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L’Italia ha deciso di abbandonare il nucleare attraverso un primo referendum nel 1987, erano gli anni di Chernobyl e della corsa agli armamenti. A distanza di dieci anni, la chiusura del ciclo nucleare era ancora lontana era ancora lontana, perciò nel 1999 fu fondata la Sogin, una società di stato per decommissionare gli impianti e gestire i rifiuti radioattivi. Con il referendum del 12 e 13 giugno 2011, l’Italia ha ribadito la volontà di non costruire centrali atomiche.

A 32 anni da quella espressione popolare l’Italia non sa ancora dove depositerà in via definitiva e in sicurezza i propri rifiuti radioattivi.
La questione delle scorie e del pericolo rappresentato da possibili incidenti nucleari, come i disastri di Černobyl (1996), Tokaimura (1999), Fukushima Dai-ichi (2011), solo per nominare i più gravi, non sono gli unici problemi.
Pensavamo che già prima di Fukushima l'era del nucleare fosse finita, dato i costi insostenibili per la gestione di tutto il ciclo nucleare, quindi rifiuti radioattivi compresi, ma dopo il disastro in Giappone ne eravamo quasi convinti, gli incidenti nucleari hanno ripercussioni enormi e lunghissime, una disastrosa eredità che graverà sulle generazioni future. Finché a determinare le scelte sarà la ricerca del massimo guadagno da parte dell'operatore, i rischi di catastrofi, l'inquinamento nonstop da scorie che non si sa dove mettere, il pericolo di proliferazione di armi nucleari (perchè le industrie dell'energia nucleare e delle armi nucleari condividono una base tecnologica comune e sono reciprocamente vantaggiose) non basteranno per fermare il nucleare. Ma l'opposizione a questa tecnologia è una questione di sopravvivenza.
Su eddyburg trovate altri articoli di critica alla proliferazione di questa tecnologia. Segnaliamo l'articolo di Angelo Baracca «Antropocene-Capitalocene-Nucleocene» per comprendere la pesante eredità dell'era nucleare e l'impatto nefasto dei prodotti nucleari, di scorie impossibili da smaltire. Sempre di Baracca l'articolo «NATO, UE, armamenti nucleari», che ricostruisce la sudditanza dell'Italia e dell'Europa alle scelte degli Stati Uniti attraverso il trattato NATO, le pesanti ripercussioni che ancora oggi gravano sulle scelte della politica italiana e il rischio catastrofico di una guerra nucleare che incombe. Ricordiamo inoltre l'articolo di Giorgio Nebbia «In morte di una centrale», quella di Montalto di Castro, storia di danni e sprechi, che potevano essere evitati, perché il nucleare era una scelta sbagliata, come già denunciato dal movimento antinucleare. Infine, l'articolo di Enrico Piovesa «Risiko nucleare. La minaccia non arriva solo da Kim» che denuncia come i programmi di modernizzazione delle forze nucleari esistenti, avviate da tutte le nazioni armate di atomica, contribuisce notevolmente alla proliferazione nucleare.
(i.b.)
Due settimane fa il Fatto online dava una notizia sorprendente, almeno a prima vista: un maxi ordine da 190 milioni di compresse di iodio anti-radiazioni era stato inoltrato a un produttore austriaco dall’Ufficio federale tedesco per la protezione dalle radiazioni. E’ noto come lo iodio “buono” agisca saturando la tiroide e impedendo che si accumuli nella ghiandola quello radioattivo, in grado di provocare tumori. Notizia ghiotta, ma, a prima vista, stravagante.

Dopo un G7 che finalmente si è accorto che l’Amazzonia brucia, che in Iran è meglio trattare che bombardare, che la guerra dei dazi rende tutti perdenti, come mai torna in vita la paura del nucleare? Dopo gli abbracci, tra una prova missilistica e l’altra, tra Trump e Kim Jong-un e dopo la clamorosa uscita di scena, almeno negli USA e in Europa, dei reattori nucleari come prospettiva energetica risolutiva. In effetti, il cambio di cultura imposto dalla minaccia della catastrofe climatica, impone non solo il controllo delle emissioni climalteranti, ma anche il pieno controllo sociale delle tecnologie per prendersi cura della Terra e l’incompatibilità tra radiazioni e salute dell’intera biosfera si è rivelata insormontabile. Così, il nucleare civile è ormai residuale negli Stati Uniti dove fornisce un contributo alla produzione di elettricità del 20% proveniente da 99 reattori nucleari attivi con un’età media di circa 37 anni, mentre in tutta la UE si prevedono dismissioni e abbandoni, con i due grandi reattori di Areva ancora di là da venire.

Da dove viene allora l’imprevisto ordine tedesco di immunizzazione radioattiva della popolazione, quando la guerra nucleare passa per un esercizio maniacale di Trump e sono solo 451 i siti nucleari civili attivi nel mondo contro 63.000 impianti tradizionali, che invece attirano le maggiori preoccupazioni per le emissioni di CO2?

Bastano tre considerazioni, purtroppo trascurate dai media, per giustificare l’allarme.

1. Il progetto di documento, chiamato Nuclear Posture Review (v. https://fas.org/issues/nuclear-weapons/nuclear-posture-review/ ), che espone la strategia nucleare degli Stati Uniti di recente elaborazione, consente l'uso di armi nucleari per rispondere a una vasta gamma di attacchi devastanti, ma non nucleari, alle infrastrutture americane, inclusi gli attacchi informatici. Il nuovo documento è il primo ad espandersi oltre lo scambio di attacchi atomici, per includere i tentativi di distruggere infrastrutture di vasta portata, come la rete elettrica o le comunicazioni di un paese, in quanto sarebbero più vulnerabili alle armi informatiche. La nuova strategia sotto Trump sarebbe la risposta pronta non solo ai progressi nucleari della Corea del Nord e dell’Iran ma anche a quelli di hackering informatici da parte di Russia e Cina. Se il cyber può causare un malfunzionamento fisico delle principali infrastrutture con conseguenti morti, il Pentagono ha ora trovato il modo di "stabilire una dinamica dissuasiva" ricorrendo all’impiego della bomba nucleare. Anche a tal fine si è stabilito il prezzo per un rifacimento trentennale dell'arsenale nucleare USA (comprese le B61 di Aviano e Ghedi!) in oltre 1,2 trilioni di $.

2. L’incidente nucleare dell’8 agosto, in una città della Russia sub-artica nella provincia di Archangelsk in Siberia (vedi Yurii Colombo su il manifesto, 14/8/2019), totalmente oscurato dall’entourage di Putin anche dopo che si è registrato un livello di radioattività 16 volte maggiore rispetto ai valori normali, si suppone dovuto ad un’esplosione durante i test su un reattore con una fonte di energia a radioisotopi montato su un razzo da crociera. Programmi di ricerca simili sono stati condotti negli Stati Uniti. I dubbi sull’esplosione dell’8 agosto non sono legati tanto al tasso di radioattività ma al tipo di radiazioni emesse, su cui “si sa davvero poco”.

3. La maledizione di Fukushima: “Il Governo giapponese inganna l'Onu, violati i diritti umani di lavoratori e bambini”. Così riferisce l’ANSA (ROMA, 08 MAR) riferendo l'accusa di Greenpeace, che, a 8 anni dal disastro dell'11 marzo 2011 pubblica un rapporto che certifica che i livelli di radiazione nella zona di esclusione e delle aree di evacuazione intorno alla centrale sono da cinque a oltre cento volte più alti del limite massimo e che in oltre un quarto dell'area la dose annuale di radiazioni a cui sarebbero esposti i bambini potrebbe essere 10-20 volte superiore al massimo raccomandato. A distanza di 8 anni dall’incidente non si vede nessuna prospettiva di soluzione. La rimozione del combustibile presente nelle piscine dei reattori danneggiati (per un totale di 1.393 elementi) è stata completata solo per l’unità 4, mentre per l’unità 3 dovrebbe iniziare entro quest’anno e solo nel 2023 per le unità 1 e 2. Un immane disastro nello spazio e nel tempo.

4. Infine c’è da prendere in considerazione il rilancio senza clamori della tecnologia nucleare, previsto da uno dei siti Web più influenti sul piano delle politiche industriali. Il Website “dell’innovazione e dell’industria manifatturiera USA” con sede nel Michigan (v. https://www.iqsdirectory.com/resources/although-their-heyday-is-past-the-future-of-nuclear-reactors-appears-bright ) riporta che in Cina sono partiti due reattori “sicuri” che eliminano la necessità di sistemi di raffreddamento esterni, cosa che è fallita a Fukushima. "Questa tecnologia sarà sul mercato mondiale entro i prossimi cinque anni", ha detto Zhang Zuoyi, il direttore dell’Institute of Nuclear and New Energy Technology di Pechino. "Stiamo sviluppando questi reattori per conquistare il mondo." Intanto la NASA sta collaudando il progetto Kilopower, un reattore nucleare compatto con il potenziale per alimentare le missioni sulla luna, su Marte e persino nei più profondi tratti dello spazio.

Attenti, quindi, perché zitti zitti, i militari più aggressivi ed i sostenitori di una tecnologia che sfugge al controllo sociale e alla riproduzione della biosfera potrebbero ricominciare, magari dai missili, dai robot e dallo spazio, lontano da occhi umani, a riproporci una strada che sembrava desueta e da abbandonare definitivamente. Ma quanti altri disastri nucleari e quante tonnellate di pastiglie a mo’ di Aspirina ci occorrono per costringere finalmente i politici eletti per governare non solo il presente, ma anche il futuro dei nostri figli, a porre fine alla follia nucleare?

CONTRO LE ESTRAZIONI PETROLIFERE
PER LA CONVERSIONE ECOLOGICA DELL’ECONOMIA
IL CASO BASILICATA
Convegno Nazionale di Potere al Popolo
Potenza Salone del Cestrim Via Sinni

La Basilicata è un caso emblematico di come la politica economica centrata sull’estrazione di petrolio e l’uso dei combustibili fossili sia devastante non solo in termini di emissioni di carbonio o gas serra ma anche in termini di salute, pace, diritti ambientali e umani. Uscire dal fossile significa mettere in discussione un modello di sviluppo basato su un sistema di produzione e consumo che sfrutta e degrada risorse, territori e lavoro, e che moltiplica i conflitti al fine di accaparrarsi pozzi, trivelle e raffinerie.

Ci troviamo così di fronte a una dura scelta: continuare ad alimentare un sistema di produzione energetica che sconvolge il clima e ogni aspetto della nostra vita, oppure avviare una profonda transizione non solo verso un nuovo modo di produrre energia, ma anche di utilizzare risorse, produrre, consumare, abitare il pianeta. In questo convegno, a cura dei Tavoli Ambiente e Lavoro di Potere al Popolo, a partire dagli impatti dell’estrattivismo in Basilicata proveremo a delineare questa scelta. Vogliamo intraprendere un percorso che, partendo dal gigantesco patrimonio di storia, cultura e civiltà ignorato e tendenzialmente cancellato dal modello in atto, metta in campo un’economia che privilegi i bisogni sociali e la protezione dell'ambiente.

 

PROGRAMMA

Sabato 28 Settembre 2019 ore 11.00 - Piazza Zara, Potenza
Visita guidata ai Centri Oli di Viggiano e Tempa Rossa, lago del Pertusillo, Pozzo di Villa d’Agri. Prenotazioni dovranno arrivare agli organizzatori entro e non oltre il 15 Settembre.Sabato 28 Settembre ore 18.00 - Salone del Cestrim, Potenza
Proiezione dei documentari Mal d’Agri 1 e Mal d’Agri 2019. Dibattito con gli autori Mimmo Nardozza e Salvatore Laurenzana. Relazione introduttiva di Lidia Ronzano Referente del Coordinamento Regionale Acqua Pubblica Basilicata.

Domenica 29 Settembre 2019 ore 10.00 – Salone del Cestrim, Potenza
Incontro dibattito “ Contro le estrazioni petrolifere per la conversione ecologica dell’economia: il caso Basilicata”

Introduzione

di Antonella Rubino

Liberiamoci dal fossile per realizzare una giustizia ambientale e sociale
di Ilaria Boniburini

V.I.S. – Valutazione Impatto Sanitario: Uno strumento di sanità pubblica
del Dott. Giambattista Mele

Petrolio e inchieste giudiziarie in Basilicata: ipotesi di disastro ambientale
Avvocato Giovanna Bellizzi.

Dalle Vigne di Viggiano a C.da La Rossa di Montemurro a Tempa Rossa di Corleto Perticara: l’industria petrolifera occupa le campagne lucane
di Vincenzo Ritunnano

Seguiranno gli interventi di associazioni, movimenti e singoli cittadini.

Conclusioni

di Giorgio Cremaschi

 

BASILICATA E PETROLIO
Brevi note sull’attività estrattiva in Basilicata
aggiornate a luglio 2019

di Lidia Ronzano - Coordinamento Regionale Acqua Pubblica di Basilicata

Premessa

Gli scienziati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), la struttura scientifica dell’ONU che si occupa di Cambiamenti Climatici, hanno recentemente lanciato un forte allarme: entro il 2030 bisogna ridurre la CO2 almeno del 45% perché, in caso contrario, le temperature potrebbero innalzarsi di più di 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali provocando conseguenze catastrofiche, incontrollabili ed irreversibili. Insomma, non è più procrastinabile la TRANSIZIONE verso un sistema produttivo e di consumo non più basato su sprechi e fonti fossili e non più energivoro come l’attuale, ma orientato verso principi di sobrietà e di equa distribuzione delle risorse.
In Basilicata, però, si va in tutt’altra direzione con l’aggravante che ciò che accade è totalmente ignoto al di fuori dei confini regionali per via del patto di assoluto silenzio che sembra essere stato concordato fra tutti i media nazionali. Solo i gruppi attivi nella difesa dell’ambiente e dei diritti dell’uomo ne sono - in parte - a conoscenza grazie ai canali del web ed alle informazioni provenienti da associazioni, movimenti e cittadini locali che da decenni si battono contro i danni ambientali provocati dall’attività estrattiva.

In questa piccola regione, di soli 9.995 Kmq e con una popolazione di circa 560.000 abitanti al 2018 ed in continuo decremento, si trova il più grande giacimento on-shore (in terra ferma) d’Europa e si estrae più dell’80% del petrolio italiano, con conseguenze drammatiche sulla salute dei cittadini, sull’ambiente in generale ed, in particolare, sulla qualità dell’acqua, bene comune che qui è presente in abbondanza e la cui tutela dovrebbe essere assolutamente prioritaria, considerata la prospettiva di progressiva desertificazione dell’intero pianeta.

Ed invece la Basilicata è priva di un Piano Regionale di Tutela delle Acque e di un Piano Paesistico Regionale e continua a puntare sulle fonti fossili e sullo sfruttamento dei grandi giacimenti che, purtroppo, sono diffusi ovunque sul suo territorio.

Un po’ di storia del petrolio in Basilicata

Fin dal XV secolo le popolazioni lucane assistevano al manifestarsi di lingue di fuoco che segnalavano il bruciare del metano ed è del 1902 la notizia di fuoriuscite superficiali spontanee di petrolio e gas.

Già agli inizi della sua attività l’Agip -Azienda Generale Italiana Petroli, nata con Regio Decreto del 1926- si accorse della presenza di idrocarburi nella zona di Tramutola, in alta Val d’Agri e fra il 1939 ed il 1947 perforò, in quella zona, ben 47 pozzi.

Durante la seconda guerra mondiale sono proprio i prodotti petroliferi della Val d’Agri a permettere all’Italia di sopperire al blocco delle importazioni. Nel 1945 Enrico Mattei, su pressione degli americani interessati ad appropriarsi del petrolio italiano, riceve l’incarico di liquidare l’Agip ma, disattendendo il mandato, la trasforma in un colosso italiano del petrolio che, nel 1953, si dota del logo con il cane a sei zampe e diventa ente pubblico -Ente Nazionale Idrocarburi – sotto la presidenza dello stesso Mattei che durerà fino alla sua morte (1962). L’ENI verrà convertita in spa nel 1992.

All’inizio degli anni Sessanta Mattei punta fortemente sulla Basilicata scoprendo che anche la Valle del Basento è una miniera d’oro, ricca com’è di metano e petrolio. I lucani, da sempre poveri, vengono irretiti e gasati fino al punto da farli scendere in cortei che reclamano lo sfruttamento del sottosuolo.

Le ricerche, con la scoperta di molte altre sacche di idrocarburi, continuano nei decenni successivi, ma l’attività intensiva inizia negli anni ’80 e continua, senza interruzioni, fino ai giorni nostri.

La situazione attuale

Dai dati UNMIG (Ufficio Nazionale Minerario Idrocarburi e Georisorse – MISE) del 31.12.2018, la Basilicata risulta interessata da 19 concessioni di coltivazione (estrazione), 6 permessi di ricerca già accordati ed 1 concessione di stoccaggio, oltre a 17 nuove istanze di permesso di ricerca di petrolio e gas in terraferma, già presentate ed in attesa di autorizzazione.

Se tutte queste nuove istanze venissero concesse, più del 60% del territorio lucano sarebbe interessato da attività estrattive.

Sempre secondo i dati dell’UNMIG, in Basilicata ci sono 487 pozzi petroliferi perforati in terra ferma, di cui 271 sono in provincia di Matera e 216 in provincia di Potenza. Ad oggi i pozzi in produzione sono circa 40.

I comuni interessati da iniziative di ricerca ed estrazione petrolifera sono 81 sui 131 esistenti.

Carta titoli idrocarburi 30.6.2018

Va detto che attualmente dovrebbe essere in atto una sospensione delle nuove istanze e delle attività di prospezione e ricerca, per effetto della legge n.12 dell’11 febbraio 2019; il condizionale è d’obbligo, visto che dopo l’approvazione della legge non sono stati emanati gli atti amministrativi necessari a decretare concretamente la sospensione. La legge, molto avversata dai movimenti No Triv, prevede la redazione, a cura del MISE e del Minambiente, del PiTESAI - Piano per la Transizione Sostenibile delle Aree Idonee - che dovrebbe individuare le aree – in terraferma ed in mare - in cui sarà possibile estrarre idrocarburi. La legge prescrive, però, che il Piano per la terraferma venga adottato d’intesa con tutte le Regioni entro il 13 agosto 2020 e stabilisce –stranamente- che nel caso che non si raggiunga un accordo (come è molto probabile) entro il termine ultimo del 12 febbraio 2020, entri in vigore solo il Piano per le aree marine; in questo caso il Piano per la terraferma decadrebbe e per le estrazioni on-shore tutto tornerebbe alla situazione ante legem, ossia all’attuale possibilità di estrarre dovunque. I lavori sul PITESAI, però, a ben 6 mesi dall’entrata in vigore della legge sembrano essere ancora in fase di stallo ed intanto la Lega, il cui leader nazionale è nettamente schierato a favore delle estrazioni, è riuscita ad ottenere - in modo imprevedibile - ottimi risultati nelle recenti elezioni regionali lucane grazie ad una campagna elettorale fortemente sostenuta dai vertici nazionali; sicchè oggi c’è il considerevole rischio che il centro destra, che governa la regione, possa decidere di sfruttare l’eventuale assenza di Piano per la terraferma incrementando l’attività estrattiva. L’elenco di tutti i titoli minerari, sia esistenti che nuovi, è riportato nelle ultime pagine di questo documento.

Va evidenziato che fra le nuove istanze di prospezione e ricerca ce ne sono tre - “La Cerasa”, “Monte Cavallo” e “Pignola” (che ricade anche nel Comune di Potenza) – che hanno già ricevuto il parere positivo della Commissione V.I.A. (Valutazione di Impatto Ambientale) del Ministero dell’Ambiente e che in queste aree l’avvio della ricerca potrebbe essere rapidamente autorizzato in caso di non adozione del “PiTESAI on-shore”.

La Basilicata ospita inoltre sul suo territorio le infrastrutture di supporto all’attività estrattiva, ossia:

  • un oleodotto lungo circa 136 Km e costituito da cinque linee di tubazioni in acciaio, che oggi trasporta fino a Taranto il greggio estratto da ENI in Val d’Agri e fra non molto, quando l’attività a Tempa Rossa andrà a regime, trasporterà anche il greggio estratto lì dalla Total;
  • ben tre “centri oli”, ossia centri di primo trattamento degli idrocarburi.

Quello di più antica realizzazione ed ancora funzionante ha sede a Pisticci, in Val Basento. Si tratta di un’area SIN (Sito di Interesse Nazionale), ossia di una delle 57 aree più contaminate della penisola, classificate come pericolose per la quantità e le caratteristiche degli inquinanti presenti. E’ proprio in Val Basento che vengono smaltite ogni giorno enormi quantità di reflui presso l’impianto Tecnoparco Valbasento S.p.A, attualmente al centro di un processo ribattezzato “Petrolgate” per reati, tra l’altro, di contraffazione dei codici CER (Codice Europeo del Rifiuto)

Il secondo è il Centro Olio Val d’Agri (COVA) - la più grande piattaforma estrattiva in terraferma d’Europa - che funziona dal 1996 ed in cui vengono lavorati quotidianamente 80.000 barili di petrolio, che potrebbero diventare 104.00 in base ad un accordo del 1998 (un barile equivale a circa 159 litri di greggio).

Il terzo, quello di Tempa Rossa nell’alta Valle del Sauro, sta per entrare in funzione e lavorerà altri 50.000 barili al giorno.

Oltre a milioni di metri cubi di gas, la produzione quotidiana di idrocarburi potrebbe quindi ammontare, per le sole concessioni attualmente in essere, ad un totale ipotizzabile di 154.000 barili al giorno.

Va detto che ad ottobre del 2019 scadrà la concessione “Val d’Agri” e che il suo rinnovo potrebbe comportare una rinegoziazione – e forse anche un incremento - dei quantitativi di idrocarburi estraibili.

Centro Oli Tempa Rossa, Corleto Perticara - TOTAL
COVA - Centro Oli Val D'Agri, Viggiano - ENI

Danni connessi alle fasi del processo estrattivo

Per comprendere meglio quanto sia impattante l’attività estrattiva, è opportuno disporre di qualche breve cenno sulla conformazione di un giacimento di idrocarburi e sulle fasi dell’attività estrattiva.

Conformazione di un giacimento di idrocarburi
“Gli idrocarburi esistenti nel sottosuolo si raccolgono in giacimenti chiamati serbatoi. Ogni giacimento possiede due elementi essenziali: la roccia serbatoio (o reservoir) e la trappola di idrocarburi. La roccia serbatoio, porosa e permeabile, contiene gli idrocarburi; la trappola di idrocarburi è costituita da una particolare distribuzione delle rocce nel sottosuolo, che rende possibile trattenere gli idrocarburi nella roccia serbatoio. Essa è limitata superiormente da una roccia impermeabile (la roccia di copertura) che impedisce agli idrocarburi, più leggeri, di migrare verso l’alto.
Il limite inferiore del serbatoio è la superficie, generalmente piana e orizzontale, di separazione dal fluido sottostante, di norma rappresentato da acqua salata“. (Enciclopedia Treccani - caratteristiche geologiche dei giacimenti di idrocarburi)

Lo strato di olio, dunque, è poggiato su uno strato di acqua ed è sovrastato dal gas. Durante l’attività estrattiva tutti e tre gli elementi vengono portati in superficie, con la conseguente produzione di una grande quantità di acqua – l’acqua di produzione – caratterizzata da una importante radioattività e dalla presenza, al suo interno, di sostanze fortemente inquinanti (metalli pesanti e solidi sospesi) estremamente dannose per la salute dell’uomo.

Inoltre, per spingere il petrolio verso il punto di estrazione occorre iniettare una grande quantità di acqua che, per una parte, è la stessa acqua di produzione filtrata e, per la parte rimanente, è acqua prelevata in zona da falde, sorgenti o acquedotto.

Fasi del processo estrattivo
Ricerca ed estrazione
Per la ricerca e l’estrazione degli idrocarburi vengono realizzate trivellazioni verticali profonde migliaia di metri che attraversano terreni e falde acquifere superficiali e profonde in cui spesso si riversano i materiali fortemente inquinanti che entrano in gioco durante questa fase della lavorazione: lubrificanti con composizione spesso ignota in quanto protetta da segreto industriale che vengono utilizzati per facilitare la penetrazione della trivella e greggio disperso lungo la perforazione a causa delle frequenti disconnessioni nella camicia in acciaio di protezione del foro. Attualmente possono essere realizzate anche perforazioni orizzontali, che sono ancor meno controllabili delle verticali perché il loro andamento è spesso noto solo alle compagnie petrolifere.
A causa di queste contaminazioni, negli ultimi anni è stato più volte vietato l’uso di pozzi e sorgenti in molti comuni lucani. Inoltre numerose analisi di acque e sedimenti della diga del Pertusillo –che fornisce acqua anche alla Puglia - hanno evidenziato la presenza di idrocarburi e metalli pesanti e nei pesci sono stati rilevati contaminanti industriali e cianotossine. Va infine sottolineato che l’estrazione spreca enormi quantità di acqua spesso sorgiva (circa 8 litri per ogni litro di greggio) che si contamina e diventa rifiuto da smaltire.

Preraffinazione
Gli idrocarburi, una volta estratti, vengono trasferiti mediante condotte in acciaio negli impianti di prima raffinazione –i centri oli- e qui sono sottoposti ad un trattamento di preraffinazione, ossia di separazione dell’olio grezzo dal gas metano, dalle acque di strato e dalle scorie. L’olio grezzo viene poi trasportato alla raffineria di Taranto, dove avviene la raffinazione definitiva, mentre il gas metano viene immesso nella rete nazionale SNAM e le scorie e le acque di produzione vengono smaltite con varie modalità.
Uno dei problemi principali di questa fase è la produzione di ACIDO SOLFIDRICO H2S,un gas incolore che, bruciando, crea le fiaccole che sovrastano i camini dei Centri Oli.
Si tratta di un veleno assolutamente infido: il suo aroma di uova marce è avvertibile solo a basse concentrazioni; a più di 1 ppm (particella per milione)non è più percepibile perché determina paralisi del nervo olfattivo e può causare incoscienza in pochi minuti. Da 50 ppm (rischi oculari e respiratori) in poi diventa pericoloso, dannoso ed a 500 ppm mortale. A più di 1.000 ppm provoca l'immediato collasso con soffocamento anche dopo un singolo respiro.
Nel COVA sono lavorate e stivate in cisterne alcune tonnellate di questo micidiale veleno ed a Tempa Rossa è previsto il medesimo processo di lavorazione.
Inoltre, le sostanze inquinanti immesse in atmosfera dai camini dei Centri Oli si depositano sul terreno e sulle acque superficiali anche a distanze elevate.

Stoccaggio e trasporto
Il petrolio lucano, corrosivo perché ricco di zolfo, causa forature in serbatoi di stoccaggio e tubature dell’oleodotto che collega il COVA con Taranto.
Sono innumerevoli i casi di perdite diffuse nell’oleodotto ed a gennaio del 2017 un’enorme quantità di greggio fuoriuscì dai serbatoi del COVA inquinando terreni e falde. L’episodio è stato classificato come “disastro ambientale” ed ENI parlò di 400 tonnellate di greggio sversato ma oggi, dopo ben due anni, le idrovore stanno ancora lavorando a pieno ritmo e questo lascia ipotizzare uno sversamento di entità ben maggiore. A questo danno si rischia poi di aggiungerne un altro in quanto si prevede di riversare la miscela acqua-petrolio recuperata, dopo una “depurazione” chimica, nel fiume Agri, affluente del Pertusillo.
E’ elevatissimo il rischio per le popolazioni.

Smaltimento delle scorie
Il trattamento e lo smaltimento delle scorie è un problema molto rilevante del processo di lavorazione, a causa sia dell’enorme quantità che del tipo di scorie prodotte, costituite da materiali fortemente tossici ed anche radioattivi.
Nel COVA di Viggiano le scorie vengono smaltite in parte (2.500/2.800 mc. al giorno) mediante reimmissione ad elevatissima pressione nel pozzo “Costa Molina 2” (Montemurro), non distante dalla diga del Pertusillo: qui le scorie vengono “sparate” nelle cavità precedentemente occupate dai materiali estratti, con l’elevatissima probabilità di finire nelle falde idriche e di reimmettersi nella circolazione dei fluidi di profondità, le cui dinamiche sono ancora ben poco note.

Fiamma su un camino del COVA a Viggiano

E’ già accaduto che i fluidi reiniettati, una volta “proiettati” in profondità, siano risaliti in superficie a chilometri di distanza dal pozzo, riemergendo dal terreno nel bel mezzo di campi coltivati.
Fra ottobre e dicembre del 2017 l’attività di reiniezione venne sospesa per la presenza di sostanze fortemente inquinanti (ammine) nei fanghi da reiniettare.

Un’altra parte delle scorie viene trasportata con autocisterne in Centri di trattamento con varia localizzazione che dovrebbero essere (ma che spesso non lo sono) adeguatamente attrezzati sia per il tipo che per la quantità di rifiuti da trattare. I problemi di questa fase riguardano sia i rischi connessi al trasporto (possibili sversamenti , per incidente o per altra causa, delle sostanze pericolose trasportate), sia gli illeciti spesso compiuti dai Centri di trattamento, come nel caso dell’impianto Tecnoparco, di Pisticci, coinvolto in una vicenda giudiziaria tuttora in corso.

Per ridurre i costi connessi alla grande quantità di scorie da trasportare e da far trattare in Centri esterni, ENI ha programmato la realizzazione, ad opera della sua società ambientale Syndial, di un impianto –da posizionare accanto al COVA- che dovrebbe trattare direttamente le scorie (anche quelle radioattive) e poi sversare nei corsi d’acqua adiacenti –affluenti del Pertusillo- le acque residue che, a suo dire, risulterebbero perfettamente “depurate” e quindi innocue. Sono state, ovviamente, presentate numerose opposizioni a questo progetto da parte delle associazioni ambientaliste.
Una procedura simile è prevista a Tempa Rossa (Total); anche qui le “acque di produzione” –inquinate chimicamente e radioattive- dovrebbero essere “depurate” e poi sversate nel torrente Sauro, un corso d’acqua che si collega alla diga di Monte Cotugno (482 milioni di metri cubi) la quale fornisce acqua a Basilicata, Puglia e Calabria settentrionale. Parafrasando Marquez, si potrebbe quasi parlare di “cronaca di un disastro annunciato”.

Raffinazione
Non va dimenticato, infine, il danno ambientale provocato alla città di Taranto dalla raffinazione di tutto il greggio proveniente sia dal COVA che da Tempa Rossa.

Incremento del rischio sismico

La Basilicata, come la maggior parte del territorio italiano, è una zona ad altissimo rischio sismico. Nonostante ciò, le perforazioni vengono effettuate senza una preventiva ed accurata indagine geologica, con il rischio di inserire la trivella all’interno di una faglia e di provocare movimenti sismici.

In alcuni comuni della Val d’Agri (Moliterno, Montemurro etc.) è stata rilevata un’attività microsismica estremamente frequente causata proprio dalle attività estrattive, come evidenziato dal compianto Enzo Boschi, presidente dell’INGV -Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia- fino al 2011.

Le norme vigenti, inoltre, prescrivono soltanto la valutazione dell’impatto ambientale del singolo pozzo, ignorando completamente ciò che accade sul territorio a seguito dell’interazione fra perforazioni differenti ma non molto distanziate fra loro.

Estremamente problematica è anche la situazione del COVA, realizzato –per ragioni puramente economiche - proprio a ridosso dell'epicentro del terremoto del 1857, che provocò oltre diecimila morti. E’ facile ipotizzare che, in caso di sisma, i danni -in perdita di vite umane, in disastri ambientali ed in distruzione di manufatti- causati da possibili esplosioni, da dispersioni di petrolio e da fuoriuscite di acido solfidrico sarebbero immani.

Nonostante ciò, oggi si prevede addirittura di realizzare, nello stesso sito, anche l’impianto Syndial di trattamento delle scorie.

Incidenti e “non-incidenti”

E’ lunghissimo l’elenco degli incidenti connessi all’attività estrattiva; ne riportiamo, per brevità, solo qualcuno.

Sversamento COVA
Il più rilevante degli incidenti, classificato dalla magistratura come “disastro ambientale”, è sent’altro lo sversamento di 400 tonnellate di greggio da uno dei serbatoi di stoccaggio del COVA (secondo le dichiarazioni di ENI) che fu scoperto casualmente nel febbraio del 2017 e che provocò l’inquinamento di acque e sottosuolo – come si disse all’epoca - su almeno 26.000 mq. di territorio. Dalle inchieste successive è poi emerso che non si è trattato affatto di uno sversamento isolato, ma di un vero e proprio stillicidio da tutti e 4 i serbatoi del COVA, iniziato almeno nel 2012 ed ignorato volutamente dalla compagnia, con inevitabili danni per il Pertusillo con le cui acque vengono irrigati 35.000 ettari di terreno agricolo a cavallo fra Puglia e Basilicata.

Pozzi incidentati
Molti sono i pozzi ufficialmente classificati dall’UNMIG come incidentati. Fra questi anche quello di Monte Grosso, sito alla periferia di Potenza, e quelli di Brindisi di Montagna su cui, oltre ai notevoli danni ambientali, si intrecciano smottamenti, implosioni, misteri legati a tecniche e a strumentazioni usate, inchieste della Magistratura ed, addirittura, attenzioni particolari di servizi segreti stranieri. Nessuno di questi pozzi è stato bonificato.

“Non-incidenti” al COVA
Il monitoraggio in continuo dell’aria intorno al COVA è stato effettuato, fino al 2006, soltanto da ENI. Nel 2006 è stata installata la prima centralina mobile pubblica e solo nel 2014 ENI ha regalato ad ARPAB altre 4 centraline, peraltro già obsolete.

Paradossalmente, la storia dell’inquinamento dell’aria intorno al COVA può essere seguita solo attraverso una serie di “nonincidenti”, cioè incidenti mai ufficializzati come tali ma definiti “eventi” da ENI e dalle Istituzioni e riportati solo dalla cronaca e da benemerite associazioni attive già nei primi anni di attività del COVA e di ignoranza completa dei cittadini..

Nei dieci anni prima del 2018 solo i “nonincidenti” con sfiammate sono stati oltre 50, concentrati soprattutto negli ultimi quattro anni.

Nel 2016, nell’audizione di fronte alla commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, il Procuratore Francesco Basentini (Potenza) afferma: “tra metà 2014 e metà 2015 si sono verificati 15 episodi di gas flaring; da ottobre 2014 al primo aprile 2016, 7 episodi”. “Presumo che qualora succeda una volta all’anno ci stia, ma se succede con una certa frequenza, è un impianto che ha qualche problemino”.

Tra i maggiori inquinanti ce ne sono alcuni che, nonostante siano tipici dell’industria petrolifera, non sono normati ne’ a livello nazionale ne’ regionale e che nell’area raggiungono livelli molto più alti che in altre aree industriali italiane ed europee: si tratta degli idrocarburi non metano e dell’idrogeno solforato. Sospensione della reiniezione a Costa Molina 2 per presenza di ammine (ottobre/dicembre 2017) Innumerevoli divieti temporanei di uso di sorgenti a causa della presenza di idrocarburi

Rilevamenti di inquinanti nei sedimenti e nei pesci del Pertusillo i si augura almeno che in futuro i controlli diventino più stringenti, visto che il 3 luglio 2019 è stato firmato il protocollo - scaduto ad agosto 2018 - fra Regione Basilicata, ISPRA (Istituto Superiore Protezione e Ricerca Ambientale) e ARPAB (Agenzia Regionale Tutela Ambientale Basilicata) che impegna ISPRA ad una collaborazione tecnico-scientifica per il monitoraggio e la salvaguardia dell’ambiente e del territorio.

Da notare, però, che la Regione Puglia ha interessato, per le indagini sull’inquinamento di Taranto e sulla salute dei suoi abitanti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Perché non fare altrettanto in Basilicata dove i problemi ambientali e sanitari interessano un’intera regione?

Conseguenze dell’attività estrattiva sulla salute

Nonostante la presenza di molte attività fortemente impattanti oltre a quella estrattiva, la Regione Basilicata non si è mai preoccupata di effettuare studi sistematici per analizzare lo stato di salute dei lucani ed addirittura non si attiva neanche per aggiornare i registri regionali dei tumori.

L’unico vero studio epidemiologico – e non soltanto descrittivo – realizzato è stata la VIS (Valutazione di Impatto Sanitario) presentata nel settembre del 2017 per i comuni di Grumento Nova e Viggiano – in cui è situato il COVA- e redatta dal CNR di Pisa e dall’Università di Bari su commissione dei due comuni, che hanno utilizzato in questo modo una parte delle royalties del petrolio spinti a ciò dai comitati locali ed in particolare dall’Osservatorio Popolare Val d’Agri. L’obiettivo era quello di valutare l’impatto dell’attività del COVA sulla salute dei cittadini, con particolare riferimento alle malattie cardiocircolatorie e respiratorie. Lo studio, a carattere multidisciplinare, analizzò aria, acqua e suolo dell’area interessata, indagò sulla diffusione per via aerea delle emissioni provenienti dai camini del COVA e svolse, quindi, un’approfondita indagine epidemiologica sul piano sanitario. I risultati ottenuti hanno evidenziato, purtroppo, un eccesso di mortalità e di ricoveri ospedalieri nella popolazione dei due comuni rispetto sia alla media regionale che a quella dei 20 Comuni rientranti nella concessione Val d’Agri.

In particolare si è dimostrato un eccesso di mortalità del 63% nel sesso femminile e del 41% nei due sessi per malattie cardiovascolari, ed un eccesso di ricoveri nel sesso femminile del 41% per malattie circolatorie (con un aumento fino all’80% per malattie ischemiche) e del 48% per quelle respiratorie, con un eccesso di ricoveri per malattie respiratorie croniche nei due sessi addirittura del 118%!

Risultati così preoccupanti avrebbero dovuto indurre la Regione a dare inizio ad un sistema di sorveglianza continua ed a commissionare agli stessi redattori della VIS uno studio analogo, esteso a tutte le zone interessate dall’attività estrattiva sia in Val d’Agri che a Tempa Rossa. Invece si è scelto di avviare nuove indagini puramente descrittive - molto lontane dall’affidabilità scientifica della VIS - affidandole a fondazioni gestite sulla base di equilibri partitici.

Ricadute economiche ed occupazionali dell’attività estrattiva

L’occupazione
Il settore petrolifero è tradizionalmente un settore che genera poca occupazione in rapporto ai notevoli investimenti che lo caratterizzano e decenni di attività estrattive in Basilicata hanno ormai dimostrato quanto tale attività sia stata perniciosa per i livelli occupazionali locali:

  • pochissime maestranze locali a bassa specializzazione occupate nei luoghi delle estrazioni e poche Ditte (a fronte di innumerevoli agitazioni e lotte sindacali) del settore edilizio che operano nelle attività connesse, come movimenti di terra, perforazioni per palificazione, realizzazione di piattaforme e opere in cemento armato, abbattimento di alberi ed arbusti

a fronte di:

  • un elevatissimo numero di attività agricole e turistiche chiuse perché travolte dalla “prevalente” e del tutto incompatibile – attività estrattiva;
  • il blocco di ogni nuova iniziativa imprenditoriale nei settori a cui la Lucania è vocata, ossia agricoltura, turismo ed artigianato;
  • la conseguente emigrazione di massa dei giovani (3.000 ogni anno) e, negli ultimi anni, anche dei loro anziani genitori;
  • la chiusura di moltissime attività artigianali a causa dello spopolamento dei borghi, con danni antropologici ed economici incalcolabili dovuti alla conseguente perdita dei saperi (“know-how”) storicamente radicati nella gente lucana;
  • la progressiva perdita di valore commerciale di fabbricati e terreni dell’intera regione, a causa del progressivo spopolamento e del netto calo della domanda immobiliare;
  • la totale svalutazione degli immobili siti nelle aree circostanti le perforazioni, con conseguenti enormi danni economici per commercianti e cittadini che avevano “investito nel mattone” o che, semplicemente, avevano finalmente realizzato una casa per sé e per la propria famiglia accanto agli orti ed alle vigne poi invasi dall’attività estrattiva.

Un reale aumento dell’occupazione - e di un’occupazione di qualità – si avrebbe invece se si puntasse finalmente sulla produzione di energia da fonti rinnovabili realizzata non dalle multinazionali dell’energia ma mediante piccoli interventi diffusi e gestiti dai cittadini produttori/consumatori.

Questa attività – e non quella estrattiva – genererebbe realmente tantissimi nuovi posti di lavoro distribuiti su tutto il territorio, caratterizzati da differenti livelli di specializzazione e con addetti occupati nelle diverse fasi produttive (ricerca e sperimentazione di tecnologie, produzione, posa in opera, rinnovo, manutenzione, rimozione, smaltimento, recupero etc.)

Le maestranze “disimpegnate” dall’attività estrattiva, potrebbero inoltre trovare occupazione nella bonifica dei numerosi siti inquinati, nel recupero del sistema viario degradato per l’incremento del traffico di mezzi pesanti dovuto all’attività estrattiva, nella riqualificazione energetica degli edifici etc..

Va aggiunto a tutto questo il fatto che il 16 luglio del 2019 ENI e Coldiretti Basilicata hanno firmato un memorandum d’intesa a livello locale –il primo di un progetto esteso all’intera Italia– il cui fine è quello di supportare il marchio lanciato all’inizio del 2019 da Coldiretti e che si chiama “IO SONO LUCANO”.

Fra le azioni rientranti nel supporto c’è anche l’intento di ENI di dimostrare – grazie all’uso di strumenti digitali - che anche i prodotti provenienti dalle aree estrattive sono sicuri e sostenibili sotto il profilo ambientale. Se ne deduce che fra i prodotti commercializzati sotto il marchio “IO SONO LUCANO” ce ne saranno anche alcuni a fortissimo rischio di inquinamento in quanto provenienti da aree inquinate. E’ evidente che se domani qualcuno starà male per aver mangiato prodotti agli idrocarburi provenienti dalla Basilicata, questo provocherà un incalcolabile danno di immagine all’intera regione, distruggendo la sua tradizionale e storica fama di terra in cui “si mangia bene” e privandola di una delle sue ricchezze reali.

Royalties e canoni ENI

Dati desunti dal sito “Eni in Basilicata” https://www.eni.com/eni-basilicata/territorio/royalty-fiscalita.page

Percentuali Royalties in Basilicata
10% della produzione on-shore di gas e petrolio così ripartiti:

  • 7% a Regione (85% del 7%) e Comuni (15% del 7%)
  • 3% fondo per riduzione costo carburante (card carburante), misure di sviluppo economico (social card) etc.

Royalties versate da ENI e Shell in joint-venture
Periodo 1996/2018, Regione Basilicata e Comuni interessati dall’attività estrattiva: 1,8 miliardi di euro (media sui 22 anni: circa 81 milioni l’anno).
2018: 72,5 milioni di euro, di cui 21 allo Stato, 44,2 alla Regione Basilicata e 7,3 ai sei Comuni interessati dalle attività petrolifere (produzione anno 2017).

Canoni di esplorazione e produzione, concessioni e altra fiscalità

2014-2016: canoni di esplorazione e produzione e concessioni 92.000 euro.

2014-2016: 12,3 milioni di euro, di cui 4,6 milioni di euro nel 2016 per tributi locali, tassazione specifica ed imposte sul reddito della Società.

Versamenti IRAP alla Regione Basilicata: circa 7.500 euro.

Versamenti IMU ai Comuni: circa 1,7 milioni di euro di cui 313 mila euro nel 2016.

A tutto ciò andrebbero aggiunti 39 milioni di euro chiesti ad ENI per sanare il disastro ambientale per lo sversamento al COVA.

Il grave paradosso è quello che, nonostante queste cifre vengano sbandierate in ogni dove, la Basilicata è una delle regioni più povere d’Italia, con un forte incremento delle patologie, un forte tasso di emigrazione ed una popolazione in progressivo invecchiamento.

Estrazioni petrolifere ed inchieste giudiziarie
Molte inchieste giudiziarie si sono intrecciate nel tempo con l’attività estrattiva concentrandosi soprattutto sull’oleodotto per Taranto e sulle due principali aree regionali di estrazione: la Val d’Agri con il COVA, di ENI, e la Valle del Sauro con il centro oli di Tempa Rossa, di TOTAL.

Inchiesta “Tangentopoli lucana”, capitolo ENI-AGIP: inizia nel 2002 e fa emergere una fitta rete di corruzioni e favoritismi che girano intorno al pagamento di tangenti a politici, militari e pubblici funzionari per la costruzione dell’oleodotto tra la Val d’Agri e Taranto.

Inchiesta “Totalgate”: riguarda la costruzione del centro oli Total di Tempa Rossa ed inizia a dicembre del 2008 con accuse di corruzione, turbativa d’asta, condizionamento negli appalti e taglieggiamenti dei proprietari dei terreni interessati. Il senatore lucano Margiotta è fra gli indagati e vengono eseguite ordinanze di custodia cautelare in carcere per l’a.d. di Total Italia Lionel Lehva e per alcuni dirigenti locali della compagnia. Il processo si è concluso con l’assoluzione o con la prescrizione per tutti gli imputati.

Più ampio e complesso è l’iter dell’inchiesta “Petrolgate” che interessa 57 soggetti -47 persone e 10 società fra cui ENI – e risale al 2016. Essa si articola su tre filoni d’indagine:

  1. stoccaggio nel porto di Augusta (Siracusa) del greggio prodotto in Basilicata: questo filone è stato trasferito a Roma e poi archiviato;
  2. espropri ed autorizzazioni nella costruzione del Centro Oli di Tempa Rossa, con accuse di condotte illecite ad amministratori, imprenditori e dirigenti Total. Nell’aggiudicazione dei lavori per la realizzazione del Centro Oli venne coinvolto anche l’imprenditore Gianluca Gemelli, accusato a marzo 2016 di aver approfittato della posizione della compagna Federica Guidi, allora Ministro dello Sviluppo Economico, per ottenere lo sblocco dei lavori di costruzione dell’impianto, a cui era personalmente interessato. L’incriminazione di Gemelli costrinse la Guidi a dimettersi. Il processo, che ha finora portato alla condanna a tre anni per un imprenditore, è ancora in corso;
  3. attività del COVA. In questo filone le indagini si sono sviluppate lungo tre direttrici:
    • la presunta attività di traffico illecito di rifiuti liquidi (anche mediante contraffazione dei codici CER) prodotti dal COVA e smaltiti in parte mediante reiniezione nel pozzo Costa Molina 2 ed in parte presso l’Impianto TECNOPARCO di Pisticci. A proposito del trattamento dei rifiuti ENI a TECNOPARCO, si legge nella relazione della DNA del 2017: “Gli approfondimenti investigativi consentivano di acclarare un vero e proprio traffico illecito di rifiuti (ex art. 260 DL 152/2006) consumato dai manager e dai funzionari di entrambe le strutture aziendali”.
    • la natura delle sostanze gassose immesse in atmosfera attraverso i camini situati all’interno dell’impianto;
    • gli eventuali danni prodotti all’ambiente e/o alla salute umana dall’attività industriale del COVA.

In queste due ultime direttrici si inserisce quanto accaduto a febbraio del 2017, con la scoperta dello sversamento di 400 tonnellate di greggio dai serbatoi del COVA che ha portato ad un ampliamento e ad un approfondimento delle indagini con una modifica dei capi d’accusa nei confronti di ENI.

Nella relazione finanziaria sul bilancio 2017, infatti, ENI è costretta ad ammettere che, come emerso nell’ottobre del 2017, l’indagine epidemiologica dei pm di Potenza sui lavoratori del COVA è diventata un’inchiesta per omicidio e lesioni colpose, oltre che per disastro ambientale.

Si intrecciano con queste indagini i misteri legati a due suicidi, su cui non è stata fatta ancora chiarezza. Suicidio Conti: il 17 novembre 2017 nelle campagne di Pacentro (L’Aquila) viene trovato senza vita il corpo dell’ex gen. dei carabinieri forestali Guido Conti, che aveva accettato l’incarico della Total come responsabile per l’ambiente e la sicurezza di Tempa Rossa a partire dal 1 novembre. Il generale, dopo soli 10 giorni dalla firma del contratto di consulenza trascorsi – secondo il racconto della moglie - con un umore molto cupo, aveva inspiegabilmente deciso di dimettersi dall’incarico e poi, allontanatosi dalla sua abitazione, si sarebbe ucciso sparandosi un colpo di pistola alla testa. L’inchiesta per chiarire la dinamica di questa morte e verificare se si è trattato effettivamente di suicidio, è stata recentemente riaperta dal Gip del Tribunale di Sulmona ed è attualmente in corso.

Suicidio Griffa
A luglio del 2013 il trentottenne ing. Gianluca Griffa, ex responsabile della produzione del COVA, venne trovato impiccato ad un albero in un bosco fra Cuneo e Torino. Dopo varie vicende vennero ritrovati una sua lettera indirizzata ai carabinieri di Viggiano ed all’UNMIG “in caso capiti o mi capiti qualcosa” ed un memoriale in cui l’ingegnere parlava di perdite di greggio “dai numerosi fori nei serbatoi del COVA” che sarebbero iniziate già nel 2012 (e non nel 2017 quando sono state scoperte) e di livelli di produzione di una delle linee di trattamento di gas portati oltre il limite autorizzato, con il rischio di incidenti. Griffa raccontava inoltre che i responsabili della compagnia, alle sue rimostranze, gli dissero “di smettere di rompere” e lo rimossero dall’incarico. E’ inoltre noto che essi lo convocarono a Milano 4 giorni prima che egli facesse perdere le sue tracce e venisse poi ritrovato morto. Attualmente sulla base di questo memoriale si è avviata la nuova indagine “Petrolgate 2” condotta dal Procuratore di Potenza Francesco Curcio il quale, nell’aprile del 2019, ha asserito tramite comunicato stampa: che gli sversamenti di petrolio a Viggiano sono iniziati fin dal 2012 e sono stati sin da subito ben noti alla compagnia, la quale ha colpevolmente assunto un atteggiamento di sostanziale inerzia; che il CTR - Comitato Tecnico Regionale che avrebbe dovuto svolgere un compito di vigilanza sull’attività di ENI – ha assunto anch’esso un atteggiamento di colpevole inerzia. L’inchiesta, con 13 indagati, ha finora portato alla sospensione per 8 mesi di cinque membri del Comitato Tecnico Regionale Grandi Rischi ed agli arresti domiciliari dei dirigenti ENI Enrico Trovato, Ruggero Gheller ed Andrea Palma.

Il futuro

Il futuro non sembra andare affatto verso una virtuosa transizione energetica della regione Basilicata, visto che, oltre alle compagnie, anche le forze politiche e sindacali locali lavorano alacremente per rimanere ancorate al fossile, ancora abbagliate da miraggi di sviluppo finora dimostratisi del tutto vani.

Il 29.8.2017 Giancarlo Vainieri, presidente del Centro Studi Sociali e del Lavoro della Uil di Basilicata, in occasione di un dibattito aperto dal “La Nuova del Sud”, avanzò l’idea di un Fondo Sovrano Regionale -sul modello norvegese e dell’Alberta Heritage Savings Trust Fund- da finanziare con le royalties del petrolio e con i proventi derivanti dalla “valorizzazione”- ossia dalla vendita - dell’acqua (in aperto contrasto con quanto deciso da 27 milioni di cittadini italiani nel referendum sull’acqua pubblica del 2011). Secondo la sua ipotesi il fondo sarebbe rimasto investito per 50 anni ed avrebbe fruttato, a scadenza, circa 40-50 miliardi. Il Sole 24 ore del 7.8.2018 ribadì la proposta parlando anche di un supporto del Censis, Centro Studi Investimenti Sociali (https://www.ilsole24ore.com/art/basilicata-petrolio-royalties-il-record-e-si-pensa-un-fondo-sovrano-AE471vXF?refresh_ce=1).

Anche la pubblicazione “Affari e Finanza” (Salerno) di lunedi 8 luglio 2019 ha dato notizia della proposta avanzata dalla Fondazione Mattei affinchè la Basilicata, in quanto “mini-potenza petrolifera”, si doti di un fondo sovrano (i fondi sovrani sono finalizzati ad investire denaro pubblico in strumenti finanziari come azioni, obbligazioni, immobili etc.).

E’ evidente che il pensiero sotteso a simili propositi non va affatto nel senso auspicabile, ed ormai indispensabile al pianeta, di un rapido abbandono delle attività estrattive.

Intanto, nonostante tutte le devastazioni di cui abbiamo parlato finora, le compagnie cercano di ricostruirsi un’immagine “green” ed accattivante che consenta loro di accaparrarsi anche il mercato delle rinnovabili e continuano a circuire i cittadini lucani per carpirne il consenso, sponsorizzando attività di ogni tipo (sportive, artistiche, culturali, religiose, sociali, informative etc.).

“Orizzonti: idee dalla Val d’Agri” è la rivista creata da ENI in Val d’Agri. Una pubblicazione mensile diretta da Mario Sechi per parlare della presenza storica di ENI in Basilicata e raccontare le bellezze lucane.

“CuoreBasilicata” è il progetto artistico e culturale di Jacopo Fo finanziato da ENI, che il 17.9.2018 è stato presentato a Villa d’Agri (dove c’è un “pozzo urbano” di ENI, situato a poche centinaia di metri dalla piazza centrale, dal municipio e dall’ospedale) e che coinvolge 11 comuni della valle oltre a scuole, associazioni e media. Esso durerà fino alla fine del 2020 e servirà “al (ri)lancio dell’area a livello nazionale e internazionale, attraverso lo sviluppo e la valorizzazione delle sue grandissime potenzialità culturali, storiche, paesaggistiche, agricole, artigianali”.

Villa d'Agri con il pozzo Alli2

Ed ancora, a maggio del 2019, nel corso dell’assemblea annuale degli azionisti, l’ad di ENI Claudio Descalzi ha presentato il progetto “Energy Valley”, che prevede un investimento di circa 80 milioni di euro in quattro anni (ben pochi se rapportati ai miliardi da investire in Italia, tenuto conto del ruolo centrale della Basilicata nelle estrazioni e nell’arricchimento della compagnia) per creare “un distretto produttivo basato sulla diversificazione economica, sulla sostenibilità ambientale e sull'economia circolare”: installazione di impianti fotovoltaici e altre iniziative “ad alta sostenibilità ambientale” con 300 nuovi posti di lavoro di cui 200 per la realizzazione e 100 per la gestione!

Tutta questa incessante opera di “captatio benevolentiae” sembra aver prodotto risultati positivi per le compagnie dell’oil&gas, visto che le ultime consultazioni elettorali hanno consegnato l’Amministrazione Regionale e quella del Capoluogo di Regione a coalizioni di centro destra capeggiate dalla Lega, anche grazie al forte sostegno del vicepremier Salvini che in più occasioni si è palesemente e platealmente schierato a favore delle compagnie e delle estrazioni.

Queste sono, attualmente, le posizioni ufficiali espresse dai nuovi rappresentanti istituzionali: il Governatore Bardi (Lega) ha affermato “di non voler andare oltre quanto stabilito” e “di non voler rilasciare altri permessi per nuove trivellazioni”; il presidente del Consiglio Regionale Cicala (Lega) ha definito il petrolio “fonte di grandi problematiche ma anche di grandi potenzialità occupazionali e di crescita”; il sindaco di Potenza Guarente (Lega) ha promesso battaglie ambientali contro il petrolio e l’eolico selvaggio. Le azioni concrete sembrano, però, andare in tutt’altra direzione.

Il prossimo 26 ottobre scade la concessione di coltivazione ENI “Val d’Agri” che, secondo una norma del governo Monti mai modificata o abrogata neanche dall’attuale “governo del cambiamento”, sarà rinnovata automaticamente. Occorre, però, decidere se la nuova concessione manterrà l’attuale limite estrattivo di 80.000 barili al giorno, consentirà di raggiungere i 104.000 barili autorizzati con il memorandum del 1998 o, addirittura, incrementerà ulteriormente le quantità massime consentite.

Su questo rinnovo sarebbero in corso trattative segrete. Intorno al 20 giugno scorso la stampa ha dato notizia di un incontro fra il ministro Salvini e l’ad di ENI Claudio Descalzi durante il quale Salvini avrebbe chiesto ad ENI ulteriori investimenti in Basilicata e la compagnia petrolifera si sarebbe dichiarata disponibile a destinare altri 4 miliardi alla Val d’Agri. L’idea di Salvini sarebbe quella che, in un’ottica di autonomia differenziata delle regioni, il petrolio possa costituire per la Basilicata lo strumento per garantire la propria autonomia.

Sembra quindi – purtroppo - ipotizzabile che le amministrazioni principali della regione finiranno con l’adeguarsi alla linea del segretario della Lega (ex Lega Nord!) prolungando sine die l’era del fossile.

Conclusioni

Come per tutte le attività impattanti sull’ambiente, anche coloro che sono critici nei confronti dell’attività estrattiva si dividono fra possibilisti e nettamente contrari, ossia fra chi ritiene che esistano soluzioni tecniche e tecnologiche che, se applicate, neutralizzerebbero gli effetti negativi e chi, invece, ritiene che il petrolio – come dice Padre Alex Zanotelli – debba essere lasciato sottoterra.

Noi apparteniamo a questa seconda categoria.

Il pianeta è sull’orlo di una catastrofe climatica di cui avvertiamo già da tempo i sintomi. I vertici mondiali sul clima si susseguono ed in quello di Parigi del 2015 si parlò dell’urgente necessità di contenere entro 2 gradi – meglio se entro 1,5 gradi - l’incremento della temperatura del pianeta; gli allarmi del mondo scientifico si moltiplicano; Papa Francesco ha scritto la “Laudato Si”; Greta Thumberg è diventata un simbolo mondiale. Eppure, nessuno dei governi del pianeta sembra prendere sul serio la situazione e neanche nel vertice mondiale 2018 di Katowice sono state fissate regole stringenti che obblighino i Paesi a ridurre la produzione di CO2 in tempi compatibili con le condizioni planetarie, ossia immediatamente. Proseguire su questa strada ormai non è più possibile, pena l’estinzione del genere umano e delle altre specie viventi che popolano la nostra casa comune.

Qualcuno, quando la terra non sarà più abitabile, potrà salvarsi andando su Marte o su qualche altro pianeta? Sembra che alcuni ci credano davvero, visto il recente affannoso incremento della ricerca di altri mondi vivibili.

Se anche ciò fosse possibile però, sarebbe riservato a pochi ed è un’ipotesi che non ci interessa.

Ecco perché è indispensabile che l’attenzione di tutte le parti sane della società si concentri su questa piccola regione: la Basilicata deve diventare un simbolo ed un’occasione di riscossa per chi non vuole arrendersi alla distruzione del pianeta ed occorre una chiara, ferma e palese presa di posizione a favore della Basilicata affinché tutti conoscano i misfatti che vi accadono e si attivino per sostenere e condividere l’azione di comitati e cittadini locali nel loro quotidiano confronto con i colossi dell’energia e con le istituzioni.
Potere al Popolo non può che essere in prima linea in questa battaglia.

Qui il PDF della relazione di Lidia Ronzano.

4-8 settembre: un campeggio per sostenere un cambiamento radicale: assemblee e dibattiti sulla crisi climatica, grandi opere, estrattivismo, ecotransfemminismi, neocolonialismi e migrazioni forzate; il 7 marcia per la giustizia climatica.

Dal 4 all’8 settembre al Lido di Venezia si terrà il Campeggio sul Clima, organizzato dal Comitato No Grandi Navi e il Fridays For Future di Venezia per sostenere «Una rivoluzione che deve trasformare il nostro modello energetico (fuoriuscita dal fossile), il nostro sistema di gestione territoriale (stop alle grandi opere, al consumo di suolo, alla devastazione ambientale) e quello che regola il ciclo dell’alimentazione.»

Qui il programma del campeggio che prevede interessanti dibattiti:

Mercoledì 4 settembre: Crisi climatica, grandi opere, estrattivismo
con Alexander Dunlap (Norvegia): studioso di ecologia politica, UiO, Center for Development And Environment e Emanuele Leonardi (Italia): Univesidade de Coimbra.

Giovedì 5 settembre: Crisi Climatica ed ecotransfemminismi
con Moira Millàn (Argentina), portavoce Mapuche, Ideologa e coordinatrice del "Movimiento Mujeres Indigenas por el Buen Vivir" e autorità ancestrale del "Lof Pillañ Mahuiza", Julie Coumau (Francia) ricercatrice e attivista antispecista e un'attivista dell' Assemblea Transterritoriale Terra Corpi e Territori Spazi urbani di Non Una Di Mena.

Venerdì 6 settembre: Crisi Climatica, neocolonialismi, migrazioni forzate
con Marco Armiero (Italia) direttore dell'Environmental Humanities Lab del Royal Institute of Technology a Stoccolma e Nnimmo Bassey (Nigeria), attivista climatico, autore e direttore della Health of Mother Earth Foundation.

Sabato 7 settembre si svolgerà il Corteo per la giustizia climatica.
Dal campeggio verso la Mostra del Cinema. In un giorno in cui gli occhi del mondo sono puntati sulla mondanità veneziana, ricordiamo a tutte tutti che il Cambiamento Climatico non è un soggetto da film di fantascienza, ma è la realtà che stiamo già vivendo, una spirale che il capitalismo estrattivo ha innescato e non vuole fermare. Noi, i movimenti per la giustizia climatica e i comitati contro le grandi opere, al contrario, saremo in strada ancora una volta per dire che c'è bisogno di invertire la marcia, di ridurre il riscaldamento climatico, di uscire dal fossile (in tutte le sue forme), di decolonizzare l'economia globale responsabile del dramma delle migrazioni climatiche, di rifiutare un sistema in cui la violenza sulla natura non umana si accompagna alle discriminazioni di genere, di combattere un modello di gestione territoriale legato a grandi opere inutili e dannose. Saremo in strada per tutti questi motivi e siamo intenzionati a portare le nostre ragioni nel cuore della Mostra del cinema.
Qui il link al sito con tutte le informazioni.

Gli incendi nella foresta amazzonica, baluardo vitale della biodiversità, contro i cambiamenti climatici e per la sopravvivenza di 30 milioni di persone, quest'anno sono aumentati dell'83% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Bolsonaro ha ripetutamente affermato che il suo paese dovrebbe aprire l'Amazzonia agli interessi commerciali, per consentire alle aziende minerarie, agricole di sfruttare le sue risorse naturali. La distruzione della parte brasiliana della foresta è notevolmente incrementata sotto il nuovo presidente. Nei primi 11 mesi, la deforestazione aveva già raggiunto i 4.565 km quadrati, con un aumento del 15% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.

La terra è sotto pressione, i terreni e le fonti d’acqua del pianeta sono sottoposti a uno sfruttamento “senza precedenti” nella storia umana, avverte un nuovo rapporto delle Nazioni Unite. E lo sfruttamento di queste risorse fondamentali, combinato con l’impatto del cambiamento del clima, minaccia la capacità del pianeta di nutrire la specie umana.

Siamo abituati ad associare la questione del cambiamento climatico alla produzione di energia, ed è giusto: è bruciare petrolio, carbone o gas che genera i gas “di serra” che si concentrano in modo abnorme dell’atmosfera terrestre e riscaldano il pianeta.

Anche la relazione tra noi umani e la terra però ha dirette conseguenze sul clima. Come produciamo cibo, se proteggiamo le foreste o continuiamo a disboscare. Non solo: se le popolazioni rurali hanno accesso alla terra, o ne vengono cacciate; che tipo di agricoltura pratichiamo e quali consumi alimentari prevalgono; se la sicurezza alimentare è garantita a tutti o solo a pochi: tutto questo è legato al riscaldamento terrestre. Tra la crisi del clima e molte crisi sociali c’è una relazione diretta.

Di questo tratta il rapporto su “Terra e cambiamento del clima” (Climate Change and Land, Summary for Policymakers) diffuso giovedì 8 agosto dal Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), il comitato scientifico istituito dalle Nazioni Unite per fornire ai governi valutazioni scientifiche condivise sui cambiamenti climatici.

Il rapporto, redatto da un centinaio di ricercatori di 52 paesi, conferma ciò che molti scienziati e attivisti sostengono da tempo: se non cominciamo da subito ad abbandonare i combustibili fossili, le conseguenze della crisi del clima sulla terra e sul sistema alimentare globale saranno catastrofiche – anche se non equamente distribuite, perché colpiranno soprattutto le popolazioni più povere e vulnerabili.

Riassumiamo. Sappiamo che ogni cambiamento nelle condizioni del territorio influisce (e molto in fretta) sul clima circostante e su quello globale, perché può modificare il regime delle piogge e le temperature nel raggio di centinaia di chilometri.

La terra colonizzata dagli umani

Oggi la specie umana usa circa il 70 per cento della superficie terrestre libera da ghiacci, ci ricorda il Ipcc. Tra un quarto e un terzo delle terre disponibili sono usate per produrre cibo, mangimi, fibre tessili, legname, energia. L’agricoltura usa circa il 70 per cento dell’acqua dolce disponibile.

Nell’ultimo mezzo secolo, l’effetto combinato della crescita della popolazione umana e del cambiamento dei consumi alimentari ha prodotto una pressione senza precedenti sulla terra e le fonti d’acqua. Dal 1961 a oggi ad esempio la produzione pro capite di carne e oli vegetali è raddoppiata.

Un uso così intenso della terra ha esacerbato il degrado dei suoli, la perdita di nutrienti, erosione, desertificazione e così via. Il cambiamento climatico aggrava tutto: con eventi estremi più frequenti e più intensi, siccità, alluvioni, ondate di caldo, l’erosione delle coste, il livello dei mari che sale e il permafrost (le terre perennemente ghiacciate) che si scioglie. E tutto questo minaccia direttamente proprio la produzione di cibo.

Il cambiamento climatico ha già messo a repentaglio la sicurezza alimentare in molte regioni del pianeta, afferma il Ipcc. I rendimenti agricoli sono ormai declinati in molte regioni tropicali e subtropicali, e così anche la produttività dei sistemi pastorali in Africa. Abbiamo più regioni esposte alla desertificazione (in Asia e Africa, e nel Mediterraneo), agli incendi (nelle Americhe, Africa meridionale e Asia centrale), ai cicloni (le zone costiere tropicali e subtropicali). Avremo verosimilmente più persone costrette a spostarsi per cercare sopravvivenza, all’interno delle regioni e all’esterno. Vedremo sempre più conflitti per la terra e risorse sempre più scarse. Questi allarmi sono già circolati, ma qui abbiamo una conferma autorevole.

Ancora un dato: agricoltura, attività forestali e altri usi della terra rappresentano circa il 23 per cento della quantità totale di gas di serra di origine antropogenica (cioè generati dalle attività umane), calcola il Ipcc (il 13 per cento dell’anidride carbonica, 44 per cento del metano e 82% degli ossidi di azoto). Se si sommano le attività pre e post produzione, arriviamo a oltre un terzo delle emissioni.

Dunque, come usiamo la terra può fare una differenza fondamentale, per mitigare l’impatto del cambiamento del clima.

Il punto è come. Il documento del Ipcc parla di organizzare la produzione alimentare e gestire le foreste in modo sostenibile, per conservare gli ecosistemi e i nutrienti nei suoli. Raccomanda di eliminare gli sprechi (oggi circa un terzo del cibo prodotto viene scartato per vari motivi, spiega lo studio), e di rivedere la struttura dei consumi alimentari: nel mondo ci sono circa 2 miliardi di adulti in sovrappeso o obesi, mentre 821 milioni di persone sono denutrite.

(Molti si aspettavano dal Ipcc un appello a diventare vegetariani o vegani: ma sarebbe stato riduttivo. Il documento parla di diversificare il sistema alimentare, di diete bilanciate con più vegetali e legumi e proteine animali prodotte in modo non distruttivo – e meno carne, sì, perché l’allevamento intensivo è insostenibile).

Alcune misure evocate dal documento hanno impatto immediato: ad esempio preservare le foreste di torba, le mangrovie e le zone umide, perché intrappolano tonnellate di carbonio. Altre sono indispensabili ma daranno frutti più a lungo termine, come ripiantare alberi e rigenerare suoli degradati. In ogni caso sono tutte possibili, urgenti, e spesso già praticate.

Il Ipcc però sottolinea due cose importanti. La prima è che c’è un limite al possibile uso della terra per “mitigare” il cambiamento climatico. Se ad esempio volessimo puntare tutto sugli agro-carburanti dovremmo usare almeno 7 milioni di chilometri quadrati di territorio, avverte: più dell’intero Brasile. Territorio che sarebbe tolto alla produzione alimentare, magari spingendo coltivatori e allevatori su zone naturali ancora protette. Il risultato sarebbe accelerare il degrado, invece di fermarlo, mettendo agrocarburanti contro la sicurezza alimentare. Il Ipcc raccomanda opzioni che non competano per la terra.

(E questo significa che non si sfugge: resta indispensabile cominciare subito la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili – sole, vento).

La giustizia della terra

L’altra cosa importante è che un uso sostenibile della terra ha benefici immediati e a lungo termine per chi ci vive. Ovvero, conservare la produttività della terra e la biodiversità, aumentare la concimazione organica, preferire le varietà autoctone, proteggere i bacini idrici e le foreste, invertire il degrado degli ecosistemi e così via, sono una strategia che contribuisce allo sviluppo umano, alla sicurezza alimentare e alla lotta alla povertà.

Per questo il documento parla anche di garantire l’accesso alla terra, per esempio riconoscere i diritti consuetudinari delle popolazioni native, e valorizzare i saperi locali, garantire più potere alle donne, promuovere la partecipazione. Un po’ di giustizia sociale fa bene al clima, e viceversa.

Ripreso dal sito terraterraonline.org
Riprendiamo un articolo di Mary Annaïse Heglar, saggista e direttore delle pubblicazioni dell'organizzazione Natural Resources Defense Council nata dal movimento ambientalista degli anni '70. L'articolo è stato pubblicato su Vox in inglese e ripreso in italiano dal sito di Fridays for Future Italia. (a.b.)

Mi trovo alla cena di compleanno di un amico, quando inizia una conversazione fin troppo familiare. Mi presento al tipo alla mia destra e quando gli dico che lavoro nel campo ambientale, subito sbianca in volto e la stretta di mano si affloscia."Mi odierai…" borbotta imbarazzato, la sua voce è un sussurro nel tintinnìo delle posate.

Sapevo già cosa avrebbe detto. Mi ha intrattenuto con il lungo elenco degli errori che aveva commesso contro l'ambiente solo quel giorno: aveva ordinato il pranzo e gli era stato portato in contenitori di plastica; aveva mangiato della carne e stava per ordinarne ancora; e aveva pure preso il taxi per venire a questa festa.

Sentivo la vergogna nel tono della sua voce. Gli ho assicurato che non lo odiavo, ma che odiavo le industrie che avevano indotto lui - e così tutti noi - in questo inganno. A quel punto ho visto le sue spalle rilassarsi e il suo sguardo ha incontrato il mio. "Sì, perché tanto, non ha neanche più senso provare ancora a salvare il pianeta, vero?"

Ho sentito una stretta allo stomaco.

Purtroppo mi capita molto spesso. Basta un accenno ai miei cinque anni nel Consiglio per la Difesa delle Risorse Naturali o al mio lavoro nel movimento per la giustizia climatica e vengo bombardata da contrite confessioni di trasgressioni contro l'ambiente, oppure da espressioni di rassegnazione nichilista. Da un estremo all’altro.

E capisco il perché. Gli scienziati ci stanno avvertendo da decenni: noi umani stiamo causando alterazioni gravi e potenzialmente irreversibili al clima, stiamo sostanzialmente arrostendo il nostro pianeta e noi stessi, con il biossido di carbonio. Il report del 2018 dell’Intergovernmental Panel on Climate Change ci ha avvertito: abbiamo all'incirca 12 (ora 11) anni per attuare massicci cambiamenti che potrebbero mettere un freno alle conseguenze peggiori dei cambiamenti climatici.

Un tempo, forse, ci sarebbero servite grandi conoscenze scientifiche per capire i cambiamenti climatici, ma ora basta leggere i titoli dei quotidiani - o semplicemente guardare fuori dalla finestra. Dal Camp Fire, un incendio che ha devastato i boschi della California, peggiorato dalle alte temperature e dalla siccità, all’uragano Michael, una tempesta che si è rapidamente intensificata a causa dell’innalzamento delle temperature degli oceani: i cambiamenti climatici sono già qui.

Non incolpo chi è in cerca di un'assoluzione. Posso persino capire chi abdica dalle sue responsabilità, che è anch'essa una forma di assoluzione. Ma dietro tutto questo c’è una forza molto più insidiosa. È la narrazione che ha guidato - e allo stesso tempo ostacolato - la discussione sui cambiamenti climatici per decenni. Quella che ci dice che avremmo potuto risolvere i cambiamenti climatici se solo tutti noi avessimo ordinato meno cibo da asporto, usato meno buste di plastica, spento più luci, piantato qualche albero o guidato una macchina elettrica. E che arriva alla conclusione che se tutte queste cose non bastano, allora a che serve lottare?

La convinzione che avremmo potuto risolvere questo enorme problema esistenziale se solo tutti noi avessimo modificato le nostre abitudini consumistiche non è solo ridicola; è pericolosa. Questa convinzione trasforma l’ambientalismo in una scelta individuale che viene giudicata peccaminosa o virtuosa e diventa una condanna per coloro che non adottano, o che non possono adottare, un comportamento etico. Se si considera che lo stesso report dell’IPCC ha evidenziato che la maggior parte delle emissioni globali di gas serra derivano solo da un numero esiguo di aziende - sovvenzionate e appoggiate dai governi più potenti del mondo, inclusi gli Stati Uniti - siamo di fronte a un'evidente colpevolizzazione della vittima.

Quando le persone che incontro mi confessano i loro peccati contro l'ambiente come se io fossi una specie di eco-suora, vorrei dire loro che si stanno facendo carico delle colpe di crimini perpetrati dall’industria dei combustibili fossili. Vorrei dire loro che il peso del nostro pianeta malato è troppo grande perché siano i singoli individui ad assumersene la colpa. E che quella colpa conduce a un’apatia che può davvero sancire la nostra definitiva condanna.

Ma questo non significa che non ci sia nulla da fare. Il cambiamento climatico è un problema vasto e complicato e ciò implica che anche la risposta non può essere semplice. Dobbiamo lasciar perdere l'idea che dipenda tutto dagli errori dei singoli individui e dobbiamo assumerci l'impegno collettivo di mettere i veri responsabili davanti ai crimini che hanno commesso. In altre parole, dobbiamo diventare tanti piccoli David contro un unico gigante e nefasto Golia.

Più "green" di te

Quando pensiamo ai cambiamenti climatici, non vediamo quasi mai il quadro completo. In generale si parla di conseguenze su una scala talmente macroscopica che è quasi impossibile immaginarle: innalzamento dei livelli dei mari, scioglimento dei ghiacciai, acidificazione degli oceani. Come per un perverso incantesimo, i cambiamenti climatici diventano qualcosa che aleggia nell'aria, ma che rimane anche lontanissima da noi. È ovunque e in nessun luogo.

Ma se poi vogliamo prenderne in considerazione le cause, i discorsi si riducono a guardare il nostro ombelico. Dopo l'uscita del report dell'IPCC del 2018, internet è stato inondato da decine e decine di articoli su "cosa puoi fare tu contro i cambiamenti climatici". Cambia le lampadine. Usa sacchetti riutilizzabili. Riduci il consumo di carne.

Se le risposte sono tutte alla nostra portata, allora la colpa può essere trovata solo dentro le nostre case. E tutto ciò a cosa porta?

A una popolazione assalita da un senso di colpa talmente forte che già solo pensare ai cambiamenti climatici è un peso enorme, figurarsi concepire l'idea di combatterli.

Ed ecco come si afferma la colpevolizzazione della vittima. Troppo spesso la nostra cultura identifica l'ambientalismo con il consumismo individuale. Per essere "buoni" dobbiamo passare all'energia al 100% solare, spostarci solo con biciclette riciclate, non prendere più l'aereo, mangiare vegano. Dobbiamo assumere uno stile di vita a rifiuti zero, non usare mai Amazon Prime, ecc. ecc. Sento questi messaggi ovunque: nei media di destra come in quelli di sinistra e anche all'interno del movimento ambientalista. Questi argomenti sono stati usati anche dai tribunali e dalle industrie di combustibili fossili per difendersi da azioni legali. Infatti, le industrie hanno manipolato la narrazione ambientalista in modo da incolpare i consumatori a partire dalla campagna pubblicitaria "Crying Indian" degli anni '70. E ora lo sento dai miei amici e dalla mia famiglia, da sconosciuti incontrati per la strada o da persone conosciute casualmente al corso di yoga.

Tutto ciò rende molto più onerosa l'adesione al movimento per il clima, che spesso rischia di escludere le persone di colore o le categorie più emarginate.

Così, mentre siamo impegnati a confrontarci su quanto siamo puri, permettiamo che i governi e le industrie - artefici della devastazione di cui stiamo parlando - si autoassolvano e restino impunite. Questa enfasi esagerata sulle azioni individuali fa in modo che le persone si vergognino dei loro comportamenti quotidiani – che sono praticamente inevitabili, dato che sono nate in un sistema completamente dipendente dai combustibili fossili. Infatti, i combustibili fossili costituiscono più del 75% della produzione energetica degli Stati Uniti.

Se vogliamo far parte della società non avremo altra scelta se non quella di essere coinvolti in questo sistema. Incolparci di ciò significa farci vergognare per il solo fatto di esistere.

La famosa ricercatrice e psicologa Brené Brown, che ha studiato il senso di vergogna nella nostra cultura, descrive la vergogna come "sensazione o esperienza molto dolorosa derivata dalla convinzione di essere imperfetti e perciò non degni di amore o di appartenenza". Ciò non deve essere confuso con il senso di colpa, che in realtà è utile perché ci permette di confrontare quanto i nostri comportamenti corrispondano ai nostri valori, e ci spinge a sentirci a disagio. La vergogna, al contrario, ci dice che siamo cattive persone, che non c'è redenzione possibile - e questo ci paralizza.

Come scrive Yessenia Funes, reporter per Earther: "È inammissibile che le persone si debbano vergognare di vivere nel mondo che abbiamo costruito."


Le azioni dei singoli consumatori non bastano

​Quindi cosa possiamo davvero fare per contrastare i cambiamenti climatici? Ebbene, mettiamo subito in chiaro una cosa: non dirò mai che si debba gettare la spugna. Scegliere di non fare nulla di fronte ai cambiamenti climatici sarebbe la cosa peggiore. I cambiamenti climatici sono un enorme problema e, per affrontarli, dovremo essere disposti a fare sacrifici personali incisivi. È una nostra responsabilità non solo verso le generazioni future ma anche tra tutti noi, qui e ora.

Inoltre, dato che gli Stati Uniti contribuiscono enormemente al riscaldamento globale, abbiamo l'obbligo morale di ridurre le nostre emissioni di anidride carbonica. Gli Stati Uniti sono al secondo posto nel mondo per questo tipo di emissioni, ma poco fa eravamo al primo. E nel corso della storia, il nostro contributo è stato ancora più devastante. Gli Stati Uniti sono responsabili per più di un terzo dell'inquinamento da anidride carbonica che oggi surriscalda il nostro pianeta - molto più di qualunque altra singola nazione.

Dato che il nostro impatto ambientale è enorme, le scelte di consumo dei singoli americani hanno un peso più rilevante rispetto a quelle del resto del mondo. Quindi, per noi americani dire che le nostre azioni individuali sono troppo marginali per fare la differenza quando ci sono persone che muoiono a causa del ciclone tropicale Idai in Mozambico, paese che ha un impatto ambientale minimo rispetto al nostro, è un vero e proprio fallimento morale.

Allo stesso tempo però, più ci concentriamo sulle azioni individuali e trascuriamo il cambio di sistema, più stiamo solo spazzando le foglie in un giorno di vento. Quindi le azioni individuali possono essere importanti come punto di partenza, ma possono anche diventare un pericoloso punto di arresto.

Dobbiamo ampliare la nostra definizione di azione individuale: non limitandoci a ciò che compriamo e usiamo. Iniziamo a cambiare le lampadine, ma non fermiamoci qui. Partecipare a uno sciopero per il clima o a una manifestazione sono azioni individuali. Anche organizzarsi con i vicini per fare causa a una centrale elettrica che sta avvelenando la comunità è un'azione individuale.

Votare è un'azione individuale. Quando scegli il tuo candidato, informati sulle sue politiche ambientali. Se non sono abbastanza incisive, fai pressione affinché le migliori. Una volta che questa persona ottiene un incarico, ritienila responsabile. E se non funziona, candidati tu - anche questa è un'altra azione individuale.

Fai in modo che le tue azioni individuali diventino qualcosa di più della scelta del tipo di sporta in cui mettere la spesa.

Non mi importa.

Eccovi la mia confessione: non mi importa quanto tu sia "green". Voglio che tu ti unisca al movimento per la giustizia climatica.

Non mi interessa da quanto tempo prendi parte al dibattito sui cambiamenti climatici, 10 anni o 10 secondi. Non mi interessa quante statistiche riesci a snocciolare. Non mi serve che tu sia integralista del solare per considerati un ambientalista. Non mi serve neanche che tu sia il più vegano di tutti. Non mi importa se in questo preciso istante stai addentando un hamburger.

Nemmeno mi importa se lavori su una piattaforma petrolifera. In alcune parti del paese, questi sono gli unici lavori che ti fanno guadagnare abbastanza per mantenere la tua famiglia. E non incolpo i lavoratori per questo. Incolpo i loro datori di lavoro. Incolpo l'industria che ci sta soffocando tutti, e i governi che glielo consentono.

Una sola cosa è importante da parte vostra: che desideriate un futuro vivibile. Questo è il vostro pianeta e nessuno può difenderlo come voi. Nessuno può proteggerlo come voi.

Abbiamo 11 anni - non per iniziare a salvare il pianeta ma per finire di salvarlo.

Io non sono qui per assolvervi e non sono qui per sollevarvi dalle vostre responsabilità. Sono qui per lottare insieme a voi.

Mary Annaïse Heglar è saggista di tematiche di giustizia climatica e dirige le pubblicazioni del Natural Resources Defense Council di New York. La trovate su Twitter e Medium.
Articolo per gentile concessione dell'autrice; traduzione a cura di FFF Italia; illustrazione per gentile concessione di mvp.ist


Mentre le forze di maggioranza hanno scelto proprio la Giornata Mondiale dell’Ambiente (5 giugno) per bocciare la mozione sull’emergenza climatica, che avrebbe dato accesso a quasi 50 miliardi tra contributi europei e fondi nazionali per fronteggiare sia le misure di adattamento che quelle di mitigazione del caos climatico nel nostro Paese, la UE stimava il costo di un mancato adattamento tra i 100 miliardi di Euro all’anno nel 2020 e 250 miliardi nel 2050, senza tenere in conto i costi sociali derivanti dagli eventi estremi. Pertanto, esigeva risposte urgenti ed adeguate da approvare nei piani nazionali da adottare. Il governo dei “litiganti per finta, ma negazionista per davvero”, non tiene in nessun conto l’emergenza climatica, dato che lucra già abbastanza voti e consensi dalle paure che una criminalità efferata e una invasione inarrestabile dei migranti stillano quotidianamente nelle “pance” degli italiani. Ma sul clima e sui fossili è difficile glissare.

Così capita che a Civitavecchia, nella città del carbone, la Lega si metta il vestito ambientalista e alle amministrative batta un Pd piuttosto ambiguo sul destino della centrale Enel. Senonchè, appena eletto, il neosindaco del Carroccio, Ernesto Tedesco, si sente dire dal suo capo Salvini che “è finito il tempo dei ‘no’ a tutto” e che “con i soli ‘no’ non si campa”, ponendosi così in linea con i piani di phase-out dell’Enel che, nei siti di La Spezia, Fusina, Brindisi e Civitavecchia, vuole sostituire il carbone con il metano.

Con questi presupposti, il “polo delle rinnovabili dal 2025” di cui la nuova maggioranza ha parlato in campagna elettorale non si farà, a meno che la nascita e l’ottimo lavoro svolto da un Comitato locale che da No Carbone si è trasformato in “No al metano Si alle rinnovabili” mobiliti i cittadini e raccolga suggerimenti e conoscenze per dar vita ad un piano energetico territoriale sostitutivo del carbone.

Trovo di grande interesse, anche per il possibile coinvolgimento degli “studenti di Greta”, che laddove si aprano spazi per la riconversione ecologica, le forze che democraticamente vogliono riappropriarsi del territorio e stabilire attraverso la sua cura l’occasione per un miglioramento della vita, entrino in gioco per proporre una piena e stabile occupazione, una salubrità dell’aria, la vivibilità dei territori. Altro che patti Salvini-Blair per agganciare tubi di gasdotti come il TAP sulle nostre coste!

A questo proposito si è aperta, in rete una discussione sul ricorso all’idrogeno per una alternativa alla combustione del carbone sulla costa tirrenica. (v. tra gli altri www.medicinademocraticalivorno.it ). Mi sono occupato a lungo di ricerca sulle celle a combustibile e sul ricorso all’idrogeno nel campo della mobilità e ne ho scritto nel mio primo blog sul fattoquotidiano.

Non avrebbe senso produrre energia con elettrolisi dell’acqua dal mare, nonostante i progressi avvenuti anche in questo campo. L'idrogeno, come vettore energetico ha senso solo se prodotto con energie rinnovabili e assolutamente pulite (fotovoltaico e eolico), nella funzione di serbatoio dell’eccesso di energia accumulata cui ricorrere quando non c'è nè sole nè vento. Un serbatoio da trasformare in energia con buon rendimento attraverso celle a combustibile, molto interessanti per abitazioni o veicoli. Le reti intelligenti da porre in atto sul territorio dove insisteva la centrale fossile, potrebbero essere integrate con “accumuli di idrogeno” ottenuto quando c’è sovrapproduzione, per fare da compensatori negli scambi in rete di energia elettrica prodotta e consumata con fonti rinnovabili e in modalità cooperative. Ovviamente il sistema di fonti rinnovabili dovrebbe essere interamente dedicato e interamente integrato al sistema di consumi elettrici che “si appoggia” all’idrogeno da utilizzare come vettore.

Vanno certamente superati una serie di problemi di sicurezza e si potrebbe, nella fase di transizione, anche ricorrere all'idrometano, ovvero una miscela di idrogeno e metano fossile o bio che sia, che utilizza le linee già esistenti del metano per trasportarlo fino agli utenti finali.

L’idrogeno ottenuto da rinnovabili che alimenta celle a combustibile è una buona soluzione già oggi per abitazioni e veicoli, se non fosse che il mercato vuole mantenere la prevalenza di un controllo centralizzato di tutto il settore energetico.

In Germania, con la carica di idrogeno pronto dall'esterno, sono in fase di sperimentazione alcuni treni su alcune tratte locali e l’industria dell’auto, oltre all’elettrico a pile, pensa seriamente all’idrogeno per motori elettrici e non termici.
In Svezia stanno entrando in funzione stazioni di rifornimento di idrogeno solare per autoveicoli elettrici a idrogeno.

La partita è aperta e tocca enormi interessi. La mia esperienza dice che il cambiamento non viene dai cartelli dei produttori di veicoli o dalle corporationi dei fossili, ma dall’attenzione delle popolazioni al loro futuro e alla salute dei loro figli.

Ben venga quindi la discussione sulla eliminazione del carbone a Civitavecchia e non ci si fidi di amministratori pronti a rispondere ai richiami dall’alto anziché ai loro elettori. E benvenuto agli studenti di Fridays for Future, che in questa partita avranno molto da giocare.

Mentre il rapporto IPCC ci intima di limitare il riscaldamento globale di 1.5° e quindi abbattere le emissioni antropogeniche nette globali di CO2 del 45% entro il 2030 e del 100% entro il 2050, rispetto ai livelli registrati nel 2010 e l'Europa al Cop 24 di Katowice si è assunta l’impegno di rivedere entro il 2020 gli attuali obiettivi, il governo italiano con il Piano nazionale integrato per l'energia e il clima, si pone l’infame obiettivo di diminuire le emissioni solo del 39% al 2030 e del 63% al 2050! D'altronde se vuole sostituire le centrali a carbone con quelle a gas e continuare a dirigere il 60% degli investimenti per la produzione elettrica verso carbone, petrolio e gas non possiamo ambire ad obiettivi più dignitosi e efficaci. Non è solo l'Italia che continua a sostenere i sussidi alle fonti fossili, nonostante tutti parlino di chiuderle; secondo l'Agenzia internazionale dell'energia nel 2017 sono stati spesi circa 300 miliardi di dollari, 30 milioni in più rispetto all'anno precedente. Al carbone, fanalino di coda tra i beneficiari, son andati comunque 2 miliardi di euro.
Ma per affrontare la crisi climatica e contenere il riscaldamento globale a 1.5° queste sono misure insufficienti e quando ce ne renderemo conto sarà troppo tardi. Non c'è un altra alternativa per consentire un futuro alle prossime generazioni se non interrompere la dipendenza dal fossile nel più breve tempo possibile, e non gradualmente come i Verdi dicono.
Ricordiamo l'articolo per eddyburg La favola dell'energia pulita e gli affari sporchi del gasdotto tap per ribadire che il gas non è un'alternativa al fossile. (i.b)

Qui riportiamo l'articolo "Se non è zuppa, è pan gasato" di Antonio Tricarico scritto e tratto dal sito Re:common.

Negli ultimi mesi si è acceso il dibattito su come arrivare alla chiusura delle centrali a carbone italiane, principalmente targate Enel. A fine 2018 il ministero dell’ambiente ha emesso un decreto per la revisione di tutte le autorizzazioni integrate ambientali degli impianti per includere la data di chiusura del 2025. A febbraio Enel lo ha impugnato, visti alcuni errori burocratici e legali con cui il decreto è stato emesso e lamentandosi che il governo non voleva discutere di come rendere la chiusura delle centrali una realtà affrontando anche il problema della sicurezza della rete elettrica italiana e degli investimenti da prevedere in proposito – che ovviamente non avrebbe dovuto fare Enel.

Incalzato da noi di Re:Common, da altre associazioni ambientaliste e commentatori vari, a metà maggio l’ad Francesco Starace ha dichiarato agli azionisti riuniti nell’assemblea annuale della società che finalmente il governo ha avviato un tavolo di lavoro sul tema e quindi Enel ha ritirato il ricorso. Ma soprattutto Starace ha annunciato il piano di Enel di chiudere il carbone costruendo negli stessi siti (tranne che nel Sulcis in Sardegna) delle centrali a gas, ciascuna da 500 MW, che entrerebbero in servizio solo se necessario a garantire la sicurezza della rete elettrica. Tra le righe Enel aggiunge che vede con favore il precedente tedesco di un meccanismo di compensazione per le società che chiudono centrali e miniere di carbone dietro un lauto pagamento di 600 milioni di euro per GW installato. Facendo due conti nel caso di Enel si parlerebbe di circa quattro miliardi di euro (molto più di quanto necessario per costruire i quattro gruppi a gas).

Le affermazioni di Starace sono state accolte con giubilo dai quattro governatori delle regioni interessate, in primis quello pugliese, Michele Emiliano, da sempre fautore della conversione a gas della centrale di Cerano, a sud di Brindisi. Starace ha detto che è una possibilità che poi le nuove centrali a gas a ciclo aperto si convertano in ciclo combinato, qualora servissero in pianta stabile dopo il 2025 per garantire approvvigionamenti elettrici sufficienti alla rete. Ma per Emiliano la conversione definitiva per andare a tutto gas sembra già un dato assodato.
Il passaggio dal carbone al gas di Enel – un po’ inaspettato visto che Starace aveva sempre osteggiato l’ossessione per il gas dei competitor energetici italiani, a partire dell’Eni – eccita non solo le amministrazioni regionali. A2A già parla di trasformare anche la centrale di Brindisi Nord, chiusa da tempo, ed ha già presentato il progetto – per inciso l’opera dovrebbe considerarsi nuova ab fundamentis visto che la centrale precedente era stata chiusa da anni e in parte smantellata.

D’altronde lo stesso governo italiano ha benedetto da tempo il gas quale combustibile “di transizione” dal carbone alle rinnovabili, a sentire le parole del vice-premier Luigi Di Maio lo scorso aprile”. Parole un po’ lontane dal verbo a cinque stelle di qualche anno fa per le rinnovabili senza sé e senza ma. Ma si sa, tempo e potere cambiano menti e persone. Anche laddove non te lo aspetti.

Questo è proprio il caso del sindaco di Brindisi, Riccardo Rossi, ex militante dei No al Carbone, che dopo pochi giorni si è aggiunto ai brindisi – è il caso di dirlo – per la conversione a gas della centrale di Cerano, insieme alla Confindustria locale ed altre istituzioni. La cosa ha irritato parecchio gli ex compagni e le associazioni locali che hanno subito messo i puntini sulle i. E Rossi, sempre a mezzo social network ha incalzato, rivendicando da sempre la sua posizione a favore della conversione a gas, ma soprattuto affermando che questo combustibile sarà necessario nella transizione energetica italiana per almeno i prossimi trent’anni.

Insomma sembra che ci sia il consenso di tutti ad ogni livello: l’Italia è una Repubblica fondata sul gas, punto. Con buona pace di una vera transizione oltre ogni combustibile fossile, come ce lo chiede la protezione del clima. Senza parlare delle bonifiche dei siti sacrificati per decenni alla produzione di energia elettrica su grande scala da fonti inquinanti: mettendo delle centrali a gas, la bonifica di questi siti molto probabilmente slitterebbe e le solite comunità continueranno a sacrificarsi per garantire la sicurezza della rete nazionale ed lo sviluppo (presunto) dell’intero paese.

Insomma, una transizione a tutto gas, ma in stile Gattopardo, in cui “tutto cambi perché nulla cambi”.

Una riflessione sulla Rockfeller Foundation, che finanzia la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici: affidarsi ai soldi che provengono da gruppi che devono la loro ricchezza alla produzione e vendita di combustibili fossili, è una buona mossa? Tra volontà di aiuto e pubbliche relazione la linea è labile e il flusso instabile nonostante quanto devoluto in beneficenza è niente rispetto ai ricavi. (i.b)

L'articolo in inglese «The Folly of Climate Change Philanthropy» è qui raggiungibile.
Nilo Bianco - Uganda
Un meccanismo che consente alle società di ‘compensare’ i danni alla biodiversità che si stanno facendo in un’area (o si sono già fatti) con la messa in protezione di un’altra area a rischio o presentata come tale. Siccome spesso le popolazioni indigene sono considerate un rischio alla biodiversità, per via del sostentamento che traggono dalle risorse naturali, esse vengono espulse. Si perpetua così un doppio spossessamento: uno in nome dello 'sviluppo' (estrazione di minerali, costruzione di una diga o un hotel, la coltivazione di monoculture industriali, etc.) l’altro per effetto della compensazione, in nome della biodiversità.
Questi strumenti sono particolarmente interessanti per le multinazionali, consentendo a loro di accedere a terre (e capitali) per realizzare opere ambientalmente e socialmente distruttive, che finiscono con l’esurpare terre alle popolazioni autoctone privandole di mezzi di sussistenza.
Si legga l’ultima inchiesta di Recommon «Turning forests into hotels. The true costs of biodiversity offset in Uganda». Il caso studiato riguarda la compensazione per la diga Bujagali sul fiume Nilo Bianco, costruita con il finanziamento del World Bank Group e altri istituti finanziari internazionali. La diga ha portato all'alluvione e alla perdita di Bujagali Falls, in passato una nota attrazione turistica dell’Uganda, colpendo più di 3000 famiglie, per lo più agricoltori di sussistenza e pescatori.
Per compensare questo danno non è stata istituita una zona di conservazione, ma viceversa si è facilitato l'ingresso delle aziende turistiche nell’area perchè oltre all’elemento di conservazione, il contratto include una componente speculativa attraverso lo sviluppo turistico. (i.b.)

Per comprendere la pesante eredità dell'era nucleare e l'impatto nefasto dei prodotti nucleari, di scorie impossibili da smaltire. Eppure le centrali nucleari prosperano, le estrazioni di uranio continuano, e le armi nucleari non sono debellate. Siamo seduti su una bomba atomica. (i.b.)

Qui l'articolo pubblicato sulla rivista Effimera.

Una sintesi degli impegni presi dai Ministri delle Finanze di 26 paesi per affrontare i rischi dei cambiamenti climatici. Non sono misure radicali, e pertanto non mettono in discussione il modo di produzione capitalistico. Ma l'Italia segue l'esempio di Trump e boicotta. Ci vorranno ancora molti «Fridays for Future» per scuotere questo governo sordo e irresponsabile. Il prossimo, a livello nazionale, sarà il 24 maggio a Roma. (i.b.)

Qui l'articolo dal Fatto Quotidiano del 2 maggio 2019.

Bisogna tornare a pianificare, non per il profitto, ma per gestire l'uscita dal fossile e contenere il riscaldamento globale, convertendo l'economia e indirizzando investimenti alle energie e produzioni alternative locali, tassando patrimoni e aziende inquinanti. La risposta non è la green economy o le soluzioni tecnologiche. (i.b.)


In questo articolo sono bene sintetizzati alcuni principi per affrontare in maniera lungimirante ed equa la questione del surriscaldamento globale e delle sue conseguenze. Cambiare si può, ma occorre una volontà politica che invece continua a sostenere gli interessi del mercato, dei poteri economici del profitto basato sullo sfruttamento ambientale e del lavoro. Questo mese abbiamo visto, con due manifestazioni nazionali - quella del 15 marzo e del 23 marzo - come movimenti studenteschi ed ambientalisti di giovani e meno giovani siano preparati a rivendicare una giustizia ambientale necessaria per dare futuro alle prossime generazioni. (i.b.)

I giovani di tutto il mondo si stanno muovendo. Il sorprendente intervento della giovane Greta Thunberg a Davos, sedicenne svedese piombata nel salotto buono dei pescecani della finanza mondiale, ha scosso le coscienze di centinaia di migliaia di giovani in Europa, chiedendo che si faccia qualcosa adesso per il loro e il nostro futuro.

L'obbiettivo posto attraverso il rapporto dell'IPCC (il tavolo scientifico intergovernativo dell'Onu sui cambiamenti climatici) alla comunità internazionale parla chiaro: occorre interrompere subito le emissioni di gas serra in particolare CO2 e metano, più Cfc e biossido d'azoto, pena una catastrofe ambientale di proporzioni tali da mettere in discussione non solo la fine della civiltà umana, ma la stessa sopravvivenza della vita sulla terra.

Se le emissioni attuali rimarranno nell'atmosfera questo produrrà dei cambiamenti climatici strutturali, riducendo terre fertili, foreste, modificando le coste e sommergendo grandi città.

Le dispendiose e penose conferenze internazionali come L'Accordo di Parigi del 2015 e l'incontro di Katowice del dicembre scorso sono stati piuttosto deboli nella determinazione e nelle decisioni sulla riduzione delle emissioni, lasciando alla buona volontà dei governi sia gli obbiettivi che il controllo delle tabelle di marcia. L'ostacolo principale sono ovviamente l'uso dei combustibili fossili, non solo il petrolio, ma anche metano e lignite per produrre energia elettrica e trasporti. Ormai sappiamo che le fonti di energia rinnovabile potrebbero essere la soluzione solo se gli ingenti investimenti in infrastrutture iniziassero a modificare la mobilità, ma anche il modo di produrre in agricoltura e industria.

Purtroppo le grandi corporation finanziarie hanno già rinunciato al "tutto elettrico" : lo dicono le conclusioni del rapporto presentato nell'aprile 2018 dalla JPMorgan, che si chiama “Pascal's Weger”, la scommessa di Pascal, ovvero se volete credere di poter fermare il cambiamento climatico potrebbe essere come credere in Dio, razionalmente non è possibile dimostrarne l'esistenza, ma aiuta a vivere pensare che sia possibile cambiare il nostro modello di produzione. Le corporations finanziarie mondiali punteranno solo sulla creazione di barriere di diversi metri di altezza intorno a New York, Calcutta, Los Angeles e altre grandi città costiere, contro l'innalzamento del livello del mare e per proteggere le infrastrutture. Una lunga gettata di cemento sulle coste, enormi Mose, che non è difficile immaginare inefficaci di fronte a uragani sempre più violenti e ad un innalzamento degli oceani inarrestabile.

Di fronte a questa sensazione di inadeguatezza della politica e della finanza internazionale stiamo assistendo invece ad una presa in carico delle responsabilità solamente da parte delle nuove generazioni: le manifestazioni belghe, ma anche quelle francesi, nei primi giorni di febbraio 2019 organizzate da una coalizione piuttosto giovane #generationclimatic (che si stanno diffondendo anche in Italia) hanno posto attenzione alla questione ambientale e alla decarbonizzazione dell'economia, con alcuni spunti originali.

Intanto far pagare ai ricchi i costi della transizione. Troppo vicina è la scottatura del popolo francese, che di fronte alla Carbon Tax di Macron sui carburanti diesel, ha rotto gli argini ed è scoppiata nella rivolta dei Gilets jaunes.

Per questo un documento belga, scritto a ridosso delle manifestazioni popolari dal Partie du Travail de Belgique, pone degli obbiettivi chiari. Riduzione del 60% di emissioni entro il 2030 (l'UE chiede agli stati membri una riduzione del 32%).

Costituire un solo ministero per clima, trasporti, energia, una banca per gli investimenti climatici finanziata con tasse sui grandi patrimoni e le aziende più inquinanti (centrali a carbone, cementifici e acciaierie). L'abolizione dell' ETS ovvero dei certificati "verdi". Il loro fallimento a livello europeo certifica in realtà l'impossibilità del sistema capitalistico di trasformarsi e preoccuparsi dell'interesse collettivo. La ricerca del profitto, ma anche l'aumento del prodotto interno lordo, sono incompatibili con l'ambiente e la sopravvivenza della civiltà umana.

Per questo occorre tornare ad una pianificazione forzata, che tenga conto anche della produzione locale e del controllo da parte dei municipi, delle comunità e delle cooperative: le energie alternative strutturalmente si prestano molto più facilmente all'auto consumo locale e al km0.

Meno convincenti sono le "soluzioni tecnologiche". Ogni proposta che va in quella direzione (riconversione dei trasporti col vettore idrogeno oppure mobilità tutta elettrica, piante OGM che catturano CO2, reti intelligenti, materiali riciclabili per l'isolamento termico in bio-edilizia, e recentemente la fusione nucleare) in se non sono idee sbagliate, ma non tengono conto della complessità intrinseca dei sistemi umani e naturali e delle ripercussioni che centralità produttiva e gigantismo tecnologico possono rivelarsi un boomerang, se isolate dai contesti locali.

Poi esiste la complessità della società umana: un esempio sono le auto a metano. Potenzialmente meno climalteranti, ad un costo al chilometrico più basso, si sono rivelate più climalteranti proprio perché vengono usate di più, proprio perché più ecologiche e perché hanno ricevuto incentivi cospicui producendo un numero di chilometri di percorrenza maggiore degli altri modelli. Stessa cosa avverrà, quando qualcuno ci spiegherà dove finiranno le batterie, con le auto elettriche, oppure se consideriamo il bilancio energetico complessivo dell'impronta ecologica nell'uso dei server che mettono in rete computer e telefonini. Il raffreddamento delle centrali di server ha superato il consumo di energia mondiale per autotrazione. La "Green economy", ovvero la tecnologia verde, nasconde bene i suoi problemi.

Proprio i rapporti scientifici sui gas serra ci raccontano che il bando di produzioni nocive in realtà ha spostato macchinari in Asia o America latina dove le leggi ambientali sono meno rigorose, rendendo difficile ridurre l'emissione climalterante a livello globale : recente il caso del Cfc, i gas killer dell'ozono, che nel 2010 hanno ricominciato a crescere .

Non possiamo fare niente allora? non possiamo salvarci dai cambiamenti climatici se dobbiamo combattere anche un modello di sviluppo che con grandi sofferenze ci ha portato fin qui? Oppure dobbiamo abbandonare tutto e gettarsi nel panico più assoluto?

Stime parlano di migrazioni di 1 miliardo e mezzo di persone che fuggiranno nei prossimi 100 anni dalla siccità, dalla fame e dalla sete, dai paesi più poveri e popolosi ai paesi del Nord Europa e Canada. La " rottura metabolica" tra uomo e natura raccontata da Marx e prodotta dal capitalismo e dall'industrialismo, dalla crescita e dal produttivismo, sta producendo un conto salato, che nessuno vuole pagare, meno che mai i giovani che erediteranno questa terra.

Essi chiedono invece alla politica di cambiare strada adesso, prima che sia troppo tardi, chiedono che la politica si trasformi in una grande operazione di soccorso, una protezione civile globale che agisca per mitigare da subito i bisogni immediati delle popolazioni che verranno colpite e che contemporaneamente porti avanti operazioni di riduzione forzata delle emissioni climalteranti, abbandonando le grandi opere inutili e grandi impianti a carbone : tra i primi 10 impianti industriali più inquinanti in Europa ci sono le centrali a carbone, di cui 7 tedesche, due polacche e una estone, ma l'undicesima è italiana, Torrevaldalica nord di Civitavecchia.

Per questo tutti i movimenti che si battono contro le grandi opere e per un cambiamento delle politiche energetiche ha lanciato un appuntamento il 23 Marzo a Roma, contro le Grandi Opere e i Cambiamenti climatici: iniziamo da qui. Iniziamo a chiudere.
Questo articolo é in uscita sulla rivista Grandevetro, trimestrale di immagini, politica e cultura.

Uscire dal fossile interrompendo immediatamente le estrazioni di petrolio e gas. Una rivoluzione per il sistema economico, ma é fondamentale che la riconversione non vada a gravare indistintamente su individui con capacità di reddito profondamente diversa. Qui l'articolo. (i.b.)


De-carbonizzare e fermare immediatamente le estrazioni di gas e petrolio significa riconvertire l'economia a partire dall'interrompere la dipendenza dai fossili. Cessare le concessioni di estrazioni e ricerca é un azione rivoluzionaria perchè obbliga fin d'ora a trovare soluzioni alternative alla produzioni di energia, ma anche a ridurre consumo energetico. Ma questa riconversione non può tradursi a un ritorno ai cavalli o alla schiavitù, come forze motrici, e non può essere pagata indistintamente da tutti.
In questo articolo dell' Altraeconomia si spiega che strumenti come “Carbon pricing”, "Emissions Trading System", “Cap and trade”, “Carbon tax”, seppur tra loro molto diversi, sono misure regressive, perché se applicate senza ulteriori misure gravano indistintamente su individui con capacità di reddito profondamente diverse, rischiando di scaricare la transizione sulle fasce della popolazione con i redditi più bassi.
Sulla portata rivoluzionaria dell'appello alla decarbonizzazione e stop a tutte le attività estrattive si legga l'articolo «Fermiamo l’estrattivismo ora» e si veda il sito del movimento “Extinction Rebellion”. (i.b.)

Un ulteriore aspetto della natura perversa del sistema capitalistico: anche gli sconvolgimenti climatici diventano incentivi per il suo mortifero sviluppo, fornendo profitti a coloro che si preparano a speculare sui disastri che il sistema stesso ha prodotto. (e.s)

L'articolo «Betting on a crash – confronting those speculating on our future» di Nick Buxton, pubblicato su Tni il 6 febbraio 2019, ci ricorda della capacità del capitalismo di cercare profitti nella più disperata delle situazioni e di una crescente industria globale che si prepara a trarre profitto dai cambiamenti climatici. Già il giornalista Mckenzie Funk nel suo libro «Windfall», uscito nel 2015 e non ancora tradotto in italiano, racconta di come banche, aziende energetiche, ingegneri e imprenditori stanno trasformato una crisi globale, dall'aumento del livello del mare, alle inondazioni, agli incendi e alla scarsità di cibo e acqua, in un'opportunità d'oro, raccogliendo profitti a breve termine.

In California ci sono i vigili del fuoco privati che si occupano di incendi sempre più intensi, speculatori che scommettono su dove le colture saranno costrette a muoversi mentre le temperature cambiano, società ag-tech che offrono colture geneticamente modificate in grado di far fronte a temperature estreme, società energetiche che pensano che gli estremi del cambiamento climatico porteranno effettivamente a un maggiore uso di energia, poiché le persone, per esempio, accenderanno più spesso i loro condizionatori d'aria.

L'autore dell'articolo spiega che dietro queste imprese, che speculano sul disastroso futuro che ci aspetta, ci sono moltissime società finanziarie e compagnie assicurative che ne sostengono gli investimenti, in quanto le previsioni indicano che i cambiamenti climatici genereranno profitti, ovviamente per pochi, pochissimi.

Barney Schauble, della società di investimento Nephila Advisors, ha dichiarato alla rivista Bloomberg: «Se riesci a vedere qualcosa che le altre persone semplicemente rifiutano di vedere, e puoi prendere decisioni su tale base, nel lungo periodo questo ti porterà buoni profitti». D'altronde il Wall Street Journal nel 2011 aveva pubblicato una guida apposita, scritta dall'imprenditore, investitore e scrittore James Altucher e il giornalista Douglas R. Sease proprio su come fare soldi vedendo opportunità laddove altri vedono pericoli (The Wall Street Journal Guide to Investing in the Apocalypse: Make Money by Seeing Opportunity Where Others See Peril). Non ci si può stupire quindi se sono in forte crescita industrie e mercati assicurativi che puntano su un futuro ancora più catastrofico del presente. Ovvio che questo nuovo mercato che specula sulle future disastri prospera anche grazie a un contesto politico globale nel quali i governi, anzichè mettere in atto azioni concrete per mitigare il cambiamento climatico come esortato dall'ultimo rapporto del IPPC, operano per promuovere azioni finanziarie che lucrano sui futuri disastri. Ci sono per esempio i 'cat bond' che vengono propagandati dall'OCSE, dalla Banca Mondiale e anche dall'ONU, come modi per proteggersi dalla catastrofe climatica. Ma come molti altri prodotti finanziari, oggi i 'cat bond' sono più utili a creare un nuovo flusso di profitti per i banchieri piuttosto che fornire sicurezza ai più vulnerabili.

Nick Buxton paragona questa situazione, di pericolosa speculazione da parte di queste corporazioni, potentissime in quanto sorrette dal potere politico ed economico, a un autista che si è impossessato delle chiavi della nostra macchina e che si sta dirigendo dritto dritto verso una scogliera, e che molto probabilmente non ci pensa nemmeno o al massimo sta riflettendo su come fare soldi dall'inevitabile incidente.

Conclude l'articolo citando un altro gruppo di scommettitori e speculatori: l'industria militare e delle produzioni di armi. Spiega come i militari sono le organizzazioni più attive quando si tratta di anticipare catastrofi, e si stanno ben preparando agli impatti dei cambiamenti climatici. E' confermato che l'attività di ricerca relativa a come affrontare i cambiamenti climatici e le conseguenze che questi porterebbero risale al 1990. Nel 2008, sia gli Stati Uniti che l'Unione Europea all'interno delle loro strategie di sicurezza hanno identificato il cambiamento climatico come un "moltiplicatore di minacce" segnalando che i cambiamenti climatici avrebbero intensificato i conflitti esistenti.

Non è difficile immaginare come il nostro futuro provocherà ulteriori diseguaglianze assicurando sicurezza e profitti solo a pochi. Diventa sempre più urgente non solo combattere i poteri politici, governi ciechi ed inetti, ma contrastare i grandi poteri economici e finanziari.

21 marzo 2019. Nella giornata in ricordo delle vittime innocenti e dell'impegno contro le mafie organizzata da Libera, qui un'introduzione al fenomeno dell'ecomafia nel Nord Est, una mostruosa piovra che con i suoi tentacoli invisibili avviluppa l’economia e la politica. (i.b.)

La Mafia in Veneto, prende forma come crimine d’impresa con alleati preziosi dentro la Pubblica amministrazione che in certi contesti si è elevata a sistema, promuovendo e condizionando l’avvio di iniziative economiche impattanti per la comunità (quando non estremamente pericolose), di opere pubbliche infrastrutturali inutili e dannose come il Mose o la Pedemontana, forme occulte di abusivismo edilizio, autorizzazioni improprie o illegittime per l’esercizio di discariche.

Le recenti indagini della Procura distrettuale antimafia di Venezia, la guardia di finanza e la Polizia di Stato dimostrano che le cosche storiche si sono insediate anche nella regione Veneto, prendendo il controllo della criminalità e allacciando rapporti con l’imprenditoria e la politica.

I camorristi, insediati a Eraclea da oltre vent’anni, ottenevano il pizzo da imprese dell’edilizia e della ristorazione, controllavano il narcotraffico e la prostituzione e rifornivano le aziende di lavoratori in nero. Costituivano ditte destinate alla bancarotta e producevano false fatture. Insomma, avevano intrecciato stretti legami con l’imprenditoria locale, diventando protettori, dispensatori di favori e soci in affari.

È del 12 marzo 2019, la notizia di trentatré ordinanze cautelari verso gli appartenenti a un’organizzazione criminale di matrice ‘Ndranghetista operante a Padova e dedita alla commissione di gravi reati, tra cui, l’associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, violenza, usura, sequestro di persona, riciclaggio, emissione e uso di fatture per operazioni inesistenti.

L’ecomafia é diventata un altro tassello fondamentale, spesso non considerato, nel grande puzzle dei danni ambientali. L’opaco binomio tra corruzione, mafia e saccheggio ambientale é una tra le cause principali degli effetti nocivi sul nostro territorio e sulla nostra salute. L’ultimo Rapporto Ecomafia di Legambiente indica che il fatturato dell’ecomafia è salito a 14,1 miliardi, una crescita dovuta soprattutto alla lievitazione nel ciclo dei rifiuti che è sempre di più il cuore pulsante delle strategie ecocriminali.

Le finte operazioni di trattamento e riciclo per ridurre i costi di gestione e per evadere il fisco sono tra le forme criminali predilette dalle organizzazioni di stampo mafioso. Lo smaltimento dei rifiuti è infatti un settore di grande valore economico gestito da funzionari pubblici e singoli amministratori che hanno un ampio margine di discrezionalità. Così, coloro i quali dovrebbero in teoria garantire il rispetto delle regole e la supremazia dell’interesse collettivo su quelli privati, creano l’humus ideale per le pratiche corruttive. L’aumento delle inchieste sui traffici illegali di rifiuti è anche all’origine dell’incremento registrato degli illeciti ambientali, di persone denunciate e dei sequestri effettuati.

Solo un anno fa abbiamo assistito all’inchiesta “Blood Money” del giornale napoletano Fanpage sul business del ciclo di rifiuti che, dalla Campania si sarebbe diramato al Nord, e riguardava un possibile affare legato allo smaltimento di rifiuti mediante una costruzione di un sito di stoccaggio a Marghera che avrebbe dovuto contenere rifiuti frutto di un sequestro degli anni 2004- 2005.

E ancora, il sequestro di due cave nel 2018, riempite di immondizia a Noale, in provincia di Venezia, e a Paese, in provincia di Treviso dove, anziché trattare i rifiuti, eliminando amianto e metalli pesanti si attuava una miscela con altri rifiuti, meno inquinati, aggiungendo calce e cemento per produrre un amalgama da usare nell’edilizia o nelle grandi opere stradali. Risultato: 280mila tonnellate di materiale contaminato da metalli pesanti e da amianto utilizzato per lavori come il Passante di Mestre, il casello autostradale di Noventa di Piave, l’aeroporto Marco Polo di Venezia e il parco San Giuliano di Mestre. Due giorni fa, il 19 marzo, nel Basso Vicentino è stato scoperto un capannone, di proprietà di un noto istituto bancario di livello nazionale, in cui erano illecitamente occultate circa 900 tonnellate di rifiuti non riciclabili derivanti anche da processi di lavorazione industriale.

Il Veneto non è nemmeno immune alle Agromafie, altro settore illecito in crescita, correlato ai fenomeni della contraffazione, del riciclaggio e del Caporalato. Nell’agricoltura e nell’allevamento il capolarato è una piaga che toglie dignità al lavoratore mediante abusi, sfruttamento e salari inferiori rispetto alle regolari tariffe del mercato. Le condizioni lavorative disumane a cui sono costretti i braccianti sono difficilmente denunciate per paura di perdere il lavoro. Ciò accade perché la posta in gioco per i lavoratori, molto spesso extracomunitari regolari, è troppo alta: avere un’occupazione è condizione imprescindibile per mantenere il permesso di soggiorno, per cui una denuncia potrebbe causare effetti ancora più gravi come il non riuscire più a rinnovare il permesso di soggiorno, in quanto per la legge Bossi-Fini per rimanere regolarmente in Italia è necessario avere uno stipendio.

Tre anni fa, nel veneziano, si era scoperta una baraccopoli in cui vivevano in condizioni sanitarie pessime alcuni braccianti bengalesi che lavoravano sette giorni su sette a 150-200 euro al mese. Mentre, a settembre 2018, è stata sgominata una rete di caporalato che faceva riferimento a due cooperative fittizie le quali reclutavano in nero la manodopera dall’Albania e dalla Romania, facendo fare ai lavoratori la spola fra i campi del Veneto e della Toscana.

Grazie alla l.68/2015 che disciplina gli ecoreati e che li ha introdotti nel Codice penale, si sono compiuti molti passi in avanti. Tuttavia ciò non basta, soprattutto dopo l’abolizione del divieto di vendita dei beni sequestrati alle mafie, in sostanziale modifica alla L.109/1996 la quale prevedeva il loro riuso prevalentemente per fini pubblici e sociali creando un autentico e pulito riscatto economico e sociale.

Infatti, il Decreto-legge Sicurezza, ora convertito in L.132/2018, non è altro che un regalo alle Mafie. Vendendo i beni immobili confiscati ai privati implicitamente si favoriscono i clan, che potrebbero riacquistare i beni attraverso prestanomi e riciclare i patrimoni e le ricchezze accumulate illecitamente.

Inoltre, con la nuova manovra, le pubbliche amministrazioni potranno sostenere spese fino a 240.000 euro senza fare gare o appalti: ciò significa che la Mafia non dovrà nemmeno fare uno sforzo per partecipare.


Breve bibliografia di riferimento

Gianni Belloni e Antonio Vesco, Come pesci nell'acqua. Mafie, impresa e politica in Veneto. Mafie, impresa e politica in Veneto, Donzelli, 2018.

Legambiente, Rapporto ecomafia, 2018.

Antonio Pergolizzi, Emergenza Green Corruption. Come la corruzione divora l'ambiente, Andrea Pacilli Editore, 2018

Visula Lab - Gruppo Gedi, Atlante criminale Veneto, 2018

Osservatorio Placido Rizzotto - Flai Cgil, Quarto rapporto agromafie e caporalato, 2018
Fanpage, Bloody Money, 2018

19 marzo 2019. Conferenza stampa davanti al Ministero dell'Ambiente per spiegare i motivi della mobilitazione di sabato a Roma, una marcia che inizierà alle 14.00 da piazza della Repubblica e arriverà a San Giovanni. Qui il link per aggiornarsi sul percorso. (i.b.)

Oggi, comitati ambientalisti e i comitati territoriali da diversi luoghi del paese, si sono ritrovati in conferenza stampa presso il Ministero dell’Ambiente per annunciare la marcia per il clima, contro le grandi opere inutili e contro la devastazione ambientale del 23 Marzo a Roma (partenza alle ore 14 da piazza della Repubblica)

Giungeranno dalla Val di Susa, da Taranto, passando per la Laguna di Venezia, per la Terra dei Fuochi, per le zone terremotate delle Marche i manifestanti che invaderanno Roma per suonare il campanello dall’arme sull’urgenza di un cambiamento di rotta. Come spiegato davanti alle finestre del ministro Costa, “la mancanza di manutenzione delle infrastrutture, la corruzione e la cementificazione selvaggia seminano morti e feriti a ogni ondata di maltempo perché le risorse pubbliche vengono utilizzate per la costruzione di opere che perpetuano un modello di sviluppo volto al profitto di pochi, senza il rispetto dei territori e di chi li abita“. Decine di pullman in arrivo da tutta Italia, dalla Sicilia all’estremo nord si ritroveranno per una mobilitazione inedita, ecologica e sociale, che unirà le istanze dei comitati che si battono da anni contro i progetti inutili e nocivi per l’ambiente a quelle del nascente movimento contro il cambiamento climatico.

La mobilitazione di sabato arriverà infatti a poco più di una settimana dallo Sciopero mondiale per il clima che ha portato in piazza milioni di giovani in Italia e nel mondo per chiedere ai governi azioni concrete contro il cambiamento climatico. “Siamo scesi in piazza il 15 marzo e scenderemo in piazza il 23 perché come Greta ci ha insegnato, la crisi climatica non si affronta in un giorno solo, e dobbiamo ribadire che la nostra generazione non ha intenzione di pagarne le conseguenze sulla nostra pelle e sulle terre che attraversiamo” dice Vittoria, studentessa alla Sapienza. Proprio dall’università sabato partirà un piccolo corteo studentesco che raggiungerà i comitati in piazza della Repubblica.

I Comitati rivendicano la lotta alla cementificazione e alle grandi opere inutili come primo punto in agenda per una politica ambientale che non sia soltanto un ipocrita nascondersi dietro le tracce di Greta Thunberg. Mentre in Val di Susa, nonostante gli annunci, partono i bandi per il cantiere del TAV, il governo ha fatto retromarcia su tutte le altre grandi opere devastanti sul territorio nazionale: il TAV Terzo Valico, il TAP e la rete SNAM, le Grandi Navi e il MOSEa Venezia, l’Ex-ILVA , ora ArcelorMittal a Taranto, il MUOS in Sicilia, la Pedemontana Veneta, inscenando, inoltre, un tira e molla sulle trivellazioni, con esiti catastrofici nello Ionio, in Adriatico, in Basilicata ed in Sicilia. A questo si aggiunge la mancata ricostruzione delle zone che hanno subito nella maniera più tragica la mancata messa in sicurezza dei territori come le Marche. Proprio i terremotati marchigiani saranno presenti con una delegazione sabato a Roma.

Una presenza particolarmente importante arriverà dal Sud Italia. “In Campania, forse abbiamo sperimentato gli effetti sulla salute prima che in altre regioni tanto è che in quelle terre è nato il termine biocidio per indicare l’attacco alla vita stessa che riguarda ognuno di noi” dice Raniero del comitato Stop-Biocidio prima di lasciare alla parola a Margherita dei Movimenti per il diritto all’abitare romani. «Centinaia di migliaia di immobili vuoti sono simbolo a Roma di come la cementificazione e la speculazione edilizia non hanno mai risposto alle esigenze abitative delle altrettante centinaia di migliaia di persone che hanno diritto alla casa» aggiunge prima di annunciare un concentramento di sfrattati e senza casa al Ministero delle infrastrutture a Piazza Porta Pia alle ore 11, come prologo del concentramento di Piazza della Repubblica.

Tra i tanti comitati ovviamente c’erano anche i notav: «La lotta è lunga e dura, sono 30 anni che la portiamo avanti, riguarda noi e i nostri figli che hanno diritto a vivere in una valle salubre, non intossicata dallo smerino e dalle polveri provocate dallo sventramento delle montagne» dice Emilio arrivato dalla Val di Susa.

L’obiettivo della manifestazione è quello di pretendere un cambiamento di rotta radicale nella gestione delle risorse. Un nuovo modello di sviluppo che dovrebbe ribaltare le priorità: non quelle di una classe imprenditoriale che ha passato gli ultimi trent’anni a delocalizzare e inquinare in nome del profitto ma delle persone che lavorano, studiano e vivono nel nostro paese. Mentre negli ultimi mesi i giornali sono stati invasi dal pensiero unico dello Sviluppo e del Progresso e il dibattito pubblico è stato preso in ostaggio da un manipolo di industriali senza scrupoli messi in fila dietro il feticcio del SITAV, sabato a Roma risuonerà finalmente una voce diversa.

I timidi provvedimenti presi nei confronti del cambiamento climatico, nel rispetto degli Accordi di Parigi 2016, sono del tutto insufficienti. Il cambiamento climatico è l’effetto di politiche estrattiviste legate a un sistema di produzione che sposa speculazione e profitto per pochi a danno dei molti. Siamo ancora in tempo per cambiare ma questo tempo è adesso, dicono i comitati davanti al Ministero dell’ambiente invitando ad unirsi al corteo del 23 marzo.


Il 23 marzo 2019 anche eddyburg si unisce alle migliaia di persone che scenderanno in strada per le vie e le piazze di Roma in una grande Marcia per il clima, contro le grandi opere inutili e per una giustizia ambientale. Ancora una volta sono i movimenti, i comitati, gli abitanti a rivendicare le ragioni per una rivoluzione del sistema, del modello di sviluppo in assenza di una sintesi politica capace di cogliere la svolta radicale necessaria per coniugare la salute, il benessere sociale, la salvaguardia del nostro pianeta terra e delle specie che lo abitano e i diritti umani. (i.b)

comune-info.net, 13 marzo 2019. Fermare subito l'estrazione di giacimenti indurrebbe uno “shock” al sistema produttivo capitalistico, obbligandoci a ripensare al nostro modo di abitare il pianeta e uscire da questo modello di sviluppo nefasto. Una degna risposta alle rivendicazione del 15 e 23 marzo prossimo. (i.b.)

Qui il link all'articolo.

Il 15 marzo in tutto il mondo si svolgeranno manifestazioni per esigere dai governanti azioni concrete e immediate per impedire la fine della vita sul pianeta minacciata dai cambiamenti climatici. In prima linea ci sono i ragazzi e le ragazze del movimento FridaysForFuture, ispirato dalla quindicenne Greta Thunberg che la scorsa estate si è seduta davanti al parlamento svedese in protesta per tre settimane. Da settembre ogni venerdì un numero crescente di persone, non solo giovani, si sono unite allo sciopero. (i.b.)

Dall'8 al 10 a Roma una tre giorni di incontri e discussioni sui conflitti ambientali, cambiamenti climatici, salute e ambiente, economia circolare a cui parteciperanno attivisti delle lotte territoriali, scienziati e ricercatori. Organizzata da A Sud e CDCA. Qui il programma completo.

Sul nuovo sito di Laudato Si potrete trovare i materiali del Forum che si è tenuto a Milano il 19 gennaio 2019, nel quale si sono discussi temi quali cambiamenti climatici, depredazioni ambientali, migranti, riconversione ecologica, ecofemminismo, beni comuni, diritto al salute e pace. (a.b.)

Per superare la logica emergenziale della ricostruzione serve una strategia di contenimento del rischio sismico all’altezza di un paese scientificamente avanzato e, per giunta, già in possesso di una specifica esperienza. Una proposta autorevole, che vi invitiamo a sottoscrivere. (m.b)

Il documento “La prevenzione sismica in Italia: una sconfitta culturale, un impegno inderogabile” è stato concepito per richiamare l’attenzione e sollecitare un consenso di un ampio pubblico su un tema di grande rilevanza come la riduzione del rischio sismico nel Paese, che richiede decisioni difficili, che vanno comprese e condivise. Le decisioni si devono basare sul patrimonio di conoscenze finora acquisito nelle varie discipline coinvolte (geologia strutturale, sismologia, ingegneria sismica, storia, statistica, economia, pianificazione territoriale...) e che oggi in Italia sanno individuare le zone di maggior rischio, conoscere i metodi per rendere antisismiche le costruzioni e resiliente il territorio. Ciò non significa che tali conoscenze siano esenti da incertezze. Le questioni coinvolte spesso non hanno risposta determinata. Dove, cosa e come, in quanto tempo e con quante risorse, sotto la responsabilità di chi, questi gli elementi vincolanti che pretendono l’impegno a fare di più e meglio nella difesa dai terremoti. Paradigmi e protocolli decisionali son venuti maturando nella riflessione scientifica.

Va fatto ogni sforzo per diffondere una cultura del rischio, per argomentare la procedura decisionale, per coinvolgere il cittadino come attore consapevole e determinare un’indifferibile inversione di rotta rispetto all’evidente deficit di prevenzione che grava soprattutto in talune aree del territorio nazionale, dove si può prefigurare una vera e propria condizione di latente emergenza.
Abbiamo così ritenuto di dare con questo documento un contributo costruttivo, di prospettiva prendendo spunto da alcune considerazioni espresse da un articolo di Roberto De Marco, per molti anni direttore del Servizio Sismico Nazionale, su un supplemento alla rivista “Geologia dell’Ambiente” (1), e dal contributo di alcuni docenti e esperti che hanno dedicato al tema della difesa dai terremoti un lungo impegno professionale. Ora, nostro compito è quello di diffondere il documento, anche attraverso l’auspicabile impegno di chi ne dovesse condividere i contenuti, e cercare un confronto costruttivo rispetto alle diverse competenze e alle molte culture che un tema così importante necessariamente coinvolge.

(1) “Rischio sismico in Italia: analisi e prospettive per una prevenzione efficace in un Paese fragile” Supplemento alla Rivista Geologia dell’Ambiente (SIGEA), Roma - 2018.


Qui si può scaricare il documento integrale

Per aderire scrivere una mail all’indirizzo: nonquestaprevenzione@gmail.com
I promotori del documento
Claudio Chesi
Teresa Crespellani
Marisa Dalai
Vezio De Lucia
Roberto De Marco
Georg Frisch
Elsa Garavaglia
Elisa Guagenti
Emanuela Guidoboni
Scira Menoni
Paola Nicita
Federico Perotti
Vincenzo Petrini
Fabio Sabetta
Giancarlo Storto
Maria Cristina Treu
Giovanni Vannucchi

A Roma scenderanno in campo comitati, associazioni e movimenti per reclamare un programma di azioni concrete capace di contrastare il riscaldamento globale, fermare le grandi opere inutili e dannose e salvaguardare i territori non solo dai cambiamenti climatici ma anche dal saccheggio in nome del profitto. Qui l'appello. (i.b.)


MARCIA PER IL CLIMA, CONTRO LE GRANDI OPEREINUTILI
Non serve il governo del cambiamento, serve un cambiamento radicale

Chi siamo

Siamo i comitati, i movimenti, le associazioni e i singoli che da anni si battono contro le grandi opere inutili e imposte e per l’inizio di una nuova mobilitazione contro i cambiamenti climatici e per la salvaguardia del Pianeta.

Abbiamo iniziato questo percorso diversi mesi fa, ritrovandoci a Venezia lo scorso settembre, poi ancora a Venaus, in Val Susa e in molti altri luoghi, da nord a sud, dando vita ad assemblee che hanno raccolto migliaia di partecipazioni. Siamo le donne e gli uomini scesi in Piazza lo scorso 8 dicembre a Torino, a Padova, Melendugno, Niscemi, Firenze, Sulmona, Venosa, Trebisacce e in altri luoghi.

Dall’assemblea di Roma del 26 gennaio lanciamo l’invito di ritrovarsi a Roma il 23 Marzo per una manifestazione nazionale che sappia mettere al centro le vere priorità del paese e la salute del Pianeta.


Grandi opere e cambiamento climatico

Il modello di sviluppo legato alle Grandi Opere inutili e imposte non è solo sinonimo, come denunciamo da anni, di spreco di risorse pubbliche, di corruzione, di devastazione e saccheggio dei nostri territori, di danni alla salute, ma è anche l’incarnazione di un modello di sviluppo che ci sta portando sul baratro della catastrofe ecologica.
Il cambiamento climatico è uscito da libri e documentari ed è venuto a bussare direttamente alla porta di casa nostra.
Nel nostro paese questa situazione globale si declina in modo drammatico. La mancanza di manutenzione delle infrastrutture, la corruzione e la cementificazione selvaggia seminano morti e feriti a ogni temporale, a ogni ondata di maltempo, a ogni terremoto.

Il cosiddetto “governo del cambiamento“ si è rivelato essere in continuità con tutti i precedenti, non volendo cambiare ciò che c’è di più urgente: un modello economico predatorio, fatto per riempire le tasche di pochi e condannare il resto del mondo a una fine certa. Le decisioni degli ultimi mesi parlano chiaro.

Mentre ancora si tergiversa sull’analisi costi benefici del TAV in Val di Susa, il governo ha fatto una imbarazzante retromarcia su tutte le altre grandi opere devastanti sul territorio nazionale: il TAV terzo Valico, il TAP e la rete SNAM, le Grandi Navi a Venezia, il MOSE, l’ILVA a Taranto, il MUOS in Sicilia, la Pedemontana Veneta, oltre al tira e molla sul petrolio e le trivellazioni , con rischio di esiti catastrofici nello Ionio, in Adriatico, in Basilicata ed in Sicilia.

Giustizia sociale è giustizia climatica

Le catastrofi naturali non hanno nulla di naturale e non colpiscono tutti nella stessa maniera.

Lo vediamo purtroppo quotidianamente e chi sta in basso, infatti, paga i costi del cambiamento climatico e della mancata messa in sicurezza dei territori.

È vero fuori dai grandi centri cittadini, dove la devastazione ambientale mangia e distrugge la natura, ma è vero anche negli agglomerati urbani, luoghi sempre più inquinati in cui persino i rifiuti diventano un business redditizio.
È vero non solo dal nord al sud dell’Italia, ma anche dal nord al sud del nostro pianeta.

Milioni di migranti climatici sono costretti a lasciare le proprie terre ormai rese inabitabili e vengono respinti sulle coste europee.

Nel nostro paese terremotati e sfollati vivono in situazione precarie, carne da campagna elettorale mentre le risorse per la ricostruzione non sono mai la priorità per alcuna compagine politica.

Quando le popolazioni locali, in Africa come in Europa, provano ad opporsi a progetti tagliati sui bisogni di multinazionali e lobby cementifere la reazione dello Stato è sempre violenta e implacabile.
L’unica proposta “verde” dei nostri governanti è di scaricare non soltanto le conseguenze ma anche i costi della crisi ecologica su chi sta in basso.

Noi diciamo che se da una parte la responsabilità di rispondere al cambiamento climatico è collettiva e interroga i comportamenti di ciascuno di noi, dall’altra siamo convinti che i costi della transizione ecologica debbano ricadere sulle spalle dei ricchi, in primis le lobbies che in questi anni si sono arricchite accumulando profitti, a discapito della collettività e dei beni comuni.

Il sistema delle grandi opere inutili e il capitalismo estrattivo sono altrettante espressioni del dominio patriarcale che sollecita in maniera sempre più urgente la necessità di riflessione sul legame tra donne, corpi e territori e sarà uno dei temi portato nelle piazze dello sciopero transfemminista globale dell’8 marzo.

E’ giunto il momento di capire di cosa il nostro paese e il nostro pianeta hanno davvero bisogno

Si potrà finalmente cominciare a dare priorità alla lotta al cambiamento climatico, cessando così di contrapporre salute e lavoro come invece è stato fatto a Taranto, dove lo stato di diritto è negato e chi produce morte lo può fare al riparo da conseguenze legali solo:

– riducendo drasticamente l’uso delle fonti fossili e del gas e rifiutando che il paese venga trasformato in un Hub del gas

– negando il consumo di suolo per progetti impattanti e nocivi e gestendo il ciclo dei rifiuti in maniera diversa sul lungo periodo (senza scorciatoie momentanee) con l’obiettivo di garantire la salute dei cittadini
– praticando con rigore e decisione l’alternativa di un modello energetico autogestito dal basso, in opposizione a quello centralizzato e spinto dal mercato

– abbandonando progetti di infrastrutture inutili e dannose e finanziando interventi dai quali potremo trarre benefici immediati (messa in sicurezza idrogeologica e sismica dei territori , bonifiche, riconversione energetica, educazione e ricerca ambientali)

E’ urgente garantire il diritto all’acqua pubblica, una nuova Strategia Energetica Nazionale riscritta senza interessi delle lobbies, la messa a soluzione delle scorie nucleari, la riduzione delle spese militari, il disarmo nucleare.

I nostri territori, già inquinati da discariche fuori controllo, inceneritori e progetti inutili, sono oltremodo distrutti da monoculture e pesticidi che determinano desertificazione e minano la possibilità di una sempre maggiore autodeterminazione alimentare.

E’ necessario che le risorse pubbliche vengano destinate ad una buona sanità, alla creazione di servizi adeguati, al sostegno di una scuola pubblica e di università libere e sganciate dai modelli aziendalisti, ad un sistema pensionistico decoroso, ad una corretta politica sull’abitare e di inclusione della popolazione migrante con pari diritti e dignità.

Appuntamenti verso il 23 marzo (agenda ancora in aggiornamento)

27 gennaio: Vicenza. Assemblea regionale dei comitati veneti
2 febbraio: Roma. Rete Stop TTIP Assemblea nazionale
2 febbraio: Napoli. Assemblea Regionale Stop Biocidio
3 febbraio: Termoli. Assemblea di movimenti e comitati in lotta contro la deriva petrolifera
23 febbraio: Venezia. Iniziativa e mobilitazione dei comitati e associazioni del Veneto
23 febbraio: Tito. Assemblea coi sindaci No Triv della Basilicata e della Campagna.
3 Marzo: Napoli. Prossima assemblea nazionale verso il 23 marzo.
8 marzo: Roma. Non una di Meno. Sciopero Globale Transfemminista.
8-9-10 marzo: Roma. A Sud. Tavoli su giustizia climatica, energia, ecofemminismo.
15 marzo: Global Climate Strike
22 marzo: Roma. Giornata su alimentazione agroecologia a cura di Genuino Clandestino
15-31 marzo: Fabriano. Festival Terre Altre.

Siamo ancora in tempo per bloccare le grandi opere inutili e inutili!
Siamo ancora in tempo per contrastare il cambiamento climatico!
Siamo ancora in tempo per decidere NOI il nostro futuro!

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