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azione è dell'autore. In appendice una nota di Peter Kammerer, da Il Passaggio, anno VI, n 2, marzo/aprile 1993

PROFEZIA

AJean-Paul Sartre, che mi ha raccontato
la storia di Alidagli. Occhi Azzurri
Era nel mondoun figlio
e un giornoandò in Calabria :
era estate, ed erano
vuote lecasupole,
nuove, apandizucchero,
da fiabe difate color
delle feci.Vuote.
Comeporcili senza porci, nel centro di orti senza insalata, di campi
senzaterra, di greti senza acqua. Coltivate dalla luna, le campagne.
Lespighe cresciute per bocche di scheletri. Il vento dallo Jonio
scuotevapaglia nera
come nei sogniprofetici:
e la lunacolor delle feci
coltivavaterreni
che mail'estate amò.
Ed era nei tempi del figlio
che questoamore poteva
cominciare, enon cominciò.
Il figlioaveva degli occhi
di paglia bruciata,occhi
senza paura, evide tutto
ciò che eramale: nulla
sapevadell'agricoltura,
delle riforme,della lotta
sindacale, degliEnti Benefattori,
lui. Ma avevaquegli occhi
La tragica lunadel pieno
sole, era là, a coltivare
quei cinquemila,quei ventimila
ettari sparsi dicase di fate
del tempo dellatelevisione,
porcili a pandizucchero,per
dignità imitatadal mondo padrone.
Ma non si può vivere là ! Ah,per quanto ancora, l'operaio di Milano lotterà
con tanta grandezza per ilsuo salario? Gli occhi bruciati del figlio, nella
luna, tra gli ettari tragici,vedono ciò che non sa il lontano fratello
settentrionale.Era il tempo
quando una nuovacristianità
riduceva a penombrail mondo
del capitale: una storia finiva
in un crepuscoloin cui accadevano
i fatti, nelfinire e nel nascere,
noti ed ignoti.Ma il figlio
tremava d'ira nel giorno
della suastoria: nel tempo
quando ilcontadino calabrese
sapeva tutto,dei concimi chimici,
della lottasindacale, degli scherzi
degli Enti Benefattori, della
Demagogia dello Stato
e delPartito Comunista…
...e così avevaabbandonato
le sue casupolenuove
come porcili senzaporci,
su radure colordelle feci,
sotto montagnolerotonde
in vista delloJonio profetico.
Tre millennisvanirono
non tre secoli, non tre anni,e si sentiva di nuovo nell'aria malarica
l'attesa dei coloni greci.Ah, per quanto ancora, operaio di Milano,
lotterai solo per il salario?Non lo vedi come questi qui ti venerano?
Quasi come unpadrone.
Ti porterebbero su
dalla loro anticaregione,
frutti e animali,i loro
feticci oscuri, a deporli
con l'orgoglio delrito
nelle tuestanzette novecento,
tra frigorifero etelevisione,
attratti dalla tuadivinità,
Tu, delle Commissioni Interne,
tu della CGIL, Divinità alleata,
nel meraviglioso sole del Nord.
Nella loro Terra dirazze
diverse, la lunacoltiva
una campagna che tu
gli hai procuratainutilmente.
Nella loro Terra diBestie
Famigliari, la luna
è maestra d'anime chetu
hai modernizzato inutilmente.Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere
è un vento che cambia corso,nel cielo. Soffia ora forse dall'Africa
e tu ascolta ciò che pergrazia il figlio sa. (Se egli non sorride
è perché lasperanza per lui
non fu luce marazionalità.
E la luce delsentimento
dell'Africa, ched'improvviso
spazza le Calabrie, sia un segno
senza significato,valevole
per i tempi futuri !)Ecco:
tu smetterai di lottare
per il salario e armerai
la mano dei Calabresi.
Ali´ dagli OcchiAzzurri
uno dei tanti figlidi figli,
scenderà da Algeri,su navi
a vela e a remi.Saranno
con lui migliaia diuomini
coi corpicini e gliocchi
di poveri cani deipadri
sulle barche varate nei Regnidella Fame. Porteranno con sé i bambini,
e il pane e il formaggio,nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
Porteranno le nonne e gliasini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
Sbarcheranno aCrotone o a Palmi,
a milioni, vestitidi stracci
asiatici, e dicamice americane.
Subito i Calabresidiranno,
come malandrini a malandrini:
« Ecco i vecchifratelli,
coi figli e il pane e formaggio ! »
Da Crotone o Palmisaliranno
a Napoli, e da 1í aBarcellona,
a Salonicco e aMarsiglia,
nelle Città dellaMalavita.
Anime e angeli, topie pidocchi;-
col germe dellaStoria Antica,
voleranno davantialle willaye.
Essisempre umili
essi sempre deboli
essi sempre timidi
essi sempre infimi
essi semprecolpevoli
essi sempre sudditi
essi sempre piccoli,
essi che non vollero maisapere, essi che ebbero occhi solo per implorare,
essi che vissero comeassassini sotto terra, essi che vissero come banditi
in fondo al mare, essi che visserocome pazzi in mezzo al cielo,
essi che sicostruirono
leggi fuori dallalegge,
essi che siadattarono
a un mondo sotto ilmondo
essi che credettero
in un Dio servo diDio,
essi che cantarono
ai massacri dei re,
essi che ballarono
alle guerreborghesi,
essi che pregarono
alle lotte operaie...
...deponendo l'onestà
delle religionicontadine,
dimenticando l'onore
della malavita,
tradendo il candore
dei popoli barbari,
dietro ai loro Ali
dagli Occhi Azzurri —usciranno da sotto la terra per rapinare —
saliranno dal fondo del mareper uccidere, - scenderanno dall'alto del cielo
per espropriare - e perinsegnare ai compagni operai la gioia della vita -
per insegnare aiborghesi
la gioia dellalibertà -
per insegnare aicristiani
la gioia della morte
- distruggerannoRoma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ognisacramento
andranno comezingari
su verso l'Ovest eil Nord
con le bandiererosse
di Trotzky al vento...
_________________________________________________________
"alì dagli occhi azzurri".
una profezia di pier paolopasolini.

di Peter Kammerer

La figura di "Alì dagli Occhi Azzurri" è una figura emblematica per il Pasolini degli anni 1962-1965, impegnato in una riflessione esistenziale sul rapporto fra Nord e Sud e fra cristianesimo e marxismo. Per Pasolini le due questioni si incrociano e il punto focale della sua analisi poetica, la poesia "Profezia", è scritta in modo da formare una croce. Ma tutte le sue opere di allora, dalla "Ricotta" (1962) alla "Poesia in forma di rosa" (pubblicata nel 1964), dal film "La Rabbia" (1963) al "Vangelo secondo Matteo" (1964) fino a "Uccellacci e uccellini" (1965/66) risentono di questo travaglio. Poi "Uccellacci e uccellini" chiude un` epoca e ne apre un` altra (1).

Incontriamo "Alì dagli Occhi Azzurri" per la prima volta nella poesia "Profezia", scritta probabilmente già nel 1962 e pubblicata nel volume "Poesia in forma di rosa". Una dedica recita: "A Jean Paul Sartre, che mi ha raccontato la storia di Alì dagli Occhi Azzurri". "Poesia in forma di rosa" esce nel 1964, ma nello stesso anno Pasolini scrive ancora una seconda versione della "Profezia" (peggiorata secondo me) e la mette nella importante raccolta di racconti, sceneggiature e progetti di film che va dal 1950 al 1965. Al volume, pubblicato nel 1965, l`autore addirittura dà il titolo di "Alì dagli occhi azzurri" collocando così tutto il materiale in una prospettiva sorprendente e nuova. Il titolo viene spiegato alla fine in una "Avvertenza" che descrive l`incontro con Ninetto in un cinema romano. Ninetto è un "messaggero" e parla dei Persiani. "I Persiani, dice, si ammassano alle frontiere./ Ma milioni e milioni di essi sono già pacificamente immigrati,/ sono qui, al capolinea del 12, del 13, del 409...... Il loro capo si chiama:/ Alì dagli Occhi Azzurri" (2).

Versi della "Profezia" ne troviamo infine nella predica di S. Francesco nel film "Uccellacci e uccellini" (girato nell` inverno 1965/66). La citazione fatta nel film nella sceneggiatura non c`è, ma fu inserita più tardi, probabilmente durante il doppiaggio. Nella sceneggiatura la predica di S. Francesco agli uccelli è quella della tradizione: "Molto siete tenuti di lodare e benedire Iddio......perchè vedendo questo, gli eretici si possono convertire e ritornare alla vera fede..." (3). Una visione di San Francesco piuttosto scontata, arciconosciuta, quasi noiosa, direi. Pasolini probabilmente ha capito questo e gli è venuta l`idea di mettere in bocca a S. Francesco alcuni versi della "Profezia". Così il santo si rivolge agli uccelli con ben altra forza: "Voi che non volete sapere e vivete come assassini tra le nuvole e vivete come banditi nel vento e vivete come pazzi nel cielo, voi che avete la vostra legge fuori dalla legge e passate i giorni in un mondo che sta ai piedi del mondo e non conoscete il lavoro e ballate ai massacri dei grandi". Ecco il terzo mondo nella sua crudele innocenza, nella sua feroce irrazionalità e nella sua esistenziale alterità. Come porsi di fronte a questa alterità? San Francesco coglie il problema e continua la sua predica così: "Noi possiamo conoscervi solo attraverso Dio perchè i nostri occhi si sono troppo abituati alla nostra vita e non sanno più riconoscere quella che voi vivete nel deserto e nella selva, ricchi solo di prole. Noi dobbiamo sapervi riconcepire e siete voi a testimoniare Cristo ai fedeli inariditi, con la vostra allegrezza, con la vostra pura forza che è fede".

L`indicazione è precisa: Ci troviamo di fronte ad una aporia, ci scontriamo con una pietra dello scandalo. L`esistenza del terzo mondo per il mondo industrializzato è scandalo, perchè pone il problema non del concepire, ma del "ri-concepire" l`altro, cambiando i "nostri occhi troppo abituati alla nostra vita", cosa che si può fare "solo attraverso Dio". Per vedere giusto ci vuole qualcosa che trascenda la nostra situazione. Dio è una specie di punto di Archimede, dal quale diventa possibile muovere il mondo. La leva della rivoluzione posa su questo punto.

Nè la sinistra (ufficiale e non), nè la chiesa ufficiale (nonostante gli sforzi compiuti durante il Concilio Vaticano II) erano allora pronti a riconoscere la necessità di "ri-concepire" la presenza del terzo mondo come fatto organico, non separabile dalla nostra vita. D`altra parte era difficile cogliere allora il senso del concetto pasoliniano di "sottoproletariato". Come concetto sociologico faceva acqua da tutte le parti, ricorda Goffredo Fofi più volte (4); come concetto politico pure, sostiene Salinari, che critica nel 1966 sull`Unità le posizioni di Pasolini come "terzomondiste" scrivendo: "Sì al coraggio con cui Pasolini ... ci ricorda l`esistenza di tanta parte dell`umanità assillata da problemi diversi; diremo no al suo voler considerare proprio le zone sottosviluppate come i centri motori della rivoluzione". E Pasolini gli risponde: "Ma io ho fatto mai affermazioni di questo genere" e insiste sul "rapporto dialettico `scandaloso` dei popoli arretrati o sottosviluppati con la razionalità dei centri del neocapitalismo" e sul fatto che "un` unica linea così sembra unire i nostri sottoproletariati urbani e agricoli... con le tribù africane" (5). Pasolini rivendica un significato sociologico e politico al suo concetto di sottoproletariato, ma sa bene che esso non è riducibile nè alla sociologia, nè alla politica. Il sottoproletariato di Pasolini è un concetto altrettanto teologico. La rappresentazione del sottoproletariato nel sacrificio e nella crocefissione è rievocazione di un mito, ma anche descrizione di una attualità bruciante: un passato che non è passato, ma che ogni giorno si rinnova. In parole povere: il terzo mondo non ricorda solo il nostro passato, ma lo è nel presente della società industriale.

3) La profezia

In questa poesia Pasolini predisse trent`anni fa una specie di invasione di "extracomunitari" la quale poi si è verificata realmente. Scrive Pasolini:

"Ali dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri

"Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camicie americane."


Sono sbarcati in Puglia ed erano Albanesi, ma la descrizione è esatta. E Pasolini l`ha fatta agli inizi degli anni `60, quando l`emigrazione italiana del dopoguerra verso l`estero raggiungeva il suo massimo livello e nessuno si sarebbe immaginato un` Italia paese di immigrazione e Boat people del Mediterraneo, le cui coste oggi il Ministro Martelli vuole difendere con l`esercito. Nessuno. Pasolini fu l`unico ad avere questo "fiuto sociologico". Era l`unico a decifrare il messaggio di Ninetto, il "messaggero". Ma anche se questi fatti si sono avverati, essi comunque non costituiscono che l`aspetto esteriore della profezia. Il suo nucleo vero indica ben altro. Seguiamo la poesia, scritta, come abbiamo detto, in forma di croce (6).

La dedica chiama in causa Sartre, al quale Pasolini deve la storia di Alì dagli Occhi Azzurri. Pasolini lo ricorda allo stesso Sartre in un altro colloquio avvenuto nel dicembre 1964. Ne era testimone M.A. Macciocchi, che pubblica un resoconto sull`Unità del 22.12.64.

Pasolini si trova a Parigi per far vedere Il Vangelo, resta fortemente deluso per non dire offeso dalla reazione degli intellettuali francesi marxisti. Sartre lo consola e Pasolini dice: "Ho dedicato a Lei, Sartre, una poesia, "Alì dagli Occhi Azzurri", sulla base di un racconto che lei mi fece a Roma...". E Sartre: "Sono del suo avviso che l`atteggiamento (della sinistra) francese di fronte al Vangelo... è un atteggiamento ambiguo. Essa non ha integrato Cristo culturale. La sinistra lo ha messo da parte. Nè si sa che fare dei fatti che concernono la Cristologia. Hanno paura che il martirio del sottoproletariato possa essere interpretato in un modo o nell`altro nel martirio di Cristo". In "La ricotta" Pasolini ha dato proprio questa interpretazione e la reazione della destra alla demistificazione dell`iconografia tradizionale è stata violenta (7). Ma ora, nella "Profezia", il poeta va ancora avanti e insiste sull`altro significato della croce, quello della redenzione/ resurrezione.

La poesia apre subito in tono biblico, racconta di "un figlio" che scende nella Calabria arida, dove:

"... la luna color delle feci
coltivava terreni
che mai l`estate amò.
Ed era nei tempi del figlio
che questo amore poteva
cominciare, e non cominciò. "

Ci troviamo nella Calabria della riforma agraria e l` amore poteva cominciare, perchè

"... Era il tempo
quando una nuova cristianità
riduceva a penombra il mondo
del capitale... "

Già di Engels e di Kautsky è la concezione del primo cristianesimo come precursore del movimento operaio (8). Con una delle sue tipiche forzature Pasolini la capovolge parlando di "nuova cristianità". Ma il tempo non si compie e il figlio "tremava d`ira". Conosciamo dal Cristo del Vangelo pasoliniano questa ira. Un Cristo che non sorride quasi mai.

".... Se egli non sorride
è perchè la speranza per lui
non fu luce ma razionalità."

Ex oriente lux. La "nuova cristianità" invece finisce nelle secche del razionalismo occidentale. "L`operaio di Milano" lotta con "tanta grandezza" per il suo salario, ha "procurato inutilmente" la riforma agraria al contadino del Sud (9) e lo ha "modernizzato inutilmente". Due volte e a brevissima distanza appare questa parola terribile: "inutilmente". Il sapere del figlio si scontra con il sapere "inutile" dello sviluppo e

"... dei concimi chimici
della lotta sindacale, degli scherzi
degli Enti Benefattori, della
Demagogia dello Stato
e del Partito Comunista..."

E così il contadino del Sud compie il suo destino abbandonando la propria terra, emigrando verso "il meraviglioso sole del Nord", sostituendo ai suoi "feticci oscuri" quelli nuovi di zecca, i frigoriferi, la televisione e la "Divinità alleata" delle Commissioni Interne. E "tre millenni svanirono, non tre secoli, non tre anni". Finisce così una storia millennaria, più grande di un`epoca?

"... Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere/ è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forse dall`Africa/"
Irrompe nel nostro mondo un altro sapere, quello dell` irrazionalità (10), sbarca il terzo mondo non addomesticato e ci costringe ad un confronto con una concezione antitetica della vita (11), arrivano

"essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare/ essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi/ in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo/"
ai quali si rivolgeva -come abbiamo visto sopra- la predica di San Francesco, un santo mistico, impregnato di "oriente" (12).


Con questa irruzione la poesia espande le ali, spicca in un volo onirico e dischiude una grandiosa sintesi profetica: "Essi" insegnano "ai compagni operai la gioia della vita", "ai borghesi la gioia della libertà", "ai cristiani la gioia della morte". Il finale unisce il "dolce Papa dal misterioso paterno testone campagnolo" (13) e Trotzky, il bolscevico "industrialista", ma anche simbolo dell`eresia.

"-distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno come zingari
su verso l`Ovest e il Nord
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento..."

Questa profezia ricorda il titolo famoso che Carlo Levi ha dato a un suo libro di viaggio in URSS, "Il futuro ha un cuore antico", ma accommuna Pasolini in modo sorprendente anche ad un altro grande pensatore marxista eretico, a Walter Benjamin (14). Da origini e da sponde completamente diverse, il pensiero di Benjamin era giunto a due tesi, intorno alle quali ruota il suo pensiero: Non c`è rivoluzione senza un "nucleo ardente teologico" e,rovesciando il "prospettivismo" marxista-leninista: "il compito principale della rivoluzione comunista consiste nella liberazione del passato". Di questo bisogno e delle sue strade ci parla la profezia poetica, onirica e mistica di Pasolini.

Note:

1) vedi Peter Kammerer, "L'uccellaccio vola alto" in: Il Passaggio, anno V, N 4-5, Roma 1992

2) Anche nel primo episodio della sceneggiatura di "Uccellacci e Uccellini" Ninetto svolge un ruolo di "messaggero" o di "mediatore" fra la Koine dei dialetti e la lingua ufficiale del razionalismo europeo, il francese.

3) Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, a cura di Giacomo Gambetti, Milano 1966, 115

4) Recensendo il "Vangelo secondo Matteo" Goffredo Fofi scrive: "Ma è sempre più chiaro però che egli ha scelto il mondo del passato, un mondo che non è più il nostro, e che ha rifiutato di portarvi lo sguardo di chi abbia almeno una certa visione complessiva, di chi almeno un`occhiata abbia saputo rivolgerla anche a quello che è il mondo delle società cosiddette sviluppate, industriali." G. Fofi, La mostra cinematografica di Venezia, in: Quaderni Piacentini, n 17-18, 1964; ristampato in: "Capire con il cinema", Milano 1977, pag. 34; La reazione di Pasolini fu molto risentita, vedi le due lettere scritte a Piergiorgio Bellocchio nell` ottobre 1964 in: P.P. Pasolini, "Lettere 1955-1975", Torino, 1988. Sette anni più tardi in occasione del "Decameron" Fofi insiste: "Come Napoli sta scomparendo e delle contraddizioni di questa metamorfosi, del suo intricarsi nelle fabbriche del Nord o dell`intricarsi della sua economia con lo sregolato sviluppo e la perenne crisi del Sud, dei modi in cui questo enorme processo avviene perlomeno dal `60 in avanti o delle sue prospettive, a Pasolini non sembra fregargliene molto. Canta dunque un popolo di ieri, una forma di "gioia di vivere" naturale...". In: Quaderni Piacentini, n. 44-45, 1971, ristampato in: "Capire con il cinema", Milano 1977, pag. 241

5) "Libri-Paese Sera" del 23.3.1966. Non solo oggi, ma già nell`Italia del dopoguerra suonava come un insulto l`affermazione delle strette parentele culturali di vaste parti dell`Italia preindustriale con l`Africa del Nord o il Medio-Oriente ecc. Vedi le vicende del libro di Franco Cagnetta, Banditi a Orgosolo, denunciato e processato nel 1954/1955. Tutti vogliono essere parenti solo dei ricchi fratelli "mittel-europei".

6) La poesia fa parte di un capitolo "Il libro delle croci" che antepone alla "Profezia" un altra poesia, "La nuova storia", della quale purtroppo non teniamo conto in questa sede.

7) Vedi "Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte", Milano 1977 (Garzanti) e di recente, in occasione della candidatura del magistrato Di Gennaro alla Direzione nazionale antimafia l`articolo di Enzo Golino: "Di Gennaro contro Pasolini", Repubblica del 13. agosto 1992

8) Friedrich Engels, Zur Geschichte des Urchristentums, 1894; Karl Kautsky, Der Ursprung des Christentums, 1909 (seconda edizione ampliata)

9) Come una gran parte della storiografia dell`epoca anche Pasolini vede la riforma agraria come frutto delle lotte sociali del Nord sottovalutando il grande contributo dato dal movimento contadino meridionale; vedi ad es. Paolo Cinanni, Lotte per la terra e comunisti in Calabria 1943/1953, Milano 1977

10) "L`elemento irrazionalistico e religioso è un antico elemento che mi accompagna come uomo e come scrittore da quando sono nato", Pier Paolo Pasolini in: "Una discussione del `64", AA.VV., Pier Paolo Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, Amm.ne Provinciale di Pavia-Comune di Alessandria, 1977, pag 93, ristampato in: Pier Paolo Pasolini, Le regole di un`illusione, a cura del Fondo Pier Paolo Pasolini, Garzanti 1991, pag. 103

11) Pier Paolo Pasolini, L`Aigle, in: Vie Nuove del 29 aprile 1965, ristampato in: Le belle bandiere, Roma 1978, pag. 322

12) Pier Paolo Pasolini, Liliana Cavani, Adriana Zarri in: "Lo scandalo di Francesco" dibattito in: Orizzonti, 5.6.1966; Pasolini critica il film "Francesco" della Cavani dicendo: "Ha `occidentalizzato` al più possibile Francesco. Ha tolto al suo Medioevo quel tanto di orientale che esso, oggettivamente, aveva nelle sue reali condizioni sociali ed economiche. Ha staccato gli elementi orientali... che erano nel mondo di Francesco..."; e ancora: "Direi che, a un non credente, piace di più un San Francesco che parla agli uccelli e fa i miracoli. La religione occidentale, impermeata di laicismo che essa crede rivoluzionario
rispetto al proprio spirito clericale e si sbaglia, tende a mostrarsi scettica e ironica rispetto ai miracoli. Ma i miracoli sono la religione".

13) in: "La Rabbia", film del 1963; e anche: "Il nuovo papa nel suo dolce misterioso sorriso di tartaruga pare aver capito di dover essere il pastore dei miserabili, perchè è loro il mondo antico, e sono essi che lo trascineranno avanti nei secoli con la storia della nostra grandezza" (preso dalla colonna sonora inedita del film).

14) Benjamin era quasi sconosciuto in Italia fino al 1962, anno in cui esce

Huffington post, dal blog Sans Décliner, Snarclens della giovane femminista ginevrina

Vorrei essere un uomo. Solo per un attimo. Per riposarmi.

Vorrei poter uscire la sera senza chiedermi se per caso il mio abbigliamento non sia troppo provocante. Non avrei paura, potrei parlare e rispondere liberamente, ad armi pari con tutti gli altri. Magari avrei paura di finire in una rissa, ma di certo non correrei il rischio di non potermi più guardare allo specchio, il giorno dopo, se uno o più bastardi decidessero di aggredirmi.

Mi piacerebbe credere che il sessismo non sia una cosa seria, o almeno, considerarlo alla stregua dell'AIDS o della fame nel mondo. Una cosa grave, ma che colpisce gli altri e di cui io non sono responsabile, io sto bene. Sarei in grado di elargire consigli freddi e distaccati, quindi molto attendibili, sulla causa da portare avanti e sarei ascoltato, rispettato, come si addice ad un uomo.

Vorrei vivere la mia sessualità, senza stigmatizzazioni, fare sesso con chi voglio e quando voglio (sempre ammesso che lei o lui sia d'accordo), senza il rischio di rovinarmi la reputazione, senza dare l'idea di una persona che cerca disperatamente affetto e attenzione. Vorrei che le mie azioni non fossero sottoposte all'interpretazione e al giudizio altrui. Che mi lascino fare l'amore tranquilla.

Vorrei giocare un ruolo nella cultura. Essere ovunque, sentire riecheggiare le mie parole di continuo. E, a forza di ascoltarle, convincermi che quello che dico è saggio, giusto e che le opinioni altrui sono trascurabili. Che tutti gli altri ronzano intorno alla mia idea. Che io sono al centro e che tutti gli altri sono ai margini.

Vorrei poter dire la mia. Far sentire la mia voce liberamente e parlare di ciò che mi sta a cuore. Sarebbe molto più semplice discutere d'amore, di sesso, d'invidia, di speranze, di nero, di bianco. Sarebbe molto più facile esprimere la mia opinione, parlare delle mie volontà e dei miei interessi. Se avessi davvero questa possibilità, verrei ascoltata.

Vorrei poter pensare che non ho una data di scadenza. Non vedere la vita come una clessidra. Pensare che fra dieci anni sarò più attraente di oggi. Credere che l'amore non sia qualcosa a cui dovrò rinunciare, quando avrò superato i trent'anni. Non avrei paura della vita, se sapessi per certo che, sfiorita la mia bellezza, i veri segnali del mio fascino saranno la forza e il carisma.
Vorrei essere un uomo e scrivere di altre cose. Un romanzo, una poesia. Di certo direbbero che ho talento. Sarebbe bello, solo per un momento.

Questo post è apparso sul blog Sans Décliner, Snarclens, di proprietà dell'autrice è stato pubblicato su HuffPost Francia e tradotto da Milena Sanfilippo.

Lectio brevis tenuta nella Adunanza dell’11 marzo 2011 della Classe di scienze morali, storiche e filologiche dell’Accademia Nazionale dei Lincei. È tratta dal saggio di G. Lunghini e E. Vesentini, La teoria economica e il suo linguaggio, in: “XXI Secolo”, opera diretta da T. Gregory, vol. 1, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2009. Dal sito web www.apertacontrada.it

Indirizzo questa lezione breve ai non economisti di questa classe: e soprattutto ai letterati, che da tempo hanno smesso di leggere scritti di economia.


Stendhal raccomandava alla amatissima sorella Pauline, per la sua felicità, di leggere Smith e Say (al quale faceva inviare le proprie opere) e riteneva che la conoscenza approfondita di Malthus, Say e Ricardo fosse titolo per diventare un ministro delle finanze eccellente. L’allora Henri Beyle aveva letto gli economisti nel 1810, con l’amico Crozet, e addirittura aveva progettato un Boock dal titolo Influence de la Richesse sur la population et le bonheur.


De Quincey, il mangiatore d’oppio che in tal modo ne guarisce, scopre Ricardo: «Ecco l’uomo! Un’opera così profonda era veramente nata in Inghilterra, nel XIX secolo? Ricardo aveva d’un tratto trovato la legge, creato la base, aveva gettato un raggio di luce in tutto il tenebroso caos di materiali nel quale si erano perduti i suoi predecessori».
Intorno al 1830 Flaubert comincia a raccogliere le voci sulla bêtise; il Dizionario delle idee comuni prende forma, come parte di Bouvard e Pécuchet, nei primi anni settanta dell’Ottocento. Il 1830 e il 1870 sono gli anni cruciali nella storia del pensiero economico, segnano il periodo in cui l’economia politica progressivamente si riduce a economica. Flaubert, puntuale, nel Dizionario registra: «ÉCONOMIE POLITIQUE. Science sans entrailles». Da allora in poi saranno pochi gli scrittori che si occupano di teoria economica. Ricordo soltanto Ruskin con la sua Economia politica dell’arte, Pound con il suo ABC dell’economia. Tra gli italiani ricordo Dossi: «L’economia politica, questa matematica della Morale, che concilia i calcoli e l’interesse colle aspirazioni più sublimi del sentimento». E ricordo Gadda, con la sua favola brevissima: «Adamo Smith e Davide Ricardo erano economisti».


Si capisce perché i letterati oggi non ci leggano più: l’economia è diventata una scienza davvero triste. E la rivolgo, questa lezione, anche ai colleghi dell’altra classe: che credo scoprirebbero, in questa mia breve storia della “scienza economica”, un curiosum epistemologico.

***

La teoria economica oggi dominante – la teoria neoclassica – si presenta come una teoria capace di indagare qualsiasi aspetto della attività umana. Essa sembra essere riuscita in un’impresa che sinora la fisica ha mancato, la proposta di un modello unificato di spiegazione della realtà considerata di propria competenza. Di certo essa è riuscita a imporre come elementare e indiscutibile buon senso la sua visione del mondo e le conseguenti raccomandazioni politiche.
Tuttavia non esiste una sola teoria economica: a fianco della teoria dominante coesistono altre teorie, teorie che si possono definire eterodosse e che della teoria neoclassica mettono in discussione la rilevanza o la stessa coerenza. Ricordo, ad esempio, che negli anni sessanta del secolo scorso, sulla base del contributo di Sraffa di cui dirò, si svolse una memorabile controversia sul concetto di capitale tra la Cambridge inglese (‘neoricardiana’) e la Cambridge americana (neoclassica); dalla quale questa, per ammissione dei suoi maggiori esponenti, primo Samuelson, uscì sconfitta e alla quale non poté reagire che con la rimozione e la censura. D’altra parte è ancora vivace la tradizione marxista, al punto che in molte importanti università americane vengono impartiti corsi di teoria economica marxiana; e particolarmente fiorente è la scuola postkeynesiana, che trova le sue radici nelle opere di Keynes e dello stesso Sraffa. Chi fosse insoddisfatto della teoria neoclassica, o semplicemente curioso, potrà guardare in queste direzioni.

L’economia è una disciplina che non progredisce, o per lo meno non progredisce nel senso in cui progrediscono la fisica e la medicina, cioè con l’acquisizione di nuovi risultati sostanziali. Anche nelle scienze della natura coesistono teorie rivali, ma le scienze della natura dispongono, in generale, di criteri sufficientemente robusti per accertare lo statuto epistemologico delle diverse teorie. L’economia non si occupa di un oggetto naturale, bensì della società e di una società storicamente determinata; nel lavoro teorico, e nella competizione tra le diverse teorie economiche per l’egemonia culturale, l’elemento politico ha perciò un peso importante, talora determinante.


Bisogna allora chiedersi quali siano le caratteristiche della teoria neoclassica, quando e come questa teoria sia nata, e in che modo essa sia diventata e sia tuttora dominante; e ripercorrere poi le altre epoche della storia delle teorie economiche, per proiettare su uno sfondo questa teoria e così mettere in evidenza quei temi che essa ha rimosso, temi cruciali in questo inizio di secolo. «Lo studio della storia del pensiero», scrive Keynes, «è premessa necessaria alla emancipazione della mente. Non so che cosa renderebbe più conservatore un uomo, se il non conoscere niente altro che il presente, o niente altro che il passato».

La teoria neoclassica


Intorno al 1870, in curiosa coincidenza con l’inizio della Grande depressione, la teoria economica è travolta da una vera e propria rivoluzione (nel senso di Kuhn), da un radicale rovesciamento di prospettiva rispetto a quella dell’economia politica classica e della critica di questa da parte di Marx. Ne sono protagonisti studiosi di diversi paesi e di varia formazione. Il cambiamento più importante e vistoso, nella teoria neoclassica, è l’abbandono della teoria del valore-lavoro, su cui si fondavano le teorie dei classici e di Marx, e l’adozione di una teoria del valore-utilità, una teoria che pone come unico principio di tutta la teoria del valore di scambio la variabilità della stima soggettiva del valore. 
L’introduzione della categoria dell’utilità nel discorso economico, come nuovo fondamento della teoria del valore, si accompagna a un importante cambiamento metodologico. La meccanica razionale, e con essa il calcolo infinitesimale, viene assunta come paradigma teoretico. Un modello epistemologico, quello della fisica dell’Ottocento, del tutto inappropriato per una scienza sociale e però accademicamente seducente. La scientificità o meno di un ragionamento economico viene fatta dipendere dalla sua formalizzazione matematica, e la teoria del valore viene ridotta a un mero problema di calcolo: si tratta di calcolare, sulla base di determinate condizioni, quei prezzi che sul mercato assicurano l’equilibrio tra la domanda e l’offerta dei beni.


Nella teoria neoclassica, a differenza dell’economia politica classica, l’oggetto dell’analisi non sono più le classi sociali, definite sulla base delle loro relazioni con la produzione e la distribuzione del sovrappiù, ma è l’individuo con i suoi gusti, o preferenze, e i suoi bisogni. L’homo œconomicus è analogo a un punto materiale soggetto a vincoli nel mondo della meccanica razionale: egli si muoverà nello spazio del mercato, entro i limiti imposti dalle proprie risorse e dai comportamenti altrui, finché il sistema non avrà raggiunto un equilibrio statico.


Una impostazione simile ha conseguenze di grande portata circa la visione del processo economico. La teoria neoclassica è essenzialmente microeconomica, ma si pronuncia anche sul funzionamento del sistema economico nel complesso, funzionamento che viene concepito come esito aggregato dei comportamenti microeconomici. Se sul mercato del lavoro non vi sono attriti o rigidità artificiali, vi si determinerà un saggio di salario di equilibrio, nel senso che in corrispondenza a esso vi sarà piena occupazione. Dato il livello dell’occupazione di pieno impiego, l’intera capacità produttiva verrà utilizzata; e la produzione che ne risulterà verrà interamente venduta.


Infatti la teoria neoclassica fa propria la cosiddetta legge di Say, secondo la quale l’offerta crea la propria domanda. La moneta è presente soltanto come strumento utile per facilitare gli scambi, non anche come possibile riserva di valore: dunque non vi saranno problemi di realizzazione. Nel mondo neoclassico la moneta è neutrale, nel senso che la quantità di moneta non ha nessuna influenza sulle grandezze reali, cioè sul livello dell’occupazione e della produzione.


Quanto al modo in cui il prodotto sociale verrà distribuito nella forma di redditi, anch’esso sarebbe governato da un ordine naturale, anziché da un conflitto tra le parti. Se si concepisce e si legittima ciascuna quota distributiva come il corrispettivo per i servizi produttivi dei fattori della produzione, di cui ciascun soggetto è proprietario, la distribuzione del prodotto sociale non è determinata anche da un conflitto tra le classi, ma soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, condizioni che sono assunte come date.


La teoria economica, da indagine sistemica circa le cause e le leggi della ricchezza, della sua distribuzione e della sua accumulazione, quale era l’economia politica per i classici e per Marx, si riduce all’economica; economica che secondo la fortunata definizione di Robbins è la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili a usi alternativi.


Scienza che vorrebbe essere la scienza di un sistema economico in generale, di un sistema economico astratto; astratto non nel senso in cui lo è qualsiasi oggetto teorico, ma nel senso che non è soggetto a determinazioni storiche o istituzionali: nella teoria neoclassica, la storia non conta. È un sistema in cui vi sarebbero armonia, certezza e equilibrio, se il mercato fosse liberato da qualsiasi impedimento artificiale e da improvvidi interventi dello Stato. Per realizzare il migliore dei mondi possibili, sarebbe dunque necessaria e sufficiente la politica del laissez faire.

L’economia politica classica

La teoria economica si era costituita come disciplina autonoma, anziché come collezione di proposizioni su temi economici sparse in discipline diverse, etica diritto filosofia storia, con l’affermazione, a seguito della rivoluzione francese e della rivoluzione industriale, del modo di produzione capitalistico; ‘modo di produzione’ inteso come forma storicamente determinata di organizzazione dei rapporti materiali dell’esistenza. L’autonomia teoretica dell’economia politica corrisponde alla costituzione del processo economico come processo a sé stante, come processo circolare; come un processo che ha per scopo non il soddisfacimento dei bisogni umani, ma la realizzazione di un profitto in denaro e l’accumulazione del capitale. Si potrebbe dire, in breve, che l’economia politica nasce come scienza del capitalismo.


L’economia politica classica va dalla fine del Seicento a circa il 1830, e si occupa di produzione, distribuzione, impiego e crescita del prodotto sociale, nella prospettiva macroeconomica di un sistema economico nel suo complesso e diviso in classi. Come dirà Marx, essa indaga il nesso interno dei rapporti di produzione capitalistici. La categoria analitica centrale è qui il sovrappiù; e all’origine del sovrappiù sta il lavoro: per Smith «il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma». La centralità del lavoro, nell’economia politica classica, emerge anche nella teoria del valore che le è propria, che è una teoria del valore-lavoro. Secondo Ricardo, «Il valore di una merce, ovvero la quantità di ogni altra merce con la quale si scambierà, dipende dalla relativa quantità di lavoro necessaria alla sua produzione».
In una società divisa in classi il prodotto sociale non andrà tutto ai lavoratori, ma viene diviso tra i percettori di rendita, i capitalisti e i lavoratori stessi. Nella sfera della distribuzione, tra rentier, capitalisti e lavoratori non vi è armonia, come sosterrà la teoria neoclassica, ma vi è conflitto: tra i rentier e i capitalisti, e tra i capitalisti e i lavoratori. Sempre secondo Ricardo, molto semplicemente ma con una inconfutabile argomentazione analitica, i profitti saranno alti o bassi a seconda che i salari sono bassi o alti.


La teoria classica del valore e della distribuzione ha strette connessioni con la magnificent dynamics degli autori classici. La loro analisi del processo di accumulazione del capitale e del processo di riproduzione e crescita del sistema economico è di grande attualità, poiché porta alla conclusione che una crescita illimitata è impedita da fattori economici, a cominciare dallo stesso conflitto distributivo, e da fattori demografici, sociali e ambientali, fattori tutti che necessariamente conducono alla caduta del saggio dei profitti, all’arresto del processo di accumulazione, e infine allo stato stazionario.

La critica marxiana dell’economia politica classica

Il titolo vero dell’opera principale di K. Marx, Il Capitale, è il sottotitolo: Critica dell’economia politica. Il Capitale è critica, ora severa ora generosa, e insieme svolgimento, dell’economia politica classica. Anche in Marx le categorie centrali sono il lavoro e il sovrappiù. Il lavoro, nella forma di merce – la merce forza lavoro – che esso assume nel capitalismo. Il sovrappiù, nella forma capitalistica di profitto e la cui origine è individuata da Marx non nella produttività del capitale, come sarà per l’economia neoclassica, ma nel pluslavoro (dunque nel plusvalore), che nella attività lavorativa il lavoratore per contratto presta al di là di quanto ne occorra per la riproduzione della propria forza lavoro.
Il salario, d’altra parte, ha due aspetti, e ciò determina una contraddizione tra il livello microeconomico e il livello macroeconomico. Al singolo capitalista il salario appare come un costo di produzione, che come qualsiasi altro costo di produzione egli cercherà di minimizzare; ma per il sistema economico nel complesso i salari sono potere d’acquisto, anzi la parte più consistente del potere d’acquisto complessivo, potere d’acquisto mediante il quale le merci prodotte potranno, o non potranno, essere acquistate. Se i salari sono bassi, sarà possibile che non tutte le merci prodotte vengano vendute e vi saranno difficoltà nella realizzazione dei profitti.


Per Marx nel capitalismo le crisi non sono fatti eccezionali, determinati da fattori extraeconomici, ma sono fenomeni connaturati all’essenza stessa del capitalismo. Gli schemi marxiani di riproduzione mostrano che l’equilibrio capitalistico è possibile; e che tuttavia il processo di riproduzione normalmente si manifesta attraverso crisi; crisi nelle quali lo squilibrio tra produzione e consumo svolge un ruolo essenziale, poiché nel capitalismo lo scopo della produzione non è il consumo ma la valorizzazione del capitale.
All’origine delle crisi sta il fatto che la forza motrice della produzione capitalistica è costituita dal saggio dei profitti: viene prodotto solo ciò che può essere prodotto con profitto, e nella misura in cui tale profitto può essere ottenuto. (L’economia capitalistica è concretamente irrazionale, secondo M. Weber, perché non soddisfa i bisogni in quanto tali, ma soltanto i bisogni dotati di capacità d’acquisto).


Anche per Marx è prevedibile una caduta del saggio dei profitti; tale caduta è però tendenziale, poiché dipende dalle alterne vicende del cambiamento tecnico e dei rapporti di forza tra capitalisti e lavoratori; e perché tale tendenza può essere contrastata da quelle che Marx chiama cause antagonistiche. Le più generali di queste cause antagonistiche, per Marx, sono l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, la riduzione del salario, la diminuzione di prezzo dei mezzi di produzione, la sovrappopolazione relativa, il commercio estero, l’accrescimento del capitale azionario. Anche a questo proposito, in un’epoca di globalizzazione e di finanziarizzazione dell’economia, è superfluo sottolineare l’attualità di teorie che si vorrebbero morte e sepolte.

Le critiche di Keynes e Sraffa alla teoria neoclassica

Nel corso del Novecento alla teoria neoclassica sono state mosse due critiche radicali, da parte di Keynes e di Sraffa. Da parte di Keynes (con la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, 1936) circa il ruolo della moneta nel processo economico e circa le determinanti del livello della produzione e dell’occupazione. Da parte di Sraffa (con Produzione di merci a mezzo di merci. Premesse a una critica della teoria economica, 1960) circa la teoria del valore e della distribuzione.
Le strategie di Keynes e di Sraffa sono diverse. Keynes mette in discussione le premesse stesse della teoria neoclassica, e dunque le sue conclusioni. La critica di Sraffa mette in discussione la logica della teoria neoclassica, e ne mette in luce la mancanza di generalità. Le scelte di Keynes e di Sraffa sono diverse anche per quanto riguarda il linguaggio: Keynes sceglie il linguaggio ordinario, Sraffa il linguaggio matematico.

Keynes: l’incertezza

Per Keynes l’economia in cui viviamo non è un’economia cooperativa, come vorrebbe la teoria neoclassica; ma è una economia monetaria di produzione, un’economia in cui la moneta ha un ruolo essenziale. Keynes non era un bolscevico (come sostenne L. Einaudi), tuttavia, circa il ruolo della moneta, fa propria una tesi marxiana; secondo la quale la natura della produzione nel mondo reale non è – come gli economisti sembrano spesso supporre – un caso del tipo M – D – M′, cioè inteso a scambiare contro denaro una merce al fine di ottenere un’altra merce. Questa può essere la prospettiva del singolo consumatore, ma non è quella del mondo degli affari: che dal denaro si separa in cambio di una merce al fine di ottenere più denaro, secondo un processo del tipo D – M – D′.


Per Keynes l’importanza della moneta dipende essenzialmente dal fatto che le nostre decisioni sono prese in condizioni di conoscenza limitata e non di conoscenza perfetta, in condizioni di incertezza e non di certezza. In condizioni di conoscenza incerta, «per motivi in parte ragionevoli, in parte istintivi, il nostro desiderio di tenere moneta come riserva di ricchezza è un barometro del nostro grado di sfiducia nelle nostre capacità di calcolo e nelle nostre convenzioni sul futuro. Sebbene questo nostro atteggiamento verso la moneta sia esso stesso convenzionale o istintivo, esso opera, per così dire, a un livello più profondo delle nostre motivazioni. Esso subentra nei momenti in cui le più superficiali, instabili convenzioni si sono indebolite. Il possesso della moneta calma la nostra inquietudine, e il premio che noi pretendiamo per dividerci da essa è la misura dell’intensità della nostra inquietudine».


Di qui la possibilità che la moneta venga impiegata non soltanto come strumento utile per effettuare gli scambi, ma che venga domandata anche a fini speculativi. Ciò avrà conseguenze sul livello del tasso di interesse; e il tasso di interesse è una delle determinanti degli investimenti. L’altra determinante delle decisioni di investimento sono le aspettative, da parte degli imprenditori, circa la redditività futura dei nuovi investimenti che essi hanno in animo di fare; e anche tali decisioni vengono prese in condizioni di incertezza. Sarà dunque possibile che la domanda per investimenti non sia quella che sarebbe necessaria, al fine di determinare il pieno impiego della capacità produttiva disponibile nell’economia e dunque la piena occupazione.


Questa insufficienza di domanda, per Keynes, non è una possibilità remota; al contrario, gli animal spirits degli imprenditori possono far sì che il sistema economico in cui viviamo resti in una condizione cronica di attività subnormale per un periodo considerevole, senza una tendenza marcata né verso la ripresa né verso il collasso completo: «una situazione intermedia, né disperata né soddisfacente, è la nostra sorte normale». Ecco il paradosso della povertà in mezzo all’abbondanza; e ecco la necessità di un intervento dello Stato, se del sistema economico in cui viviamo si vogliono eliminare i difetti principali, la disoccupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito.

Sraffa: il ritorno ai classici

Anche nel caso di Sraffa, è il sottotitolo che conta: Premesse a una critica della teoria economica. L’intento di Sraffa, e il suo risultato, è di emendare la teoria classica delle sue imperfezioni, così da farne fondamento inattaccabile di una critica della teoria moderna; una critica che perciò consenta di esibire la rinnovata teoria classica come la sola teoria analiticamente ineccepibile del valore e della distribuzione. Forse in nessun altra disciplina può capitare che vecchie teorie, sommerse e dimenticate, possano essere riproposte come più potenti e solide di quelle moderne.


A questo fine Sraffa riprende il punto di vista degli economisti classici, la loro rappresentazione del sistema della produzione e del consumo come processo circolare, in netto contrasto con l’immagine offerta dalla teoria moderna di un corso a senso unico che porta dai ‘fattori della produzione’ ai ‘beni di consumo’. Su questa base Sraffa dimostra in maniera logicamente ineccepibile l’impossibilità di concepire il capitale come una merce, di cui il profitto possa essere considerato il prezzo.
L’armonia distributiva postulata dalla teoria neoclassica non è dimostrabile: non esiste nessun livello “naturale” del salario, e non esiste nessuna configurazione “di equilibrio” nella distribuzione del prodotto sociale. Le quote distributive non sono univocamente determinate, poiché non dipendono soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, ma anche dai rapporti di forza tra lavoratori e capitalisti e da circostanze esterne alla sfera della distribuzione, quali le variabili monetarie e finanziarie.

La neutralizzazione della critica

Keynes e Sraffa hanno mostrato e dimostrato che il sistema economico in cui viviamo normalmente non funziona al meglio, quanto a livello della produzione e dell’occupazione; e che nella distribuzione del prodotto sociale non vi è armonia ma conflitto. Le controversie teoriche non si dirimono con il buon senso, tuttavia il buon senso basta per convenire che il mondo è in verità abitato dal conflitto, dall’incertezza, dalle crisi – così come insegnano Ricardo e Sraffa, Marx e Keynes. Come è mai possibile che la teoria economica dominante possa sostenere che il mondo è invece governato dall’armonia, dalla certezza e dall’equilibrio? È questo un caso interessante, nella storia della scienza e delle rivoluzioni scientifiche: è come se in astronomia oggi si predicasse Tolomeo, anziché Copernico e Galileo.


La teoria neoclassica ha mantenuto la sua posizione di teoria dominante nell’accademia e tra i responsabili delle politiche economiche nazionali e internazionali con reazioni di grande efficacia. La critica keynesiana è stata riassorbita mediante la cosiddetta ‘sintesi neoclassica’, una sintesi in cui di genuinamente keynesiano vi è ben poco, intesa a dimostrare che la Teoria generale di Keynes non avrebbe affatto portata generale ma si riferirebbe a un caso particolare, all’economia della depressione. Quanto alla critica di Sraffa, per la quale una operazione analoga sarebbe stata impossibile, si è fatto ricorso alla damnatio memoriæ (un silenzio che però si accompagna a una ritirata strategica: la teoria neoclassica non si occupa più di teoria del valore e della distribuzione).


Riuscendo a imporsi come scienza normale, l’economica è riuscita a accreditarsi come la sola e vera scienza economica. La professione neoclassica è stata estremamente abile anche nella costruzione delle sue cinture protettive, non teoretiche ma politiche e di linguaggio: l’uso pressoché esclusivo della matematica e dell’econometria come tecniche di argomentazione e di convalida del ragionamento economico; l’impiego dei manuali, anziché dei testi, nella didattica dell’economia; l’imposizione di metodi bibliometrici come criterio di valutazione determinante per l’accesso alle posizioni accademiche, rendendolo così faticoso e improbabile per gli eterodossi.


Al progressivo allargamento dei confini tradizionali della teoria economica ha dato un impulso decisivo Gary Becker, premio Nobel nel 1992 «per avere esteso il dominio dell’analisi microeconomica a una più ampia area del comportamento e dell’interazione umana, compresi i comportamenti non di mercato». Nella bibliografia di Becker, ma ormai su tutte le riviste di economia più reputate, si trovano articoli su temi suggestivi come il capitale umano, i rapporti tra concorrenza e democrazia, l’economia della discriminazione, l’economia dei delitti e delle pene, la teoria della tossicodipendenza razionale, l’analisi economica della fertilità, l’interazione tra la quantità e la qualità dei bambini, la teoria economica del matrimonio e della instabilità matrimoniale, ecc.


Così come il mercato, anche la teoria economica dominante si è globalizzata e sembra oggi capace di pronunciarsi su qualsiasi questione. Il mercato globalizzato non si comporta però secondo le sue parabole dell’armonia, della certezza e dell’equilibrio, e è agitato dal conflitto, dall’incertezza e dalla crisi.

È significativo che in tutta la storia della democrazia parlamentare non ci sia stato in alcun paese un grande statista che fosse un uomo d'affari. Spesso uomini come Bonar Law in Inghilterra, Loucheur in Francia hanno coperto dei posti elevati, e magari altissimi, ma non si sa che ve ne siano stati i quali siano riusciti ad esercitare sui loro contemporanei l'influsso che esercitarono uomini della statura di Washington, Lincoln, Gladstone, Bismarck, o Cavour.

La ragione, io direi, è semplicemente questa, che l'opinione pubblica non ha mai potuto ammettere la pretesa del capitalista di essere il fiduciario dell'interesse pubblico. Essa l'ha sempre considerato per quello che è, come uno specialista nel far danaro, e non ha mai effettivamente creduto che abbia senso di responsabilità fuor dell'ambito ristretto della sua classe. Egli non ha mai considerato la legge come un complesso di principii che stanno al di sopra del suo gretto interesse, ed ha sempre cercato, con mezzi leciti o illeciti, di farla interpretare ai suoi propri fini.

Certo, per la sua strada egli ha dimostrato di essere tutto dedito al suo compito e coscienzioso, e non v'è ragione di dubitare della sua sincerità quando crede che il suo benessere privato combaci col bene pubblico. Quando, come in America, egli ha comprato giudici, governatori di stato, e magari i presidenti stessi, l'ha fatto convinto che il renderli pieghevoli strumenti ai suoi fini era per il popolo americano il meglio. Egli si difese nell'unico modo che credeva adatto, perché credeva effettivamente nel suo diritto divino di comandare.

Harold Laski, Democrazia in crisi (1935), cit. in exergo da Paolo Sylos Labini, Berlusconi e gli anticorpi. Diario di un cittadino indignato, Laterza, Roma-Bari, 2003. Harold J. Laski (1893-1950), politologo ed economista, professore alla London School of Economy, fu autorevole esponente del Labour Party britannico di cui fu presidente nel 1945-46.

Gli hanno consigliato di scappare dall'Italia, ma è rimasto, si è disperso qui.

Gli hanno detto che l'Italia è un paese per vecchi, e si è adeguato: è invecchiato.

L'assegno da ricercatore è lo stesso di quello di un autista di mezzi pubblici in pensione, vive i suoi trent' anni come fossero ottanta: cena alle diciotto, bianchino in mattinata al bar, televisione nel pomeriggio. Ha smesso di giocare a pallone, è diventato sordo e qualcuno sospetta che si tinga i capelli, di bianco.

Quanto alla ricerca universitaria, da laureato in storia dei movimenti e dei partiti politici, non sa bene neanche lui cosa ricercare. Dov'è la sinistra? L'opposizione? La piazza? I compagni? La lotta, l'utopia e la rivoluzione?

Di fronte alla triste evidenza, ha cambiato soggetto della ricerca e, taccuino e registratore alla mano, ha iniziato una mappatura sociale prima del suo quartiere e poi della città tutta. È partito da casa, un appartamento di studenti, nel nuovo quartiere per studenti, ormai deserto. Ha attraversato strade con più buche che a Beirut durante i bombardamenti.

È stato nel quartiere residenziale di lusso Platì, costruito con i soldi della 'ndrangheta direttamente per i suoi affiliati.

Ha visitato la nuova cittadella all’avanguardia, dove vivono i progettisti di cittadelle all'avanguardia. Nel centro, ormai svuotato, di sera ha incontrato solo anziani, immigrati e super ricchi. Gli altri ci vengono di giorno, per lavorare.

Ha calcolato che un cittadino su quattro vive da solo e che gli stranieri tra poco saranno un quarto della popolazione; ha sentito che dalle ciminiere delle ex fabbriche arriva il canto dei muezzìn.

Ha visto le polveri sottili diventare polveri spesse, grandi come sampietrini.

Ha intervistato tante persone, tutte ugualmente scontente della città in cui vivono, che vorrebbero scappare ma non sanno come e dove.

Soprattutto ha confermato la sensazione che la sua città stia sprofondando nel nulla.

Tanto vale quindi fare come lui, e aspettare la pensione, anche se probabilmente sarà nulla pure quella.

Stasera si porterà dietro il suo manoscritto fotocopiato e rilegato, in cui ha messo nero su bianco i risultati dell'ultima ricerca, dal titolo "Bombardare la città". Del resto, Londra e Berlino -e anche New York dopo l'undici settembre -hanno costruito dalle macerie un'idea di rinnovamento.

Il nostro ricercatore ancora non sa se riuscirà a pubblicarlo, non è ambizioso, e non ha conoscenze nel campo, tranne sua sorella che fa la cameriera ed è amica dell'editore.

Marx ed Engels hanno scritto nella Sacra famiglia: «se l'uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente». Niente di più chiaro, niente di più eloquente, niente di più ricco di senso. Non avevo ancora trent'anni quando, per la prima volta, lessi quelle parole. Furono, per così dire, la mia via di Damasco. Capii che mi sarebbe stato impossibile tracciare una rotta per la mia vita al di fuori di quel principio e che solo un socialismo integralmente inteso (dunque, il comunismo) avrebbe potuto soddisfare i miei aneliti di giustizia sociale. Molti anni più tardi, in una intervista con Bernard Pivot, che voleva sapere perché continuassi a essere comunista dopo gli errori, i disastri e i crimini del sistema sovietico, risposi che, essendo un comunista «ormonale», mi era impossibile avere delle idee diverse: gli ormoni avevano deciso. La spiegazione è più seria di quanto sembri: e forse si capisce meglio se dico che, in qualche modo, ha un equivalente nel «non possumus» biblico. Recentemente, suscitando lo scandalo di certi compagni dediti alla più canonica ortodossia, ho osato scrivere che il socialismo - e a maggior ragione il comunismo - è uno stato dello spirito. Continuo a pensarlo. E la realtà si incarica giorno dopo giorno di darmi ragione.

Da Comunista a chi? numero speciale a 50 euro del «manifesto», 17 dicembre 2009

Quando ci avete incontrato la prima volta ci avete detto che dovevamo pregare il vostro Dio. Noi non riuscivamo a comprendere la vostra richiesta. Il vostro Dio non potrà mai essere il nostro. Vi è troppa differenza tra noi. Noi uccidiamo gli animali che ci servono e li mangiamo tutti. Voi uccidete senza motivo e abbandonate i corpi degli animali che avete abbattuto. Voi tagliate intere foreste e noi usiamo solo i rami caduti e gli alberi morti e abbiamo rispetto per ogni ago di pino. Voi spaccate le pietre, forate le montagne e non riuscite ad ascoltare lo spirito della terra che vi dice: “non fatelo. Non fatemi male” . Noi sentiamo lo spirito e il mistero della vita anche nelle ali delle libellule.

Voi siete ciechi e sordi di fronte alle cose che esistono e quando vi rivolgete a Dio, chiedete ricchezza, denaro e potere. Noi chiediamo al Grande Spirito di mostrarci la bellezza, la stranezza e la bontà della terra verdeggiante, l' unica Madre, e di svelarci le cose nella loro essenza e perfezione, così come solo in un unico Essere, che resta Uno anche se è Molti. Voi dimenticate i vostri morti, li seppellite e non vi curate di conservare le loro tombe e non vi sentite legati alla terra che custodisce le ossa dei vostri padri. Per noi un uomo che dimentica queste cose è peggio di una belva inferocita.

Per tutto questo voi riuscite a vendere la terra: mentre per noi la terra è come 1' aria che si respira, è il corpo di nostra madre e non possiamo neppure concepire che essa possa essere venduta, divisa e recintata.

Ora la mia gente è poca: noi sembriamo le foglie rimaste su un albero scosso dai venti invernali e non possiamo più difenderci. Ora voi ci assegnate una riserva in cui dobbiamo ritirarci. So bene che questa soluzione ci è imposta da una forza ineluttabile. Abbiamo cercato di sfuggirvi come la nebbia mattutina fugge ,avanti alla luce del sole nascente... Ora siamo pochi e non ci importa di sapere dove trascorreremo il resto dei nostri giorni. Il nostro popolo era un tempo forte e potente e ora poco a poco muore. Le nostre notti si fanno sempre più lunghe, buie e solitarie. Ovunque tentiamo di rifugiarci siamo inseguiti dal vostro passo sterminatore e non ci resta che sopportare il destino come un animale ferito e braccato dal cacciatore che vuole finirlo.

E tuttavia non mi lamento. Abbiamo per tanto tempo trascorso un'esistenza felice della quale siamo stati consapevoli e dalla quale abbiamo tratto gioia e ricchezza dell'animo. Ad una tribù segue un'altra e le nazioni seguono alle nazioni come una generazione succede ad un'altra. E un continuo nascere e morire e lamentarsi non serve a nulla. Forse anche il giorno del vostro tramonto non è lontano, ma e comunque certo che verrà. Allora, forse, potremo anche essere fratelli.

Ora è la vostra stagione tuttavia, e poiché ciò appare evidente, tagliate gli alberi, uccidete gli animali, domate i cavalli selvaggi, sterminate gli indiani. Io vedo bene, dai vostri occhi e dai vostri comportamenti, che la vostra città produce immondizie ed esse, un giorno, vi annegheranno.

Ma intanto consentitemi di ribadire che la terra che ci ordinate di abbandonare è sacra alla mia gente. Ogni collina, monte, bosco, lago, fiume o valle o pianura sono pieni di eventi tristi e lieti e di ricordi. I fili d'erba, i piccoli gigli lungo i fiumi d'argento, le fragole che crescono ai margini dei prati coperti di rugiada, persino le pietre che giacciono sorde e immobili nella quiete fresca della notte e nel calore diurno, hanno bevuto la vita del mio popolo e gliela hanno restituita. Anche la polvere è legata alle orme della nostra gente e i nostri piedi trovano in essa una familiarità che i vostri piedi non proveranno mai. Essa ha bevuto il sangue dei nostri padri, custodisce il sale delle loro lacrime, il grasso e la cenere dei fuochi da campo, il sudore del piacere e della paura. I nostri guerrieri scomparsi, le ragazze dal cuore gentile e dalle amabili forme, i bimbi che qui vissero e trovarono nutrimento, le nostre madri affettuose sono parte viva di questi luoghi ancora solitari che placano il cuore.

Ed essi ritornano sempre come marce dello spirito quando la Luna Nuova, piccola canoa d'argento, naviga fra le stelle circondata da una nebbia di volpi argentate. Essi continuano la vita senza il peso del corpo perché gli impulsi di un popolo seguitano ad esistere anche dopo la morte dei singoli e si concentrano sulla sua terra e la colmano di vita umana. E cosi, anche quando l'ultimo indiano sarà morto e il ricordo della mia gente sarà diventato per i bianchi una leggenda, questa terra ospiterà ancora le forme invisibili dei nostri morti. I figli dei vostri figli si crederanno soli nei campi, nelle case, sulle vie delle vostre città o nel silenzio dei boschi senza sentieri. Ma anche quando, di notte, le strade e le piazze saranno silenziose e deserte, ovunque si aggireranno gli spiriti di coloro che un tempo popolarono ed amarono questo meraviglioso paese. (...)

Voi non vi accorgete di tutto questo. Ma un giorno il nostro spirito riempirà di sé i vostri discendenti. Un giorno, ho detto , perché. vai ora apparite incapaci di un sentimento che non sia l'odio: Iodio e la paura, che vi spingono ad azioni che non hanno per fine solo la distruzione degli altri, ma anche la vostra. L'odio e la paura, che vi impediscono di capire che la stirpe umana è come il sole e che i popoli ne sono i raggi e che quando un popolo muore il sole comincia a morire e la terra diventa più fredda. L'odio e la paura che non vi danno coscienza del fatto che le specie animali sono le radici che uniscono il cielo alla terra e che l’uomo non può recidere se non vuole morire.

Noi speriamo che nel futuro lo spirito dell'uomo rosso, che con amore e venerazione rispetta tutto ciò che vive, si impossessi lentamente dei vostri figli e penetri lentamente in coloro che nulla sanno di lui. Cercate perciò di guardare alla nostra fine con rispetto e tolleranza. I nostri padri, noi stessi staremo sempre intorno a voi e attenderemo con pazienza fino a che non riusciamo a piantare nella vostra indole distruttiva un seme di amore per la vita. Se ciò accadrà. il vostro mondo sparirà e il nostro tornerà a vivere.

Ma forse non riusciremo a far ciò. E allora, quando una ragnatela di fili che sussurrano avrà circondato l'azzurro del cielo, quando il rondone sarà scomparso e la vita sarà diventata sopravvivenza, quando i fiumi saranno morti con i laghi e le montagne, quando il vostro folle modo di vivere avrà sommerso la terra, un grande fuoco simile ad un sole, che voi stessi avrete costruito nella vostra ansia di distruzione e di dominio, cadrà dal cielo e distruggerà ogni cosa. e la terra e gli uomini saranno pietra per sempre.

Vedi la presentazione, scritta per Urbanistica informazioni, qui in eddyburg.it

L'atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole. Oceana, Tamoé, Armonia, New-Lanark, Icaria.

Chiese a Marco Kublai: - Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quale di questi futuri ci spingono i venti propizi.

- Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell'approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s'apre nel bel mezzo d'un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s'incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lì metterò assieme pezzo per pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d'istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t'ho detto.

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.

Dice: - Tutto è inutile, se l'ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.

E Polo: - L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Dal Dizionario di economia politica, a cura di C. Napoleoni, edizioni di Comunità, Milano 1956, pp. 565-578. I brani riportati sono alle pp. 574-577

[…] 10. Non si può negare che l’identificazione di economia ed econometrica sia una tendenza favorita dalla particolare natura della cultura contemporanea, che, nella misura in cui è dominata dall’empirismo, esclude la possibilità di una conoscenza scientifica nel senso tradizionale e classico della parola. E tuttavia, proprio nella lettera tura contemporanea, troviamo uno dei tentativi più rigorosi di fondare l’economia come scienza in senso proprio; di tale tentativo, che è quello del Robbins (1932), dobbiamo ora ricercare il valore e i limiti.

Scopo della ricerca di Robbins è la formulazione di una definizione di «fatto economico» che non sia, per usare i suoi termini, «classificatoria», ma «analitica»; ossia che non trascelga certi fatti, certi tipi di condotta, che sarebbero «economici» da altri che sarebbero non economici, ma indichi in che consista l’aspetto propriamente economico della generale condotta umana. Egli respinge perciò la definizione «classificatoria» allora corrente, specie in Inghilterra, secondo la quale sarebbero economici tutti gii atti che adducono al benessere, e la respinge con una critica definitiva, che, cioè, anche se si desse un concetto preciso di «benessere materiale» (il che peraltro non accade nella definizione in questione) rimarrebbe comunque il problema, indubbiamente economico, del modo in cui vadano ripartiti il tempo e i mezzi disponibili tra le attività dette «economiche» e quelle dette «non-economiche».

L’aspetto economico della condotta umana è allora cosi precisato da Robbins.

«Dal punto di vista dell’economista le condizioni dell’esistenza umana possiedono quattro caratteri fondamentali. Gli scopi sono molteplici, il tempo e i mezzi per conseguirli sono limitati e sono capaci di usi alternativi; nello stesso tempo gli scopi hanno diversa importanza. Eccoci qui creature senzienti con fasci di desideri e di aspirazioni, con masse di tendenze istintive, che tutti ci sospingono per differenti vie all’azione. Ma il tempo in cui queste tendenze possono essere espresse è limitato; il inondo esterno non offre piena opportunità al loro completo dispiegamento; la vita è breve; la natura è avara; i nostri compagni hanno altri obbiettivi. E tuttavia noi possiamo usare le nostre vite per compiere diverse cose, possiamo usare dei nostri materiali e dei servigi degli altri p er raggiungere diversi scopi.

«Ora la molteplicità degli scopi non ha in se un necessario interesse per l’economista. Se io ho bisogno di fare due cose e ho abbondanza di tempo e abbondanza di mezzi per farle entrambe, e il tempo o i mezzi non mi occorrono per nient’altro, allora la mia condotta non assume nessuna di quelle forme che costituiscono l’oggetto della scienza economica. Il nirvana non è necessariamente una semplice beatitudine: è nient’altro che la soddisfazione completa di tutti i bisogni.

«Né la sola limitazione dei mezzi è per sé sufficiente a dare origine a fenomeni economici. Se i mezzi di soddisfazione non hanno un uso alternativo, possono essere scarsi ma non possono essere economizzati. La manna che piove dal cielo poteva essere scarsa, ma, se era impossibile scambiarla con qualche altra cosa o differirne l’uso, non era oggetto di qualsivoglia attività avente un aspetto economico.

«Né, ancora, l’applicabilità alternativa di mezzi scarsi è da sola condizione sufficiente per l’esistenza del genere di fenomeni che stiamo esaminando. Se il soggetto economico ha due scopi e un solo mezzo per soddisfarli e i due scopi sono di eguale importanza, la sua posizione sarà uguale a quella dell’asino della favola, incapace a muoversi tra due fasci di fieno ugualmente attraenti.

«Ma quando il tempo e i mezzi per conseguire gli scopi sono limitati e sono suscettibili di applicazione alternativa, e gli scopi possono essere distinti in ordine d’importanza, allora la condotta assume necessariamente la forma di una scelta».

La scienza economica ne risulta definita come segue: «L’economica è la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi». Ciò posto, e in questo sta appunto il carattere non «classificatorio» della definizione, «noi non diciamo che la produzione delle patate è un’attività economica, e che non è tale la produzione della filosofia. Diciamo che l’una e l’altra specie di attività ha il suo aspetto economico, in quanto implichi rinunzia ad altre alternative desiderate. Non vi sono limiti all’oggetto della scienza economica, salvo questo». […]

La definizione di Robbins, sebbene ampiamente accolta, ha .avuto questo di caratteristico, che da essa non è derivata alcuna rilevante conseguenza sul lavoro scientifico effettivo. E ciò malgrado il fatto che tale definizione è stata la migliore caratterizzazione che fino ad oggi si sia avuta dell’aspetto economico dell’agire umano. In particolare, essa non è valsa ad arrestare quella tendenza verso la progressiva scomparsa della riflessione sul problema economico, che abbiamo

rilevata poco sopra. È chiaro perciò che, malgrado il suo valore, essa deve contenere dei limiti gravi. […]

In effetti, non si può dire che la definizione i di Robbins abbia esaurito il problema della natura della scienza economica. A conferma di ciò sembrano pertinenti le seguenti considerazioni. Robbins non si avvede, e comunque non rende esplicito, che la scarsità dei mezzi ha radici non esterne ma interne all'uomo. Essa non dipende, come lui dice, dal fatto che la «natura è avara», ma dal fatto che l'uomo limitato, e la stessa apparente «avarizia» della natura altro non è il riflesso della limitatezza dell'uomo. D'altra parte, quella limitatezza che costituisce una componente essenziale dell'atto economico, in quanto è limitatezza dell'uomo, ha questo di caratteristico, che può superare ogni sua data determinazione in un processo per sua natura illimitato. Questo processo di superamento trova la sua espressione materiale nel lavoro. Ogni operazione umana è necessariamente h prodotto di lavoro. Appunto in quanto è prodotto di lavoro, ogni operazione umana è suscettibile di essere considerata economicamente. Questa è la verità più profonda della teoria classica del valore. I mezzi dunque dei quali si parla nella definizione di Robbins, ove siano rettamente intesi, non possono essere altro che specificazioni del lavoro: il lavoro, se si vuole, è il mezzo al quale ogni altro è riconducibile. Ma nel momento in cui si riconosce la caratteristica essenziale del lavoro umano di poter sempre espandersi superando i limiti propri ogni sua specifica determinazione, sorge la possibilità di riconoscere nei fini, che in Robbins rimanevano al di fuori della portata del discorso economico, almeno un aspetto che li rende suscettibili di considerazione economica, e cioè la misura in cui essi contribuiscono II'espansione e all'arricchimento del lavoro umano, ossia all'allargamento dei mezzi, e quindi alla diminuzione della scarsità, che condiziona il processo di creazione della ricchezza.

Comunque, la necessità di approfondire i termini di questa questione per giungere a ridefinire in modo positivo la natura della scienza economica sembra implicita nella necessità di superare la crisi che questa scienza oggi attraversa. Ma quest'opera di approfondimento deve avere un presupposto fondamentale. Essa richiede cioè che, raccogliendo i frutti della critica marxiana, si superino nell'analisi del concetto di lavoro, le determinazioni che il lavoro storicamente riceve dai singoli sistemi storici e che, fino a oggi, sempre hanno impedito, sia pure per ragioni e in forme diverse, l'esplicazione piena della sua natura.

Le citazioni di Robbins sono tratte da: L. Robbins, An Inquiry into the Nature and Significance of Economic Science, Londra, I ed 1932, II ed. 1935; trad. it. Saggio sulla natura e l’importanza della scienza economica, Torino 1947

Noi restiamo colpiti da ammirazione al vedere tra gli antichi lo stesso personaggio essere al tempo stesso, e in grado eminente, filosofo, poeta, oratore, storico, sacerdote, amministratore, generale di esercito. I nostri spiriti si smarriscono alla vista di un campo così vasto. Ognuno ai giorni nostri pianta la sua siepe e si chiude nel suo recinto. Ignoro se con questa sorta di ritaglio il campo si ingrandisce, ma so bene che l’uomo si rimpicciolisce.

Pierre-Edouard Lemontey, (1762-1826), storico ed economista francese, membro del'Assemblea legislativa dal 1771 al 1772, è stato redattore di vari giornali sotto il Direttorio. Citato da Karl Marx, Miseria della filosofia, Roma 1948, p. 115

Spreading Democracy. The Word’s Most Dangerous Idea è stato pubblicato in internet nel settembre/ottobre 2004. E’ inserito, con alcuni altri scritti dell’autore de Il secolo breve, nel libro Imperialismi, trad. it di Daniele Didero, Rizzoli, Milano 2007.

Siamo attualmente impegnati in ciò che dovrebbe essere un riordino pianificato del mondo a opera degli Stati più potenti. Le guerre in Iraq e in Afghanistan costituiscono solo una parte di un tentativo universale di creare un ordine mondiale attraverso l'«esportazione della democrazia». Ora, una simile idea non è soltanto donchisciottesca: è profondamente pericolosa. La retorica che circonda questa crociata sostiene che il sistema democratico è applicabile in una forma standardizzata (quella occidentale), che può essere introdotto ovunque con successo, che può offrire una risposta ai dilemmi internazionali del giorno d'oggi e che può portare la pace (anziché seminare ulteriore disordine). Male cose non stanno così.

La democrazia gode giustamente del favore popolare. Nel 1647, i Livellatori inglesi diffusero la potente idea secondo cui «il governo risiede interamente nel libero consenso del popolo». Con ciò intendevano riferirsi al diritto di voto esteso a tutti. Naturalmente, il suffragio universale non garantisce nessun particolare risultato politico, e le elezioni (come la Repubblica di Weimar ci insegna) non possono nemmeno garantire il loro stesso ripetersi. È anche improbabile che la democrazia elettorale produca risultati convenienti per le potenze imperialistiche o egemoniche. (Se la guerra in Iraq fosse dipesa dal consenso liberamente espresso della «comunità internazionale», non avrebbe mai avuto luogo.) Queste incertezze, comunque, non diminuiscono l'attrattiva della democrazia elettorale.

Oltre alla sua popolarità, ci sono diversi altri fattori che contribuiscono a spiegare l'illusoria e pericolosa convinzione secondo la quale sarebbe di fatto possibile diffondere la democrazia attraverso l'intervento di eserciti stranieri. La globalizzazione sembra suggerire che l'umanità si stia evolvendo verso l'adozione di modelli universali. Se i distributori di benzina, gli iPod e gli esperti di computer sono uguali in tutto il mondo, perché ciò non dovrebbe valere anche per le istituzioni politiche? Questo modo di vedere le cose tende tuttavia a sottovalutare la complessità del mondo. Anche la ricaduta nell'anarchia e negli spargimenti di sangue a cui abbiamo chiaramente assistito in molte parti del mondo ha accresciuto il fascino dell'i-dea di diffondere un nuovo ordine. Il caso dei Balcani è parso mostrare che le aree di disordine e di catastrofe umanitaria richiedono l'intervento - militare, se necessario - di Stati forti e stabili. Nell'assenza di un governo internazionale in grado di prendere effettivi provvedimenti, alcuni umanitaristi sono già pronti ad appoggiare un ordine mondiale imposto dalla potenza americana. Tuttavia, quando le potenze milîtari sconfiggono e occupano Stati più deboli affermando che stanno facendo un favore alle loro vittime e al mondo intero, dovremmo come minimo nutrire sempre qualche sospetto.

Tuttavia, c'è anche un altro fattore, che potrebbe essere quello più importante: gli Stati Uniti sono stati pronti a intervenire can la necessaria combinazione di megalomania e messianismo, derivata dalle loro origini rivoluzionarie.- Oggi gli Usa non hanno rivali in grado di sfidare la loro supremazia tecnologico-militare, sono convinti della superiorità del loro sistema sociale e, dal 1989, hanno smesso di ricordare (come invece avevano sempre fatto tutti i più grandi imperi conquistatori del passato) che il loro potere materiale ha dei limiti. Come il presidente Woodrow Wilson (che, ai suoi giorni, andò incontro a un fallimento internazionale spettacolare), gli ideologi di oggi vedono una società modello già attuata negli Stati Uniti: una combinazione di legge, liberalismo, competizione fra le imprese private e regolari sfide elettorali il cui esito viene deciso con il suffragio universale. Tutto ciò che resta da fare è rimodellare il mondo a immagine di questa «società libera».

Questa idea è un modo pericoloso di autoconvincersi. Anche nei casi in cui (intervento di una grande potenza potrebbe avere conseguenze moralmente o politicamente desiderabili, appoggiare questo tipo di azioni è rischioso, perché la logica e il modo di procedere degli Stati non sono quelli dei diritti universali. Ogni singola nazione mette al primo posto i propri interessi. Se ne hanno il potere, e se ritengono che il fine sia sufficientemente importante, gli Stati giustificano i mezzi necessari per raggiungerlo (anche se raramente lo fanno in pubblico), in particolare quando pensano che Dio sia dalla loro parte. Tanto gli imperi «buoni» quanto quelli «cattivi» hanno prodotto la barbarizzazione della nostra epoca, alla quale la «guerra contro il terrore» ha dato ora il proprio contributo.

Finché di fatto minaccerà l'integrità di valori universali, la campagna per diffondere la democrazia non avrà successo. Il XX secolo ci ha dimostrato che gli Stati non sono assolutamente in grado di rimodellare il mondo o di accelerare artificialmente le trasformazioni storiche. E non possono neppure ottenere un cambiamento sociale in modo semplicistico, limitandosi a trasferire i modelli di istituzioni da un Paese all'altro. Anche negli Stati-nazione territoriali, per un effettivo governo democratico sono necessarie condizioni non così frequenti o scontate: le strutture dello Stato devono godere di legittimità e consenso, e avere la capacità di mediare i conflitti fra i diversi gruppi interni. In mancanza di questi requisiti, non c'è un singolo popolo sovrano e, pertanto, non c'è legittimità per le maggioranze numeriche. Quando il consenso - che sia religioso, etnico o entrambe le cose - è assente, la democrazia viene a essere sospesa (come nel caso delle istituzioni democratiche nell'Irlanda del Nord), lo Stato si divide (come in Cecoslovacchia), o la società sprofonda in una permanente guerra civile (come in Sri Lanka). La scelta di «esportare la democrazia» ha aggravato i conflitti etnici e ha prodotto la disgregazione di Stati in regioni multinazionali e multicomunitarie sia dopo il 1918, sia dopo il 1989; si tratta, insomma, di una tetra prospettiva.

Oltre alle sue scarse probabilità di successo, lo sforzo di diffondere la democrazia nella sua versione standardizzata occidentale soffre anche di un radicale paradosso. In larga misura esso è considerato come una soluzione dei pericolosi problemi tra nazioni del mondo d'oggi. Attualmente, una parte sempre più grande della vita umana viene decisa al di là dell'influenza degli elettori, da entità sovranazionali pubbliche e private che non hanno elettorati (o, perlomeno, in cui non si svolgono elezioni democratiche). E la democrazia elettorale non può di fatto funzionare al di fuori di unità politiche come gli Stati-nazione. Gli Stati più forti stanno quindi cercando di diffondere un sistema che essi stessi ritengono inadeguato per affrontare le sfide del mondo d'oggi.

Questo punto è ben esemplificato dalla situazione europea. Un'entità come l'Unione Europea ha potuto svilupparsi in una struttura autorevole ed efficiente proprio perché non ha un elettorato (al di fuori di un piccolo numero - per quanto crescente - di governi membri). L'Ue non sarebbe andata da nessuna parte senza il suo «deficit democratico», e non può esserci futuro per il suo Parlamento per il semplice motivo che non esiste un «popolo europeo», bensì una mera collezione di «popoli membri» (più della metà del presunto «popolo» non si è preso neppure la briga di andare a votare per eleggere il Parlamento di Bruxelles nel 2004). L'«Europa» è oggi un'entità funzionante, ma a differenza dei suoi singoli Stati membri non gode di legittimità popolare o di autorità elettorale. Non ci sorprende quindi che, appena l'Ue si spinge oltre le negoziazioni fra i governi e diventa il soggetto di una campagna democratica negli Stati membri, iniziano a sorgere dei problemi.

Lo sforzo volto a esportare la democrazia è pericoloso anche per un motivo più indiretto: esso trasmette a coloro che non godono di questa forma di governo l'illusione che nei Paesi che ne godono la democrazia sia effettiva. Male cose stanno davvero così? Oggi noi conosciamo qualcosa su come sono state di fatto prese le decisioni di andare in guerra in Iraq in almeno due nazioni di indubitabile tradizione democratica: gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. A parte sollevare a posteriori complessi problemi di inganni e occultamenti di verità, la democrazia elettorale e le assemblee rappresentative hanno avuto poco a che vedere con quel processo. Le decisioni sono state prese in privato da piccoli gruppi di persone, in modo non molto diverso da quanto sarebbe accaduto in Paesi non democratici. Fortunatamente, nel Regno Unito non è facile aggirare ed eludere l'indipendenza dei media. Ma la democrazia elettorale da sola certo non basta ad assicurare l'effettiva libertà di stampa, né i diritti dei cittadini o l'indipendenza del potere giudiziario.

Sono passati quarant’anni dal discorso che Robert Kennedy tenne all’Università del Kansas il 18 Marzo 1968, nel pieno della campagna elettorale per la Presidenza degli USA. Un discorso coraggioso, rivolto soprattutto ai giovani cui chiedeva di esprimere una decisa volontà di cambiamento. Il riferimento strategico era la fine della guerra in Vientnam e il risveglio di un rinnovato sentimento di dignità nazionale, orientato alla lotta sia contro la povertà materiale (negli USA e nel mondo) sia contro la miseria nei rapporti tra le persone, nelle aspirazioni e negli obiettivi dell’esistenza. Lotta contro la povertà materiale e quella spirituale, risveglio della solidarietà. Tre mesi dopo, Robert Kennedy fu assassinato.

Nel quadro del suo discorso colpiscono le parole anticipatrici dedicate alla denuncia dell’assoluta insufficienza dei consolidati parametri economici nel misurare l’effettivo benessere di una nazione. La critica al concetto stesso di PIL è la parte più nota di quel discorso. Qui la riprendiamo e traduciamo, dal testo ufficiale. In calce, il link al testo integrale, in lingua inglese.

[…] Ma anche se agiamo per eliminare la povertà materiale, c’è un altro più grande compito, cioè affrontare la miseria dell’appagamento – scopo e dignità – che ci affligge tutti. Troppo, e troppo a lungo, è sembrato che l’eccellenza personale e i valori comunitari si fossero arresi alla mera accumulazione di beni materiali. Il nostro Prodotto Interno Lordo è oggi oltre gli 8 miliardi di dollari annui, ma questo Prodotto Interno Lordo – se giudichiamo gli USA da questo – questo Prodotto Interno Lordo mette in conto l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze necessarie per ripulire le nostre strade dalle carneficine. Mette in conto le serrature speciali per le nostre porte e le carceri per le persone che le infrangono. Mette in conto la distruzione dei boschi sempreverdi e la perdita delle nostre meraviglie naturali nel caotico sprawl: Mette in conto il napalm e le testate nucleari e i carri armati che la polizia usa per combattere le rivolte nelle nostre città. Mette in conto i fucili Whitman’s e i coltelli Speck’s, e i programmi della televisione che glorificano la violenza per vendere giocattoli ai nostri bambini.

Ma il Prodotto Interno Lordo non mette in conto la salute dei nostri bambini, la qualità della loro educazione o la gioia dei loro giochi. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità delle nostre famiglie, l’intelligenza dei nostri dibattiti e l’integrità dei nostri funzionari pubblici. Non misura né la nostra intelligenza né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né il nostro sapere, né la nostra compassione né la nostra dedizione al nostro paese. In sintesi, misura tutto, fuorché quello rende la vita degna d’essere vissuta. Ci sa dire tutto sull’America, fuorché ciò che ci rende orgogliosi d’essere americani.

Se tutto questo è vero qui a casa nostra, allora è vero in tutto il mondo. Dall’inizio dei nostri più orgogliosi vanti c’è la promessa di Jefferson, che noi, qui in questo paese, saremmo stati la migliore speranza dell’umanità. E adesso, se guardiamo alla guerra in Vietnam, ci meravigliamo se ancora rispettiamo sufficientemente le opinioni dell’umanità, e se gli altri mantengono un sufficiente rispetto per noi .oppure se, come l’antica Atene, perderemo la simpatia, e l’aiuto, e infine la nostra stessa sicurezza, a causa dell’egoistico perseguire i nostri esclusivi bersagli e i nostri esclusivi obiettivi. […]

Il testo integrale del discorso è in questo sito. Il brano riprtato qui sopra è stato verificato sulla registrazione audio tratta da questo sito

Franco Cassano, Homo civicus, Edizioni Dedalo, Roma 2004, p. 12

Per un lungo periodo i partiti sono stati il punto di condensazione privilegiato della cittadinanza, gli strumenti attraverso i quali i cittadini, anche quelli meno potenti, hanno esercitato il loro peso sulle grandi decisioni. I movimenti della cittadinanza attiva trovavano in essi la loro sede principale, anche se non unica, di espressione. A lungo quindi i partiti e lo sviluppo della democrazia di massa hanno marciato con lo stesso passo. Ma oggi ai partiti s'impone di mutare in modo radicale l'immagine di sé e di evitare di rimanere seduti su una soddisfatta e pericolosa autarchia ad ammirare i trofei vinti nelle passate competizioni. Una volta essi ospitavano, accanto agli interessi organizzati, il dibattito culturale e una straordinaria quantità di lavoro volontario. Troppo spesso invece oggi rassomigliano ad agenzie di collocamento, affollate da creditori impazienti di riscattare gli anni di passione commutandoli in piccole o grandi poltrone, convinti di detenere in modo permanente il monopolio legittimo della rappresentanza. Il briciolo di follia, che accompagnava la militanza volontaria e il dibattito culturale nei partiti, si è spostato altrove, alla ricerca di altri canali e altre forme di espressione civile. Si tratta di una ricerca difficile e, come accade alle ricerche vere, tutt'altro che immune da errori e semplificazioni,che pone un problema di grande rilievo: i partiti non possono più pretendere il monopolio della rappresentanza politica, ma devono accettare la sfida della competizione e del confronto, la sfida della cittadinanza. Noi non crediamo che i partiti siano finiti, ma la qualità della vita che li aspetta è nelle loro mani, dipende dalla loro capacità di muoversi nelle nuove condizioni, di tornare ad intercettare ancora un po' di quella follia.

Chi scriverà la storia della scienza della seconda metà del XX secolo non potrà trascurare un dato importante. In quella fase, l’economia come disciplina scientifica, sapere destinato ad accrescere la produzione e il consumo di ricchezza, sostituisce di fatto la fisica come Big Science, come scienza dominante delle società industriali. E' un aspetto che si tende a dimenticare l'apparato di razionalità che ha guidato le società post-industriali non è stato quello della fisica o della biologia o del pensiero filosofico, ma quello dell’economia. E nella seconda metà del Novecento la scienza economica si è messa al servizio di una gigantesca opera di saccheggio delle risorse naturali. E soprattutto ha finito coll'imporre una visione del mondo che ha separato la realtà sociale dalla biosfera, l'opera dell'uomo dal mondo vivente, la storia dalla natura. Il pensiero economico contemporaneo, nel suo progetto di crescita illimitata della produzione di ricchezza, si è di fatto fondato sulla completa rimozione del mondo fisico. E ha piegato a tale fine tutti gli altri saperi. A questi ultimi anche quando essi erano portatori di una visione sistemica e complessa della realtà naturale - ha lasciato un compito ancillare di mera riparazione delle distruzioni che esso promuoveva e ispirava. Anche le scienze ecologiche sono state costrette a star dietro ai danni prodotti, a svolgere un'opera sempre post-factum, di restaurazione, di riaggiustamento.”

Qui il testo integrale della lezione di Piero Bevilacqua

Pubblichiamo il discorso pronunciato da in occasione della consegna del XVII Premi Internacional Catalunya 2005

Con il passare degli anni, ogni giorno di più provo la sensazione di usurpare il tempo che mi resta da vivere e penso che nulla più giustifichi il posto che io occupo ancora su questa Terra. Pertanto la vostra decisione costituisce una preziosa consolazione, mi garantisce che vi sono sempre presente e che tutto ciò che ho prodotto negli ultimi tre quarti di secolo non è già sorpassato. Vi esprimo pertanto tutta la mia gratitudine.

Sono trascorsi pochi mesi da quando abbiamo saputo dalla stampa che per iniziativa della Generalitat de Catalunya a Barcellona è nata un’Euroregione Pirenei-Mediterraneo, una vasta contrada di frontiera a cavallo tra due regioni, alla quale occorre aggiungere i due paesi Baschi e dove si può riconoscere, ingrandita, l’antica Marche de Gothie (marca gotica) risalente ai tempi carolingi, il cui capoluogo, non dimentichiamolo, era appunto Barcellona.

Ho conosciuto un’epoca in cui l’identità nazionale era l’unico principio concepibile cui si ispiravano le relazioni tra gli Stati, ma sappiamo bene quali guai ne siano derivati. Così come voi l’avete concepita, l’euroregione crea tra i paesi nuove relazioni che superano le frontiere e controbilanciano le antiche rivalità per mezzo di legami concreti che prevalgono in scala locale sui piani economici e culturali. Che il vostro premio mi sia consegnato a Parigi, per un’eccezione dovuta alle prerogative dell’età e di cui vi ringrazio, è un modo in più per sottolineare questo avvicinamento tra gli Stati, per superare i confini dei quali è stata creata l’euroregione come quella tra Catalogna, i paesi ad essa vicini e la Francia meridionale.

Personalmente, avverto il riallacciarsi di questi legami con la Catalogna in modo alquanto intimo, essendo partecipe di una corrente di pensiero alla quale nel corso del XX secolo si è dato il nome di strutturalismo, ma contrariamente a ciò che si è abituati a credere non si tratta affatto di un’invenzione moderna. Già nel corso del XIII-XIV secolo era già apparsa, quanto meno a grandi linee, nel grande intellettuale catalano il cui nome in francese si pronuncia Raymond Lulle. Il mondo è naturalmente percepito come caos. Per ovviare a ciò, i predecessori di Lulle avevano ordinato per gradi gli aspetti del reale, in funzione delle loro più o meno grandi somiglianze. Al contrario, Lulle partì invece dalla differenza, opponendo i termini estremi e facendo scaturire tra loro delle mediazioni. Egli concepì altresì un sistema logico molto originale che permetteva, per mezzo di operazioni ricorrenti, di catalogare tutte le relazioni possibili tra i concetti e gli esseri e mise dunque il concetto di rapporto alla base del meccanismo del pensiero.

Dall’arte combinatoria da lui inventata, nel corso dei secoli Nicolas de Cues, Charles de Bovelles, Leibniz e in seguito la linguistica strutturale e l’antropologia trassero validi insegnamenti.

E in considerazione del legame con il movimento di idee al quale faccio riferimento che, se voi lo permettete, io metterei sotto gli auspici di Raymond Lulle l’onore che ricevo oggi. (Del resto come Dante per il toscano e il maestro Eckart per il tedesco, Lulle non fu forse il padre della vostra lingua letteraria?).

Poiché sono nato all’inizio del XX secolo e in considerazione del fatto che fino alla sua fine ne sono stato uno dei testimoni, mi viene spesso chiesto di pronunciarmi su di esso. Sarebbe sconveniente che io mi elevassi a giudice degli avvenimenti tragici che l’hanno contrassegnato: ciò spetta a coloro che li vissero in modo doloroso, mentre io sono stato fortunato a più riprese, anche se l’intera mia carriera ne è stata fortemente influenzata.

L’etnologia - in merito alla quale ci si può domandare se sia prima di tutto una scienza o un’arte (ma può anche darsi che sia entrambe le cose) - affonda le sue radici in parte in un’epoca antica e in parte in un’altra, recente.

Alla fine del Medioevo e nel Rinascimento, quando gli uomini riscoprirono l’antichità greco-romana, quando i gesuiti fecero del greco e del latino il presupposto stesso del loro insegnamento, non praticarono forse una forma primigenia di etnologia? Fu allora che si ammise che nessuna civiltà è in grado di analizzarsi se non dispone di qualche altra civiltà che serva da termine di paragone.

Il Rinascimento trovò nella letteratura antica il modo di mettere in prospettiva la propria cultura, mettendo a confronto i concetti contemporanei con quelli di altri tempi e di altri luoghi. La sola differenza tra la cultura classica e la cultura etnografica è dovuta all’estensione del mondo conosciuto nelle rispettive epoche: all’inizio del Rinascimento, l’universo umano era delimitato dai confini del bacino del Mediterraneo. Di tutto il resto si congetturava soltanto l’esistenza, ma si sapeva già che nessuna frazione di umanità poteva aspirare a capirsi se non ponendosi in rapporto con tutte le altre.

Nel corso del XVIII e del XIX secolo, l’umanesimo si diffonde dunque grazie agli sviluppi dell’esplorazione geografica. Nelle carte geografiche sono incluse Cina e India. La nostra terminologia universitaria, che designa il loro studio sotto il nome di filologia non classica, con la sua incapacità a creare un termine originale ammette di fatto che si tratta del medesimo movimento umanista che si estende a un territorio nuovo. Interessandosi poi alle ultime civiltà ancora snobbate - le società dette primitive - l’etnologia fece percorrere all’umanesimo la sua terza tappa.

Essendo scomparse le civiltà antiche, non ci si poteva spingere fino ad esse se non attraverso i testi e le tendenze di pensiero. Quanto all’Oriente e all’Estremo Oriente, dove tale difficoltà non sussisteva, il metodo rimase immutato, perché si credeva che civiltà così lontane non meritassero attenzione se non per le loro produzioni più dotte e più raffinate.

Le modalità conoscitive dell’etnologia sono al contempo più esteriori e più interiori (si potrebbe dire più grezze e più fini) di quelle dei suoi precursori. Per penetrare in società dall’accesso particolarmente difficile, l’etnologia è obbligata a collocarsi molto al di fuori (antropologia fisica, preistoria, tecnologia) e altresì molto dentro, tramite l’identificazione da parte dell’etnologo del gruppo con il quale condivide l’esistenza e dando estrema importanza alle più piccole sfumature della vita spirituale degli indigeni.

Sempre al di qua e al di là dell’umanesimo tradizionale, l’etnologia gli va oltre, in tutti i sensi.

Il suo campo d’azione include la totalità delle terre abitate, mentre il suo metodo mette insieme procedimenti derivanti da tutte le forme del sapere, le scienze umane e le scienze naturali.

Ma la nascita dell’etnologia procede altresì da considerazioni più tardive e di altro ordine. E nel corso del XVIII secolo che l’Occidente ha acquisito la convinzione che l’estensione progressiva della propria civiltà era ineluttabile e che avrebbe minacciato l’esistenza di migliaia di società più umili e fragili le cui lingue, credenze, arti e istituzioni erano tuttavia testimonianze insostituibili della ricchezza e della diversità delle creature umane. Se si nutriva la speranza di poter conoscere un giorno che cosa è l’uomo, era importante finché si era ancora in tempo riunire tutte queste realtà culturali totalmente estranee agli apporti e alle imposizioni dell’Occidente, compito tanto più pressante in quanto queste società senza scrittura non fornivano alcun documento scritto né, per la maggior parte, documentazioni figurative.

Ebbene, prima ancora che tale missione sia sufficientemente portata avanti, tutto ciò è in procinto di scomparire o, per lo meno, di cambiare radicalmente. I piccoli popoli che noi definiamo indigeni ricevono ora tutte le attenzioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e, allorché sono invitati alle riunioni internazionali, ciascuno di essi prende coscienza dell’esistenza dell’altro. Gli indiani americani, i maori della Nuova Zelanda, gli aborigeni australiani scoprono di aver sperimentato destini assai simili e di possedere interessi comuni. Al di là dei particolarismi che conferiscono a ciascuna cultura la propria specificità, si va delineando una coscienza collettiva. Al tempo stesso ciascuna di queste culture si impregna dei metodi, delle tecniche e dei valori dell’Occidente. Senza alcun dubbio questa uniformazione non sarà mai portata a termine. Altre differenze vanno progressivamente emergendo, offrendo nuovo materiale alla ricerca etnologica. Ma in un’umanità diventata compartecipe, queste differenze saranno di altra natura: non più esterne alla civiltà occidentale, bensì interne alle forme ibride di essa, ed estese a tutta la Terra.

Questo cambiamento di rapporti tra le varie componenti della famiglia umana sviluppata in modo diseguale, da un’angolazione tecnica è la conseguenza di uno sconvolgimento più profondo. Poiché nel corso dell’ultimo secolo ho assistito a questa catastrofe senza eguali nella storia dell’umanità, mi si permetterà di evocarla su un piano personale. Alla mia nascita la popolazione della Terra contava un miliardo e mezzo di abitanti. Quando entrai nella vita attiva, verso il 1930, gli abitanti della Terra erano già arrivati a due miliardi. Oggi sono sei miliardi e se dobbiamo credere alle previsioni dei demografi tra qualche decennio si arriverà a nove miliardi.

Gli esperti ci dicono che quest’ultima cifra rappresenterà il punto più alto e che in seguito la popolazione declinerà così rapidamente - aggiungono altri - che nel volgere di qualche secolo graverà una minaccia sulla sopravvivenza della nostra specie. Ad ogni buon conto essa avrà già esercitato gravi danni sulla diversità, non soltanto culturale, ma altresì biologica, facendo scomparire molte specie animali e vegetali.

Il responsabile di queste estinzioni è senza alcun dubbio l’uomo, ma le loro ripercussioni si ritorcono contro di lui. Non esiste alcuna grande calamità contemporanea, probabilmente, che non abbia la propria origine diretta o indiretta nella difficoltà crescente di vivere insieme, inconsciamente avvertita da un’umanità in preda all’esplosione demografica e che - al pari di quei bachi della farina che si intossicano a distanza nel sacco che li rinchiude, ben prima che cominci a mancare loro il cibo - si metterebbe a odiarsi da sola, perché una prescienza misteriosa l’avverte che sta diventando troppo numerosa perché ciascuno dei suoi membri possa liberamente gioire dei suoi beni essenziali, che sono lo spazio aperto, l’acqua pura e l’aria incontaminata.

E così la sola chance offerta all’umanità sarebbe quella di riconoscere di essere diventata vittima di se stessa. Tale condizione la mette su un piano di eguaglianza con qualsiasi altra forma di vita che essa si è adoperata e continua ad adoperarsi a distruggere.

Tuttavia, se l’uomo possiede prima di tutto dei diritti in quanto essere vivente, ne risulta che tali diritti, riconosciuti all’umanità in quanto specie, trovano i loro limiti naturali nei diritti delle altre specie. I diritti dell’umanità cessano di esistere nel momento stesso in cui esercitarli mette a repentaglio l’esistenza di altre specie.

Il diritto alla vita e al libero sviluppo delle specie viventi ancora rappresentate sulla Terra può soltanto definirsi imprescrittibile, per la ragione molto semplice che la scomparsa di una specie qualsiasi scava un buco, irreparabile, a scala umana, nel sistema della creazione.

Soltanto questo modo di considerare l’uomo potrebbe raccogliere l’assenso di tutte le civiltà. La nostra prima di tutto, perché il concetto che vi ho appena illustrato è lo stesso dei giureconsulti romani, intrisi di influenze stoiche, che definirono la legge naturale come l’insieme di rapporti generali fissati dalla natura tra tutti gli esseri viventi per la loro comune conservazione; quello altresì delle grandi civiltà orientali e dell’Estremo Oriente, ispirate dall’induismo e dal buddismo; quello, infine, dei popoli cosiddetti sottosviluppati e persino dei più umili tra loro, ovvero le società prive di scrittura che gli etnologi studiano. Grazie a sagge usanze, che avremmo torto a relegare al rango di superstizioni, esse evitano la distruzione da parte dell’uomo delle altre specie viventi, imponendogliene il rispetto morale, associato a regole molto severe per garantirne la conservazione. Per quanto queste ultime società siano assai differenti le une dalle altre, esse concordano nel fare dell’uomo un soggetto ricevente e non un maestro della creazione.

Questa è la lezione che l’etnologia ha appreso da esse, e auguriamoci che al momento di unirsi al concerto delle nazioni queste società la mantengano integra e che, grazie al loro esempio, noi si sappia esserne ispirati.

(Traduzione di Anna Bissanti)

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.

- Ma qual'è la pietra che sostiene il ponte? - chiede Kublai Kan.

- Il ponte non e sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco, - ma dalla linea dell'arco che esse formano.

Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: - Perché mi parli delle pietre? È solo dell'arco che m'importa.

Polo risponde: - Senza pietre non c'è arco.

Italo Calvino

Da: Le città invisibili, Einaudi

Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L'indifferenza è il peso morto della storia. L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l'intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perchè la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La massa ignora, perchè non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche per questo: perchè mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

Antonio Gramsci, 11 febbraio 1917

La minuscola valle del Cedron, in questi mesi d’inverno, è quasi un giardino: non è stretta fra polvere e lastre di tombe, c’è erba e qualche timido fiore. Resta però il cimitero di sempre, digradante verso la gola di Giosafat, ove si terrà, un giorno, il Grande Giudizio. Malgrado la storia e tante impietrite allusioni, Necropoli dei Profeti, Pilastro d’Assalonne, Tomba di Zaccaria, Cippo della Figlia di Faraone, traversare la valle, dal Getzemani alla città, è ancora angosciante: Gerusalemme, chiusa nelle sue mura in cima alla salita, è assediata dai morti, come se fosse lei la necropoli. Così parve a Gesù, negli ultimi giorni prima dello scontro, quando l’ostilità dell’establishment si andava facendo opprimente: guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché siete come sepolcri imbiancati che all’esterno appaiono belli a vedersi, dentro invece sono pieni d’ossa di morti e di ogni putredine… Fra i sepolcri più belli, sormontata da una piramide destinata a raccogliere i raggi di vita dal cielo, la tomba che la voce antica diceva di Zaccaria. Non è vero, ma serve a ricordare la minaccia del Galileo: cadrà su di voi tutto il sangue innocente sparso in terra, dal sangue del giusto Abele fino a quello di Zaccaria figlio di Barachia, che uccideste fra il santuario e l’altare. Valle di ricordi e di violenza, pietre macchiate, dicono, dal sangue di Giacomo e di Stefano: Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati… Valle di glorie passate e di nostalgie. Teatro, già allora, d’immemore prosopopea: guai a voi, scribi e farisei ipocriti, poiché innalzate i sepolcri dei profeti e ornate i monumenti dei giustidicendo: «Se fossimo stati ai tempi dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro nel versare il sangue dei profeti». Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di quelli che uccisero i profeti e colmate la misura dei vostri padri! Gesù si sa morto, negli sguardi dei suoi avversari. Sente la tentazione del sepolcro, del cavo umido in cui rannicchiarsi per sempre, al riparo dalla luce troppo amara della propria parola. Gli altri, i vivi, amano celebrare il passato per assolversi, proclamare la propria innocenza quando non c’è più fomite a quel peccato. Esentarsi così dal vedere il sangue che scorre e trasferire la propria coscienza in un periodo ipotetico: se fossimo stati ai tempi dei nostri padri… La memoria immunizza? Gli improbabili celebratori credono nel progresso della virtù, pensano d’essere meglio dei loro antenati. Mentre in Gesù l’umanità è stanca, com’era stanco Elia il profeta, quando s’accasciò, scappando dal sangue fumante dei quattrocentocinquanta estatici preti di Baal, e disse: ora basta, o Signore, prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri (1 Re 19,4). Nessuno può dire dove sarebbe andato nei sandali dei suoi antenati. Gesù sapeva bene – invece – che i profeti erano morti ammazzati e che i figli di chi allora aveva il potere d’uccidere ce l’avevano ancora. Punto. Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di quelli che uccisero i profeti. Nell’oggi che commemora il passato, i posteri possono essere (barrare la casella): giusti guerrieri esploratori scienziati artisti patrioti; oppure: pentiti vinti compunti coscienti solidali. Non importa: celebrano e stanno bene. Inni e monumenti li innalzano per attestarsi fieri su barricate da cui nessuno più spara. Comme par hasard, sovente dalla parte in cui c’è da guadagnare qualcosa, un po’ come quella di chi zittì d’una lapide l’antico profeta, che non piaceva al re, alla corte, ai sacerdoti, alla gente. La vita associata è un gioco – suggeriva Johan Huizinga – le cui regole ammettono il baro (che le sfrutta per ingannare il pollo), ma non il guastafeste: colui che distrugge l’incanto, che rivela l’assurdo della situazione. Così, Gesù sarà ucciso, lì, a Gerusalemme. Così i suoi discepoli: io mando a voi profeti, sapienti e scribi: quanti ne ucciderete mettendoli in croce, quanti ne flagellerete…Matteo si compiace d’ambientare questi discorsi in vista delle tombe del Cedron, sapendo che oltre la gola di Giosafat, ad occidente delle mura, corre la stretta valle dell’Innom, la celebre ed aborrita Geenna, luogo per nulla ameno, abbandonato alle bestie che si nascondono fra le pietre e gli sterpi: serpenti, razza di vipere, come sfuggirete al castigo della Geenna? Matteo però non seppellisce Gesù in questa condanna. Egli solo ricorda che, allo spirare del suo Profeta, il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo, la terra tremò e le rocce si spaccarono; le tombe si aprirono e molti corpi dei santi che vi giacevano risuscitarono e dopo la risurrezione di lui uscirono dalle tombe, entrarono nella città santa e apparvero a molti(Mt 27,51-53). A Pasqua, la giustizia non resta ricordo, chiede, pretende di essere vita in una città di vivi. Ciò che mai avrebbero voluto gli uccisori dei santi, e con essi coloro che ne avevano addobbato i sepolcri.

Gerusalemme, Mercoledì delle Ceneri 2006

Questo articolo apparirà in I Martedì 241 - Marzo 2006, numero contenente il Dossier sui temi politici: "1946-2006: Nodi alla meta".

L'immagine è presa dal sentiero che dalle alture del monte degli Ulivi scende verso la valle del Cedron. Dal sito Archeogate.

Troppo chiuso in sé e indifferente d'altro ed aspro era il carattere della vecchia gente di ***. Alla pressione delle pullulanti intorno genti italiane non resse, e presto imbastardì. La città s'era arricchita ma non seppe più il piacere che dava ai vecchi il parco guadagno sul frantoio o sul negozio, o i fieri svaghi della caccia ai cacciatori, quali tutti loro erano un tempo, gente di campagna, piccoli proprietari, anche quei pochi che avevano da fare con il mare e il porto. Adesso invece li premeva il modo turistico di godere la vita, modo milanese e provvisorio, lì sulla stretta Aurelia stipata di macchine scappottate e roulottes, e loro in mezzo tutto il tempo, finti turisti, o congenitamente sgarbati dipendenti dell'"industria alberghiera".Ma sotto mutate forme, l'operosa e avara tradizione rurale durava ancora nelle dinastie tenaci dei floricoltori, che in anni di fatiche familiari accumulavano lente fortune; e l'alacrità mercantile nel ceto mattiniero dei fioristi. Tutti i nativi godevano vantavano diritti di privilegiati; ed il vuoto sociale formatosi al basso attraeva, dai popolosi giacimenti di mano d'opera dell'estrema punta d'Italia le folle dei cupi calabresi, invisi ma convenienti di salario, sicché ormai una barriera quasi di razza divideva la borghesia dalle classi subalterne, come nel Mississippi, ma non impediva ad alcuni fra gli immigrati di tentare bruschi soprassalti di fortuna salendo alle dignità di proprietari o fittavoli e insidiando così anch'essi quei malcerti privilegi.

Pochi guizzi negli ultimi cent'anni aveva avuto la gente rivierasca, passate le, generazioni mazziniane che credettero nel Risorgimento, forse mosse dalla nostalgia delle estinte autonomie repubblicane. Non le riebbero; l'Italia unita non piacque loro; e, disinteressandosene, brontolando contro le tasse, s'attaccarono più di prima allo scoglio, salvo a saltar di li nel Sud America, grande loro impero familiare, luogo delle corse giovanili e dello sfogo delle energie e dell'ingegno, per chi si trovasse a esuberarne. Sulle riviere s'attestarono gli inglesi, nei loro giardini. gente posata e individuale, tacitamente amica di persone e natura così scabre. Vicino, la Francia indorava Nizza, riempiendo questa riva d'invidia. Era ormai nata la civiltà del turismo, e la striscia della costa prosperò, mentre l'entroterra immiseriva e prendeva a spopolarsi. Il dialetto divenne più molle, con cadenze infingarde; il noto intercalare osceno perse ogni violenza, assunse nel discorso una funzione riduttiva e scettica cifra d'indifferenza e sufficienza. Ma in tutto questo si poteva ancora riconoscere un'estrema difesa dell'atavico nerbo morale, fatto di sobrietà e ruvidezza ed understantemrnt, una difesa che era soprattutto uno scrollar di spalle, un negarsi. (Non dissimile l'atteggiamento poi espresso da una generazione di poeti rivieraschi, in versi e prose di pietrosa essenzialità che passarono ignoti ai conterranei e celebrati e malcompresi dalla letteratura dei fiorentini). Dominante il fascismo, s'accentuò - pur essendo già ben nota - l'estraneità dello Stato, mentre la cosmopoli degli ibernanti stranieri cedé, tra le due guerre, a un primo sedimentarsi di genti pan-italiane, nelle classi alte e nelle basse.

Ora, dopo la seconda guerra mondiale, era venuta la democrazia, ossia l'andare ai bagni l'estate d'intere cittadinanze. Una parte d'Italia, dopo un incerto quinquennio o giù di lì, ora aveva il benessere, un benessere sacrosantamente basato sulla produzione industriale, ma pur sempre difforme e disorganico data l'economia nazionale squilibrata e contraddittoria nella distribuzione geografica del reddito e sperperatrice nelle spese generali e nei consumi; però, insomma, sempre era benessere, e chi ce l'aveva poteva dirsi contento. Quelli che più potevano dirsi contenti (e non si dicevano tali, credendo fosse loro dovuto molto di più, che invece o non meritavano o non era né possibile né, giusto che avessero) dai centri industriali del Nord tendevano a gravitare sulla Riviera e particolarmente su ***. Erano proprietari di piccole industrie indipendenti (se alimentari o tessili) o subfornitrici d'altre più grandi (se chimiche o meccaniche), dirigenti aziendali, direttori di banca, capiservizio amministrativi cointeressati agli utili, titolari di commerciali, operatori di borsa, professionisti affermati, proprietari di cinema, negozianti, esercenti, tutto un ceto intermedio tra i detentori dei grossi pacchetti azionari ed i semplici impiegati e tecnici, un ceto cresciuto al punto da costituire nelle grandi città delle vere e proprie masse, la gente insomma che poteva acquistare in contanti o ratealmente un alloggio al mare (oppure affittarlo per stagioni o annate intere, ma questo era meno conveniente) e anche che aveva voglia di farlo, aspirando a vacanze relativamente sedentarie (non per esempio a grandi viaggi o cose estrose) che poi con la macchina si potevano movimentare vertiginosamente, perché in un salto si poteva andare a prendere l'aperitivo in Francia. Ormai a *** i ricchissimi venivano solo di passata, in corsa tra un Casinò e l'altro, e nello stesso modo veloce ci venivano gli operai delle grandi industrie, in “lambretta”, a ferragosto, con le mogli in pantaloni cariche dello zaino sul sedile posteriore, a fare il bagno stipati nelle esigue strisce di spiaggia, ripartendo poi per pernottare nelle pensioni più economiche d'altre località della costa. Più a lungo si fermava l'esercito sterminato delle dattilografe e impiegate contabili in shorts che occupava le pensioni locali con dietro il codazzo della gioventù studiosa o ragioniera, gloria dei dancings.

Ma questo era solo per lo stretto tempo delle ferie: la colonia stabile di *** era costituita da quel ceto medio-borghese che s'è detto, abitatore d'agiati appartamenti nelle proprie città e che qui tale e quale riproduceva (un po' più in piccolo; si sa, si è al mare) gli stessi appartamenti negli stessi enormi isolati residenziali e la stessa vita automobilistico-urbana. In questi appartamenti ai mesi freddi venivano a svernare i vecchi: genitori, nonni, suoceri, che prendevano il sole di mezzogiorno sulle passeggiate a mare come già quarant'anni prima i granduchi russi tisici e i milord. E alla stagione in cui un tempo i milord e le granduchesse lasciavano la Riviera e si spostavano nelle ombrose Karlsbad e Spa per la cura delle acque, ora negli appartamenti balneari ai vecchi davano il cambio le signore coi bambini e per i mariti occupatissimi cominciava la corvée delle gite tra sabato e domenica.

Era una folta Italia in tailleur, in doppiopetto, l'Italia ben vestita e ben carrozzata, la meglio vestita popolazione d'Europa, quale contrasto per le vie di * * * con le comitive goffe e antiestetiche dei tedeschi inglesi svizzeri olandesi o belgi in vacanza collettiva, donne e uomini di variegata bruttezza, con certe brache al ginocchio, coi calzini nei sandali o con le scarpe sui piedi nudi, certe vesti stampate a fiori, certa biancheria che sporge, certa carne bianca e rossa, sorda al buon gusto e all'armonia anche nel cambiar colore. Queste falangi straniere che, avide di bagni fuori stagione, prenotavano alberghi interi succedendosi in turni serrati da aprile a ottobre (ma meno in luglio e agosto, quando gli albergatori non concedono sconti alle comitive) erano viste dagli indigeni con una sfumatura di compatimento, al contrario di come una volta si guardava il forestiere, messaggero di mondi più ricchi e civilmente provveduti. Eppure, a incrinare la facile alterigia dell'italiano ben messo, disinvolto, lustro, esteriormente aggiornato sull'America, affiorava il senso severo delle democrazie del Nord, il sospetto che in quelle ineleganti vacanze si muovesse qualcosa di più solido, di meno provvisorio, civiltà abituate a concludere di più, il sospetto che ogni nostra ostentazione di prosperità non fosse che una facile vernice sull'Italia dei tuguri montani e suburbani, dei treni d'emigranti, delle pullulanti piazze di paesi nerovestiti: sospetti fugacissimi, che conviene scacciare in meno d'un secondo.

A Quinto tutti questi sentimenti insieme, ed un tardivo culto della rustica fierezza delle generazioni antiche (che la memoria del padre da poco morto, vecchio da poter essergli stato nonno, tipico superstite di quel ceppo, gli avvicinava) rendeva vieppiù estranea la *** d'oggi. Ma al solito volendo contrastare se stesso (in una scherma dove ormai non si sapeva più che cosa di lui fosse autentico e cosa coartato) si persuadeva che proprio la nuova borghesia degli alloggetti a *** fosse la migliore che l'Italia potesse esprimere.

Intruppato in questa folla civile, realizzatrice, adultera, soddisfatta, cordiale, filistea, familiare, bemportante, ingurgitante gelati, tutti in calzoncini e maglietta, donne uomini bambini giovanetti nell'assoluta parità delle età e dei sessi, in questo fiume pingue e superficiale sull'accidentata realtà italiana, Quinto si disponeva a passare l'estate a ***.

Terremoto

Quanto ai mali fisici, essi sono inevitabili in qualunque sistema di cui l'uomo faccia parte: la maggior parte dei nostri mali fisici sono ancora opera nostra. Senza abbandonare l'argomento di Lisbona, converrete, per esempio, che non fu la natura ad accostare ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città si fossero distribuiti in modo più equilibrato e alloggiati in modo più leggero, le perdite sarebbero state di molto minori, e forse nulle. Quanti sventurati sono defunti in questo disastro, per aver voluto recuperare l'uno gli abiti, l'altro dei documenti, l'altro ancora del denaro?

Jean-Jacques Rousseau, Lettera a Voltaire, 18 agosto 1756

Avversario

Quando discuti con un avversario, prova a metterti nei suoi panni: lo comprenderai meglio e forse finirai con l'accorgerti che ha un po' o molto di ragione. Ho seguito per qualche tempo questo consiglio dei saggi. Ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare di nuovo questo schifo che fa svenire

Antonio Gramsci

Donna

La donna dei nostri paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia borghese, rimane come prima la schiava senza profondità di vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa anche quando sembra ribelle, pi schiava ancora quando ritrova l'unica libertà che le è consentita, la libertà della galanteria. (…) L'ipocrisia del sacrificio benefico è un'altra delle apparenze di questa inferiorità interiore del nostro costume. (…) Ma accanto ad esso vi è un altro costume in formazione, quello che è più nostro, perché è della classe cui apparteniamo noi. Costume nuovo? Semplicemente costume che aderisce tanto alla morale universale, tale perché è profondamente umana, perché è fatta di spiritualità più che di animalità, di anima più che di economia o di nervi e di muscoli.

Antonio Gramsci

Società

La società non è, come comunemente si crede, lo sviluppo della natura, ma la sua decomposizione e la sua intera rifusione. È un secondo edificio, costruito con le macerie del primo.

La société n'est pas, comme on le croit d'ordinaire, le développement de la nature, mais bien sa décomposition et sa refonte entière. C'est un second édifice, bâti avec les décombres du premier.

Sébastien-Roch-Nicolas Chamfort

Strade

La speranza è come una strada. All'inizio del mondo le strade non esistevano. Le strade nascono quando tanti esseri umani si ritrovano e camminano insieme nella stessa direzione

Lu Xun

Sinistra italiana

È quasi incredibile ripensare allo scempio volontario delle proprie radici che la sinistra italiana ha perpetrato. Nell’ansia di emendarsi dei suoi vizi ideologici, si è vergognata del meglio di sé, della cultura e dell’umanità, della probità intellettuale di gente che conosceva l´Italia e gli italiani molto meglio dei patetici "staff" di managerini dei quali si sono circondati i nuovi leader.

Michele Serra, (ricordando Michele Straniero), da Repubblica, 15 aprile 2003

Architetti

Gli spiriti inquieti che tendono al nuovo per il nuovo, allo strano e al mirabolante non servono all'architettura e, quando per caso si dedicano a questo mestiere che è tutto reale e concreto, raramente giovano. E danno non piccolo fanno anche gli ingegni copiatori, quelli che per mancanza di forza inventiva e di spirito critico si attaccano alla moda e seguono solo questa, accettandola tal quale anche se allogena ed estranea affatto al loro tema, al loro clima, ai loro mezzi economici e tecnici.

[...] Guai a lasciar prendere la mano ai praticoni od ai cosiddetti uomini d'azione, che credono di fare la civiltà d'oggi perché costruiscono case o producono beni industriali o commerciano le merci od il denaro e lo fanno sempre con furia gloriandosi della velocità della loro azione e del loro successo, ma sciupando la civiltà del domani, l'industria del domani, la ricchezza del domani. E questi realizzatori noi sappiamo sin d'ora che balzeranno alla ribalta alla prima occasione a bandire programmi mirabolanti e semplicistici, a chiedere libero campo per le loro imprese, a battersi per il sistema del fare pur di fare perché il tempo stringe e la necessità è grande.

Conviene dunque precederli e cercar di fissare qualche concetto fondamentale per lo sviluppo della città, che valga anche a difenderla dagli improvvisatori.'

Occorre, quindi, chiedersi se oggi, nell'attuale fase di incontrollata trasformazione che le città sta subendo, quegli ammonimenti non abbiano di nuovo quanto mai valore.

Giuseppe De Finetti, in "La ricostruzione delle città. Per la città del 2000", serie di articoli inediti per Il Sole, 17 aprile 1943; ora in Milano. Costruzione di una città, Hoepli, Mílano 2002, pp. 322-23

Legittimità

E' vero che l'etica della politica è la forza, ma è altrettanto vero che l'etica della forza deriva dalla sua legittimità. Alcuni pensatori liberali che hanno mandato in vacanza il proprio pensiero, ammesso che ne abbiano mai avuto uno, si affannano a teorizzare che la legittimità della forza sta nella legittima difesa e che ogni soggetto - individuale e collettivo - stabilisce da solo dove comincia e dove finisce la propria legittima difesa.

Questa visione equivale all'abolizione sia del diritto pubblico internazionale sia dei codici penali vigenti negli Stati nazionali. E' il trionfo del self-service nei rapporti individuali e collettivi ed equivale più semplicemente ad affermare che chi è più forte ha sempre ragione.

L'aspetto comico di questo modo di sragionare è l'etichetta liberale che si pretende di applicargli addosso. (In Italia ci sono tre o quattro di questi "cretinetti" che non destano quindi soverchia preoccupazione se non fosse che sono invece molti gli italiani che mettono in pratica queste aberrazioni. Poi ci stupiamo che il nostro paese sia in declino. E vorreste anche che fosse in ascesa?).

Eugenio Scalfari, Repubblica, 6 aprile 2003

Democrazia

La vera democrazia scaturisce da molte impercettibili battaglie umane individuali combattute per decenni e alla fine per secoli, battaglie che riescono a costruire tradizioni. L’unica difesa della democrazia, in fin dei conti, sono le tradizioni di democrazia. Se si inizia ad ignorare questi valori, si mette in gioco una nobile e delicata struttura. Non esiste nulla di più bello della democrazia. Ma non è una cosa con cui giocare. Non si può avere la presunzione di andare a far vedere agli altri che magnifico sistema possediamo. Questa è mostruosa arroganza.

Poiché la democrazia è nobile, è sempre messa a rischio. La nobiltà in effetti è sempre in pericolo. La democrazia è effimera. Personalmente sono dell’opinione che la forma di governo naturale per gran parte delle persone, dati gli abissi di abiezione della natura umana, sia il fascismo. Il fascismo è una condizione più naturale della democrazia. Dare allegramente per scontato che possiamo esportare la democrazia in qualunque paese vogliamo può servire paradossalmente ad incoraggiare un maggior fascismo in patria e all’estero. La democrazia è uno stato di grazia ottenuto solo da quei paesi che dispongono di un gran numero di individui pronti non solo a godere della libertà ma a sottoporsi al pesante onere di mantenerla.

Norman Mailer, Repubblica, 6 marzo 2003

Uomo

Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata dall’onda del Mare, l’Europa ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica, o la tua stessa Casa. Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità e così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te.

John Donne, a distico in: E. Hemingway, Per chi suona la campana

Accademia

L’accademia trova il suo senso compiuto e la sua piena legittimazione non in quanto dia risposta a delle domande, ma in quanto fornisca i saperi che mettono in grado di formularle.

Franco Rella, alla prolusione all’Anno accademico 2000-2001 dell’IUAV

L’Ippogrifo

Volando talor s’alza nelle stelle

e così quasi talor la terra rade

Ludovico Ariosto, La Gerusalemme liberata

Parole

Non sappiamo più leggere i libri importanti, gli alberi, l’acqua, un campo di grano. Usiamo le parole, ma hanno perso il significato delle cose. E abbiamo perso il senso delle parole perché non conviviamo più con l’oggetto che le ha determinate.

Ermanno Olmi

Tutto

Il tutto è più importante delle sue parti

Eugenio Montale

Demagoghi

Il trionfo dei demagoghi è passeggero, ma le rovine che lasciano sono eterne

Charles Peguy

Ipocrisia

L’ipocrisia è l’estremo omaggio che il vizio rende alla virtù.

François-René Chateaubriand

Storia

Natura di cose altro non è che nascimento di esse, in certi tempi e con certe guise, le quali, sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose

Giambattista Vico, La Nuova Scienza

Pianificazione

La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese.

Antonio Cederna

Questo libro è un brano di storia, di storia come io l'ho vissuta. Pretende solo di essere un racconto particolareggiato della Rivoluzione d'Ottobre, cioè di quelle giornate in cui i bolscevichi, alla testa degli operai e dei soldati di Russia, si impadronirono del potere dello Stato, e lo dettero ai Soviet.

Nel libro si parla soprattutto di Pietrogrado, che fu il centro, il cuore stesso della insurrezione. Ma il lettore deve ben rendersi conto che tutto ciò che avvenne a Pietrogrado si ripeté, pressappoco egualmente, con una intensità più o meno grande, e ad intervalli più o meno lunghi, in tutta la Russia.

In questo volume, il primo di una serie alla quale lavoro, sono obbligato a limitarmi ad una cronaca degli avvenimenti di cui sono stato testimone, ai quali ho assistito personalmente o che conosco da fonte sicura. Il racconto propriamente detto è preceduto da due capitoli che tracciano brevemente le origini e le cause della Rivoluzione d'Ottobre. So bene che questi due capitoli saranno di difficile lettura, ma essi sono essenziali per comprendere ciò che segue.

Il lettore si porrà certamente numerose domande.

Che cos'è il bolscevismo? In cosa consiste la forma del governo fondato dai bolscevichi? I bolscevichi erano favorevoli all'Assemblea Costituente prima della Rivoluzione d'Ottobre; perché dunque la disciolsero poi, essi stessi, con la forza? E perché la borghesia, ostile all'Assemblea Costituente fino alla comparsa del pericolo bolscevico, assunse poi la difesa di questa stessa Assemblea?

Tutte queste questioni non potevano trovare qui una risposta. In un altro volume: Da Kornilov a Brest-Litovsk ,dove proseguo il racconto degli avvenimenti fino alla pace con la Germania, descrivo l'origine e la funzione delle varie organizzazioni rivoluzionarie, l'evoluzione del sentimento popolare, lo scioglimento dell'Assemblea Costituente, la struttura dello Stato sovietico, lo sviluppo e la conclusione dei negoziati di Brest-Litovsk.

Iniziando lo studio della insurrezione bolscevica, è necessario rendersi ben conto che la disorganizzazione della vita economica e dell'esercito russo, fine logica di un processo che risale al 1905, non cominciò il 25 Ottobre (7 Novembre) 1917, ma parecchi mesi prima. I reazionari, privi di ogni scrupolo, che dominavano la corte dello zar, avevano deliberatamente deciso di provocare una catastrofe per poter concludere una pace separata con la Germania. La mancanza di armi al fronte, che ebbe per conseguenza la grande ritirata dell'estate 1915, la scarsezza dei viveri negli eserciti e nelle grandi città, la crisi della produzione e dei trasporti del 1916, tutto ciò faceva parte di un gigantesco piano di sabotaggio, la cui esecuzione fu frenata a tempo dalla Rivoluzione di Marzo.

Durante i primi mesi del nuovo regime, malgrado la confusione seguente a un grande movimento rivoluzionario, che liberava un popolo di 160 milioni di uomini, il popolo più oppresso del mondo intero, la situazione interna e la capacità di combattimento degli eserciti migliorarono, infatti, di molto.

Ma tale «luna di miele» durò poco tempo. Le classi possidenti volevano una rivoluzione esclusivamente politica che, strappando il potere allo zar, lo trasmettesse a loro. Esse volevano fare della Russia una repubblica costituzionale sul modello della Francia o degli Stati Uniti, o una monarchia costituzionale, come quella inglese. Le masse popolari volevano invece una vera democrazia nella città e nelle campagne.

William English Walling, nel suo libro II messaggio della Russia, consacrato alla rivoluzione del 1905, descrive esattamente lo stato d'animo dei lavoratori russi che dovevano poi, quasi unanimemente, sostenere il bolscevismo:

I lavoratori comprendevano bene che, anche sotto un governo liberale, essi avrebbero rischiato di continuare a morire di fame se il potere fosse rimasto ancora nelle mani di altre classi sociali.

L'operaio russo è rivoluzionario, ma non è né violento, né dogmatico, né stupido. Egli è pronto alla lotta sulle barricate, ma ne ha studiato le regole e, caso unico fra i lavoratori del mondo intero, le ha imparate dalla pratica. È risoluto a condurre fino alla fine la lotta contro il suo oppressore, la classe capitalista. Non ignora che esistono ancora altre classi, ma esige che esse prendano nettamente posizione nel conflitto accanito che si avvicina.

I lavoratori russi riconoscevano tutti che le nostre istituzioni politiche [americane] sono preferibili alle loro, ma non desideravano affatto di passare da un dispositivo all'altro, [quello della classe capitalista]...

Se gli operai russi si sono fatti uccidere e sono stati impiccati a centinaia a Mosca, a Riga, a Odessa, se essi sono stati, a migliaia, imprigionati nelle galere russe ed esiliati nei deserti e nelle regioni artiche, non è per conquistare i privilegi discutibili degli operai dei Goldfilds e di Cripple-Creek...

Si sviluppò così in Russia, nel corso stesso di una guerra esterna, in seguito alla rivoluzione politica, la rivoluzione sociale che si concluse con il trionfo del bolscevismo.

A. J. Sack, direttore dell'Ufficio di informazioni russe per gli Stati Uniti, ed avversario del governo sovietico, ha scritto nel suo libro La nascita della democrazia russa:

I bolscevichi si costituirono in Consiglio dei ministri con Lenin, presidente, e Leone Trotsky, ministro degli affari esteri. Quasi subito dopo la rivoluzione di Marzo, la loro andata al potere era apparsa inevitabile. La storia dei bolscevichi dopo la rivoluzione è la storia della loro ascesa costante...

Gli stranieri, gli americani in particolare, insistono frequentemente sulla ignoranza dei lavoratori russi. È esatto che questi non possedevano l'esperienza politica dei popoli occidentali, ma erano notevolmente preparati nella organizzazione delle masse. Nel 1917 le cooperative di consumo, contavano più di 12 milioni di aderenti. Lo stesso sistema dei Soviet è un ammirabile esempio del loro genio organizzatore. Inoltre non vi è probabilmente sulla terra un altro popolo che conosca così bene la teoria del socialismo e le sue applicazioni pratiche.

William English Walling scrive a questo proposito:

I lavoratori russi sanno, nella loro maggioranza, leggere e scrivere. La situazione estremamente turbata nella quale si trovava il paese da molti anni, ha fatto sì che essi hanno avuto il vantaggio di avere per guide non solo i più intelligenti tra di loro, ma una grande parte degli intellettuali, egualmente rivoluzionari, che comunicarono loro il proprio ideale di rigenerazione politica e sociale della Russia...

Molti scrittori hanno giustificato la loro ostilità contro il governo sovietico con il pretesto che l'ultima fase della rivoluzione fu solamente una lotta di difesa degli elementi civili della società contro gli attacchi brutali dei bolscevichi. Furono invece proprio tali elementi, le classi possidenti, che, di fronte al potere crescente delle organizzazioni rivoluzionarie di massa, tentarono di distruggerle ad ogni costo e di sbarrare la strada alla rivoluzione. Per rovesciare il ministero Kerenski e per annientare i Soviet esse disorganizzarono i trasporti, provocarono dei torbidi interni; per vincere i Consigli di fabbrica, chiusero le officine, fecero sparire combustibile e materie prime; per schiacciare i Comitati dell'Esercito, ristabilirono la pena di morte e cercarono di provocare la disfatta militare.

Evidentemente esse gettavano così benzina, e della migliore, sul fuoco bolscevico. I bolscevichi risposero predicando la guerra di classe e proclamando la supremazia dei Soviet.

Tra questi due estremi, più o meno caldamente appoggiati da gruppi diversi, si trovavano i socialisti detti «moderati», che comprendevano i menscevichi, i socialisti rivoluzionari ed alcune frazioni di minore importanza. Tutti questi partiti erano ugualmente attaccati dalle classi possidenti, ma la loro forza di resistenza era spezzata dalle loro teorie stesse.

I menscevichi ed i socialisti-rivoluzionari proclamavano che la Russia non era matura per la rivoluzione sociale e che solo una rivoluzione politica era possibile. Secondo loro le masse russe mancavano dell'educazione necessaria per la presa del potere; ogni tentativo in tale senso non avrebbe che provocato una reazione, la quale avrebbe facilitato ad un qualsiasi avventuriero senza scrupoli la restaurazione del vecchio regime. Perciò quando i socialisti «moderati» furono obbligati dalle circostanze a prendere il potere, non osarono servirsene.

Essi credevano che la Russia dovesse passare, a sua volta, per le stesse tappe politiche ed economiche dell'Europa Occidentale, per arrivare, infine, contemporaneamente al resto del mondo, al paradiso socialista. Si trovavano quindi d'accordo con le classi possidenti per fare della Russia soprattutto uno Stato parlamentare — alquanto più perfezionato, tuttavia, delle democrazie occidentali — ed insistettero, perciò, per la partecipazione delle classi possidenti al potere. Di là ad una politica di sostegno, non vi era che un passo. I socialisti «moderati» avevano bisogno della borghesia; ma la borghesia non aveva bisogno dei socialisti «moderati». I ministri socialisti furono obbligati a cedere, a poco a poco, sulla totalità del loro programma, via via che la pressione delle classi possidenti aumentava.

E finalmente, quando i bolscevichi ebbero abbattuto tutto quel castello di compromessi senza base, menscevichi e socialisti rivoluzionari si trovarono nella lotta a fianco delle classi possidenti. Questo stesso fenomeno noi lo vediamo oggi riprodursi, presso a poco, in tutti i paesi del mondo.

È ancora di moda, dopo un anno di esistenza del regime sovietico, parlare della rivoluzione bolscevica come di una «avventura». Ebbene, se si deve parlare di avventura, fu veramente tra le più meravigliose in cui si sia impegnata l'umanità, l'avventura che aprì alle masse lavoratrici il terreno della storia e che fece tutto dipendere ormai dalle loro vaste e naturali aspirazioni. Ma aggiungiamo che era pronto, prima di novembre, l'apparato per mezzo del quale le terre degli agrari potevano essere distribuite ai contadini; che i Consigli di fabbrica ed i sindacati erano costituiti, per realizzare il controllo operaio dell'industria, e che ogni città, ed ogni villaggio, ogni distretto, ogni provincia, aveva i suoi Soviet di deputati operai, soldati e contadini pronti ad assumere l'amministrazione locale.

Qualunque giudizio si dia del bolscevismo, è certo che la rivoluzione russa è uno dei grandi avvenimenti della storia dell'umanità e che la conquista del potere da parte dei bolscevichi è un fatto d'importanza mondiale. Come gli storici si sforzano di ricostruire nei suoi più piccoli particolari la storia della Comune di Parigi, così essi desiderano sapere ciò che è accaduto a Pietrogrado nel novembre 1917, lo stato d'animo del popolo, la fisionomia dei suoi capi, le loro parole, i loro atti. Ho scritto questo libro pensando ad essi.

Durante la lotta le mie simpatie non erano neutre. Ma tracciando la storia di quelle grandi giornate ho voluto considerare gli avvenimenti come un cronista coscienzioso che si sforza di fissare la verità.

New-York, 1° gennaio 1919.

Il testo integrale del libro di John Reed è qui, in italiano

Una biografia di John Reed, in inglese

Quando entrò nelle aule dove si insegnava la meccanica, Ulrich fu subito in preda a un entusiasmo febbrile. A che serve ormai l'Apollo del belvedere, se si hanno davanti agli occhi le forme nuove di un turboalternatore o il meccanismo di distribuzione di una locomotiva! Chi può interessarsi ormai alle chiacchiere millenarie sul bene e sul male, quando s'è trovato che non si tratta di “Valori costanti" ma di “Valori funzionali", così che la bontà delle opere dipende dalle circostanze storiche e la bontà degli uomini dall'abilità psicotecnica con la quale si sfruttano le loro capacità! Il mondo è semplicemente buffo se lo si considera dal punto di vista tecnico; privo di praticità in tutti i rapporti umani, estremamente inesatto e antieconomico nei modi; e chi è abituato a svolgere le sue faccende col regolo calcolatore non può ormai prendere sul serio una buona metà delle asserzioni umane.

Il regolo calcolatore consta di due sistemi di numeri e di linee combinati con straordinaria accortezza: due tavolette scorrevoli verniciate di bianco, a sezione trapezoidale piatta, mediante la quale si risolvono in un baleno i più intricati problemi, senza sciupare inutilmente un solo pensiero; è un piccolo simbolo che si porta nella tasca del panciotto e si sente come una riga dura e bianca sul cuore. Quando si possiede un regolo calcolatore, e arriva qualcuno con grandi affermazioni e grandi sentimenti, si dice: "Un attimo, prego, prima calcoliamo il limite d'errore e il valore probabile di tutto ciò".

Quest'era senza dubbio una rappresentazione efficace dell'ingegneria. Essa costituiva la cornice di un'affascinante futuro autoritratto che rappresentava un uomo dai lineamenti energici, con una pipa tra i denti, un berretto sportivo in testa e splendidi stivali alla scuderia, in viaggio tra Città del Capo e il Canadà per realizzare grandiosi progetti... Fra un affare e l'altro si può anche trovare il tempo per ricavare dal pensiero tecnico qualche idea per organizzare il mondo e governarlo, o di formulare massime come quella di Emerson, che dovrebbe esser scritta sulla porta di ogni officina: "Gli uomini passano sulla terra come profezie del futuro, e tutte le loro azioni sono prove e tentativi, perché ogni azione può essere superata dalle successive". Anzi, per esser precisi, questa massima era di Ulrich che l' aveva composta mettendo insieme parecchie massime di Emerson.

È difficile dire come mai gli ingegneri non corrispondano poi del tutto a questo quadro. Perché, ad esempio, portano sovente una catena d'orologio che sale in un mezzo arco acuto dal panciotto ad un bottone più in alto, o la dispongono sulla pancia in festoni ascendenti e discendenti, come arsi e tesi di una poesia? Perché amano appuntarsi nella cravatta denti di cervo o piccoli ferri di cavallo? Perché i loro abiti sono costruiti come gli elementi di un'automobile? Perché, soprattutto, non parla no quasi mai d'altro che della loro professione; e se parlano di altro lo fanno in modo speciale, rigido, esterno, senza correlazioni, che al di dentro non và più in giù dell'epiglottide? Naturalmente, ciò non vale per tutti, ma vale per molti; e quelli che Ulrich conobbe quando prese servizio per la prima volta in un ufficio di fabbrica erano così, e quelli che conobbe la seconda volta erano anche così. Si rivelarono uomini strettamente legati alle loro tavolette da disegno, amanti della loro professione e in essa ammirevolmente valenti; ma proporre loro di applicare l'audacia del loro pensiero a se stessi invece che alle loro macchine, sarebbe stato come pretendere che facessero di un marIello l'uso contro natura che ne fa un assassino.

Uno spettro s'aggira per l'Europa -lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi.

Quale partito d'opposizione non è stato tacciato di comunismo dai suoi avversari di governo; qual partito d'opposizione non ha rilanciato l'infamante accusa di comunismo tanto sugli uomini più progrediti dell'opposizione stessa, quanto sui propri avversari reazionari?

Da questo fatto scaturiscono due specie di conclusioni.

Il comunismo è di già riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee.

E` ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso.

A questo scopo si sono riuniti a Londra comunisti delle nazionalità più diverse e hanno redatto il seguente manifesto che viene pubblicato in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e danese.

I. BORGHESI E PROLETARI

La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.

Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.

Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi.

La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta.

La nostra epoca, l'epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato.

Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo popolo minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia.

La scoperta dell'America, la circumnavigazione dell'Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, gli scambi con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all'industria uno slancio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all'elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione.

L'esercizio dell'industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura. Il medio ceto industriale soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro fra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola officina stessa.

Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattura era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All'industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al ceto medio industriale subentrarono i milionari dell'industria, i capi di interi eserciti industriali, i borghesi moderni.

La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch'era stato preparato dalla scoperta dell'America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull'espansione dell'industria, e nella stessa misura in cui si estendevano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo.

Vediamo dunque come la borghesia moderna è essa stessa il prodotto d'un lungo processo di sviluppo, d'una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico.

Ognuno di questi stadi di sviluppo della borghesia era accompagnato da un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni armate ed autonome nel Comune, talvolta sotto la forma di repubblica municipale indipendente, talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all'epoca dell'industria manifatturiera, nella monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo dello Stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese.

La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria.

Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo "pagamento in contanti". Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illusioni religiose e politiche.

La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi.

La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro.

La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l'attività dell'uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate.

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.

Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.

Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un'impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell'industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All'antica autosufficienza e all'antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L'unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.

Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.

La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l'Oriente dall'Occidente.

La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, legate quasi solo da vincoli federali, con interessi, leggi, governi e dazi differenti, vennero strette in una sola nazione, sotto un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale.

Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l'applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d'interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo -quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?

Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendo la borghesia erano stati prodotti entro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate.

Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi.

Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l'esistenza di tutta la società borghese.

Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovraproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. -Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.

A questo momento le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa.

Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che la porteranno alla morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari.

Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.

Con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l'operaio. Egli diviene un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un'operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima da imparare. Quindi le spese che causa l'operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della specie. Ma il prezzo di una merce, quindi anche quello del lavoro, è uguale ai suoi costi di produzione. Quindi il salario decresce nella stessa proporzione in cui aumenta il tedio del lavoro. Anzi, nella stessa proporzione dell'aumento dell'uso delle macchine e della divisione del lavoro, aumenta anche la massa del lavoro, sia attraverso l'aumento delle ore di lavoro, sia attraverso l'aumento del lavoro che si esige in una data unità di tempo, attraverso l'accresciuta celerità delle macchine, e così via.

L'industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell'industria, sotto la sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi della classe dei borghesi, ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona. Questo dispotismo è tanto più meschino, odioso ed esasperante, quanto più apertamente esso proclama come fine ultimo il guadagno.

Quanto meno il lavoro manuale esige abilità ed esplicazione di forza, cioè quanto più si sviluppa l'industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne [e dei fanciulli]. Per la classe operaia non han più valore sociale le differenze di sesso e di età. Ormai ci sono soltanto strumenti di lavoro che costano più o meno a seconda dell'età e del sesso.

Quando lo sfruttamento dell'operaio da parte del padrone di fabbrica è terminato in quanto all'operaio viene pagato il suo salario in contanti, si gettano su di lui le altre parti della borghesia, il padron di casa, il bottegaio, il prestatore su pegno e così via.

Quelli che fino a questo momento erano i piccoli ordini medi, cioè i piccoli industriali, i piccoli commercianti e coloro che vivevano di piccole rendite, gli artigiani e i contadini, tutte queste classi precipitano nel proletariato, in parte per il fatto che il loro piccolo capitale non è sufficiente per l'esercizio della grande industria e soccombe nella concorrenza con i capitalisti più forti, in parte per il fatto che la loro abilità viene svalutata da nuovi sistemi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione.

Il proletariato passa attraverso vari gradi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia comincia con la sua esistenza.

Da principio singoli operai, poi gli operai di una fabbrica, poi gli operai di una branca di lavoro in un dato luogo lottano contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente.

Essi non dirigono i loro attacchi soltanto contro i rapporti borghesi di produzione, ma contro gli stessi strumenti di produzione; distruggono le merci straniere che fan loro concorrenza, fracassano le macchine, danno fuoco alle fabbriche, cercano di riconquistarsi la tramontata posizione del lavoratore medievale.

In questo stadio gli operai costituiscono una massa disseminata per tutto il paese e dispersa a causa della concorrenza. La solidarietà di maggiori masse operaie non è ancora il risultato della loro propria unione, ma della unione della borghesia, la quale, per il raggiungimento dei propri fini politici, deve mettere in movimento tutto il proletariato, e per il momento può ancora farlo. Dunque, in questo stadio i proletari combattono non i propri nemici, ma i nemici dei propri nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Così tutto il movimento della storia è concentrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria raggiunta in questo modo è una vittoria della borghesia.

Ma il proletariato, con lo sviluppo dell'industria, non solo si moltiplica; viene addensato in masse più grandi, la sua forza cresce, ed esso la sente di più. Gli interessi, le condizioni di esistenza all'interno del proletariato si vanno sempre più agguagliando man mano che le macchine cancellano le differenze del lavoro e fanno discendere quasi dappertutto il salario a un livello ugualmente basso. La crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai; l'incessante e sempre più rapido sviluppo del perfezionamento delle macchine rende sempre più incerto il complesso della loro esistenza; le collisioni fra il singolo operaio e il singolo borghese assumono sempre più il carattere di collisioni di due classi. Gli operai cominciano col formare coalizioni contro i borghesi, e si riuniscono per difendere il loro salario. Fondano perfino associazioni permanenti per approvvigionarsi in vista di quegli eventuali sollevamenti. Qua e là la lotta prorompe in sommosse.

Ogni tanto vincono gli operai; ma solo transitoriamente. Il vero e proprio risultato delle lotte non è il successo immediato, ma il fatto che l'unione degli operai si estende sempre più. Essa è favorita dall'aumento dei mezzi di comunicazione, prodotti dalla grande industria, che mettono in collegamento gli operai delle diverse località. E basta questo collegamento per centralizzare in una lotta nazionale, in una lotta di classe, le molte lotte locali che hanno dappertutto uguale carattere. Ma ogni lotta di classi è lotta politica. E quella unione per la quale i cittadini del medioevo con le loro strade vicinali ebbero bisogno di secoli, i proletari moderni con le ferrovie la attuano in pochi anni.

Questa organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico torna ad essere spezzata ogni momento dalla concorrenza fra gli operai stessi. Ma risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente. Essa impone il riconoscimento in forma di legge di singoli interessi degli operai, approfittando delle scissioni all'interno della borghesia. Così fu per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra.

In genere, i conflitti insiti nella vecchia società promuovono in molte maniere il processo evolutivo del proletariato. La borghesia è sempre in lotta; da principio contro l'aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto con il progresso dell'industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare appello al proletariato, a valersi del suo aiuto, e a trascinarlo così entro il movimento politico. Essa stessa dunque reca al proletariato i propri elementi di educazione, cioè armi contro se stessa.

Inoltre, come abbiamo veduto, il progresso dell'industria precipita nel proletariato intere sezioni della classe dominante, o per lo meno ne minaccia le condizioni di esistenza. Anch'esse arrecano al proletariato una massa di elementi di educazione.

Infine, in tempi nei quali la lotta delle classi si avvicina al momento decisivo, il processo di disgregazione all'interno della classe dominante, di tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si distacca da essa e si unisce alla classe rivoluzionaria, alla classe che tiene in mano l'avvenire. Quindi, come prima una parte della nobiltà era passata alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato; e specialmente una parte degli ideologi borghesi, che sono riusciti a giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme.

Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto più specifico.

Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l'artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia, per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini medi. Quindi non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché cercano di far girare all'indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari, sono tali in vista del loro imminente passaggio al proletariato, non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, e abbandonano il proprio punto di vista, per mettersi da quello del proletariato.

Il sottoproletariato, questa putrefazione passiva degli infimi strati della società, che in seguito a una rivoluzione proletaria viene scagliato qua e là nel movimento, sarà più disposto, date tutte le sue condizioni di vita, a lasciarsi comprare per mene reazionarie.

Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già annullate nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con moglie e figli non ha più nulla in comune con il rapporto familiare borghese; il lavoro industriale moderno, il soggiogamento moderno del capitale, identico in Inghilterra e in Francia, in America e in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Leggi, morale, religione sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi.

Tutte le classi che si sono finora conquistato il potere hanno cercato di garantire la posizione di vita già acquisita, assoggettando l'intera società alle condizioni della loro acquisizione. I proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto abolendo il loro proprio sistema di appropriazione avuto sino a questo momento, e per ciò stesso l'intero sistema di appropriazione che c'è stato finora. I proletari non hanno da salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le assicurazioni private che ci sono state fin qui.

Tutti i movimenti precedenti sono stati movimenti di minoranze, o avvenuti nell'interesse di minoranze. Il movimento proletario è il movimento indipendente della immensa maggioranza. Il proletariato, lo strato più basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza che salti per aria l'intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale.

La lotta del proletariato contro la borghesia è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. E` naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia.

Delineando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o meno latente all'interno della società attuale, fino al momento nel quale quella guerra erompe in aperta rivoluzione e nel quale il proletariato fonda il suo dominio attraverso il violento abbattimento della borghesia.

Ogni società si è basata finora, come abbiam visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le debbono essere assicurate condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. Il servo della gleba, lavorando nel suo stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a membro del comune, come il cittadino minuto, lavorando sotto il giogo dell'assolutismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma l'operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l'industria progredisce, scende sempre più al disotto delle condizioni della sua propria classe. L'operaio diventa un povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l'esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società.

La condizione più importante per l'esistenza e per il dominio della classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all'isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall'associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili.

PROLETARI E COMUNISTI

In che rapporto sono i comunisti con i proletari in genere?

I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai.

I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato.

I comunisti non pongono princìpi speciali sui quali vogliano modellare il movimento proletario.

I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell'intero proletariato, nelle varie lotte nazionali dei proletari; e dall'altra per il fatto che sostengono costantemente l'interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia.

Quindi in pratica i comunisti sono la parte progressiva più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, e quanto alla teoria essi hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato, di comprendere le condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento proletario.

Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri proletari: formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato.

Le proposizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su princìpi inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo.

Esse sono semplicemente espressioni generali di rapporti di fatto di una esistente lotta di classi, cioè di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. L'abolizione di rapporti di proprietà esistiti fino a un dato momento non è qualcosa di distintivo peculiare del comunismo.

Tutti i rapporti di proprietà sono stati soggetti a continui cambiamenti storici, a una continua alterazione storica.

Per esempio, la rivoluzione francese abolì la proprietà feudale in favore di quella borghese.

Quel che contraddistingue il comunismo non è l'abolizione della proprietà in generale, bensì l'abolizione della proprietà borghese.

Ma la proprietà privata borghese moderna è l'ultima e la più perfetta espressione della produzione e dell'appropriazione dei prodotti che poggia su antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri.

In questo senso i comunisti possono riassumere la loro teoria nella frase: abolizione della proprietà privata. Ci si è rinfacciato, a noi comunisti che vogliamo abolire la proprietà acquistata personalmente, frutto del lavoro diretto e personale; la proprietà che costituirebbe il fondamento di ogni libertà, attività e autonomia personale.

Proprietà frutto del proprio lavoro, acquistata, guadagnata con le proprie forze! Parlate della proprietà del minuto cittadino, del piccolo contadino che ha preceduto la proprietà borghese? Non c'è bisogno che l'aboliamo noi, l'ha abolita e la va abolendo di giorno in giorno lo sviluppo dell'industria.

O parlate della moderna proprietà privata borghese?

Ma il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea proprietà a questo proletario? Affatto. Il lavoro del proletario crea il capitale, cioè quella proprietà che sfrutta il lavoro salariato, che può moltiplicarsi solo a condizione di generare nuovo lavoro salariato, per sfruttarlo di nuovo. La proprietà nella sua forma attuale si muove entro l'antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di questo antagonismo. Essere capitalista significa occupare nella produzione non soltanto una pura posizione personale, ma una posizione sociale.

Il capitale è un prodotto collettivo e può essere messo in moto solo mediante una attività comune di molti membri, anzi in ultima istanza solo mediante l'attività comune di tutti i membri della società.

Dunque, il capitale non è una potenza personale; è una potenza sociale.

Dunque, se il capitale viene trasformato in proprietà collettiva, appartenente a tutti i membri della società, non c'è trasformazione di proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. La proprietà perde il suo carattere di classe.

Veniamo al lavoro salariato.

Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario del lavoro, cioè è la somma dei mezzi di sussistenza che sono necessari per mantenere in vita l'operaio in quanto operaio. Dunque, quello che l'operaio salariato s'appropria mediante la sua attività è sufficiente soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo affatto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro per la riproduzione della esistenza immediata, appropriazione che non lascia alcun residuo di profitto netto tale da poter conferire potere sul lavoro altrui. Vogliamo eliminare soltanto il carattere miserabile di questa appropriazione, nella quale l'operaio vive solo allo scopo di accrescere il capitale, e vive solo quel tanto che esige l'interesse della classe dominante.

Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per moltiplicare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per ampliare, per arricchire, per far progredire il ritmo d'esistenza degli operai.

Dunque nella società borghese il passato domina sul presente, nella società comunista il presente domina sul passato. Nella società borghese il capitale è indipendente e personale, mentre l'individuo operante è dipendente e impersonale.

E la borghesia chiama abolizione della personalità e della libertà l'abolizione di questo rapporto! E a ragione: infatti, si tratta dell'abolizione della personalità, della indipendenza e della libertà del borghese.

Entro gli attuali rapporti di produzione borghesi per libertà s'intende il libero commercio, la libera compravendita.

Ma scomparso il traffico, scompare anche il libero traffico. Le frasi sul libero traffico, come tutte le altre bravate sulla libertà della nostra borghesia, hanno senso, in genere, soltanto rispetto al traffico vincolato, rispetto al cittadino asservito del medioevo; ma non hanno senso rispetto alla abolizione comunista del traffico, dei rapporti borghesi di produzione e della stessa borghesia.

Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri; la proprietà privata esiste proprio per il fatto che per nove decimi non esiste. Dunque voi ci rimproverate di voler abolire una proprietà che presuppone come condizione necessaria la privazione della proprietà dell'enorme maggioranza della società.

In una parola, voi ci rimproverate di volere abolire la vostra proprietà.

Certo, questo vogliamo.

Appena il lavoro non può più essere trasformato in capitale, in denaro, in rendita fondiaria, insomma in una potenza sociale monopolizzabile, cioè, appena la proprietà personale non può più convertirsi in proprietà borghese, voi dichiarate che è abolita la persona.

Dunque confessate che per persona non intendete nient'altro che il borghese, il proprietario borghese. Certo questa persona deve essere abolita.

Il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi prodotti della società, toglie soltanto il potere di assoggettarsi il lavoro altrui mediante tale appropriazione.

Si è obiettato che con l'abolizione della proprietà privata cesserebbe ogni attività e prenderebbe piede una pigrizia generale.

Da questo punto di vista, già da molto tempo la società borghese dovrebbe essere andata in rovina per pigrizia, poiché in essa coloro che lavorano, non guadagnano, e quelli che guadagnano, non lavorano. Tutto lo scrupolo sbocca nella tautologia che appena non c'è più capitale non c'è più lavoro salariato.

Tutte le obiezioni che vengono mosse al sistema comunista di appropriazione e di produzione dei prodotti materiali, sono state anche estese alla appropriazione e alla produzione dei prodotti intellettuali, come il cessare della proprietà di classe è per il borghese il cessare della produzione stessa, così il cessare della cultura di classe è per lui identico alla fine della cultura in genere.

Quella cultura la cui perdita egli rimpiange, è per la enorme maggioranza la preparazione a diventar macchine.

Ma non discutete con noi misurando l'abolizione della proprietà borghese sul modello delle vostre idee borghesi di libertà, cultura, diritto e così via. Le vostre idee stesse sono prodotti dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, come il vostro diritto è soltanto la volontà della vostra classe elevata a legge, volontà il cui contenuto è dato nelle condizioni materiali di esistenza della vostra classe.

Voi condividete con tutte le classi dominanti tramontate quell'idea interessata mediante la quale trasformate in eterne leggi della natura e della ragione, da rapporti storici quali sono, transeunti nel corso della produzione, i vostri rapporti di produzione e di proprietà. Non vi è più permesso di comprendere per la proprietà borghese quel che comprendete per la proprietà antica e per la proprietà feudale.

Abolizione della famiglia! Anche i più estremisti si riscaldano parlando di questa ignominiosa intenzione dei comunisti.

Su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia: ma essa ha il suo complemento nella coatta mancanza di famiglia del proletario e nella prostituzione pubblica.

La famiglia del borghese cade naturalmente col cadere di questo suo complemento ed entrambi scompaiono con la scomparsa del capitale.

Ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei genitori? Confessiamo questo delitto. Ma voi dite che sostituendo l'educazione sociale a quella familiare noi aboliamo i rapporti più cari.

E anche la vostra educazione, non è determinata dalla società? Non è determinata dai rapporti sociali entro i quali voi educate, dalla interferenza più o meno diretta o indiretta della società mediante la scuola e così via? I comunisti non inventano l'influenza della società sull'educazione, si limitano a cambiare il carattere di tale influenza, e strappano l'educazione all'influenza della classe dominante.

La fraseologia borghese sulla famiglia e sull'educazione, sull'affettuoso rapporto fra genitori e figli diventa tanto più nauseante, quanto più, per effetto della grande industria, si lacerano per il proletario tutti i vincoli familiari, e i figli sono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro.

Tutta la borghesia ci grida contro in coro: ma voi comunisti volete introdurre la comunanza delle donne.

Il borghese vede nella moglie un semplice strumento di produzione. Sente dire che gli strumenti di produzione devono essere sfruttati in comune e non può naturalmente farsi venire in mente se non che la sorte della comunanza colpirà anche le donne.

Non sospetta neppure che si tratta proprio di abolire la posizione delle donne come semplici strumenti di produzione.

Del resto non c'è nulla di più ridicolo del moralissimo orrore che i nostri borghesi provano per la pretesa comunanza ufficiale delle donne fra i comunisti. I comunisti non hanno bisogno d'introdurre la comunanza delle donne; essa è esistita quasi sempre.

I nostri borghesi, non paghi d'avere a disposizione le mogli e le figlie dei proletari, per non parlare neppure della prostituzione ufficiale, trovano uno dei loro divertimenti principali nel sedursi reciprocamente le loro mogli.

In realtà il matrimonio borghese è la comunanza delle mogli. Tutt'al, più ai comunisti si potrebbe rimproverare di voler introdurre una comunanza delle donne ufficiale e franca al posto di una comunanza delle donne ipocritamente dissimulata. del resto è ovvio che, con l'abolizione dei rapporti attuali di produzione, scompare anche quella comunanza delle donne che ne deriva, cioè la prostituzione ufficiale e non ufficiale.

Inoltre, si è rimproverato ai comunisti ch'essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità.

Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch'esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia.

Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l'uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d'esistenza.

Il dominio del proletariato li farà scomparire ancor di più. Una delle prime condizioni della sua emancipazione è l'azione unita, per lo meno dei paesi civili.

Lo sfruttamento di una nazione da parte di un'altra viene abolito nella stessa misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro.

Con l'antagonismo delle classi all'interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca ostilità fra le nazioni.

Non meritano d'essere discusse in particolare le accuse che si fanno al comunismo da punti di vista religiosi, filosofici e ideologici in genere.

C'è bisogno di una profonda comprensione per capire che anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma, anche la coscienza degli uomini, cambia col cambiare delle loro condizioni di vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza sociale?

Cos'altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma assieme a quella materiale? Le idee dominanti di un'epoca sono sempre state soltanto le idee della classe dominante.

Si parla di idee che rivoluzionano un'intera società; con queste parole si esprime semplicemente il fatto che entro la vecchia società si sono formati gli elementi di una nuova, e che la dissoluzione delle vecchie idee procede di pari passo con la dissoluzione dei vecchi rapporti d'esistenza.

Quando il mondo antico fu al tramonto, le antiche religioni furono vinte dalla religione cristiana. Quando nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alle idee dell'illuminismo, la società feudale dovette combattere la sua ultima lotta con la borghesia allora rivoluzionaria. Le idee della libertà di coscienza e della libertà di religione furono soltanto l'espressione del dominio della libera concorrenza nel campo della coscienza.

Ma, si dirà, certo che nel corso dello svolgimento storico le idee religiose, morali, filosofiche, politiche, giuridiche si sono modificate. Però in questi cambiamenti la religione, la morale, al filosofia, la politica, il diritto si sono sempre conservati.

Inoltre vi sono verità eterne, come la libertà, la giustizia e così via, che sono comuni a tutti gli stati della società. Ma il comunismo abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale, invece di trasformarle; quindi il comunismo si mette in contraddizione con tutti gli svolgimenti storici avuti sinora.

A cosa si riduce quest'accusa? La storia di tutta quanta la società che c'è stata fino ad oggi s'è mossa in contrasti di classe che hanno avuto un aspetto differente a seconda delle differenti epoche.

Lo sfruttamento d'una parte della società per opera dell'altra parte è dato di fatto comune a tutti i secoli passati, qualunque sia la forma ch'esso abbia assunto. Quindi, non c'è da meravigliarsi che la coscienza sociale di tutti i secoli si muova, nonostante ogni molteplicità e differenza, in certe forme comuni: forme di coscienza, che si dissolvono completamente soltanto con la completa scomparsa dell'antagonismo delle classi.

La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti tradizionali di proprietà; nessuna meraviglia che nel corso del suo sviluppo si rompa con le idee tradizionali nella maniera più radicale.

Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo.

Abbiamo già visto sopra che il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato s'eleva a classe dominante, cioè nella conquista della democrazia.

Il proletariato adoprerà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive.

Naturalmente, ciò può avvenire, in un primo momento, solo mediante interventi despotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, cioè per mezzo di misure che appaiono insufficienti e poco consistenti dal punto di vista dell'economia; ma che nel corso del movimento si spingono al di là dei propri limiti e sono inevitabili come mezzi per il rivolgimento dell'intero sistema di produzione.

Queste misure saranno naturalmente differenti a seconda dei differenti paesi.

Tuttavia, nei paesi più progrediti potranno essere applicati quasi generalmente i provvedimenti seguenti:

1.- Espropriazione della proprietà fondiaria ed impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato.

2.- Imposta fortemente progressiva.

3.- Abolizione del diritto di successione.

4.- Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.

5.- Accentramento del credito in mano dello Stato mediante una banca nazionale con capitale dello Stato e monopolio esclusivo.

6.- Accentramento di tutti i mezzi di trasporto in mano allo Stato.

7.- Moltiplicazione delle fabbriche nazionali, degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano collettivo.

8.- Eguale obbligo di lavoro per tutti, costituzione di eserciti industriali, specialmente per l'agricoltura.

9.- Unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e della industria, misure atte ad eliminare gradualmente l'antagonismo fra città e campagna.

10.- Istruzione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Eliminazione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Combinazione dell'istruzione con la produzione materiale e così via.

Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell'evoluzione, e tutta la produzione sarà concentrata in mano agli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico. In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzato per opprimerne un'altra. Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell'antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d'esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe.

Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti.

III. LETTERATURA SOCIALISTA E COMUNISTA

1. IL SOCIALISMO REAZIONARIO

a) Il socialismo feudale.

Data la sua posizione storica, l'aristocrazia francese e inglese era chiamata a scrivere libelli contro la moderna società borghese. Nella rivoluzione francese del luglio 1830, nel movimento inglese per la riforma elettorale, l'aristocrazia era soggiaciuta ancora una volta all'aborrito nuovo venuto. Non c'era più da pensare a una seria lotta politica. Le rimaneva soltanto la lotta letteraria. Ma anche nel campo della letteratura la vecchia fraseologia dell'età della restaurazione era ormai impossibile. Per destare qualche simpatia, l'aristocrazia era costretta a distogliere gli occhi, in apparenza, dai propri interessi e a formulare il suo atto d'accusa contro la borghesia solo nell'interesse della classe operaia sfruttata. Così essa preparava la soddisfazione di poter intonare invettive contro il nuovo signore, e di potergli mormorare nell'orecchio profezie più o meno gravide di sciagura.

A questo modo sorse il socialismo feudalistico, metà lamentazione, metà libello; metà riecheggiamento del passato, metà minaccia del futuro. A volte colpisce al cuore la borghesia con un giudizio amaro e spiritosamente sarcastico, ma ha sempre effetto comico per la sua totale incapacità di comprendere il corso della storia moderna.

Questi aristocratici hanno impugnato la proletaria bisaccia da mendicante, agitandola come bandiera per raggruppare dietro a sé il popolo. Ma tutte le volte che li ha seguiti, il popolo ha visto sulle loro parti posteriori i vecchi blasoni feudali e s'è sbandato con forti e irriverenti risate.

Una parte dei legittimisti francesi e la Giovine Inghilterra hanno offerto questo spettacolo.

Quando i feudali dimostrano che il loro sistema di sfruttamento era diverso dallo sfruttamento borghese, dimenticano soltanto che essi esercitavano lo sfruttamento in circostanze e condizioni totalmente differenti e che ora han fatto il loro tempo. Quando dimostrano che il proletariato moderno non è esistito al tempo del loro dominio, dimenticano soltanto che la borghesia moderna fu appunto un necessario rampollo del loro ordine sociale.

Del resto, essi celano tanto poco il carattere reazionario della loro critica, che la loro principale accusa contro la borghesia è proprio che sotto il suo regime si sviluppa una classe che farà saltare in aria tutto quanto il vecchio ordine sociale.

Rimproverano alla borghesia più il fatto che essa genera un proletariato rivoluzionario che non il fatto ch'essa produce un proletariato in genere.

Nella pratica della vita politica, prendono parte perciò a tutte le misure di forza contro la classe operaia, e nella vita ordinaria, ad onta di tutti i loro gonfi frasari, si adattano a raccogliere le mele d'oro, e a barattare fedeltà, amore, onore col traffico della lana di pecora, della barbabietola e dell'acquavite.

Come il prete si è sempre accompagnato al signore feudale, così il socialismo pretesco si accompagna a quello feudalistico.

Non c'è cosa più facile che dare una tinta socialistica all'ascetismo cristiano. Il cristianesimo non se l'è presa forse anch'esso con la proprietà privata, con il matrimonio, con lo Stato? Non ha predicato, in loro sostituzione, la beneficenza, la mendicità, il celibato e la mortificazione della carne, la vita claustrale e la Chiesa? Il socialismo sacro è soltanto l'acquasanta con la quale il prete benedice la rabbia degli aristocratici.

b) Il socialismo piccolo-borghese.

L'aristocrazia feudale non è l'unica classe che sia stata abbattuta dalla borghesia e le cui condizioni di esistenza siano deperite e si siano estinte nella società borghese moderna. La piccola borghesia medievale e l'ordine dei piccoli contadini furono i precursori della borghesia moderna. Questa classe continua ancora a vegetare accanto alla sorgente borghesia nei paesi meno sviluppati industrialmente e commercialmente.

Nei paesi dove s'è sviluppata la civiltà moderna, si è formata una nuova piccola borghesia, sospesa fra il proletariato e la borghesia, che torna sempre a formarsi da capo, in quanto è parte integrante della società borghese; ma i suoi membri vengono costantemente precipitati nel proletariato dalla concorrenza, anzi, con lo sviluppo della grande industria vedono addirittura avvicinarsi un momento nel quale scompariranno totalmente come parte indipendente della società moderna, e verranno sostituiti da sorveglianti e domestici nel commercio, nella manifattura, nell'agricoltura.

In paesi come la Francia, dove la classe dei contadini costituisce molto più della metà della popolazione, era naturale che alcuni scrittori i quali scendevano in campo per il proletariato contro la borghesia usassero la scala del piccolo borghese e del piccolo contadino per la loro critica del regime borghese e che prendessero partito per gli operai dal punto di vista della piccola borghesia. Così s'è formato il socialismo piccolo-borghese. Capo di questa letteratura, non solo per la Francia, ma anche per l'Inghilterra, è il Sismondi.

Questo socialismo ha anatomizzato con estrema perspicacia le contraddizioni insite nei rapporti moderni di produzione. Ha smascherato gli ipocriti eufemismi degli economisti. Ha dimostrato irrefutabilmente i deleteri effetti delle macchine e della divisione del lavoro, la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la sovraproduzione, le crisi, la rovina inevitabile dei piccoli borghesi e dei piccoli contadini, la miseria del proletariato, l'anarchia della produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale di sterminio fra le varie nazioni, la dissoluzione dei vecchi costumi, dei vecchi rapporti familiari, delle vecchie nazionalità.

Tuttavia, quanto al suo contenuto positivo, questo socialismo o vuole restaurare gli antichi mezzi di produzione e di traffico, e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, o vuole rinchiudere di nuovo, con la forza, entro i limiti degli antichi rapporti di proprietà i mezzi moderni di produzione e di traffico, che li han fatti saltare in aria, che non potevano non farli saltare per aria. In entrambi i casi esso è insieme reazionario e utopistico.

Corporazioni nella manifattura e economia patriarcale nelle campagne: ecco la sua ultima parola.

Nel suo ulteriore sviluppo questa tendenza è andata a finire in una vile depressione dopo l'ebbrezza.

c) Il socialismo tedesco ossia il vero socialismo.

La letteratura socialista e comunista francese, ch'è sorta sotto la pressione d'una borghesia dominante ed è l'espressione letteraria della lotta contro questo dominio, venne introdotta in Germania proprio mentre la borghesia stava cominciando la sua lotta contro l'assolutismo feudale.

Filosofi, semifilosofi e begli spiriti tedeschi s'impadronirono avidamente di quella letteratura, dimenticando solo una piccola cosa: che le condizioni d'esistenza francesi non erano immigrate in Germania insieme a quegli scritti che venivano dalla Francia. Nei confronti delle condizioni tedesche, la letteratura francese perdette ogni significato pratico immediato e assunse un aspetto puramente letterario. Non poteva non apparire un'oziosa speculazione sulla vera società, sulla realizzazione dell'essere umano. Allo stesso modo le rivendicazioni della prima rivoluzione francese avevano avuto per i filosofi tedeschi del secolo XVIII soltanto il senso di essere rivendicazioni della "ragion pratica" in generale, e le manifestazioni di volontà della borghesia francese rivoluzionaria avevano significato ai loro occhi di leggi di pura volontà, della volontà come deve essere, della volontà veramente umana.

Il lavoro dei letterati tedeschi consistette unicamente nel concordare le nuove idee francesi con la loro vecchia coscienza filosofica, o, anzi, nell'appropriarsi delle idee francesi dal loro punto di vista filosofico.

Questa appropriazione avvenne nella stessa maniera che si usa in genere per appropriarsi una lingua straniera: mediante la traduzione.

E` noto come i monaci ricoprissero di insipide storie di santi cattolici i manoscritti che contenevano le opere classiche dell'antichità pagana. Con la letteratura francese profana i letterati tedeschi usarono il procedimento inverso; scrissero le loro sciocchezze filosofiche sotto l'originale francese. Per esempio, sotto la critica francese dei rapporti patrimoniali essi scrissero "alienazione dell'essere umano", sotto la critica francese dello stato borghese scrissero "superamento del dominio dell'universale in astratto", e così via.

Battezzarono questa insinuazione del loro frasario filosofico negli svolgimenti francesi con i nomi di "filosofia dell'azione", "vero socialismo", "scienza tedesca del socialismo", "motivazione filosofica del socialismo" e così via.

Così la letteratura francese socialista e comunista fu letteralmente evirata. E poiché essa nelle mani dei tedeschi aveva smesso di esprimere la lotta d'una classe contro l'altra, il tedesco era consapevole d'aver superato l'unilateralità francese, d'essersi fatto rappresentante non di veri bisogni, ma anzi del bisogno della verità, non degli interessi del proletariato, ma anzi degli interessi dell'essere umano, dell'uomo in genere; dell'uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi neppure alla realtà, e appartiene soltanto al cielo nebuloso della fantasia filosofica.

Questo socialismo tedesco, che prendeva così solennemente sul serio le sue goffe esercitazioni scolastiche, e tanto ciarlatanescamente le strombazzava, perdette tuttavia, a poco a poco, la sua pedantesca innocenza.

La lotta della borghesia tedesca, specialmente di quella prussiana, contro i feudali e contro la monarchia assoluta, in una parola, il movimento liberale, divenne più serio.

Così al vero socialismo si offrì l'auspicata occasione di contrapporre le rivendicazioni socialiste al movimento politico, di lanciare i tradizionali anatemi contro il liberalismo, contro lo Stato rappresentativo, contro la concorrenza borghese, contro la libertà di stampa borghese, il diritto borghese, la libertà e l'eguaglianza borghesi; e di predicare alla massa popolare come essa non avesse niente da guadagnare, anzi tutto da perdere con quel movimento borghese. Il socialismo tedesco dimenticava in tempo che la critica francese della quale esso era l'insulso eco, presuppone la società borghese moderna con le corrispondenti condizioni materiali d'esistenza e l'adeguata costituzione politica: tutti presupposti che in Germania si trattava appena di conquistare.

Il vero socialismo servì ai governi assoluti tedeschi, col loro seguito di preti, di maestrucoli, di nobilucci rurali e di burocrati, come gradito spauracchio contro la borghesia che avanzava minacciosa.

Costituì il dolciastro complemento delle acri sferzate e delle pallottole di fucile con le quali quei governi rispondevano alle insurrezioni operaie.

Mentre il vero socialismo diventava così un'arma nelle mani dei governi contro la borghesia tedesca, esso rappresentava d'altra parte anche direttamente un interesse reazionario, l'interesse del popolo minuto tedesco. In Germania la piccola borghesia, che è un'eredità del secolo XVI, e sempre vi riaffiora, da quell'epoca in poi, in varie forme, costituisce il vero e proprio fondamento sociale della situazione attuale.

La sua conservazione è la conservazione della situazione tedesca attuale. Essa teme la sicura rovina dal dominio industriale e politico della borghesia, tanto in conseguenza della concentrazione del capitale, quanto attraverso il sorgere di un proletariato rivoluzionario. Le sembrò che il vero socialismo prendesse entrambi i piccioni con una fava. Ed esso si diffuse come un'epidemia.

La veste ordita di ragnatela speculativa, ricamata di fiori retorici di begli spiriti, impregnata di rugiada sentimentale febbricitante di amore, questa veste di esaltazione nella quale i socialisti tedeschi avviluppavano il loro paio di ossute verità eterne, non fece che aumentare lo spaccio della loro merce presso quel pubblico.

Per conto suo, il socialismo tedesco riconobbe sempre meglio la propria vocazione d'essere il burbanzoso rappresentante di questa piccola borghesia.

Esso ha proclamato la nazione tedesca la nazione normale; il filisteo tedesco l'uomo normale. Ha conferito ad ogni abiezione di costui un senso celato, superiore, socialistico pel qual l'abiezione significava il contrario di quel che era. Ed ha tratto le ultime conseguenze prendendo direttamente posizione contro la tendenza brutalmente distruttiva del comunismo e proclamando la propria imparziale superiorità a tutte le lotte di classe. Quanto circola in Germania di pretesi scritti socialisti e comunisti appartiene, con pochissime eccezioni, alla sfera di questa sordida e snervante letteratura.

2. IL SOCIALISMO CONSERVATORE O BORGHESE

Una parte della borghesia desidera di portar rimedio agli inconvenienti sociali, per garantire l'esistenza della società borghese.

Rientrano in questa categoria economisti, filantropi, umanitari, miglioratori della situazione delle classi lavoratrici, organizzatori di beneficenze, protettori degli animali, fondatori di società di temperanza e tutta una variopinta genìa di oscuri riformatori. E in interi sistemi è stato elaborato questo socialismo borghese.

Come esempio citeremo la Philosophie de la misère del Proudhon.

I borghesi socialisti vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne derivano. Vogliono la società attuale sottrazion fatta degli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza proletariato. La borghesia si raffigura naturalmente il mondo ov'essa domina come il migliore dei mondi. Il socialismo borghese elabora questa consolante idea in un semi-sistema o anche in un sistema intero. Quando invita il proletariato a mettere in atto i suoi sistemi per entrare nella nuova Gerusalemme, il socialismo borghese non fa in sostanza che pretendere dal proletariato che esso rimanga fermo nella società attuale, ma rinunci alle odiose idee che di essa s'è fatto.

Una seconda forma di socialismo meno sistematica e più pratica cercava di far passare alla classe operaia la voglia di qualsiasi movimento rivoluzionario, argomentando che le potrebbe essere utile non l'uno o l'altro cambiamento politico, ma soltanto un cambiamento delle condizioni materiali della esistenza, cioè dei rapporti economici. Ma questo socialismo non intende affatto, con il termine di cambiamento delle condizioni materiali dell'esistenza, l'abolizione dei rapporti borghesi di produzione, possibile solo in via rivoluzionaria, ma miglioramenti amministrativi svolgentisi sul terreno di quei rapporti di produzione, che dunque non cambiano nulla al rapporto fra capitale e lavoro salariato, ma che, nel migliore dei casi, diminuiscono le spese che la borghesia deve sostenere per il suo dominio e semplificano il suo bilancio statale.

Il socialismo borghese giunge alla sua espressione adeguata solo quando diventa semplice figura retorica.

Libero commercio! nell'interesse della classe operaia; dazi protettivi! nell'interesse della classe operaia; carcere cellulare! nell'interesse della classe operaia. Questa è l'ultima parola, l'unica detta seriamente, del socialismo borghese.

Il loro socialismo consiste appunto nell'affermazione che i borghesi sono borghesi -nell'interesse della classe operaia

3. IL SOCIALISMO E COMUNISMO CRITICO-UTOPISTICO

Qui non parleremo della letteratura che ha espresso le rivendicazioni del proletariato in tutte le grandi rivoluzioni moderne (scritti di Babeuf e così via).

I primi tentativi del proletariato di far valere direttamente il suo proprio interesse di classe in un'età di generale effervescenza, nel periodo del rovesciamento della società feudale, non potevano non fallire per la forma poco sviluppata del proletariato stesso, come anche per la mancanza delle condizioni materiali della sua emancipazione, che sono appunto solo il prodotto dell'età borghese. La letteratura rivoluzionaria che ha accompagnato quei primi movimenti del proletariato è per forza reazionaria, quanto al contenuto; insegna un ascetismo generale e un rozzo egualitarismo.

I sistemi propriamente socialisti e comunisti, i sistemi di Saint-Simon, di Fourier, di Owen, ecc., emergono nel primo periodo, non sviluppato, della lotta fra proletariato e borghesia, che abbiamo esposto sopra (vedi: Borghesia e proletariato).

Certo, gli inventori di quei sistemi vedono l'antagonismo delle classi e anche l'efficacia degli elementi dissolventi nel seno della stessa società dominante. Ma non vedono nessuna attività storica autonoma dalla parte del proletariato, non vedono nessun movimento politico proprio e particolare del proletariato.

Poiché lo sviluppo dell'antagonismo fra le classi va di pari passo con lo sviluppo dell'industria, essi non trovano neppure le condizioni materiali per l'emancipazione del proletariato, e vanno in cerca d'una scienza sociale, di leggi sociali, per creare queste condizioni.

“Progredisce!”, esclamò l’ingegnere quando sul tronco ferroviario appena inaugurato giunse il primo convoglio carico di persone, di carbone. di attrezzi. di rifornimenti alimentari.

La prateria si andava gradatamente riscaldando alla luce dorata del sole, mentre gli alti monti boscosi si ergevano all'orizzonte avvolti da vapori azzurrini. Cani selvatici e sbalorditi bufali osservavano da lontano come il deserto cedesse il posto al fervore di attività ed al trambusto e i cumuli di carbone, di cenere, di latta e di lamiera si andassero formando sulla verde distesa.

La prima pialla mandò per i campi attoniti un suono stridente, esplose come un tuono il primo colpo di fucile rimbombando fra i monti, la prima incudine emise suoni acuti e striduli sotto i colpi del martello. Sorse una casa di lamiera e nei giorni successivi ne venne su un'altra di legno, e altre ancora, e ogni giorno ne spuntavano di nuove, ben presto anche di pietra. L cani selvatici e i bufali se ne rimasero discosti. Nel clima primaverile frusciavano i campi ricolmi di frutti, spuntarono cortili, stalle e granai. Nuove strade percorsero lande ancora vergini.

Si apprestò la stazione ed entrò in funzione, e nei paraggi sorsero edifici pubblici. banche e, nel giro di qualche mese, altri centri. Giunsero lavoratori da altre parti, contadini e borghesi, vennero commercianti e avvocati, predicatori e insegnanti. Si fondarono una scuola. tre comunità. religiose e due giornali.

Si aprirono nella parte occidentale alcuni pozzi petroliferi e un notevole benessere sopraggiunse nella città di recente fondata. Nel giro di un anno sarebbero inoltre saltati fuori anche ladri, lenoni, scassinatori, un emporio, una lega antialcoolista, una sartoria parigina, una birreria bavarese. La concorrenza delle città vicine accelerò i tempi.

Non mancava più nulla, dai discorsi elettorali agli scioperi, dal cinema alla società spiritistica. Era possibile reperire in città vino francese, aringhe norvegesi, salumi italiani, tessuti inglesi, caviale russo. Giunsero ben presto sul posto in tournée cantanti, ballerini e musicisti di seconda categoria.

E piano piano arrivò anche la cultura. La città, che agli inizi altro non era che un'istituzione, prese ad essere una patria vera e propria. Si era creato un modo di salutarsi, di scambiarsi cenni del capo nell'incontrarsi che aveva qualcosa di sottilmente diverso da quello di altre città. La gente che aveva preso parte alla fondazione della città era stimata e venerata, avvolta in una specie di aura di piccola nobiltà. Cresceva una gioventù piena di slancio, alla quale la città appariva con l’aspetto di un'antica patria, ormai votata all’eternità.

Il tempo in cui era risuonato il primo colpo di martello, si era assistito al primo assassinio, si era celebrato il primo servizio divino, era stato stampato il primo giornale era ormai relegato nel passato. Si era fatto storia.

La città era assurta al rango di dominatrice delle altre vicine ed era diventata capitale di un grande distretto. Su strade ampie e animate, dove un tempo accanto a cumuli di cenere e a pozzanghere erano sorte le prime case di assi e lamiera, si ergevano ormai uffici e banche. teatri e chiese. Studenti frequentavano tranquillamente l’università o la biblioteca, ambulanze trasportavano delicatamente i malati all'ospedale, si notava e salutava l’automobile di qualche deputato. In una ventina di imponenti edifici scolastici in pietra e ferro si celebrava regolarmente l’anniversario della fondazione della gloriosa città con canti e conferenze. La prateria di un tempo era ormai ricoperta da campi, fabbriche, villaggi e solcata da una ventina di linee ferroviarie, la montagna era ormai raggiungibile fin nel cuore delle sue vallate grazie a una linea ferroviaria montana. Lassù, o più lontano, al mare, i ricchi possedevano le loro case di villeggiatura.

Dopo cento anni dalla fondazione, un terremoto distrusse completamente la città. Ma fu rimessa di nuovo in piedi e tutto ciò che prima era di legno venne ricostruito in pietra, quel che era piccolo fu fatto grande, senza risparmio di mezzi. La stazione era la più grande della zona, la borsa la più importante del continente, architetti e artisti adornarono la nuova città di edifici pubblici, di parchi, fontane, monumenti. Nel giro di un altro secolo la città si procurò la fama di essere la più bella e la più ricca della zona, una meraviglia da vedere. Personalità politiche e architetti, tecnici e sindaci accorsero dall'estero per studiare gli edifici, gli acquedotti. le trasformazioni e le nuove acquisizioni di questa famosa città. In quel periodo cominciava la costruzione del nuovo municipio, uno dei più grandi e magnifici palazzi del mondo, e poiché allora l'incipiente ricchezza e l’orgoglio cittadino si combinavano con una generale evoluzione del gusto, specie in architettura e in pittura, la città che stava crescendo rappresentava un ardito e apprezzato portento. Il centro del distretto, i cui edifici erano tutti indistintamente fatti di un marmo pregiato grigio chiaro, era circondato da un'ampia cintura verde di giardini pubblici e. aldilà di questa cerchia, si perdevano arterie stradali e case in espansione continua verso le aree ancora disponibili e l’aperta campagna.

Molto frequentato e apprezzato era un enorme museo. nelle cui centinaia di sale. cortili e atri era esposta la storia cittadina, dalla fondazione alla recente espansione. Il primo, grandioso atrio di quest'istituzione mostrava la prateria originaria, con piante e alberi ben ricostruiti e modelli fedeli dei miserabili villaggi, delle viuzze anguste, degli oggetti di arredamento dei primi tempi. Lì gironzolavano i giovani del posto e osservavano il percorso della loro storia, a partire dalle tende e dalle capanne di legno per arrivare ai primi rudimentali binari e al trionfo delle strade da grande metropoli. E così imparavano, guidati dai loro maestri, e apprendevano quella che è la regola aurea dello sviluppo e del progresso, come cioè si passi dal primitivo al raffinato, dall'animale all'uomo, dall'ignoranza alla scienza, dalla povertà all'opulenza, dalla natura alla civiltà.

Nel secolo seguente la città attinse l’apice del proprio splendore, dispiegando notevole esuberanza e crescendo celermente, finché non sopraggiunse una sanguinosa rivoluzione degli strati inferiori a porre termine a tutto questo. La plebaglia prese allora a incendiare molti degli impianti petroliferi, a qualche miglio di distanza dalla città. per cui gran parte delle terre occupate da fabbriche, fattorie. villaggi in certi casi bruciarono, in altri si spopolarono. La città stessa conobbe massacri e atrocità di ogni genere, pur riuscendo a rimanere in piedi e a riprendersi gradatamente in qualche decennio, senza però poter più recuperare i precedenti ritmi di vita e di attività.

In quel triste periodo era fiorita rapidamente al di là del mare una terra remota, che forniva grano, ferro, argento e altri tesori, grazie alla fertilità di terreni non sfruttati che producevano ancora generosamente. La nuova terra attrasse a sé con forza le energie infrante, le aspirazioni e i desideri del vecchio mondo, per cui all'improvviso spuntarono fuori nuove città, sparirono boschi, si arginarono cascate.

La bella città cominciò lentamente a languire. Non rappresentava più il cuore e la mente di un mondo. non era più mercato e polo finanziario di più centri abitati. Doveva accontentarsi del fatto di sopravvivere e di non essere pervasa dal terrore provocato dal frastuono della modernità. Le energie inoperose, nella misura in cui sopravvivevano a confronto con il frenetico nuovo mondo, non dovevano più darsi da fare a costruire e a espandersi, e ancora meno a trafficare e ad arricchirsi. Al posto di tutto questo, sull'ormai esausto suolo agricolo proruppe un nuovo rigoglio spirituale: scienziati e artisti. pittori e insegnanti abbandonarono la città, ormai in preda alla desolazione. I successori di coloro che un tempo avevano tirato su le prime case trascorrevano serenamente in pace i propri giorni, coltivando godimenti e aspirazioni spirituali, dipingendo i tristi fasti degli antichi giardini muscosi con statue in rovina e acque fangose, cantando in versi struggenti il frastuono dei vecchi tempi eroici o i sonni tranquilli della gente esausta negli antichi palazzi. Con il che di nuovo il nome e la fama di questa città risuonarono per il mondo.

Fuori le guerre potevano distruggere popoli e grandi attività li impegnavano. mentre qui, in spaventosa solitudine, regnava la pace e lentamente riaffiorava lo splendore dei tempi andati: strade tranquille, ricoperte di rami fioriti. facciate colorate dal tempo di edifici grandiosi intorno a silenziose piazze sognanti. fontane muscose inondate dal dolce suono del gioco delle acque.

Nel giro di qualche secolo l’antica città di sogno divenne per il nuovo mondo un luogo venerato e amato, cantato dai poeti e ricercato dagli innamorati. Con sempre maggior forza, la vita della gente si proiettava verso altre parti del globo. Nella stessa città gli eredi delle antiche famiglie locali cominciavano a estinguersi o ad essere messi da parte.

Anche l’ultima fioritura spirituale si era progressivamente esaurita, non lasciando dietro di sé altro che misere tracce. I centri minori dei dintorni erano ormai scomparsi da molto tempo, trasformali in muti cumuli di rovine, a volte rifugio di zingari o evasi. In seguito a un sisma, che tuttavia risparmiò la città, il corso dei fiumi deviò e parte delle terre spopolate si trasformarono in palude, parte divennero desertiche. E dai monti, dove si andavano sbriciolando i resti degli antichi ponti di pietra e delle case di campagna, avanzò il bosco, l’antico bosco. lentamente, giù giù verso il basso; scorse l’ampio paesaggio ormai desolato e deserto e cominciò piano piano a inglobarlo un passo dietro l’altro, nella sua verde cerchia, ricoprendo col suo verde fruscìo qui una palude, là un ammasso di detriti pietrosi con le sue giovani. fitte conifere.

Nella città, alla fine, non rimase neanche un borghese, solo gente indurita e rude che viveva nei fatiscenti, sghimbesci edifici di un tempo lontano e pascolava le sue misere capre lungo quelli che erano stati una volta viali e giardini. Anche questa popolazione residua sparì a poco a poco, in preda alle malattie o alla follia, imperversando in tutta la landa febbri malariche e abbandono e desolazione.

I resti dell'antico municipio, un tempo orgoglio e vanto della sua epoca, si ergevano ancora più alti e imponenti. erano celebrati nelle canzoni in tutte le lingue del mondo. ispiravano innumerevoli leggende fra le popolazioni vicine, le cui città erano anch'esse cadute in rovina e la cui cultura si era andata estinguendo. nelle canzoni nostalgiche

Nelle storie per i ragazzi e nelle canzoni nostalgiche restavano, deformati e distorti, i nomi delle città e di quelle che ormai altro non erano che metropoli spettrali, e scienziati ed eruditi di popoli lontani, allora in pieno rigoglio, compirono in gran numero avventurosi viaggi esplorativi alla volta della città distrutte, dei cui portenti gli scolari di vari paesi parlavano avidamente fra loro. Vi si sarebbero trovate porte d’oro fino e tombe piene di pietre preziose, e le fiere tribù nomadi dei dintorni. superstiti degli antichi tempi mitici, avrebbero ereditato il retaggio di una millenaria scienza magica dispersa.

Intanto però il bosco continuava a venir giù dal monte fin nei paraggi; laghi e fiumi nascevano e sparivano, mentre il bosco continuava ad avanzare e a prendere piede, ricoprendo i resti delle antiche strade, dei palazzi, dei templi, del museo; e volpi e martori, lupi ed orsi ripopolavano il paesaggio.

Su uno del palazzi distrutti, di cui non rimaneva più in piedi neanche una pietra, spuntava un giovane pino selvatico, che appena l'anno prima era stato il messaggero e l’antesignano del progresso de! borgo. Ora però si vide circondato da altri giovani pini.

"Progredisce!", esclamò un picchio, che se ne stava martellando una corteccia, ammirando il bosco circostante e il lieto. verde avanzare degli alberi sul terreno.

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