tradizionali».

Titolo originale: “City: A Guidebook for the Urban Age” by P. D. Smith – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Mezzo secolo fa Lewis Mumford pubblicava La Città nella Storia, uno studio di enorme influenza, in qualche modo molto discusso, una Bibbia per studiosi e appassionati della vita urbana. Ma era appunto mezzo secolo fa, da allora in tutto il mondo i contesti urbani hanno subito trasformazioni enormi. Un nuovo sguardo su questo importante tema si rendeva necessario, e nel suo City: A Guidebook for the Urban Age, ce lo propone. Studioso britannico dell’University College di Londra, Smith appare meno filosofico, e più pragmatico di Mumford, il che non è necessariamente un limite, perché City risulta molto accessibile anche per qualunque lettore medio interessato.

Quello che mi ha spinto a scrivere ‘City’ è il desiderio di studiare e celebrare quanto è senza alcun dubbio il più alto traguardo dell’umanità” scrive Smith, e non posso che essere d’accordo con lui. Perché non solo abito ininterrottamente le città nordamericane da quando ho finito il college 51 anni fa, ma quando vado in vacanza vado a Lima, Peru, una città con oltre 9 milioni di abitanti. Passeggiare in alcune città è più facile e rivelatore che in altre — per essere sinceri a Washington in genere si cammina molto meglio che a Lima — ma non posso non essere fra i fedeli parrocchiani di Smith quando scrive che “Per capire davvero una città, bisogna camminare per le sue strade e leggerne la geografia attraverso le suole delle scarpe” ed ecco spiegato perché “il libro che avete fra le mani è concepito pensando esattamente a questo, una guida a una immaginaria ‘TuttoCittà’” — un libro “in cui si può vagare e spostarsi” proprio come se si fosse in una città vera.

È diviso in quattro parti che affrontano le città nei loro vari aspetti, dalla fondazione al futuro, dalle vie alle mura, dai centri e quartieri finanziari ai ghetti, agli slum, dalle banche ai grandi magazzini, dai cinema agli stadi, dai chioschi di panini ai ristoranti esclusivi, dagli alberghi ai condomini, dalla metropolitana ai grattacieli. Non so proprio se esista qualcosa di qualche senso riguardante le città che Smith non affronta, o quantomeno nomina. E fa di tutto per sottolinearlo, nonostante le città siano tanto cambiate nei secoli il loro carattere resta identico. Quando scrive delle città mediorientali nel 3.000 a.C. “I fondamenti della vita umana in queste prime città non sono così diversi da quelli attuali”. E prosegue: “Dal gustare buon cibo ben cucinato insieme ad amici e familiari, alla necessità di lavorare al divertimento nel far compere, quella vita rispecchia la nostra. I Sumerici hanno lasciato le prime città, la prima agricoltura irrigua, il primo linguaggio scritto … Si trattava già di città riconoscibili nel senso moderno del termine. Con l’aspetto simile a quello di una città murata del Nord Africa, vicoli stretti, non più larghi di un paio di metri … case a uno o due piani in mattoni di fango dipinte di bianco, tetti piatti e cortili interni. Lo skyline di una città dei Sumeri è dominato da una ziggurat a ripidi gradoni, una montagna costruita dall’uomo a celebrare la gloria degli dei”.

Fino a circa un secolo fa, i profili delle città continuano ad essere dominati dai minareti delle moschee, o dalle guglie delle cattedrali. Oggi dominano i grattacieli, templi della relativamente nuova religione del potere e del denaro. Ma la vita che si conduce all’ombra di queste torri non è molto cambiata, almeno nello spirito se non nei particolari, rispetto a quella che c’era sotto le più piccole torri di Ur, Agade, Ninive o Babilonia. Ci sono sempre stati quartieri ricchi e poveri, aristocratici eleganti e ladruncoli, grandi alberghi e tuguri. Non è mai esistita la città ideale, ma la si è sempre sognata: “Immaginare la città ideale è un tema che ha sempre affascinato filosofi, architetti, artisti sin dall’antichità. È diventato il Santo Graal dell’urbanistica. La città ideale è lo spazio perfetto per abitare. La sua forma è espressione di geometria della vita, definisce l’ambiente fisico perfetto, a unire estetica e funzionalità verso uno scopo sociale ed etico. Perché le stesse strutture e spazi della città ideale trasmettono un senso di ordine e realizzazione agli abitanti. Sono città ottimiste, progressiste, che ci insegnano in ogni istante a vivere bene, ad ogni passo lungo quegli immacolati marciapiedi”.

La città ideale non si è realizzata, ma di sicuro non per mancanza di tentativi. In Leonardo da Vinci “schizzi e annotazioni mostrano progetti di città con piazze geometriche, gallerie, canali, logge”. Mumford nel suo La Città nella Storia idealizza la città medievale e boccia il suburbio moderno del tutto dipendente dall’automobile. E involontariamente la sua posizione viene confermata quasi in contemporanea alla pubblicazione del libro, da Lucio Costa e Oscar Niemeyer, i principali progettisti di Brasilia: “Dal punto di vista architettonico, da quello dell’orgoglio nazionale, Brasilia è un successo. Ma in quanto tentativo di costruire un dinamico centro urbano, è stato un fallimento. Costa la descrive come la capitale della ‘autostrada nel parco.’ Prova a unire l’ideale bucolico della città giardino britannica con la medesima tecnologia che plasmerà (secondo molti, distruggerà) le città del dopoguerra: l’automobile. E tuta la città è concepita attorno a un’autostrada , l’Eixo Rodoviario, otto corsie di traffico veloce. Il pedone si sente come un cittadino di serie B, obbligato ad attraversare le vie dentro a sporchi e pericolosi [sottopassaggi].”

E scrive ancora Smith: “ Forse più di qualunque altra tecnologia umana l’automobile plasma la nostra vita quotidiana. … Lewis Mumford nel 1957 lamentava che ‘Invece di adattare auto e automobili alla vita stiamo rapidamente adattando la vita all’automobile”.

C’è qualche segno, ancora iniziale, che le cose stiano cambiando. E lo si vede nelle due città della mia vita: a Washington, l’amministrazione fa molto per promuovere la mobilità in bicicletta, e a Lima la nuova corsia riservata dell’autobus rapido che unisce centro e periferia ha aumentato in modo straordinario il numero dei passeggeri. Ma a Washington ancora troppo spesso nell’ora di punta il traffico si blocca, e a Lima, dove al sovraffollamento di mezzi si unisce un’abitudine alla guida spericolata, la situazione è anche peggiore.

Lima, con la popolazione che si avvicina ai dieci milioni, sta sulla soglia di quanto chiamiamo Mega-città. Oggi esistono “ventidue megacittà … con popolazioni superiori ai dieci milioni … una quantità destinata ad aumentare sino ad almeno ventisei nel 2025”. In tutte si comprano automobili a ritmo frenetico, e le si guida con poca cura e conoscenza di regole di comportamento. Città senza dubbio dinamiche, ma “con una popolazione che cresce così tanto, … crescono anche i problemi … sta cambiando il clima del pianeta e le città si preparano ad affrontare la minaccia di un ambiente più ostile, tempeste, alluvioni, temperature in crescita e siccità. Occorre affrontare anche profondi problemi sociali.

Per migliaia di anni le città si sono dimostrate un contesto efficace per uscire dalla povertà. Oggi si allarga il divario fra ricchi epoveri. Globalizzazione e apertura dei mercati hanno prodotto nuova ricchezza, che però è distribuita in modo diseguale. Di fianco alle baraccopoli senza acqua potabile convivono le gated communities dei ricchi. Un terzo dei cittadini globali vive nello slum. … Aumenta la popolazione, le risorse diventano più scarse, e si fa urgente la necessità di ridurre l’impronta ecologica dei centri urbani”. Smith resta cautamente ottimista: in futuro si possono ancora affermare “città umane, sostenibili e ben governate” per affrontare le sfide, ma di sicuro non sarà facile, il prezzo da pagare sarà alto.

«Si distingueranno Reggio Calabria e Messina attivando processi di una trasformazione urbana virtuosa trainati da eventi straordinari, come quello della creazione della Città Regione dello Stretto? La nostra ferma e convinta risposta è sì». Ad affermarlo è Enzo Tromba nell'introduzione del volume "La città Metropolitana per la Regione dello Stretto" (Iiriti editore, 2009), di cui è autore insieme a José Gambino, sottolineando che il libro vuole essere una sintesi tra programma e progetto con una interconnessione tra flessibilità e partecipazione che ci consenta di essere protagonisti della competitività globale.

Enzo Tromba, dottore in Comunicazione sociale e giornalista pubblicista ha ricoperto cariche politiche e istituzionali, mentre José Gambino è professore ordinario di Geografia umana nella Facoltà di Scienze della formazione dell'Università di Messina. Filo conduttore dell'intero volume è la cooperazione sinergica e la mobilità all'interno dell'area integrata dello Stretto, senza dimenticare le opportunità che dal punto di vista legislativo servono alla centralità dell'area in questione, come la dichiarazione di Barcellona e la strategia di Lisbona elaborate in sede europea, puntando sulla creazione di una zona di prosperità condivisa mediante la realizzazione di una partnership economica e finanziaria che si basi su un'area di libero scambio.

«Per giungere alla realizzazione di un solo territorio unito da mare – ha detto nella presentazione l'allora presidente del Consiglio provinciale di Reggio Calabria, Giuseppe Giordano – bisogna che tutti noi facciamo la nostra parte, attivando intelligenze e risorse, strategie economiche, sociali e culturali davvero innovative che ci vedano protagonisti di una nuova stagione imprenditoriale, suscitando l'interesse e la sinergia con gli altri Paesi del bacino del Mediterraneo». «La Regione dello Stretto – ha precisato il presidente della provincia di Messina, Nanni Ricevuto che ha curato la presentazione – con le sue università e centri di ricerca, potrebbe cooperare a sostegno del capitale umano per un'economia competitiva basata sulla conoscenza.

Dunque, appare cruciale la formazione dei giovani, per contribuire a combattere la precarietà e offrire opportunità di occupazione». Il libro, che si avvale della prefazione del compianto prof. Edoardo Mollica, è ricco di approfondimenti e raccoglie anche i contributi dei ricercatori Francesco Calabrò, Alessandro Rugolo e Lucia Della Spina. Inserite anche una serie di articoli di Enzo Tromba divisi in due sezioni, città di Reggio Calabria e Area dello Stretto, pubblicati sulla "Gazzetta del Sud" dal 2004 al 2006, che certamente hanno contribuito a stimolare il dibattito sull'opportunità di realizzare la Città metropolitana. La pubblicazione si conclude con gli atti del convegno "Dall'Area dello Stretto alla città metropolitana dello Stretto", tenutosi nel Palazzo della Provincia di Reggio Calabria il 24 gennaio del 2008.

Titolo originale: Roles of cities and suburbs shift– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Quanto rapidamente stanno cambiando centri città, quartieri, regioni metropolitane? Siamo davvero davanti a una ripresa della città? E qual’è il futuro del suburbio? Tantissime le opinioni. Alcuni analisti prevedono una vivace e crescente ripresa dei centri città un tempo abbandonati, e contemporaneamente un remoto suburbio, là dove un tempo si “guidava fino a trovare il prezzo giusto”in pratica sospeso a un filo. Altri invece rispondono che America e suburbio sono diventati ormai sinonimo, che il nostro amore per lo spazio col tempo finirà per dare nuovo impulso a quegli sterminati insediamenti sparsi sino ai confini più lontani, indipendentemente dal lievitare o meno dei prezzi dei carburanti.

Se volete avere un quadro più chiaro, provate col nuovo libro di Alan Ehrenhalt, The Great Inversion and the Future of the American City (Alfred Knopf editore). Ehrenhalt è fra quanti propendono per una ripresa delle città. Sostiene molto il fatto che tanti giovani adulti oggi, in netto contrasto con le scelte dei loro genitori, optino per ambienti di vie urbane vivaci e fruibili a piedi con tanto verde, negozi, trasporti pubblici e scuole. Non si tratta solo però di una semplice ripresa della città. Fatto egualmente importante, nota Ehrenhalt, c’è un gran numero di afroamericani che si sta spostando nell’altra direzione fuori dalle città, verso gli ex suburbi bianchi. E anche ampie porzioni degli immigrati più recenti non replicano la tendenza storica di insediarsi nelle zone più centrali delle città, ma scelgono invece il suburbio.

Un ottimo esempio è quello offerto da Atlanta. Il centro città è sul punto di perdere la sua maggioranza di popolazione nera, con bianchi che immigrano e neri che emigrano. Ci sono due grosse circoscrizioni suburbane di contea nell’area di Atlanta, la Clayton e la DeKalb, che oggi sono diventate a maggioranza nera. E contemporaneamente una mescolanza di ispanici, seguiti da indiani, vietnamiti, sud coreani e altri immigrati dall’Europa orientale affluiscono verso una contea come la Gwinnett ai margini estremi della regione metropolitana, un tempo prevalentemente bianca. Oggi gli anglosassoni sono una minoranza, nella Gwinnett. E in gran parte le stesse dinamiche di popolazione si ripetono a livello nazionale. Sono raddoppiati negli ultimi dieci anni gli abitanti della zona sud di Manhattan, sotto il World Trade Center, sino a raggiungere le 50.000 unità dall’attentato terroristico del 2001 in poi. A Chicago il "Loop" affacciato sul lago è cresciuto del 48% in soli sette anni.

Si tratta di città che stanno assumendo il tipo di organizzazione demografica caratteristico dell’Europa ottocentesca: i ceti medi e più agiati fortemente presenti nel vitale centro storico, poveri e ultimi arrivati che abitano le periferie estreme. È quella che Ehrenhalt definisce la "grande inversione" e che divide le persone fra più fortunate che vivono nei centri urbani, e meno fortunate in periferia. Uno schema che si può verificare nelle città nel corso della storia, e in cui l’America da dopo la seconda guerra mondiale ha rappresentato la grande (forse momentanea) eccezione. Non si tratta però di una tendenza tanto semplice da invertire. Il suburbio ricco e consolidato non sta certo per spopolarsi. Si prevede per le aree centrali di città come Washington, Boston, San Francisco and Seattle uno stabile, crescente flusso di giovani, a cui si aggiungono agiati pensionati. Ma la stessa cosa non avverrà per tante Buffalo, o Detroit, o con quantità assai più modeste a Cleveland, Charlotte, St. Louis o Phoenix.

In tanti casi, nota Ehrenhalt, sono le amministrazioni a cercare deliberatamente di attirare giovani e ricchi. Ma con poche notevoli eccezioni l’incremento di popolazione — sinora — è stato “modesto in quantità assolute”. Ci sono parecchi ostacoli ad una rapida inversione di tendenza. Uno è la preoccupazione per la qualità delle scuole [nei quartieri urbani ex poveri, n.d.t.], anche se è verificato che essa tende ad aumentare (insieme alla tendenza agli istituti parificati in tutto il paese) con l’afflusso di ceti medi. Altro problema quello fiscale: le tasse delle città sono più alte, e incombe un carico ulteriore pensionistico. Ma oggi è comunque molto forte questa tendenza favorevole alla città. In primo luogo perché scegliere spazi più contenuti pare sempre più facile, con più single e matrimoni rinviati, un aumento delle coabitazioni, famiglie con meno figli della scorsa generazione. Poi c’è l’incremento dei pensionati in ottima salute e attivi anche in età molto avanzata.

Si aggiunga che sicurezza e qualità dell’abitare urbano sono davvero aumentati. Drastica diminuzione delle violenze casuali per le strade, e reati molto al di sotto dei livelli registrati negli anni ’70 e ‘80. I grossi complessi di edilizia pubblica che avevano prodotto tanta paura nell’America del dopoguerra – basta citare a St. Louis il Pruitt-Igoe, a Chicago Robert Taylor Homes o Cabrini-Green, a Baltimora Murphy Homes, e tanti altri — sono spariti sotto le ruspe delle demolizioni. Il che non vuol dire che tutto vada bene nelle grandi città. Esistono ancora ampie aree di devastazione urbana, come nella fascia nord di Filadelfia. Altrove — a New York il South Bronx ne è un esempio lampante — c’è ancora parecchia povertà ma si vedono confortanti segnali di ripresa. Una enorme differenza rispetto agli anni dai ’60 agli ’80: non si tratta di problemi esclusivi delle zone urbane centrali. Sono sempre di più i poveri, derelitti, che si spostano verso il suburbio, un tempo bianco e ricco . non si può più fare l’equazione suburbio = successo e neppure — lo dimostrano i giovani trasferendosi in centro — città = povertà.

postilla

Con buona pace dell’Autore del libro, e soprattutto del giornalista che l’ha recensito, sappiamo bene che il problema del rapporto città campagna, insediamento compatto contro modello disperso, energivoro ecc. va ben oltre quelle osservazioni di “mercato” prevalentemente immobiliare e contingenti preferenze negli stili di vita, per toccare cose assai più grandi, di cui la crisi climatica e la recessione economica (del tutto assenti nell’articolo) sono fra le componenti chiave. E del resto una certa schematicità nella lettura dei fenomeni emergeva anche evidente ad esempio quando si accostavano senza alcuna spiegazione gli interventi di case popolari del dopoguerra con l’ascesa dei reati, o l’implicita equazione sfigati=non-bianchi. Piccole polemiche a parte, quanto osservato dagli studiosi americani può e deve interessare sicuramente anche gli osservatori europei, non solo rispetto agli ormai riconosciuti aspetti ambientali dello sprawl, ma anche a quelli sociali (l’inversione di ruoli fra i due macro-gruppi), e infine al rapporto inestricabile fra modello di sviluppo territoriale e modello di crescita economica, nonché di organizzazione politica. Proprio su questi aspetti, per leggere un legame fra dispersione insediativa, recessione, economia globale, cicli capitalistici anche di lungo periodo, propongo una recentissima, breve ma convincente, video-intervista di David Harvey sul sito del Guardian (f.b.)

È un’impresa ardua rievocare un uomo posseduto dal sogno di salvare l’Italia dal cemento. Ecco il compito cui si accinge Francesco Erbani con il suo volume intitolato Antonio Cederna (La Biblioteca del cigno). Il sottotitolo – "Una vita per la città, il paesaggio, la bellezza" – indica la direzione di questa ricerca che è, insieme, biografica e scientifica, se si riconosce all´urbanistica il valore di una disciplina del più alto rilievo politico-sociale. Riconoscimento doveroso, certo, persino ovvio, ma per nulla pacifico, come dimostrano la vita e l’opera del protagonista del libro. È molteplice l’immagine che Antonio Cederna lascia di sé, a sedici anni dalla morte, che lo colse, settantacinquenne, nel 1996. Di lui si può tracciare un profilo amaro, ma è difficile non lasciarsi attrarrre dall’energia e dall’abnegazione che ne animavano le "campagne". Insomma, dalla forza trainante della sua antirerotica.

Sì, ripeto, antiretorica, contrapposta alla retorica interessata di chi adoperava (e adopera) il Nuovo a base di ruspe e cemento come identikit del nostro tempo. Negli anni Cinquanta e Sessanta, al centro della vivace predicazione di Cederna, opporsi a queste argomentazioni significava coalizzare contro di sé interessi di ogni genere: operazioni speculative, mitologie bugiarde, demagogie seducenti. E cioè lo sviluppo, il lavoro, l’avvenire contrapposto al passato. E, tutto questo, con mille insite contraddizioni. Come quelle in cui incorse Mussolini che, dopo aver definito i resti dell’architettura classica «calcinacci venerabili soltanto nella muffa e per gli imbecilli», si presentava come alfiere delle glorie classiche. Era ed è comunque facile, per gli edificatori incuranti di regole, rivolgersi al popolo confrontando l’asfalto luccicante delle autostrade ai sassi consunti delle vie consolari, presentare gli edifici massicci di marca recente come soluzioni adatte a ridicolizzare gli umili tessuti urbani lavorati dal tempo. Si potrebbe concludere che, specie in Italia, c’è sempre un Futuro in nome del quale sembri urgente disonorarsi.

Si tratta di una coalizione di interessi e pretesti che avrebbe scoraggiato chiunque. Non però Cederna. Lui si documentava sul campo con la destrezza di un segugio e la passione di un missionario. Nella redazione del Mondo, il settimanale che lo scoprì, fioccavano per lui vari nomignoli scherzosi, coniati dai colleghi, che così nascondevano una stima fiduciosa per il giovane don Chisciotte. Lo chiamavano "l’Indignato Speciale". O anche l’"Appiomane" per la campagna in favore dell’Appia antica, cui il libro di Erbani dedica pagine molto espressive. L’ex "Regina viarum" vi appare un "sobborgo" irto di "villini signorili", a volte arieggianti a "pagoda cinese", dotati di grandi piscine dal «fondo in mosaico di vetro, orlo ondulato di cemento come le fosse degli orsi, toboga, trampolino, ombrelloni gialli rossi e blu». E sarebbe anche poco se, a un passo da queste delizie – e qui lo sdegno di Erbani si mescola con quello di Cederna – i monumenti non diventassero "letamai".

Le sferzate inflitte da Cederna in tema di manutenzione dell’antico indignano, per contagio, tanti lettori che spesso si riuniscono in comitati protestatari. Ma l’effetto sull’operato delle autorità è blando. Certe promesse di pentimento e redenzione si mostrano, oltre che tardive, occasionali. Ci sarà sempre in vista qualche consultazione amministrativa nella quale le maggioranze cercheranno di non inimicarsi l’elettorato, in media favorevole al peggio. Le promesse di rigore, quando ci sono, vengono ammorbidite da un trio apposito: rinvii, deroghe, condoni. Sinonimi di "nulla di fatto": è accaduto così per l’Appia. Si ripeterà per il Progetto Fori, un disegno che consentirebbe il ritorno alla luce delle vestigia classiche sotterrate dalla goffa "grandeur" littoria. Architetti di gran nome avevano collaborato alla sua ideazione, sindaci come Argan e Petroselli lo avevano fatto proprio. Ma nei loro successori la passione perse smalto. «Bello, certo, ma forse domani…», questo fu, nei casi migliori, il "mot de la fin" per l’ambiziosa impresa.

Ho potuto soffermarmi su pochi esempi, e tutti romani, fra quelli di cui trabocca il libro di Erbani. Non mi resta che ricordare come la determinazione tecnica, che si scorgeva nelle campagne giornalistiche di Antonio Cederna – milanese di nascita, nato agli studi come archeologo - si accoppiasse a uno stile assai personale. Tornano in mente titoli come La città Eternit, Mirabilia urbis, La morte a Venezia, Napoli città omicida, I vandali in casa, La caduta di Milano, Distruggiamo le chiese. Ogni titolo un possibile slogan, adatto a far soffrire. E sia pure così. Ma a questo punto devo citare una frase – la leggo in questo volume – che Leonardo Benevolo rivolse ai seguaci di Cederna, i quali, dopo ogni battaglia perduta o vinta con fatica e a metà, continuavano a crescere. «Pensate», osservò quello storico dell’architettura «che cosa sarebbe l’Italia se Antonio fosse pigro».

Il volume di Francesco Erbani

Su Cederna, in eddyburg

La storia delle parole è una cosaseria. «Riforma», per esempio,è una parola che ha avutoun destino miserando, comequegli attori o calciatori un temporicchi e famosi e di cui poi si vienea sapere che sono morti in miseria,soli e malati. Una volta, «riforma» era l’alter ego della «rivoluzione», cioè un altromodo, progressivoe progressista, pacifico e per viaelettorale, di cambiare la societànel senso della giustizia sociale. Poi se n’è impadronito il Fondomonetario internazionale ed è finitacome sappiamo: anche la distruzionedell’articolo 18 dello Statutodei lavoratori è una «riforma».Non parliamo nemmeno di «comunismo», correntemente sinonimodi totalitarismo. Ad indagare le correntidi senso che hanno fatto slittarei significanti, i contenitori, versoun significato opposto, c’è da divertirsi. Specialmente se questi slittamenti sono occultati.

Credo sia questo il rovello che haspinto Piero Bevilacqua a scrivereElogio della radicalità (Laterza, pp.184, euro 16). Perché ne aveva le taschepiene di sentir lodare da ognipolitico e da ogni televisione il «moderatismo» comevirtù suprema dellapolitica e dell’economia, quellacosa che spintona chiunque si affaccisulla scena politica verso il mitico«centro», quel luogo in cui è sufficientenon far nulla, cioè lasciareche le cose vadano per il loro verso(quello che la finanza vuole), per tirarsu reti piene di voti guizzanti.Non so se Bevilacqua gradirà,mail suo libro l’ho letto provando il gustocrescente della rivalsa, com’è tipicodi quello che un tempo si chiamavaun pamphlet - un’invettiva -piuttosto che con la calma riflessivache un saggio sa suggerire. Del resto,ricordo un articolo di un paiodi anni fa o tre, di Bevilacqua, mi parefosse il 2008 dell’inizio della crisidei «subprime» negli Stati Uniti, incui, con vigore polemico e abbondanzadi argomenti, si chiedevaconto agli «economisti»degli esitidel loro intollerante dominio, taleper decenni da svuotare dall’internoe riempire di parole contraffattee di razionalità economica dementele università e i centri di ricerca,la produzione culturale e i talkshow: perché - chiedeva - non fateammenda?

Non fanno ammenda per niente.Se gettate un occhio a Ballarò, la trasmissionedi Rai3, troverete che siedeimmancabilmente tra gli ospitiun o una economista, che con ariaastratta, come di chi non debbamai dubitare di sé, esibiscono la loromoderazione ed enumerano i«fondamentali dell’economia».Moderazione? Perché - si chiedeBevilacqua - chiamare in questomodo l’estremismo, il fondamentalismoeconomico che ha ridotto ilmondo nello stato in cui è? «La crisiattuale - scrive - ci spinge (...) a porcila domanda fondamentale: i duepilastri storici del consenso capitalistasu gran parte della società sonoancora in piedi La liberazione dell’individuoe la prospettiva di un incrementoillimitato e crescente dellaprosperità sono sempre gli elementichiave di una narrazione capace ancora di persuadere e sedurre?».

La risposta, parrebbe, è cheno, questa narrazione non reggepiù se non camuffandosi da destinoinevitabile, da realismo, da«moderazione», appunto: «Sotto ilprofilo culturale, il moderatismooggi rappresentra la perpetuazionedi un conformismo ideologicoche è fra i più vasti e totalitari chel’umanità abbia mai conosciuto.Esso si fonda interamente, malgradoi vari scongiuri di rito, sul ’sensocomune’ neoliberista: un insiemedi convinzioni dottrinarie frale più estremiste».

Alla semplice domanda se sia ragionevolecredere che saccheggiandoi redditi dei cittadini e allo stessotempo saccheggiando il territorio sigettano le basi per la «crescita», nessunministro«tecnico» è in grado didare una risposta. Perché banalmentenon è pensabile. Così che ilsenso comune delle persone normalidiverge bruscamente dal sensocomune dei «decisori» economici,ormai i soli abilitati a guidarel’autobus su cui tutti noi siamo seduti.Ed è in questo scarto che il panoramache Bevilacqua traccia nellibro inserisce la sua proposta: «Occorrecapovolgere il significato delleparole. Un ideale di generale ’moderazione’(...) è diventato, nel girodi qualche decennio, la prospettivadi un progetto rivoluzionario. (...)Qual è infatti oggi la finalità supremadei disegni più radicalmenteeversivi dell’attuale assetto disordinatodel mondo? A cosa ambisconoi molteplici soggetti e movimentiche mirano a sovvertire l’ordine capitalistico?

È la prospettiva di unasocietà sobria, che ponga fine al consumismosmisurato, alla bulimia distruttivadi territorio e risorse, all’affannodella crescita infinita (...)? Acosa aspirano i sostenitori della decrescita,del buen vivir, di Slow Food,del Take Back Your Time e delDownshifting americani, deimovimentiche rivendicano i beni comuni?Essi chiedono l’avvento di unasocietà conviviale, come la profetizzavaIvan Illich».Beninteso, queste affermazionisono confortate da Bevilacqua conanalisi, ragionamenti, citazioni (diun Marx molto diverso da quellodeimarxisti anchilosati), e in generaleda una prosa che rende la letturadel libro piacevole almenoquanto quella dell’ennesimo gialloscandinavo di consumo. Già, quisi sta consumando un criminemoltoefferato. Tutti noi possiamo diventaregli investigatori che mettonoil colpevole in condizione dinon nuocere più.

«Architettura di rassegnazione. Fotografie dal Mezzogiorno». Il titolo dell’ultima raccolta di fotografie di Jay Wolke* (capo del dipartimento di arte e design del Columbia College a Chicago) potrebbe essere inteso in senso metaforico: si potrebbe, cioè, pensare ad una serie di ‘istantanee’, cioè di racconti e cronache, capaci di rappresentare quella struttura di rassegnazione (morale, civile, politica) che imprigiona una grande parte del nostro Paese. E non si sbaglierebbe, in fondo: giacché il senso ultimo del libro di Wolke è proprio questo. Ma ‘architettura’ e ‘fotografie’ vanno intese in senso letterale: perché questo reportage, anzi questo acuto trattato di sociologia della disgregazione, è composto da fotografie che ritraggono concrete architetture contemporanee che sfigurano l’Italia, da Roma giù giù fino alla Sicilia.

Wolke le ha scattate tra il 2000 ed il 2007 in un lungo e amaro Grand Tour in cui l’amore per il Bel Paese non si è impantanato nell’eterna oleografia dietro cui cerchiamo, da secoli, di nascondere la nostra inarrestabile decadenza (chi non ricorda il patetico Francesco Rutelli del promo istituzionale noto attraverso il suo piagnucoloso e imbarazzante refrain: «Please, visit Italy»?)

Grazie al formato à la page e alla carta patinata, il libro di Wolke si insinua come una lama sottile tra i coffee table books che smerciano l’Italia da cartolina, smentendo all’istante ogni cliché sugli americani creduloni e superficiali.

Per un’adeguata ecfrasis di queste fotografie, di sorprendente nitore formale, ci vorrebbe la penna di un marchese De Sade, o di uno Sciascia. Ma solo Fellini potrebbe mettere in scena il mausoleo romano dell’Appia pieno di spazzatura, tra cui troneggia un inconcepibile materasso azzurro.

A Trapani le case abitate si alternano ai ruderi; a Napoli le Vele di Scampia svettano su nature morte di monnezza; a Colleferro la fontana civica è un inimmaginabile trionfo di ferraglia e cemento; la ‘Finestra sul mare’ a Santo Stefano (Sicilia) o la chiesa incompiuta di Gibellina Nuova ridiventano, da pretese opere d’arte, enormi rifiuti di cemento. Le infrastrutture della guerra, mai rimosse in settant’anni, si sommano alle ferite di un’industrializzazione clientelare e agli squallidi templi di un turismo d’accatto. In una perversa inversione di senso, anche i luoghi della cultura diventano simboli di un inarrestabile degrado civile: dall’orribile interno di un museo di Latina, alla schiera dei motori di condizionatori d’aria che devasta l’Orto Botanico di Messina. Dovunque l’incompiuto, l’abusivo e l’illegale si manifestano nell’osceno, nell’improbabile, nel mostruosamente kitsch: non-luoghi senza abitanti, visto che nessuna ‘figurina’ umana potrebbe redimere queste nuovissime, terrificanti vedute della decadenza italiana.

Non di rado di fronte a questi scatti viene da pensare che si potrebbe trattare di qualche brano di periferia estrema di qualche città americana: e forse una chiave potrebbe essere proprio lo stupore del fotografo di Chicago che ritrova nella culla della civiltà il peggio del proprio paese.

Architettura e fotografia – forse le uniche due arti ancora capaci di una vera funzione civile – si incontrano, anzi si scontrano, nel libro di Wolke, dove la seconda denuncia il tradimento della prima. Sarebbe bello pensare ad un’edizione italiana del libro, anzi ad una mostra di quelle fotografie itinerante attraverso il nostro Mezzogiorno. Ma – in una sorta di perverso comma 22 – siamo troppo rassegnati per lasciarci scuotere da un ritratto della nostra rassegnazione scattato da un americano di Chicago. Come scrive, con terribile esattezza, Roberta Valtorta nell’introduzione: «There is a moment for every society: the Italian moment seems to have come to an end».

*Jay Wolke, Architecture of Resignation. Photographs from the Mezzogiorno. With essays by Roberta Valtorta and Tom Bamberger, Chicago, Center for American Places at Columbia College Chicago, 2011

“Questo libro inconsueto, anzi unico nell’orizzonte italiano, è tante cose insieme: un romanzo di formazione, il reportage di un’indagine minuziosa, la denuncia di un delitto, un manifesto di legalità e di passione civile”. Si apre con queste parole l’introduzione di Salvatore Settis al volume di Paolo Rabbitti appena arrivato in libreria (Diossina. La verità nascosta. Un supertecnico indipendente indaga su Seveso e la sua eredità di bugie, Feltrinelli, 16 euro). La prima cosa inconsueta è proprio la presenza di uno scritto dell’archeologo e storico dell’arte in un libro-inchiesta dedicato alle vicende dei bidoni della super-diossina di Seveso .

Ma se, come è capitato a me, aveste visto Settis e Rabitti insieme sulla terrazza della martoriata reggia di Carditello, in Campania, avreste capito che i nessi sono profondi.

Lo storico dell’arte guidava l’ingegnere alla scoperta della devastazione del monumento artistico spogliato dalla camorra e dalla resa della tutela pubblica, l’ingegnere spiegava allo storico dell’arte come le discariche che circondano la reggia stiano inquinando la falda e minando per decenni l’ambiente e la salute dei cittadini. Due facce della stessa medaglia, come ricorda Settis in un altro passo dell’introduzione: “Nel testo della Costituzione, pur così meditato, la parola ‘ambiente’ manca del tutto, poiché la cultura ambientalistica non si era ancora formata: eppure la Corte costituzionale, quando si trovò a dover dirimere conflitti di natura ambientale, seppe rinvenire la nozione giuridica di tutela dell’ambiente come ‘valore primario e assoluto’, e lo fece con un sapiente lavoro interpretativo, che combinava l’art. 9 (la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione’) con l’art. 32, dove la tutela della salute dei cittadini è vista ‘come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività’. Paesaggio e salute concorrono dunque, in Italia , a formare la nozione costituzionale di ambiente e a darle, nell’interesse dei cittadini, un altissimo rilievo”.

Il libro si apre con la morte di Sandrina, ex mondina e staffetta partigiana portata via, nel 1995, da un sarcoma alle parti molli. Il suo medico, Gloria, è preoccupata: a Mantova ci “sono dei condomìni in cui in ogni appartamento c’è un caso di tumore”. È allora che suo marito le dice: “Voglio capire perché ci sono tanti tumori strani vicino alla zona industriale”. E il marito di Gloria è Paolo Rabitti, che da allora si getta a capofitto in un’inchiesta durissima, fatta di ricerca scientifica, articoli di giornale, esposti alle procure, scontri legali.

Una battaglia in cui solo una cosa è più grande dell’indignazione e dell’impegno civile: la competenza. Ed è proprio quella a fare la differenza: in quasi 300 pagine, che si leggono d’un fiato, Rabitti riesce a dimostrare ciò che un anziano ex operaio della Montedison confesserà pubblicamente al sindaco di Mantova nel 2002: “Caro sindaco, prima di morire devo dirlo a qualcuno: nell’inceneritore abbiamo smaltito la roba di Seveso”. Ecco perché le malattie che a Mantova polverizzano ogni media statistica sono quelle tipiche della diossina, ecco perché i pioppi del giardino di Rabitti sono esattamente come quelli di Seveso “con la chioma metà ingiallita e metà verde… Solo che i miei pioppi non crescevano al confine della fabbrica, ma a un paio di chilometri. Una ricaduta a questa distanza è tipica delle emissioni da un camino alto e con elevata velocità dei fumi in uscita, come quello di un inceneritore”.

Ma c’è una cosa che è ancora più sconvolgente della scoperta stessa, ed è che a ostacolare ferocemente ogni passo di questa coraggiosa ricerca della verità sono le istituzioni, infedeli, di un paese democratico: le Asl, le università, i poteri pubblici locali.

Giuseppe Dossetti avrebbe voluto che uno degli articoli della Costituzione recitasse così: “La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino”. Ecco, il libro del cittadino Paolo Rabitti è la più puntuale, coraggiosa e lucida attuazione di quell’articolo che non c’è: ed è uno strumento davvero prezioso per costruire un’Italia che non c’è.

Titolo originale: Urban revolution is coming – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Dalla Parigi del 1871 alla Praga del 1968 al Cairo nel 2011, per finire con le vie di New York, le città sono da lungo tempo il terreno di coltura dei movimenti radicali. Nel corso del tempo le proteste urbane nascono da una infinità di spunti diversi, dalla disoccupazione alla fame, alla privatizzazione alla corruzione. Ma c’entra forse anche la stessa geografia delle città? Una questione particolarmente accesa questa settimana, mentre il movimento Occupy si prepara a una serie di grandi manifestazioni in tante città del paese per il Primo Maggio.

Il geografo e sociologo David Harvey, professore di antropologia al Graduate Center della City University di New York, uno dei venti studiosi in campo umanistico più citati di tutti i tempi, ha passato un’intera vita a studiare il modo in cui si organizzano le città, e poi cosa vi accade. Il suo nuovo libro Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution, esamina in profondità gli effetti delle politiche finanziarie liberiste sulla vita urbana, il paralizzante debito dei ceti medi e a basso reddito d’America, la devastazione dello spazio pubblico per tutti i cittadini operata da uno sviluppo sfuggito al controllo.

A partire dalla domanda: Come organizziamo una città? Harvey esplora l’attuale crisi del credito e le sue radici nella crescita urbana, e come questo processo abbia di fatto reso praticamente impossibile qualunque azione politica nelle città per gli ultimi vent’anni. Harvey si propone come esponente di punta del movimento per il “diritto alla città”, l’idea secondo la quale il cittadino deve poter intervenire sui modi in cui le città crescono e sono strutturate. A partire dalla Comune di Parigi del 1871, quando la cittadinanza rovesciò l’aristocrazia prendendo il potere, Harvey ricostruisce i modi in cui le città si sono riorganizzate, e come potrebbero farlo, per diventare più inclusive e giuste. Abbiamo incontrato Harvey per parlare di Occupy Wall Street, della distruzione operata da Bloomberg nelle trasformazioni di New York City, su come si possa ripensare la città più vicina a come la vorremmo.

Lei parla del “diritto alla città” come di uno slogan vuoto. Cosa intende?

Il diritto alla città può rivendicarlo chiunque. Anche Bloomberg ha diritto alla città. Però ci sono varie fazioni, con diverse capacità di esercitarlo. Quando parlo del diritto di ripensare la città più vicina a come la vorremmo, e a cosa invece abbiamo visto qui a New York City negli ultimi 20-30 anni, si tratta di come la vorrebbero i ricchi. Negli anni ’70 pesava molto la famiglia Rockefeller per esempio. Oggi c’è gente come Bloomberg, che sostanzialmente trasforma la città nel modo che più si adatta a sé e ai propri affari. Ma la gran massa della popolazione praticamente non conta nulla in tutto questo. In città c’è quasi un milione di persone che tenta di farcela con diecimila dollari l’anno. E che influenza hanno sul modo in cui si trasforma la città? Nessuna.

Il mio interesse principale sulla questione del diritto alla città non è tanto di affermare che esista una specie di diritto etico, ma qualcosa per cui lottare. Il diritto di chi? Per che tipo di città? Penso a quel milione di persone con meno di diecimila dollari l’anno, che dovrebbero pesare almeno tanto quanto l’1% che sta al vertice. Lo definisco un significante vuoto, perché ci deve essere qualcuno che arriva e dice, “È il mio diritto che conta, non il tuo”. Comporta sempre un conflitto.

Dagli anni ’80 assistiamo in tutto il mondo all’ondata della privatizzazione di tutto quanto un tempo era pubblico (scuole, ferrovie, acqua). Come ne è stato influenzato il movimento fra i ceti a basso reddito delle città?

In un modo che è una delle domande poste dal libro: Perché non abbiamo fatto nulla? Perché non c’è stato un nostro’68? Perché non ci sono state più proteste, visto l’immenso accrescersi delle diseguaglianze in tante città degli Usa, oltre che de resto del mondo? Oggi stimo cominciando a vederne alcune, di risposte, in Occupy Wall Street, e anche altrove nel mondo segnali più vistosi. In Cile gli studenti occupano le università, come avevamo visto negli anni ’60 contro le diseguaglianze di allora.

E non capisco in realtà perché non ce ne siano state di più, di proteste. Credo dipenda dall’incredibile potere del denaro di condizionare gli apparati di repressione. E credo che ci troviamo in una situazione piuttosto pericolosa, perché è possibile che qualunque forma di ribellione possa essere considerate alla stregua del terrorismo, nella scia degli apparati post-11 settembre. Abbiamo visto in casi come la piazza Tahrir Square e altri, con eco anche in Wisconsin l’anno scorso,segnali di resistenza che iniziano ad emergere. C’è qualche parallelo con ciò che avvenne negli anni ‘30. Col crollo del mercato azionario del 1929, le vere proteste poi sono iniziate verso il 1933, ed è emerso un movimento di massa. Potremmo essere ora in quella fase, dato che la depressione, o recessione, chiamiamola come vogliamo, non è certo finita, continuano ad esserci tantissimi disoccupati, gente che perde la casa, i diritti, e si comincia a capire che non si tratta di cosa di un momento. È una situazione permanente. Quindi credo che vedremo più inquietudini di massa da ora in poi. Non è più come nel 1987, quando dal crollo se ne è usciti nel giro di un paio d’anni. In questo paese non è più così.

C’è una differenza, fra lo scoppio di rabbia spontanea, priva di obiettivi politici, e la risposta più meditata che vediamo nel movimento Occupy Wall Street. C’è un messaggio che vuole comunicare, che introduce programmaticamente la diseguaglianza sociale, credo che si farà molto. Almeno il Partito Democratico ne sta discutendo, cosa che un anno fa non succedeva. Non se ne parlava proprio. Adesso invece sì, ed è una cosa che filtra anche nella campagna di Obama, una inclusione di questi messaggi.

Perché è tanto importante la Comune di Parigi del 1871 per i movimenti di oggi?

Per due ragioni: la prima è che si tratta di una delle più grandi ribellioni della storia. E di per sé merita studio e discussione. L’altra è che appartiene alle idee che stanno nel pantheon del pensiero di sinistra. Molto interessante che sia Marx e Engels che Lenin o Trotsky tutti considerassero la Comune di Parigi come esempio da cui imparare e in qualche misura seguire, come a Pietroburgo nel 1905 o anche nel corso della Rivoluzione Russa successiva. Si tratta di porsi delle domande e imparare.

In che modo l’urbanizzazione liberista ha distrutto la città in quanto spazio pubblico abitabile, luogo di politica e società?

Senza farci un’immagine romantica di ciò che la città era negli anni ’20 e ’30, si trattava senz’altro di una concentrazione compatta di popolazione, governata da un apparato politico: potere concentrato ed efficace. Col tempo ci siamo dispersi nella suburbanizzazione, abbiamo spalmato la città. Si è disperso anche sempre più quello che si chiama “ghetto”, le zone a bassi reddito non sono più concentrate a sufficienza da potersi organizzare in quanto tali. Salvo in alcune occasioni, per esempio a Los Angeles col caso di Rodney King.

Credo che la dispersione della città, la crescita per sobborghi, la costruzione delle gated communities, frammenti la possibilità di un’esistenza politica con qualche coerenza, l’idea di un progetto politico comune. Ci sono tante politiche del tipo Non nel Mio Cortile. Non si vuole abitare vicino a che appare diverso, non si vogliono gli immigrati, da un punto di vista sociale cambiano le cose. Ho sempre ritenuto che il tipo di soggettività costruito dal suburbio, dalla gated community, sia una soggettività frammentata in cui nessuno coglie il totale come nella città, il tema complessivo dei processi a cui rivolgersi. Si pensa solo al proprio segmento del tutto. Credo che obiettivo della politica sia di ricostruire un corpo di città sulle rovine del processo di capitalizzazione.

Un termine ricorrente delle vicende Occupy Wall Street è la“precarietà” (i lavoratori autonomi o senza contratto regolare). Perché è così importante per un movimento radicale?

Non mi piace troppo il termine “precario”. Da sempre chi lavora alla produzione e riproduzione della città considera la propria situazione non sicura, c’è tanto lavoro temporaneo diverso da quello di fabbrica. Storicamente la sinistra ha guardato al lavoratore della fabbrica coma base della sua politica nei momenti di cambiamento. La stessa sinistra non ha mai pensato che fossero significativi anche coloro che producono e riproducono la vita urbana. Qui entra in campo la Comune di Parigi, perché se osserviamo i suoi protagonisti, non si tratta degli operai di fabbrica. Sono invece artigiani, e i tanti lavoratori precari della Parigi dell’epoca.

Oggi, con la scomparsa di tante fabbriche, non c’è più la massa di classe lavoratrice industriale che c’era negli anni ’60 o ‘70. Allora la questione è: che base politica ha la sinistra? Io sostengo che si tratti appunto di chi produce e riproduce la vita urbana. Molti di loro sono precari, si spostano spesso, difficili da organizzare, da sindacalizzare, una popolazione che subisce un continuo ricambio, ma che possiede comunque un enorme potenziale politico. Uso sempre l’esempio del movimento per i diritti dei migranti nel 2006. Furono tantissimi di loro ad astenersi dal lavoro per una giornata, Los Angeles e Chicago restarono del tutto bloccate, dimostrando questa gigantesca forza. Dovremmo pensare a questo segmento di popolazione. Il che non esclude il lavoro organizzato, ma pensiamo che oggi nel settore privato (esclusa la pubblica amministrazione nel suo complesso) siamo al 9% della popolazione. È enorme il lavoro precario. E se troviamo il modo per organizzarlo in qualche modo, di dargli nuovi strumenti di espressione politica, credo sia possibile mobilitarlo con grandiosi risultati sulla vita urbana e le sue relazioni, in città come New York, o Chicago o Los Angeles e tante altre.

Lei afferma che “La rivoluzione del nostri tempi deve essere urbana” Perché la sinistra è tanto refrattaria all’idea?

Credo faccia parte del dibattito sull’interpretazione della Comune di Parigi. Alcuni hanno sostenuto che si trattava di un movimento sociale urbano, e quindi non di un movimento di classe. Un’interpretazione che risale alla sinistra marxista, secondo la quale un movimento rivoluzionario può derivare solo /dagli operai delle fabbriche. Beh, non è che se non ci sono più fabbriche non c’è più la rivoluzione. Sarebbe ridicolo.

Io ritengo che si debba guardare al fenomeno della classe urbana. Dopo tutto, è il capitalismo finanziario a costruire oggi la città, coi suoi condomini e uffici. Se vogliamo resistere dobbiamo farlo con una lotta di classe, contro questo potere. E sono molto serio nel porre la domanda: come si mobilita una intera città? Perché è nella città che sta il futuro politico della sinistra.

Come è possibile trasformare lo spazio pubblico in qualcosa di più accessibile?

Vediamola in termini semplici: a New York di spazio pubblico ce n’è tanto, ma poco in cui si possa sviluppare una attività collettiva. La democrazia ateniese aveva l’agorà. Ma a New York City dove potremmo andare a cercare un agorà, dove si discute davvero. Ecco di cosa stavano parlando davvero le persone che si riunivano a Zuccotti Park. Costruivano uno spazio per sviluppare dialogo politico. Dobbiamo prendere gli spazi pubblici, che come si scopre pubblici non sono affatto, e trasformarli in un luogo politico, dove prendere decisioni, dove stabilire se è davvero una buona idea costruire ancora, qualche nuovo gruppo di condomini. Attraversavo l’altro giorno il parco a, Union Square, ad esempio, dove c’era dello spazio, ma ci hanno messo delle aiuole: i tulipani hanno un loro luogo, e noi no. Oggi lo spazio pubblico è totalmente controllato dal potere politico, al punto che non è più un bene comune.

Le scelte amministrative di Bloomberg sono state descritte come “Trasformare la città come faceva Moses ma pensando sempre a Jane Jacobs”. [Robert Moses ricostruì spietatamente New York City per mezzo secolo, spesso devastando quartieri per farci passare arterie veloci verso la periferia. Jane Jacobs, scrittrice e sua principale oppositrice, contribuì a salvare il Greenwich Village da una di queste autostrade] Come è possibile riconciliarli?

La città razionalista e modernizzatrice è stata qualcosa di spietato. L’amministrazione Bloomberg ha lanciato forse più megaprogetti di Moses negli anni ‘60, ma cercando di riverniciarli di interesse pubblico, esteriormente in stile Jane Jacobs. Mascherando la natura dei grandi progetti. C’è anche una patina ambientalista. Bloomberg è, in parte in buona fede, amico dell’ambiente. Contentissimo se si realizzano trasformazioni verdi. Trasforma tutte le strade per farle diventare spazi “amichevoli” per ciclisti: salvo che quei ciclisti poi non ci si radunino in massa. Questo non gli piacerebbe affatto.

Crede che sia in crescita il movimento contro gli aspetti della città liberista?

La cosa che colpisce di più è che se guardiamo a una ipotetica carta mondiale di chi è contro alcuni aspetti di ciò che fa il capitalismo, vediamo una massa di proteste enorme. Ma si tratta di una cosa molto frammentata. Ad esempio, oggi parliamo del debito contratto dagli studenti. Domani potrebbe essere il turno dei pignoramenti, o una protesta perché si chiudono ospedali, o su cosa succede nell’istruzione pubblica. La difficoltà è trovare un modo per collegare il tutto. Ci sono dei tentativi, come The Right to the City Alliance, o Excluded Workers Congress, ciò vuol dire che si riflette su come unirsi, ma siamo ancora alle fasi iniziali. Se funziona, avermo una enorme massa di persone interessate a cambiare il sistema, sin dalle radici, perché oggi non risponde ai bisogni e ai desideri di nessuno.

Occupy Wall Street appare come una convergenza su alcune delle cose di cui ci ha parlato, ma manca ancora qualcuno in grado di unire. Perché la sinistra resiste così tanto all’idea di leadership, di gerarchia?

Credo che a sinistra ci sia sempre stato un problema, un feticismo dell’organizzazione, l’idea che basti a un certo progetto un certo tipo di struttura. Ha funzionato nel progetto comunista, dove si è seguito il modello del centralismo democratico, da cui non ci si allontanava. Aveva dei punti di forza, e altri di debolezza. Oggi vediamo molte componenti della sinistra resistere a qualunque forma di gerarchia. Si ribadisce che tutto debba restare orizzontale, democratico, aperto. Ma in realtà non lo è.

Occupy Wall Street funziona come un’avanguardia [un partito politico alla testa di un movimento]. Dicono di no, ma lo sono. Parlano del 99% ma non sono il 99%: si rivolgono al 99%. Ci deve essere molta più flessibilità a sinistra nel costruire vari tipi di organizzazione. Mi ha molto colpito il modello usato a El Alto in Bolivia, in cui si mescolavano strutture orizzontali e verticali, a costruire una forte organizzazione politica. Credo che sia meglio allontanarsi al più presto da certe forme di discussione. Quelle in voga oggi andranno benissimo per piccoli gruppi, che si riuniscono in assemblea. Ma non si può certo riunire in assemblea tutta la popolazione di New York City. E poi pensare alle strutture regionali ecc.. In realtà Occupy Wall Street un comitato di coordinamento ce l’ha. Ma esitano a prendere la testa dell’organizzazione.

Credo che per riuscire i movimenti debbano mescolare struttura orizzontale e verticale e gerarchia. Quella migliore l’ho vista negli studenti cileni, con una giovane comunista [Camila Vallejo], molto aperta alla struttura orizzontale anziché al comitato centrale che decide le cose. Però quando ci vuole la leadership la si deve usare. Iniziando a ragionare in questi termini avremo una sinistra più flessibile ma organizzata. Dentro a Occupy ci sono gruppi che cercano di trascinare gente del Partito Democratico a sostenere i propri temi, minacciando di candidarsi al loro posto se non lo fanno. Non è la maggioranza, a fare queste cose, ma esistono.

Alla fine del libro non si hanno molte risposte, ma si indica la necessità di aprire un dialogo per uscire da vistose diseguaglianze e dalle continue crisi del capitalismo. Vede segnali del genere in Occupy?

È possibile. Se il movimento sindacale si sposta verso forme di organizzazione più territoriali, non solo basate sui luoghi di lavoro, allora l’alleanza coi movimenti sociali urbani sarà molto più forte. La cosa interessante è che questo genere di collaborazioni ha una storia di successi. Credo sia possibile piantare un seme, e innescare una grande trasformazione. Se Occupy Wall Street vede questa possibilità si aprono molte prospettive. Il mio libro è anche la base per esaminare queste possibilità, non ne va esclusa nessuna perché non sappiamo quale sia la migliore. Però esiste un enorme spazio per l’attività politica.

Nota: a rafforzare le riflessioni di David Harvey arriva, se necessario, anche il contributo di tanta stampa per nulla di sinistra o che si ponga davvero il problema di una alternativa al modello liberista, quando si nota una costante di tutti i più recenti movimenti progressisti e democratici. Ad esempio l'economista Edward Glaeser che ancora all'inizio del 2011 sul New York Times osservava la natura del Crogiolo rivoluzionario urbano (il link è alla traduzione su Mall))

Un saggio che rovescia la dottrina economica neoliberale e pone con forza la necessità di spiegare la sua egemonia nonostante il fallimento Sembra la quadratura del cerchio, eppure è possibile riassumere teorie complesse in un linguaggio piano e al tempo stesso fornirne un'interpretazione originale. L'ultimo libro di Giorgio Lunghini - Conflitto, crisi, incertezza, Bollati Boringhieri, pp. 132, euro 14 - dimostra che nulla - ferma restando l'asperità del compito - impedisce la convivenza tra essenzialità, chiarezza e autonomia di giudizio. In nove brevi capitoli offre una magistrale sintesi comparativa dei cinque principali paradigmi (Ricardo, Marx, il marginalismo, Keynes e Sraffa) che articolano la discussione contemporanea. Ma, caratterizzata da una mirabile linearità del dettato (viene in mente lo Smith, Ricardo, Marx di Claudio Napoleoni), la ricostruzione si tiene stretta a un forte nucleo teorico - a una tesi critica in senso stretto radicale - che mette in questione il fondamento stesso del discorso economico, investendone frontalmente le finalità.

La sequenza delle posizioni prende le mosse dalla teoria neoclassica, oggi (da buoni quarant'anni) dominante soprattutto in ambito accademico (e noi italiani, governati dall'incarnazione stessa dello spirito bocconiano, sappiamo meglio di chiunque altro quanto strette e pericolose siano le relazioni tra accademia e politica). I tratti salienti della teoria sono individuati nell'individualismo metodologico (la teoria soggettiva del valore-utilità) e nella rappresentazione di un sistema economico in equilibrio («omeostatico»), nel quale le crisi sono accidentali e il mercato garantisce l'uguaglianza tra domanda e offerta in virtù della sua capacità di autoregolarsi. Emerge così il paradosso di una teoria che, nel momento in cui dichiara di partire dai bisogni e dalle preferenze di individui razionali e onniscienti, descrive la realtà dal punto di vista del capitale privato, fornendone un'immagine controfattuale (un mondo senza crisi né conflitti distributivi, in cui lo scopo dell'attività economica è la produzione di valori d'uso e la moneta non incide sulla produzione e sui livelli occupazionali), per ciò stesso funzionale al dominio dell'impresa e della finanza.

Il modello neoclassico è il termine di riferimento per l'esame delle altre teorie, a cominciare da quelle di Ricardo e Marx, sue prime autorevoli rivali ante litteram. Ricardo svela un primo non-detto del marginalismo (il conflitto distributivo tra capitale e lavoro e il suo definirsi in base ai rapporti di forza sociali); Marx ne mette implacabilmente a nudo altri (la storicità del capitalismo industriale; il dispotismo del capitale nel condizionare alla generazione di profitto composizione e volumi della produzione; la casualità e precarietà dell'equilibrio e il ruolo-chiave svolto dalle crisi). Quanto la posizione marxiana sia attuale e misconosciuta (anche a sinistra) lo chiarisce il passaggio che Lunghini dedica allo statuto del lavoro vivo, quindi alla vexata quæstio della presunta estinzione del salariato (che in realtà cresce, nella misura in cui il suo tratto costitutivo non è la forma contrattuale ma la concreta subordinazione alle decisioni del capitale).

Seguono Keynes e Sraffa. Il primo compie un gesto che, di per sé, svuota di senso l'utopica oleografia dei neoclassici: nessuno - tanto meno il singolo individuo - dispone di conoscenze sufficienti a orientare scelte razionali tese a soddisfare i bisogni. Nella sua forma attuale, l'economia (come la realtà stessa) è il regno dell'incertezza, alla quale ciascuno cerca di far fronte con risposte anche «istintive» (Keynes riflette mentre Freud si fa faticosamente strada lungo i sentieri dell'inconscio), dettate da sfiducia e inquietudine. Di qui una serie di fattori critici (la preferenza per la liquidità; la propensione al tesoreggiamento; l'impiego speculativo della moneta) che causano l'instabilità del sistema e, soprattutto, rendono normale la sottoccupazione. Quanto a Sraffa, egli compie un sacrilego passo wittgensteiniano (far dire alla teoria economica tutto il dicibile per fare emergere l'ineffabile) che ne decreta la damnatio memoriæ. L'aver risolto il problema ricardiano (e marxiano) della misura invariabile rimuovendo il nesso tra valore e prezzi (quindi sopprimendo la questione del valore) significa in realtà - fuor di metafora - costringere la «scienza» economica a riconoscersi politica: discorso e ideologia plasmati dagli interessi sociali in conflitto.

Un crimine di lesa maestà. Che ha, tra gli altri, il merito di risolvere la «questione gramsciana» che Lunghini, attento lettore dei Quaderni, finge di «consegnare al lettore» e alla quale invece risponde con nettezza. Perché l'egemonia culturale e politica della teoria neoclassica a dispetto di un palese fallimento teorico? Proprio per quel conflitto e quei rapporti di forza tra le classi di cui parlano Ricardo e Marx; proprio per quella tutela della sperequazione e della rendita di cui parla Keynes; proprio per la rimozione del conflitto teorico di cui parla, a proposito di Sraffa, Luigi Pasinetti. Come dire (ai «nipoti» e al common reader cui il libro è dedicato): ora spetta a voi (a ciascuno di noi) operare sul terreno pratico per la risoluzione di un problema (non soltanto la ricchezza: anche il benessere comune, la «felicità» di tutti) di cui l'economia non può farsi carico, in quanto «scienza borghese». Non diversamente Marx chiuse da giovane i conti con la filosofia contemplativa scrivendo che è maturo il tempo per una comprensione del mondo che sia anche la sua trasformazione.

IL QUARTO STATO DEL CAPITALE

di Rossana Rossanda

La lotta di classe non è finita, così come non sono scomparse le classi sociali. L'ultimo libro di Luciano Gallino per Laterza sgombra il campo da molte erronee convinzioni che hanno orientato le politiche delle sinistre. Ma è anche un invito a guardare con lucidità la crisi del pensiero critico, che non può invece essere aggirata proponendo soluzioni che non scalfiscono la religione del libero mercato. Con un titolo provocatorio, parole che le ex sinistre italiane non hanno il coraggio di pronunciare, Luciano Gallino ha chiamato il suo ultimo libro La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza, pp. 212, euro 18).

Quante volte sentiamo dire «la lotta di classe» non c'è più? Non esistono più le classi sociali? Non ci sono più una destra e una sinistra? Dov'è oggi l'operaio? A che servono i sindacati? Come si può pretendere oggi un posto fisso per la vita? E poi, che noia il posto fisso!». Eccetera. E da queste asseverazioni parte Gallino nel dare al suo lavoro la forma di un'ampia intervista alla sociologa Paola Borgna, definendole come sciocchezze, ideologia, falsa coscienza della società. Mai infatti il capitale ha messo al lavoro tanti milioni di persone come oggi con l'estensione dell'economia mondializzata. Mai come oggi l'innovazione tecnologica ha permesso di ridurre il lavoro degli uomini su ogni segmento del produrre, aumentandone la produttività, non già per liberare il lavoratore dalla fatica ma per ridurne il costo al produttore. Mai la tecnologia della comunicazione gli ha permesso come ora di conoscere in tempo reale dove si trovano le forze di lavoro il cui costo è più basso. Mai come ora, organizzate in megafusioni e saltando da investimenti in produzione a quelli sulla finanza e viceversa, i mezzi di cui dispone gli permettono di spostarsi dove la forza di lavoro costa meno, lasciando a terra la manodopera di cui aveva bisogno per esempio in Europa, dove i lavoratori avevano conquistato da un secolo salari e diritti maggiori.

Si è allargato quindi, in quantità e qualità, il conflitto di interessi fra capitale e lavoro, i capitali concorrono (ma è più elegante dire «competono») nel ridurne il costo, mentre i vecchi e nuovi lavoratori, non ancora o non più organizzati, si fanno la guerra, concorrendo gli uni contro gli altri più o meno consapevolmente al ribasso, per conquistare un posto. Dunque le classi non solo ci sono ancora, ma l'offerta di manodopera e lo sventagliarsi delle retribuzioni, che trent'anni fa dispiegavano su scalini di circa trenta grandezze diverse (ed era già un bel salto), oggi avviene in grandezze da 1 a 300: in altre parole occorrono trecento anni di lavoro a una operia o cassiera dei supermercati per guadagnare quello che il suo direttore generale guadagna in un anno. Qualcuno ricorderà che negli anni Ottanta i padroni italiani sostenevano che il costo del lavoro era diventato una voce minima nell'insieme dei costi di bilancio, ma oggi è su di esso, sia pur calato in assoluto, che esercitano la maggiore pressione possibile. Nella lotta di classe sono cambiati l'attaccante e chi si difende; l'attaccante che, pur in inferiorità di mezzi, era il salariato oggi si difende sia dal padrone sia dallo stato, che legifera a favore del padrone - Monti ed Elsa Fornero ne sono figure da manuale. Adesso le parti sono invertite. All'attacco è il capitale e il lavoro è sotto botta.

Divisi e senza partito

Qualche anno fa, scendendo all'aeroporto di Roma, mi sorprese un grande pannello luminoso che riproduceva il famoso quadro di Pelizza da Volpedo, «Il quarto stato», dove operai e contadini, assieme a una donna con il bambino in braccio, marciano avanti senza paura, a rappresentare il proletariato emergente come figura politica, con i suoi sindacati e i suoi partiti. Soltanto che al posto delle facce affaticate e degli abiti modesti, giubba sulla spalla, c'erano una schiera di inappuntabili manager in giacca e cravatta che avanzavano sotto la scritta: «Capitalisti di tutto il mondo unitevi!»

Pareva una battuta, invece era già fatto. Mentre i proletari non solo sono arretrati, non solo non hanno più, in Italia e altrove, un partito che li rappresenta in parlamento, ma si sono divisi. Gli stessi metalmeccanici, le tute blu cui vanno le nostre simpatie e speranze, non sono collegati neanche a livello europeo, neanche quando dipendono dallo stesso padrone, e quindi sono esposti a essere battuti, su questo o quel punto, ora l'uno ora l'altro. La pressione per azzerare il contratto nazionale, l'indebolimento dell'articolo 18, l'allontanamento dell'articolo 81 della Costituzione, il moltiplicarsi degli «atipici» per dire il sempre più ampio precariato diminuisce anno per anno il peso contrattuale della forza di lavoro, specie europea, tendendo ad allinearla al modello degli Stati Uniti, a negoziato principalmente privato fra datore di lavoro e lavoratore. L'ideale del padronato è che il lavoro possa essere assunto e dimesso solo per il tempo che serve all'impresa e a alle condizioni più modeste possibile. Non ci siamo ancora del tutto, ma la tendenza è questa. Il volume di Gallino infilza una per volta, capitolo per capitolo, questa frammentazione del lavoro e della sua capacità di difesa, ribattendo alle domande di Paola Borgna, che si fa ogni tanto avvocato del diavolo cioè degli stereotipi dell'opinione dominante.

Dominio dell'economia

Con la stessa chiarezza lega le politiche di austerità alla loro natura di classe, mentre le istituzioni, il ceto politico tutto e la presidenza della Repubblica si affanna a descriverla come mera tecnica per rimettere i conti a posto, e indica nella flessibilità del lavoro il fine effettivo cui mira il padronato, che spera di mantenere a tempo indeterminato soltanto quella parte di manodopera che gli garantisce un certo know how, facendo ruotare tutto il resto nel minor tempo e con le minori garanzie possibili. Ma con questo viene meno la possibilità per il lavoratore dipendente di programmare la propria esistenza che viene meno, chiudendo il cerchio sotto il profilo della rappresentanza politica: più si dilata la distanza di reddito fra le classi più sale la sfiducia nella capacità e nella stessa volontà della sfera pubblica di fungere da compensatore o moderatore della tendenza sfavorevole alle classi subalterne. Più si è costretti a constatare che non siamo «nella stessa barca», nel senso che i più possono esserne sbattuti fuori a ogni momento, meno i partiti, specie quelli che si dicono di sinistra, appaiono credibili. Ma meno la sfera politica è credibile, più la cosiddetta «economia» diventa dominante.

Gallino, il cui penultimo libro era, se non erro, Finanzcapitalismo e delineava il contesto in cui il capitale si muove oggi, chiede dunque energicamente che i concetti vengano rimessi al loro posto, che la lotta di classe si veda nei suoi attuali protagonismi e forme, che si sono ribaltate dal 1848 a ieri l'altro, e che si rilanci una battaglia nella sua direzione originaria cominciando con il rimettere sui piedi l'immagine dei rapporti di lavoro.

Perché e come ne sia avvenuto il rovesciamento sarebbe lungo dire. Ma al di là della lucidità e crudeltà intrinseca dei detentori di capitale, che non hanno né funzioni né doveri di beneficenza né di pubblica utilità, sul mutamento di cultura avvenuto nella seconda metà del Novecento ci sarebbe molto da dire. In primo luogo sullo stato di incertezza e confusione delle organizzazioni sindacali e politiche sotto l'urto concomitante della ripresa neoliberista, da Thatcher e Reagan in poi, e della crisi verticale dei socialismi reali. Ma anche negli errori di analisi nostri, delle sinistre radicali, nel corso degli anni Settanta - incapacità di misurare esattamente il rapporto reale di forze, opponendo il precariato ai presunti «garantiti», e moltiplicando negli anni seguenti le categorie interpretative della crisi del movimento operaio invece che guardarla per quello che realmente era. Qualcosa di analogo, a mio avviso, ripetiamo oggi nel convulso bisogno di liberarci dai parametri della lotta di classe attraverso la sottrazione dei «beni comuni» alla dialettica delle classi, causa giusta ma insufficiente, o al rinvio della sussistenza della forza lavoro a un reddito di cittadinanza messo sulle spalle della finanza pubblica. Tutto utile ma tutto esterno alle vicissitudini del modo di produzione e di quella lotta di classe della quale il lavoro di Luciano Gallino non cessa di rappresentarci lo spessore e la violenza.

LA CRUDA ANALISI CHE METTE A NUDO

IL PENSIERO UNICO

di Fabio Raimondi

La lotta di classe c'è ancora. A dire il vero non è mai sparita, tanto meno negli ultimi trent'anni, solo che è condotta prevalentemente dall'alto, nonostante il processo di «proletarizzazione» in corso. Mentre lavoratori dipendenti e pensionati salvano gli Stati e il welfare coprendo forzatamente i buchi di bilancio che manager e politici inetti hanno prodotto attraverso investimenti fallimentari e politiche regressive, le classi dirigenti attuano la ridistribuzione del reddito dal basso verso l'alto!

Per riprendersi il potere contrattuale che la working class (le classi operaia e media) aveva conquistato con le lotte degli anni '60 e '70, la «classe capitalistica transnazionale» ha lanciato una controffensiva chiamata globalizzazione, il cui asse portante è la finanza. Per chi, intossicato da mantra della scomparsa delle classi, volesse convincersene, può leggere l'intervista di Paola Borgna a Luciano Gallino: La lotta di classe dopo la lotta di classe (Laterza 2012, pp. 214, € 12), dove si forniscono dati scientifici per l'analisi di classe, dando corpo all'assunto che la globalizzazione e la finanziarizzazione dell'economia sono state condotte in chiara funzione antioperaia. Il testo ha il merito di sfatare alcuni luoghi comuni; ad esempio, che la politica sia «sopraffatta» dall'economia e dalla finanza, favola propagandata di comune accordo, dato che sono state scelte politiche «a spalancare le porte al dominio delle corporations» attraverso leggi che ne hanno favorito le pratiche speculative; leggi promulgate grazie al continuo scambio di personale tra apparati politici degli Stati e personale tecnico proveniente dalle organizzazioni economico-finanziarie. L'imponente battage pubblicitario, prodotto dai «pensatoi» come il forum di Davos, ha poi divulgato l'ideologia delle due i, «individuo e impresa», in tutto il mondo grazie a una disponibilità di mezzi di comunicazione che surclassa quella del «pensiero critico» e delle minoranze intellettuali che ancora lo producono.

Il quadro tratteggiato è, a dir poco, desolante. Per darne solo un assaggio, alcuni dati: il rapporto tra i salari dei top manager e quelli di impiegati e operai è salito in media da 40 a 1 negli anni '80 a 300 a 1, con punte anche di 1000 a 1, oggi; la popolazione negli slums delle megalopoli (città con più di 5 milioni di abitanti), è passata dal 5% degli anni '80 al 20% di oggi e tra il 2020 e il 2025 «potrebbe aggirarsi complessivamente intorno al miliardo e duecento milioni di persone»; lo svuotamento delle campagne e il land grabbing non causano solo migrazioni di dimensioni epocali ma, «tra il 2005 e il 2008», sono responsabili anche degli «aumenti dei generi alimentari: dal 70% del riso al 130% del grano»; infine, la quantità di «denaro illecito» depositato nelle cosiddette «isole del tesoro» ammonta a circa 20 trilioni di dollari, un terzo del Pil mondiale.

L'evanescente mediazione

Di pari passo, la politica ha reso competitivi paesi terzi, la cui concorrenza è ora utilizzata dalle classi dirigenti sia per rivalersi sui lavoratori, facendo pagare loro il prezzo della crisi che esse hanno prodotto, sia per metterli gli uni conto gli altri aumentando le divisioni interne esistenti. Gallino non ha torto quando dice che da trent'anni almeno i sindacati sono sotto attacco, ma non si può negare che in quest'arco di tempo essi abbiano contribuito a creare le condizioni per il loro discredito, schierandosi per ogni controriforma del lavoro (compresa l'attuale) con l'illusione che il piano della mediazione fosse strutturale anziché il frutto della lotta di classe, abbandonata la quale anch'esso si sgretola. Come diceva il filosofo matto, la «teoria marxista dell'abbassamento tendenziale del tasso di profitto è, in realtà, una teoria dell'aumento tendenziale della lotta di classe» ed è quindi sbagliato «ridurla a semplici effetti finanziari, contabili», dato che, al contrario, «è profondamente politica». Le divisioni tra lavoratori del Sud e del Nord del mondo, ad esempio, i sindacati non le vogliono affrontare. Delocalizzazione, contenimento del costo del lavoro, sfruttamento dei migranti, esplosione della precarietà sono fenomeni che, spesso, i sindacati hanno supportato, anziché combattere; lo stesso dicasi per la finanziarizzazione dei fondi pensione che spiega, almeno in parte, l'acquiescenza di molti lavoratori.

A fronte di un'analisi accurata e cruda, il punto debole del discorso di Gallino, debolezza che emergeva già nel precedente Finanzcapitalismo (Einaudi), è la ricerca di un «socialismo appropriato al XXI secolo». Una ricerca che si muove dentro un orizzonte statalistico, immaginando un'Europa politica basata sul modello socialdemocratico di welfare state, lontano dalla «Terza via», anziché su quello statunitense, e il cui primo compito è dare rappresentanza alle istanze del riformismo benecomunista, «un soggetto senza progetto» (Rossana Rossanda), il cui intento sembra quello di curare il cancro con l'omeopatia. Una prospettiva riformistica che, pur non essendo un male in sé, sconta l'illusione di voler praticare ancora un piano concertativo e conciliativo tra capitale e lavoro, una prospettiva che perfino Adam Smith, non un pericoloso comunista, riteneva impossibile, tanto più se «i governi dell'Unione europea stanno preparando un'altra grave crisi industrial-finanziaria che arriverà purtroppo presto».

La gabbia da distruggere

Forse, non è il caso di disperare se da molti anni ormai, da Craxi ad Amato, da Dini a Prodi, da Berlusconi a Monti & Co., la cui idea di equità è «Libertà, Eguaglianza, Proprietà e Bentham» (come diceva Marx), cioè il mercato, per tutti, viene mostrato che la lotta di classe dei padroni produrrà un ulteriore e voluto impoverimento della working class. Se, infatti, il Pil mondiale annuo è, oggi, di 65 trilioni di dollari e quello finanziario di 240 trilioni (mentre intorno al 1980 si equivalevano: 27 trilioni) e per «sradicare la povertà estrema e la fame» basterebbero un centinaio di miliardi, che non si trovano perché «i paesi ricchi sostengono di avere le casse vuote» è chiaro, come disse James Wolfensohn (ex presidente della Banca mondiale) che «la civiltà è giunta alla fine». A identica conclusione si arriva sapendo che i paesi europei hanno speso circa 3 trilioni di dollari per salvare le banche e che ora, per risanare i bilanci, tagliano il welfare state.

Ma questa civiltà, sempre moribonda (come lo Stato e la società), continuerà a fare immensi danni se la working class non riuscirà a passare da una classe che esiste oggettivamente, quale prodotto inevitabile del modo di produzione capitalistico, a una classe che esiste anche soggettivamente perché capace di organizzarsi e agire politicamente in modo autonomo. Il passaggio non è scontato e che si risolva nell'istituire uno o più partiti capaci di dare rappresentanza lo è ancora di meno.

Non si tratta di essere per forza massimalisti o concertativi. Ma se è vero che il governo Monti ha la fiducia di più di metà degli italiani, siamo ben lontani da una forma benché minima di consapevolezza della stretta globale in cui ci troviamo, stretta che rischia di diventare un destino: la weberiana «gabbia d'acciaio» che va distrutta se ci si vuole davvero occupare delle persone.

Giuseppe Vacca, Vita e pensieri
di Antonio Gramsci (1926-1937), Einaudi, pagine XXII 370 euro 33,00

La vita e i pensieri di Antonio Gramsci di Beppe Vacca poggia su un lungo percorso di ricerca e in quanto tale riprende lavori già pubblicati e presenta nuovi sviluppi; in entrambi i casi la trattazione sistematica di quelli che possiamo considerare i temi e i nodi cruciali della biografia personale, intellettuale e politica di Antonio Gramsci nell’ultimo decennio della sua vita, cioè negli anni del carcere, offre un grande contributo alla ricostruzione della sua vicenda e del suo pensiero e alla conservazione e alla trasmissione del suo patrimonio. Il titolo del libro è preciso: la vita e i pensieri (al plurale) di Antonio Gramsci si intrecciano. La parola carcere nel titolo non compare, ed effettivamente possiamo pensare che la grandezza di Gramsci abbia travalicato il carcere, ma è anche vero che egli non trascorse in carcere tutti gli anni fra il 1926 e il 1937: fu prima confinato, poi recluso, quindi detenuto costretto in un letto di ospedale; ma sappiamo che carcere fu.

La lettura è giustamente centrata sulla corrispondenza, perché, al di là di pochi colloqui, soltanto attraverso questa poteva passare la comunicazione, ma in alcuni casi l’analisi usa altre fonti e si estende ai Quaderni (come nell’esame del dissenso di Gramsci rispetto alla svolta del 1928-29 e del significato della sua proposta della Costituente, che, secondo Vacca, che le dedica uno spazio molto più ampio di quanto non avessero fatto precedenti studiosi, rappresenta il punto di confluenza di una serie di elaborazioni cruciali sviluppate nei Quaderni: l’idea che la democrazia e non la rivoluzione fosse il terreno su cui combattere la battaglia per la conquista dell’egemonia). Ma lo studio e la comprensione della vicenda di Gramsci negli anni fra il suo arresto e la sua morte richiedono la considerazione di un numero notevolissimo di piani diversi: il piano del rapporto di amore e di condivisione politica con sua moglie Giulia, le loro condizioni di salute, le sue riflessioni sul movimento comunista e sulle relazioni fra politica nazionale e sviluppo economico mondiale, la preparazione delle istanze relative alla riduzione della pena in seguito alla concessione di amnistie e indulti, l’accesso alla liberazione condizionale, i tentativi di ottenere la libertà attraverso una trattativa fra governo sovietico e governo italiano... fino al destino dei Quaderni dopo la sua morte.

Un merito del libro è nella capacità di renderne l’unitarietà senza cadere nella piattezza espositiva e dando specifico rilievo ai singoli elementi.

Questo avviene essenzialmente individuando una chiave di lettura principale secondo cui la dimensione politica è sempre presente nei pensieri di Gramsci e, di conseguenza, nelle informazioni che trasmetteva ai suoi interlocutori diretti e indiretti. L’insistenza e la coerenza con cui, nel corso degli anni, Gramsci ha riaffermato la propria determinazione a non compiere gesti che potessero apparire come cedimenti al regime fascista è un elemento al tempo stesso cruciale e rivelatore di tale centralità. Ovviamente tali contenuti politici non potevano che essere nascosti e convogliati attraverso codici, perché dovevano raggiungere i destinatari superando la censura carceraria ed eventuali letture da parte di soggetti diversi dai destinatari desiderati. E lo stesso valeva per le lettere dei suoi interlocutori, che erano scritte sotto gli stessi vincoli.

CERCARE I MESSAGGI

Tutto ciò moltiplica le difficoltà di interpretazione e di ricostruzione. E fra queste difficoltà si deve anche considerare il fatto che ognuno dei soggetti coinvolti Antonio Gramsci e Giulia in primo luogo potevano essere condizionati anche emotivamente dalle circostanze restrittive in cui la loro comunicazione era costretta. D’altra parte questa chiave di lettura non può essere generale, perché la comunicazione non affrontava solo temi politici, anche se nel caso di Gramsci ed egli ne è consapevole quasi ogni gesto poteva assumere un significato politico e molte questioni dovevano comunque essere comunicate con la massima cautela. Di qui l’esigenza indicata da Vacca di ricercare i codici dietro cui il vero contenuto delle comunicazioni poteva essere nascosto e di interpretare allusioni, riferimenti e oscurità con questa consapevolezza, ma anche attraverso una valutazione circonstanziata caso per caso.

Dato questo contesto, l’autore riesce ad illuminare una molteplicità di episodi e di frasi che altrimenti potrebbero restare avvolti in una nebbia di incomprensione e stabilisce dei parametri di lettura che si potranno porre alla base di ulteriori ricerche e da cui, anche non condividendoli, non si potrà prescindere. Così, ad esempio, viene interpretato il significato della prima lettera (19 marzo 1927) in cui Gramsci presenta un programma di studio per il periodo che si preparava a vivere in carcere. Secondo Vacca, quel programma, in quel momento, non poteva essere un vero piano di lavoro, e, anche se lo era, poteva essere utilizzato per influenzare l’atteggiamento dei giudici e come prova della disponibilità di Gramsci, se liberato attraverso una trattativa fra il governo sovietico e il governo italiano a non svolgere attività politica.

Inoltre, interpretato come un codice, comunicava a Togliatti l’intenzione di continuare a sviluppare in termini più generali, attraverso un’analisi teorica rigorosa e radicale che soltanto ironicamente si poteva dire disinteressata (così vanno intese le espressioni con cui Gramsci descriveva il tipo di studio a cui si proponeva di attendere e in effetti, se consideriamo il testo della poesia di Giovanni Pascoli Per sempre a cui Gramsci sembra fare riferimento, non possiamo pensare che egli volesse svincolare la sua analisi dalla concretezza dei processi storici), le posizioni politiche che era venuto elaborando nel corso del 1926 e su cui con Togliatti si era scontrato e che lo avevano portato ad esporre alla dirigenza sovietica la propria eterodossia. Il fatto poi che su quel piano di lavoro egli chiedesse a Tatiana Schucht di esprimere un parere, viene inteso da Vacca come una ulteriore indicazione di come il messaggio fosse rivolto al suo partito e a Togliatti in particolare, chiedendo alla cognata di assolvere ad un difficile e delicato compito di comunicazione politica.

La possibilità di essere liberato attraverso un intervento del governo sovietico e una trattativa diretta fra stati viene indicata da Vacca come una preoccupazione costante di Gramsci fin dall’inizio della sua de-

tenzione: molte delle sue comunicazioni vengono lette in questa chiave e la famigerata lettera inviatagli da Ruggero Grieco nel febbraio del ’28 viene interpretata come un grave ostacolo frapposto al concretizzarsi del primo tentativo in tal senso. A questa lettura si collega poi la reinterpretazione compiuta, come in altri casi, alla luce di documenti fino a pochi anni fa non conosciuti e di un’acuta rilettura di documenti già noti del ruolo svolto dal giudice istruttore Enrico Macis nell’inchiesta che avrebbe portato al processo davanti al Tribunale speciale. Solitamente Macis era stato rappresentato come capace di carpire la fiducia di Gramsci e di ingannarlo sulle sue vere intenzioni; secondo Vacca, al contrario, l’operare di Macis non ebbe tali caratteristiche, seguì diverse fasi scandite da ordini provenienti dalla segreteria di Mussolini e rappresentò un tramite attraverso cui Mussolini volle mantenere aperto, almeno fino ad una certa fase, uno speciale canale di comunicazione (o piuttosto di interrogazione) con Gramsci, probabilmente perché interessato a valutare la possibilità di scambiarlo per ottenere vantaggi sia in termini di rapporti di forza interni sia in termini di posizione internazionale e di rapporti con l’Unione Sovietica.

LA PEDINA DEL GIOCO

In questo gioco di rapporti fra stati la posizione di Gramsci non poteva essere altro che quella di una pedina, ma ciò non gli impediva di valutare lucidamente la sua situazione e di cercare di sfruttare le opportunità che anche in tale contesto si potevano presentare, pur mantenendo sempre ferma, dall’arresto alla morte, la determinazione a non compiere alcun atto che potesse essere interpretato o contrabbandato come un cedimento al regime e in tal senso si possono leggere le affermazioni esplicite contenute in lettere di Gramsci o nelle comunicazioni dei familiari che furono in contatto con lui: la cognata Tatiana e i fratelli Gennaro e Carlo. A questo proposito si può aggiungere che la disponibilità a non impegnarsi nell’attività politica a fronte della liberazione, se fu davvero espressa, in codice, in una lettera del 1927, in realtà, nel momento in cui gli si aprì la possibilità di chiedere la liberazione condizionale, cioè nel 1934, Gramsci non la confermò anzi, appare molto probabile che, se richiesto di sottoscriverla, l’avrebbe rifiutata. Infatti, la dichiarazione che Gramsci effettivamente sottoscrisse riguardò solo l’impegno a non fare un utilizzo politico del provvedimento di liberazione condizionale che gli veniva concesso.

Il nuovo volume di Richard Sennett è emblematicamente titolato «Insieme». Dopo la riscoperta delle virtù dell'uomo artigiano, la posta in gioco per sopravvivere al capitalismo flessibile serve infatti apprendere la cooperazione e la condivisione delle poche risorse per vivere in società

Il «flâneur del sapere» si aggira per biblioteche e per la Rete. Legge una pagina, visita un sito Internet, appunta alcune righe per poi passare, con voracità, ad altri brani e nodi della Rete. È alla ricerca della soluzione a un problema contingente. È un pragmatico che non si fa distrarre da nulla, perché ha un compito, meglio una vision che lo guida nelle sue peregrinazioni Non ha dunque nessuna delle caratteristiche dell'inoperoso viandante metropolitano descritto da Walter Benjamin. In questo Insieme (Feltrinelli, pp. 331, euro 25) Richard Sennett non si limita ad addomesticare la figura del flâneur, ma lo accosta all'artigiano, parola chiave scelta dal sociologo statunitense per descrivere una via d'uscita dal darwinismo sociale che caratterizza il capitalismo contemporaneo.

Il flâneur artigiano si avvicina così a un problema con cautela; lo analizza, pondera tutte le alternative per poi scegliere la migliore soluzione, secondo una strategia incentrata sulla cooperazione con i suoi simili, prevenendo così conflitti distruttivi. Non è detto che la soluzione trovata sia innovativa; può accadere infatti che venga riproposto il già noto. Nella sua attività, la mano non è mai separata dalla mente, mirabile ricomposizione tra lavoro intellettuale e manuale che il capitalismo ha ferocemente separato nel processo lavorativo moderno.

Congedo dalla tradizione

Come scrive la scrittrice Antonia Susan Byatt ne Il libro dei bambini (Einaudi), mirabile storia del socialismo utopico inglese, l'artigiano plasma la materia, provando a esprimere una tensione artistica che, oltre allo stile, sia funzionale rispetto l'uso del manufatto. L'uomo artigiano è un artista che ha un'attenzione maniacale alla pragmatica dell'oggetto. Ma se questo apparteneva al passato prossimo della modernità capitalistica, nel presente l'artigiano è il designer, il programmatore informatico e l'operaio che lavora in un'organizzazione produttiva che ha preso congedo dall'organizzazione scientifica del lavoro a favore del lavoro di squadra. C'è però il sospetto che il flâneur-artigiano, più che griglia analitica per analizzare i rapporti tra capitale e lavoro vivo sia in realtà un metadiscorso, disincarnato dai rapporti sociali dominanti, per indicare il soggetto centrale di una proposta politica per avviare una lenta trasformazione del capitalismo. Sospetto rafforzato dal fatto che questo libro di Sennett è il secondo appuntamento di una trilogia iniziata, appunto, con la pubblicazione dell'Uomo artigiano (Feltrinelli). A differenza del primo volume, tuttavia, Insieme è un libro che ha una struttura labirintica, dove il rischio di perdersi è molto alto, nonostante una prosa che ricorda più un romanzo storico che non un saggio sociologico.

L'avvio di questa seconda puntata del «Progetto Homo Faber» è dedicato alle differenze presenti nel movimento operaio delle origini, stabilendo l'esistenza di due tradizioni opposte. La prima è esemplificata dalla socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento, un partito operaio interessato a un superamento del capitalismo attraverso la conquista del potere politico (e dunque dello stato). La seconda tradizione, la sinistra sociale, è quella che ha puntato a risolvere i problemi contingenti degli operai. È la sinistra degli attivisti sociali, legata alla comunità operaia, che organizza mense, scuole, cooperative di consumo. Tradizione minoritaria, ma che può prendersi la sua rivincita dopo il fallimento del socialismo reale e della socialdemocrazia.

Il lettore avvertito non ha difficoltà a trovare echi di una discussione anche italiana. Ma nella narrazione di Sennett, cha ha la sua origine dal Museo della questione sociale inaugurato a Parigi durante l'esposizione universale, non c'è spazio per il conflitto di classe, né è scandita da vittorie e sconfitte, bensì da pratiche sociali che vogliono, pragmaticamente, modificare i rapporti di forza tra le classi presenti nella società capitalistica a partire dal mutuo soccorso e dalla ricostruzione di legami sociali che lo sviluppo capitalistico distrugge. Per fare questo, gli attivisti sociali sanno che devono rafforzare la personalità di chi è messo ai margini o in una condizione di sottomissione dallo sviluppo capitalistico, creando reti di solidarietà e di condivisione delle risorse, attraverso tecniche di collaborazione, dove le relazioni vis-à-vis svolgono un ruolo preminente rispetto alle logiche dell'organizzazione politica, dove la specializzazione e la divisione del lavoro danno luogo a una gerarchia che alimenta il risentimento dei rappresentati nei confronti dei rappresentanti. Da qui la centralità della diplomazia, cioè di quel lavoro dialogico per far sì che non venga meno la relazione tra soggetti antagonisti. (Nel libro ci sono pagine molto belle di analisi del quadro «Gli ambasciatori» del pittore cinquecentesco Hans Holbein). E se nelle relazioni tra stati, la diplomazia ha propri codici, per la «diplomazia dal basso», cioè quella esistente all'interno della classe operaia e tra questa e le forme politiche statali decentrati - le amministrazioni comunali e le istituzioni del welfare state - è necessario elaborare codici linguistici e comportamentali specifici.

La triade della sinistra sociale

La sinistra sociale deve quindi attingere a saperi specialistici - la psicologia sociale - o riscoprire i testi dedicati appunto al lavoro artigiano. Meglio deve fare proprie le categorie che hanno scandito i rapporti all'interno dei laboratori artigianali, cioè il talento, il merito, la fiducia, parole che attengono più alle teoria dell'organizzazioni produttive che non a una dimensione politica. In altri termini l'attivismo politico deve produrre «sociabilità», che non va confusa con la socialità, perché indica l'apprendimento alla convivenza con l'Altro.

Sennett prima di diventare un sociologo ha per molto tempo inseguito il sogno di diventare musicista e per esemplificare le pratiche politiche di una rinnovata sinistra introduce l'immagine dell'orchestra, dove c'è sì un direttore e una divisione del lavoro, ma all'interno del quale le differenze non sono cancellate da nessun interesse generale, bensì sono valorizzate in una dialettica che oscilla tra cooperazione e competizione, proprio come avveniva nei laboratori artigiani. Solo così si riesce a contrastare l'«effetto tartaruga» che i singoli sperimentano nelle metropoli contemporanee. Costretti a condividere uno spazio, i singoli tendono infatti a ritirarsi dalla vita pubblica, ripiegando in un individualismo dove la «corrosione del carattere» è l'esito di un capitalismo che ha rinunciato, in nome di un profitto a breve termine, ad essere un progetto di società certo gerarchico ma tuttavia inclusivo. Per questo, annota Sennett, «la collaborazione dialogica è la nostra meta, il nostro Santo Graal».

Dunque, cooperazione, diplomazia del basso, mutuo soccorso per ricostruire il legame sociale. Obiettivo a portata di mano, al punto che lo studioso statunitense non ha molti problemi a evocare la guanxi cinese, cioè quelle reti sociali incardinate sul rispetto, la reciprocità che consentano ai cinesi della diaspora di sentirsi a «casa propria» in ogni posto decidono di vivere. Poco importa se la guanxi ha ben poco a che fare con la libertà, l'eguaglianza e la solidarietà, cioè i tre punti cardinali di una sinistra sociale degna di questo nome. Cinonostante, la guanxi è, per Sennett, la condizione necessaria di una politica della trasformazione che prende definitivamente congedo da quelle tradizioni del movimento operaio che hanno cercato di cambiare il mondo, ma che hanno fallito nel loro obiettivo.

Testo dunque politicamente ambizioso, questo Insieme ma facile da criticare. La critica non può però partire da una difesa di quelle tradizioni politiche sconfitte. Più realisticamente, l'«uomo artigiano» di Sennett, con la sua antropologia ottimista scandita da cooperazione, condivisione e reciprocità, più che un soggetto critico del capitalismo flessibile è un ordine del discorso teso a ripristinare una idea di comunità e di relazioni sociali complementari, ma non antagoniste ai rapporti sociali dominanti. Relazioni sociali che si diffondono come un virus fino a far diventare il capitalismo un residuo destinato a scomparire. I limiti della lettura di Sennett stanno però nell'assenza di una teoria del Politico adeguata ai rapporti sociali dominanti.

Il Politico, infatti, non è un corpo estraneo ai rapporti sociali. Ne è parte attiva, laddove attiva, sia a livello nazionale, che sovranazionale, forme di governance, cioè su una «diplomazia dal basso» dove la collaborazione dialogica rafforza i legami comunitari su base locale al fine di riprodurre l'ordine esistente. L'assenza di una teoria del Politico, e dunque del rapporto sociale dominante, rende la proposta di Sennett di stare Insieme espressione di un «debole volontarismo». Sia ben chiaro, nessuna nostalgia per qualsiasi tipo di autonomia del politico. Semmai la necessità di avere piedi e testa saldamente ancorati in una realtà dove l'espropriazione della ricchezza avviene nel processo produttivo e nei processi produttivi di, per usare il lessico di Sennett, sociabilità. La malinconia o il suo fratello gemello, l'ottimismo della volontà, è meglio lasciarla ai cultori del legame sociale e delle figure nobili, ancorché interstiziali dell'«uomo artigiano».

La rivista CNS Ecologia Politica era nata nel filone dell'interesse suscitato da Capitalism Nature Socialism. A journal of socialist ecology, la rivista trimestrale pubblicata a partire dal 1990, da James O'Connor in California, al fine di cercare una risposta alla domanda: è il capitalismo compatibile con la difesa dei valori, naturali ed umani, associati alla difesa della natura? può il socialismo offrire indicazioni e strumenti teorici e politici per uno sviluppo umano in una natura sempre più alterata dalle attività antropiche? Sullo stesso problema erano sorte, negli stessi anni, la rivista spagnola Ecologia politica diretta da Joan Martinez Alier e quella francese, Ecologie politique, diretta da Jean Paul Deleage.

Nel 1991 Giovanna Ricoveri (che di O’Connor aveva tradotto e presentato il volume Ecomarxismo, Datanews), decise di avviare e curare la pubblicazione, con vari titoli, ma sempre con la stessa linea culturale e ideale, di una equivalente versione italiana. Capitalismo Natura Socialismo/Ecologia Politica fu pubblicata su carta per tre anni (anno 1, 1991; anno 3, 1993, numeri 1-9) con una società editoriale del quotidiano l manifesto), poi come CNS Ecologia Politica (anno 4, 1994; anno 7, 1997, numeri 10-21), con la casa editrice Datanews. Con lo stesso titolo la rivista è stata "pubblicata" (anno 8-10, 1998-2000, numeri 22-28) in Internet.

Le annate 11, 2001 (numeri 29-40) e 12, 2002 (numeri 41-51) sono apparse, sempre col titolo CNS Ecologia politica, come fascicoli mensili inseriti (in genere nell'ultima domenica del mese, un po' nella tradizione dei giornali socialisti degli ultimi anni dell'Ottocento e dei primi anni del Novecento) nel quotidiano Liberazione. Finita questa collaborazione (che, a mio parere, aveva fatto bene anche a Liberazione) altri tre numeri sono stati pubblicati in Internet negli anni 2003-2004 col titolo CNS Ecologia Politica.

Alcuni dei saggi apparsi nei vari numeri di CNS sono stati pubblicata come antologia con lo spiritoso titolo “I giovedì”, un giovedì del mese per volta, in forma telematica. Una antologia di altri scritti apparsi in sulla rivista è stata curata da Giovanna Ricoveri e stampata col titolo Capitalismo Natura Socialismo, dall’editore Jacabook di Milano nel 2006.

L’instancabile Ricoveri ha continuato a pubblicare, sotto la bandiera “Quaderni di CNS”, i volumi: Agri-cultura, Bologna, EMI, 2006, con una raccolta di saggi che mettono in evidenza gli aspetti colturali e culturali dell’agricoltura e delle attività ad esse correlate, poi “Beni comuni fra tradizione e futuro”, Bologna, EMI, 2007, poi Beni comuni vs. merci, Milano, Jacabook 2010.

Per quei misteri a cui dobbiamo essere preparati, il sito www.ecologiapolitica.it alla fine del 2011 è scomparso ed è stato assegnato ad altri che con CNS non hanno niente a che fare. Per quegli altri (per me) misteri e anzi miracoli, degni di essere osservati con meraviglia, che sanno fare gli informatici, Giovanni Carrosio è stato capace di recuperare, per Giovanna Ricoveri (e per la felicità di molti di noi), tutto il materiale esistente e di renderlo accessibile nel nuovo sito www.ecologiapolitica.org. Restano difficilmente accessibili, ormai rarissimi, i primi fascicoli cartacei della rivista, sopravvissuti in alcune biblioteche pubbliche.

Ho usato parole un po’ enfatiche per la resurrezione dei saggi perduti perché il materiale ora tornato leggibile costituisce, a mio parere, una straordinaria documentazione sul pensiero, sulle lotte, sulle speranze che sono circolate intorno all’”ecologia” dalla fine degli anni sessanta del Novecento ad oggi. Vi si trovano saggi su Mumford, sulla Carson, sul Club di Roma e sui “Limiti alla crescita”, della e sulla Laura Conti, sulle battaglie contro l’inquinamento, le armi nucleari e le centrali nucleari, sui bacini idrografici e sull’acqua. Sugli stessi argomenti sono apparsi, nel mezzo secolo trascorso, innumerevoli articoli e sono circolate anche tante chiacchiere, ma credo di poter dire che solo su CNS/Ecologia Politica tali argomenti sono stati analizzati con attenzione “politica”, nei loro rapporti con le donne e gli uomini, con la società, il lavoro, i partiti politici, la pace. Insomma chi vuol capire che cosa è stata il grande movimento culturale e politico dell’”ecologia”, al di là delle frivole mode, ha di che leggere con profitto.

E se fossero proprio i radicali, a dispetto dell' etichetta che li inchioda, i fautori di una vita individuale e collettiva più sobria, più misurata, più moderata? E i moderati, invece, i sostenitori di un ordine economico e sociale votato alla competizione, all'eccesso, all'estremismo? È il doppio quesito che corre lungo le centosettanta pagine di Elogio della radicalità, un saggio dello storico Piero Bevilacqua che propone di ribaltare una questione partendo dal nome delle cose e arrivando alle cose stesse. E che si offre come una riflessione per molti aspetti spiazzante sulle cause profonde della crisi, «anche se il vero volto di certo capitalismo l' abbiamo visto a prescindere dalla crisi», dice lo studioso che da tempo indaga gli effetti sull' ambiente, i paesaggi e le risorse naturali di scelte politiche ed economiche.

L' elogio della radicalità come l' elogio della follia di Erasmo da Rotterdam? «Erasmo contrapponeva un modo di pensare ragionevole, fondato sul buon senso al dottrinarismo astratto. Nel nostro tempo il dottrinarismo astratto pretende che il mercato aggiusti da sé ogni cosa e che compito della politica sia di oliare la macchina». E i moderati, lei dice, sostengono questo assetto? «Assumono i rapporti di forza esistenti come un dato di realtà immodificabile. Ma che cosa c' è di moderato nella pretesa delle imprese di avere prestazioni sempre più intense dai dipendenti, i quali sono sempre più precarizzati? E che cosa nella spinta a un consumo senza limiti, pur che sia, che divora risorse e che porta dissesti nei complicati equilibri del pianeta?» E sarebbe questo il vero estremismo? «È estremista l'ideologia di una società fondata sulla competizione ossessiva. Noi abbiamo conosciuto la torsione berlusconiana del moderatismo, che era estremismo allo stato puro. E non parlo dei comportamenti sessuali, ma dello stravolgimento di ogni regola istituzionale».

E il radicalismo, invece? «Chi viene definito radicale ha una prospettiva rovesciata. Propugna la riduzione degli sprechi, individuali e collettivi. Combatte la bulimia distruttiva di risorse, la mortificazione dell' operosità ridotta a merce. Insomma valori che recuperano la base etimologica del moderatismo, il latino modus, misura». È la decrescita teorizzata da Serge Latouche, che tante polemiche solleva. « Non credo molto nella praticabilità politica di alcune tesi di Latouche. Ma del suo messaggio mi convincono il rifiuto del consumismo compulsivo e di una crescita illimitata che sperpera suolo, natura, biodiversità, cioè i patrimoni su cui è vissuta l' umanità. Quello di Latouche è comunque un linguaggio moderato».

Lei sostiene che questo capitalismo avrebbe perso capacità egemonica. «Il capitalismo è il primo sistema economico portatore di egemonia, non solo di dominio. Cattura consenso, dicevano già Marx ed Engels. Ma ora cedono entrambi i pilastri su cui si è retta questa abilità, la stessa che gli ha consentito di vincere il comunismo alla fine del XX secolo. E cioè la capacità di produrre ricchezza come nessun altro sistema nella storia umana, una capacità smentita ancor prima della crisi: sono aumentate le disuguaglianze, la ricchezza è nelle mani di sempre meno persone e nel 2000 nei paesi Ocse c' erano 35 milioni di disoccupati, senza contare i precari».

E il secondo pilastro? «La liberazione dell' uomo, trasformata in un individualismo patologico. Zygmunt Bauman e schiere di filosofi denunciano l' infelicità prodotta dalla malattia esistenziale di uominie donne spinti a fare da sé, a scollarsi dalla società. Ormai dilaga la letteratura medica sui malesseri che affliggono i ceti alti, prodotti da frustrazione e da assorbimento totale nel proprio ruolo lavorativo. All' inverso si camuffa la precarietà con la creatività, provocando lo sbriciolamento dell' identità individuale. Storicamente il capitalismo ha sempre promesso un miglioramento costante della condizione umana, attraverso sia il lavoro, sia il progressivo accorciamento dei suoi tempi. Ora entrambi vengono negati.

E con essi ogni promessa di felicità, il che non produce più consenso». È una crisi di sistema, dunque? «La crisi dell' egemonia, non è la crisi del dominio. Si comanda, ma senza consenso, promuovendo anche forzature nelle regole democratiche». Lei dedica un capitolo a grandi opere e piccole opere. Estremiste le prime, moderate le seconde? «Chiunque studi le grandi opere del passato riconosce l' ammirevole sforzo di infrastrutturare un paese moderno e industriale. Tuttavia: quand' è che finisce l' infrastrutturazione massiccia di un paese? Per questo capitalismo, mai. Le grandi opere sono uno dei modi in cui esso funziona. Si cercano aree da utilizzare per profitti a prescindere da altre valutazioni». Lei è contro la Tav? «Non ci possiamo permettere una gigantesca opera che concentra enormi capitali e lavoro in un piccolo pezzo d' Italia mentre poco si destina per riparare il nostro territorio nel suo complesso, unico per fragilità e debolezza strutturale, un territorio completamente rifatto nei secoli». Che cosa vuol dire rifatto? « La pianura padana è opera dell' ingegneria umana, dalle bonifiche dei benedettini nel medioevo a quelle degli Stati regionali e dello Stato unitario. Gran parte del ferrarese è tenuta asciutta dalle macchine idrovore. E le opere d' artificio necessitano di cure costanti. Eppure la pianura padana è una delle parti più stabili del paese, nonostante le minacce del Po e l' intensità del costruito, se paragonata ai versanti montuosi, dalla Liguria alla Sicilia. Possiamo veder franare tutto questo territorio oltre quel che è già franato? Un tempo i contadini controllavano le acque, curavano scoli e rogge, rimboschivano. Ora i terreni sono abbandonati. Il 66 per cento della popolazione è insediata nelle fasce costiere. E il cemento sottrae suolo all' assorbimento di piogge sempre più intense e concentrate su porzioni limitate di territorio».

E che cosa c' entra questo con la Tav? «La Tav non è una priorità. Una manutenzione costante e diffusa mette in sicurezza il paese e crea sviluppo nelle aree interne soggette all' abbandono: attività forestali, pescicoltura, allevamento di selvaggina, agricoltura che valorizzi biodiversità, agricoltura non solo per produrre, ma per la ricreazione, l' assistenza sociale. Spesa pubblica è quella per la Tav, spesa pubblica anche questa, che però alimenta iniziativa privata». Esiste una tradizione italiana in questo genere di opere? «Basterebbe ricordare la secolare opera di ingegneria idraulica volta a conservare l' equilibrio della laguna di Venezia. Ma una eccellente lezione viene dalle cosiddette bonifiche integrali, elaborate negli anni Venti del Novecento da Arrigo Serpieri e da altri. Si prosciugavano i pantani e si costruivano i villaggi, le strade, si dava la terra ai contadinie li si istruiva. Le singole opere non resistevano, bisognava realizzare comunità».

Propongo una rilettura di Ivan Illich del lontano 1978 (Disoccupazione creativa, riedito da Boroli, 2005): «Il vocabolo crisi - scriveva - indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i Paesi diventano casi critici. Crisi, parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire "scelta" o "punto di svolta", ora sta a significare: "Guidatore dacci dentro!" Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di manodopera e di tecnica gestionale». Come non vedere che è proprio così? Creare un'emergenza, provocare un pericolo catastrofico (il default, la disoccupazione, la Grecia) per annullare i diritti, ribadire il dominio della ragione economica dell'impresa e intensificare le forme di sfruttamento, concentrare il potere economico-finanziario. Del resto sono le stesse persone che prima hanno creato la crisi dai loro posti di comando nelle istituzioni bancarie private che ora sono chiamate a "mettere ordine" nei conti pubblici. Il loro vero obiettivo: impadronirsi anche delle casse degli stati, dei flussi fiscali, dei beni demaniali. Quando il mondo è sovrastato da una montagna di debiti pericolanti, coloro che manovrano il denaro diventano sempre più potenti e temuti. I tecnocrati alla guida del sistema finanziario possono giocare a piacimento, con qualche telefonata tra amici, sugli spread, sui tassi di interesse, sulle valute... mettendo con le spalle al muro prima l'uno, poi l'altro governo. L'obiettivo è garantire comunque che i rendimenti dei capitali siano pagati a sufficienza. Tutto il resto - i livelli di occupazione e dei salari, il funzionamento dei servizi pubblici e alle persone, l'istruzione e la sanità - non interessa nulla. I possessori dei titoli del debito sono la nuova classe padrona.

Ancora Illich: «La crisi come necessità di accelerare non solo mette più potenza a disposizione del conducente, e fa stringere ancora di più la cintura di sicurezza dei passeggeri; ma giustifica anche la rapina dello spazio, del tempo e delle risorse». La "crescita" è il nuovo falso mito. Tutti sanno in cuor loro che non ci potrà più essere (almeno in questa parte del mondo e nelle misure promesse) ma funziona come fattore sociale disciplinante: se non lavori di più a più buon mercato e con meno tutele sei nemico dell' "interesse generale".

La "crescita" è il nuovo patriottismo che dovrebbe mobilitare le masse nella guerra competitiva tra le diverse aree economiche del pianeta globalizzato dal capitale finanziario. Loro (gli investitori, i possessori dei titoli di credito) possono muoversi e fare business dove meglio credono, mentre i lavoratori territorializzati sono messi in competizione tra loro. Lo chiamano "multipolarismo", si legge "aree speciali di sviluppo", accordi di libero scambio, patti interbancari, ecc. La "crescita" è la nuova falsa religione. Il nuovo nome della vecchia ideologia egemone del produttivismo e dello sviluppismo. Non importa sapere cosa dovrebbe crescere, quali produzioni per rispondere a quali bisogni umani. L'importante è costringere, attraverso il ricatto del licenziamento selvaggio, la gente a lavorare a qualsiasi condizione.

«Così intesa la crisi torna sempre a vantaggio degli amministratori e dei commissari (...) una corsa precipitosa verso l'escalation del controllo», ma Illich scriveva anche: «"Crisi" può invece indicare l'attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all'improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa».

Ha studiato chimica e mineralogia, ma percorre a piedi Calabria e Lucania come un geografo - Dopo essere stato comunista, si muove nel recinto del socialismo liberale - Analizza le bonifiche realizzate negli Usa e l´assistenza pubblica promossa dai democratici - Fra gli interlocutori, Dorso, Salvemini, Einaudi, Spinelli E le soluzioni per il Sud nascono dal confronto con le esperienze internazionali - Esce una raccolta di dialoghi epistolari dell´economista e studioso dei problemi meridionali nel corso di sessant´anni

Una vita per il Sud s´intitola la raccolta di lettere, quasi tutte inedite, che Manlio Rossi-Doria scrisse o ricevette fra il 1930, quando un tribunale fascista lo condannò a 15 anni di carcere, e il 1987, poco prima di morire (la raccolta è pubblicata ora da Donzelli, a cura di Emanuele Bernardi, con una prefazione di Michele De Benedictis). E se c´è uno spazio fisico in cui, lungo tutta l´esistenza, questo economista agrario e intellettuale poliedrico e fuori dagli schemi, riversò ogni passione conoscitiva e politica, e che raccontò con la sua scrittura fattuale eppure limpida e flessuosa, come fosse lo strumento di una grande letteratura di viaggio, questo è proprio il Mezzogiorno d´Italia.

Rossi-Doria non è meridionale (è nato a Roma nel 1905), come non lo sono alcuni fra i più insigni intellettuali che in maniere diverse si iscrivono al partito dei meridionalisti (il piemontese Umberto Zanotti-Bianco, il valtellinese Pasquale Saraceno, il lombardo Eugenio Azimonti, fino al torinese Carlo Levi o al triestino Danilo Dolci). Ma il Mezzogiorno è lo spazio concreto in cui, dagli studi universitari alla morte, Rossi-Doria esercita la "politica del mestiere", così la chiama, che sta a indicare un equilibrio continuamente aggiornato fra il sapere fatto di competenze, analisi, sperimentazione, obbligo di verifica, e lo slancio ideale, non ideologico, che sintetizza nell´immagine di un Sud riscattato dal "muro della miseria".

Rossi-Doria, dopo essere stato comunista, si muove nel recinto del socialismo liberale ed è senza appartenenze. Per otto anni, dal ´68 al ´76, è senatore socialista. La sua militanza, però, è in quello schieramento minoritario, politico e culturale, che eredita dall´azionismo tensione morale e spirito di servizio. In più ci aggiunge un´attitudine alla concretezza che non è mai pragmatismo. Gli interlocutori che compaiono in questa raccolta di lettere danno la misura di una maglia spessa di rapporti, una rete che avvolge Guido Dorso e Ferruccio Parri, Luigi Einaudi ed Emilio Sereni, Lelio Basso, e poi Gaetano Salvemini, Umberto Zanotti-Bianco, Altiero Spinelli, Albert Hirschman, Arrigo Serpieri, il poeta-sindaco Rocco Scotellaro, Francesco Compagna, Eugenio Scalfari, Ernesto Rossi, Claudio Napoleoni, Pasquale Saraceno, Antonio Giolitti, Giorgio Ruffolo. E quindi Norberto Bobbio. Maestri, compagni di strada, amici: con loro intreccia un dialogo mai convenzionale, dal quale si aspetta molto, perché è il dialogo che consente di accertare la bontà di un´idea, quanto essa sia realizzabile.

Dalle lettere a Salvemini, in cui prevede la sconfitta del 18 aprile 1948 («La lotta elettorale nel Mezzogiorno è impostata sulla demagogia e l´inconsistenza più pacchiane»), fino allo sfogo amaro eppure mai disperato dei messaggi a Bobbio, pochi mesi prima di morire («Ci basta continuare a restare al servizio delle giuste cose che abbiamo servito da giovani e, ognuno a modo suo, nel corso della nostra vita»), Rossi-Doria somiglia sempre di più al ritratto che di lui disegna Carlo Levi nell´Orologio, dove compare negli abiti di Carmine Bianco: «Stava a cavallo con un piede sulla politica pura e l´altro sulla pura tecnica, ma questa stessa incertezza gli chiariva le idee, gli impediva di fossilizzarsi in un´abitudine mentale, lo conservava vivo e appassionato».

Il Mezzogiorno Rossi-Doria lo batte palmo a palmo, lo osserva nelle grandi estensioni di latifondo, nelle zone aride e montuose e in quelle della "polpa", dove l´agricoltura offre speranze. Custodisce nella memoria i paesaggi, decifra quanto di naturale essi contengano e quanto invece, molto di più, siano il frutto del lavoro degli uomini. Consulta dati e statistiche e poi attinge al racconto dei contadini. Ha studiato chimica e mineralogia, entomologia e microbiologia, ma quando percorre a piedi la Calabria, la Lucania o l´Abruzzo, è anche geografo. Non si fida delle descrizioni uniformi, delle sintesi confortanti. Delle palingenesi totali. Invita a distinguere i tanti tipi di agricoltura che convivono nelle regioni del Sud. Per realtà diverse invoca politiche diverse. Non c´è problema per il quale non si sforzi di immaginare una soluzione in positivo. Pensa, a dispetto di molti, che l´emigrazione sia un fenomeno da incoraggiare, perché sfoltisce la pressione su suoli che non possono dare benessere a tanti e perché assicura competenze e rimesse in danaro. Ma poi reagisce sdegnato di fronte alle storie degli emigranti abbandonati a se stessi, senza alcuna assistenza, a cominciare dai treni che li portano al Nord come fossero bestie.

Le lettere, attentamente selezionate e curate da Bernardi, offrono tanti materiali per approfondire i suoi giudizi sulla Dc e la Chiesa, sulla riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno, sulla tutela idrogeologica dei versanti appenninici e sul nucleare (al quale si oppone fieramente). Ma molti materiali servono anche a documentare, oltre quel che già si sapeva, quanto Rossi-Doria consideri la "vita per il Sud" una vita che spazia da una dimensione locale, profondamente territoriale, fino ai più produttivi centri di ricerca europei e alle esperienze politiche e di studio che si compiono negli Stati Uniti. Il Centro di specializzazione e ricerche economico-agrarie, una delle migliori eccellenze dell´accademia italiana, fondato a Portici nel 1959, ha il sostegno della Cassa per il Mezzogiorno, ma anche della Ford Foundation e dell´Università di California, dove Rossi-Doria ha soggiornato poco prima di dare avvio a quell´avventura. A Portici economisti, sociologi e antropologi americani avrebbero collaborato intensamente con i colleghi italiani, ha ricordato la storica Leandra D´Antone, che fu sua allieva.

L´attenzione per gli Stati Uniti è di vecchia data. «Hai ragione a pensare che Rossi-Doria sia uno degli uomini migliori dell´Italia di oggi», scrive Salvemini nel 1948 in una lettera ad Arthur McCall, alto funzionario del governo americano. «È un uomo di straordinaria intelligenza e di splendido carattere. Se si pensa che un tale uomo è stato messo fuori uso per il suo popolo con anni di prigione e di confino, si può capire quale disastro sia stato il fascismo per l´Italia». Nel 1951 Rossi-Doria, superando le diffidenze che gravano su di lui in quanto ex-comunista, compie il primo viaggio negli Usa. Studia le bonifiche e i sistemi di assistenza pubblica all´agricoltura, sia tecnica che creditizia, prodotto del New Deal rooseveltiano. Si spinge fino alla Tennessee Valley. Alcuni di quei sistemi lo convincono, altri meno (come documenta D´Antone).

Ma colpisce la sua disponibilità ad apprendere, a confrontare esperienze, rompendo lo schema bipolare imposto dalla Guerra Fredda, come segnala Bernardi in Riforme e democrazia, una biografia di Rossi-Doria uscita nel 2010. Rossi-Doria è attratto dall´America dei democratici, recepisce metodi di indagine, studia le tecniche dell´inchiesta sociale (di cui darà prova raccontando Scandale, piccolo comune del marchesato di Crotone e che gli servirà anche in un progetto abruzzese, insieme ad Angela Zucconi e Leonardo Benevolo). E quando si rilassa, eccolo abbandonarsi all´arte dell´osservazione e del resoconto narrativo: «Un mese dopo, con esperienza fatta più ricca e profonda», scrive a Bob Brand nel dicembre 1951 (la lettera è citata da Leandra D´Antone), «seduto su una bella poltrona del Mark Hopkins Hotel a San Francisco, con la città stupenda sotto gli occhi, i ponti sospesi sulla baia, gli aeroplani nel cielo, il senso dell´oceano di fronte a quello del continente immenso alle spalle, guardando il volo dei gabbiani (...) mi sentivo come un vecchio rispetto ai giovani, cercando di capire e forse incapace del tutto di farlo».

Per riuscire a pavimentare in modo adeguato la proverbiale strada che ci porterà dritti alla dannazione, le buone intenzioni devono innanzitutto essere squadrate, solide, inattaccabili dalle intemperie del ragionamento. Resistere all’evidenza nonostante tutto, così come accade da circa un paio di secoli al termine “verde” e al suo collegamento automatico e ombelicale con la vita, la salute, la giustizia e compagnia bella. Ci immergiamo nel verde, direttamente o portandoci appresso la casa, magari pure la fabbrica o l’ufficio, e ci dimentichiamo non solo i guai che ci siamo lasciati alle spalle dopo l’immersione, ma anche quelli provocati ex novo dal solo fatto di essere atterrati là in mezzo coi nostri piedoni, che lasciano la famosa impronta ecologica. A volte vistosa e inequivocabile, a volte molto meno.

Particolarmente viscido e traditore appare da questo punto di vista il “verde urbano”, che parrebbe davvero una delle cose più inattaccabili, da sempre considerato avanguardia del bene nella sentina del maligno, assai simile alla biblica goccia d’acqua che cadeva sulla lingua dei dannati ad alleviare le loro eterne sofferenze. Verde urbano sono le antiche tenute dei cattivi ricconi, i cui cancelli si sono aperti al popolo dopo le rivoluzioni democratiche, e quindi non tanto teoricamente affondano le radici nel sacrificio dei martiri e nell’anelito a un futuro migliore. Verde urbano sono i piccoli parchi e giardini di quartiere, rivendicazione successiva scientificamente quantificata e introdotta per legge nelle norme urbanistiche a garantire salute, benessere, socialità. Verde urbano sono (forse da molto più tempo dei primi due) i fazzoletti privati che con sacrificio gli abitanti si sono ritagliati attorno a casa propria, per tenerci le aiuole fiorite, o le piantine di fagioli e peperoni, o entrambe le cose se e quando possibile.

Da sempre la cultura urbana e ambientale tiene in gran rilievo il ruolo di questi spazi, specie se inseriti adeguatamente in un contesto più ampio, già ben chiaro sin dagli albori dell’approccio moderno e meglio definito dalla contemporanea dizione di “infrastrutture verdi metropolitane”, cioè sistema a rete che non solo collega organicamente la dimensione dei grandi spazi regionali naturali e agricoli coi quartieri centrali più densi, ma in prospettiva può ribaltare del tutto l’idea di città moderna strutturandola (lo dice la parola stessa “infrastrutture”) non più sulle reti tecniche ma su quelle ecologiche. E qui, proprio qui, entra in campo la questione del rapporto fra buone intenzioni e contenuti reali delle pratiche, o come si diceva all’inizio il rischio che queste buone intenzioni vadano classicamente a lastricare le strade dell’inferno. Ovvero: di cosa sono fatti in realtà quelli che sbrigativamente su una carta si classificano spazi verdi, e ancor più sbrigativamente qualcun altro poi collega a rete con altri a formare un sistema?

Distinguere, quando si parla di cose grosse e vistose, è abbastanza facile. Basta pensare al dibattito internazionale sulle colture geneticamente modificate, il land grabbing, certe pratiche che comportano deforestazione o altro palesemente insostenibili. Un po’ più difficile quando si scende di scala, e qui entra in campo alla grande l’ideologia, l’uso arrotondato delle parole. Ho appena letto un articolo proposto a una rivista scientifica internazionale specializzata in ambiente, in cui il sedicente studioso alla fine di una apparentemente dotta dissertazione sulle greenbelt e l’agricoltura di prossimità metropolitana proponeva questo genere di coltura: agro-carburanti! Come dire, in piena epoca di cultura del chilometro zero, a un tiro di sasso da ricchi mercati urbani che potrebbero assorbire produzioni alimentari biologiche ad altissimo valore aggiunto, qualche sciagurato pensa di sfruttare quelle preziose superfici verdi per un uso che più industriale non si potrebbe. Ma appunto, usa giri di parole, note a piè di pagina, terminologia che pare scientifica. E va contrastata con criteri ancor più stretti.

Ci pensa per esempio una recentissima ricerca, espressamente dedicata alle superfici minori (ma non certo se le consideriamo correttamente come sistema) dei giardini privati: The domestic garden – Its contribution to urban green infrastructure (febbraio 2012). Sgombrando immediatamente il campo da dubbi quando conferma l’ovvio: il termine “verde” non significa assolutamente nulla, se non si verificano gli effetti delle pratiche che si svolgono in quell’ambito. Visto che si tratta di uno studio condotto da un gruppo interuniversitario britannico, mi torna in mente quel racconto di un romanziere britannico residente a Verona, Tim Parks, quando in Vicini italiani raccontava degli orti dietro casa sua a Montorio, quel bel paesaggio “verde” che vede chiunque dirigendosi a est fuori Porta Vescovo. Un paesaggio che a leggere bene era più inquinato di una discarica, saturo delle quantità industriali di diserbanti e concimi chimici riversati da generazioni di villettari molto attenti a produrre magari quintali di ortaggi per tutta la famiglia, ma molto meno agli effetti sull’ambiente delle loro sbrigative tecniche orticole.

Del resto, fate un paio di chiacchiere con qualsiasi vivaista, progettista di giardini, padrone di casa, e vi confermeranno che sì, l’ambiente gran bella cosa, ma se si vuole il prato verde, il pomodoro a sufficienza per fare la salsa in bottiglia ad agosto, la siepe che fiorisce facendo schiattare d’invidia i vicini … Il rapporto dei ricercatori inglesi è espressamente dedicato proprio ai rischi, per nulla teorici, di mescolare il proseguimento di tali pratiche all’idea di piano sottesa alla rete continua delle infrastrutture verdi, potenzialmente assimilabili a micidiali superstrade se al puro disegno spaziale non si sommano organicamente programmi - locali e non - a incoraggiare una maggiore naturalità del verde. Pare una stupidaggine, parlare di programmi per la naturalità del verde, ma in fondo non c’è niente di diverso da tante altre idee del giorno d’oggi, come convincere la gente che l’equazione automobile = spostamenti comodi e veloci è sbagliata. Un obiettivo difficile, viste le premesse, ma come sempre bisogna almeno provarci.

(in allegato qui di seguito il preprint dell’articolo scientifico)

Occupy Wall Street ha qualcosa da dire alla politica di tutto il mondo, non solo alle piazze. Aveva cominciato la primavera araba, si erano aggiunti los indignados a Madrid e i giovani delle tende di Israele, chi abbattendo gli autocrati, chi criticando le democrazie. Si tratta di un «qualcosa», ha commentato il liberal Michael Walzer, «di cui non vedremo presto la fine»: la battaglia contro le crescenti ineguaglianze nelle nostre società. Non è una novità, spiegano economisti come Piketty e Stiglitz, il ciclo capitalistico all´inizio del XXI secolo ripropone i picchi di ineguaglianza dell´inizio del XX. Allora successero disastri, seguiti dalla grande correzione keynesiana e socialdemocratica, durata mezzo secolo. Questo movimento è riuscito a imporre alla politica una domanda: oggi chi la fa la correzione?

E come ci sia riuscito lo si capisce bene se si legge questo Occupy Wall Street (Chiarelettere, pagg. 153, euro 9), di Riccardo Staglianò, un reportage da piazza Zuccotti e dintorni, da leggere senza interruzioni, come un unico piano-sequenza di un film frenetico: dialoghi, seminari, speranze, ideazioni, ritirate, tecniche di organizzazione e tecnologie di comunicazione. Una settimana vissuta con loro, gli inventori di Ows, da Vlad Teichberg, prima trader dall´altra parte della barricata poi creatore di Global Revolution tv, a David Graeber, l´antropologo dello start up teorico del movimento, da Marina Sitrin, avvocato della democrazia diretta, a Kalle Lasn, il direttore della rivista di critica culturale Adbusters , da cui è partita la scintilla.

Staglianò insegue e interroga i protagonisti che ha scovato in rete, infilandosi nella community. Sono testimoni di una società orfana di quella classe media che aveva dato il tono alla società americana, sono la generazione che prova su se stessa come la fiducia nel sistema sia saltata: il credito agli studenti per finanziarsi l´università? Ti costa come quattro Bmw e non ti porta da nessuna parte. È diventato «zavorra mortale», spiega una delle performer di piazza Zuccotti, «tutto ciò che riuscite a ottenere è un bello stage, wow! Così, a 26 anni, vi trovate a lavorare per un´azienda...gratis. Wow, wow!».

Ce la farà un movimento senza un leader e una organizzazione stabile? Jesse Jackson, in visita, ha commentato, con una battuta gelida, che «non avere un leader è un vantaggio perché non c´è nessuno da assassinare». Meglio forse un movimento senza martiri, ma l´ideologia e i programmi? «Pensare divertente», è una prima risposta. E poi? Dalle infinite riunioni e seminari in tenda, non si ricava un programma definito, ma una grande varietà di ispirazioni per colpire l´immaginazione, come gli indimenticabili aeroplanini di carta e i palloncini rossi davanti a Goldman Sachs e Morgan Stanley: «Basta welfare per le corporations». I più ottimisti si affidano all´ipotesi di una ideologia open source, di cui tutti possano servirsi, migliorandola. Il movimento «sta funzionando come un software», un´interfaccia che consente di estrarre informazioni da varie risorse della rete.

Con la primavera (a New York tuttora si gela) la partita si riaprirà, ora si andrà a Liberty Square. L´autore di questa coloratissima perlustrazione ci trasmette una sincera meraviglia per la miscela tutta americana, «di candore e pragmatismo»: le tendenze più radicali trascolorano nell´happening, ma la politica non può non raccogliere la sfida. Chi e che cosa riuscirà a condurre le nostre società verso un maggiore equilibrio? Nonostante le critiche, la Casa Bianca un segnale di «ricevuto» lo manda. «Adesso chiamatela pure "lotta di classe" se volete, ma chiedere a un miliardario di versare almeno le stesse tasse della sua segretaria è semplice buon senso per la maggior parte degli americani». È una battuta di Obama, indirizzata ai Repubblicani, e senza Occupy Wall Street non gli sarebbe riuscita così bene.

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