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Notizia bomba dell’11 aprile 2019. Da «La Stampa»: È per «l’inquinamento di Milano», causa di una broncopatia acuta, che il tenore Marcelo Alvarez ha dovuto rinunciare ad alcune delle recite di Manon Lescaut in scena alla Scala. (segue)

Inquinamento atmosferico

Notizia bomba dell’11 aprile 2019. Da La Stampa: È per «l’inquinamento di Milano», causa di una broncopatia acuta, che il tenore Marcelo Alvarez ha dovuto rinunciare ad alcune delle recite di Manon Lescaut in scena alla Scala. Il cantante argentino ha motivato il forfait sui suoi profili social. Ha saltato tre rappresentazioni di Manon Le­scaut. «Mi sto riprendendo – ha aggiunto. Spero di guarire completamente nei tempi previsti per questo tipo di ma­lattia e ritornare a cantare prima possibile». Non era mai accaduto!

I dati numerici elementari e conosciuti dai cittadini mostrano che Milano e Torino, con 40 μg/mc di Pm10, sono a capo del gruppo di città che ha superato ampiamente per anni il limite della concentrazione media annua di polveri fissato dall’Oms in 20 μg/mc/giorno. Inoltre l’anno 2018 reca l’insegna milanese di «codice rosso»: i 50 μg/mc/giorno sono stati superati in 75 giorni (35 il limite di legge). Considerando anche il limite stabilito per l’ozono, le giornate fuorilegge sarebbero 135; in questo caso il primato spetterebbe a Brescia (150 giorni), sicché l’istinto auto-consolatorio milanese può compiacersi per la comune aria.

Il cielo azzurro intenso per diverse settimane di quest’inverno ci ingannava. Lo smog è come il diavolo, si annida nei dettagli. Per esempio: i pneumatici delle ruote di tutti i veicoli rilasciano al manto stradale milioni d’invisibili particole di gomma o di altro materiale sintetico, che esse stesse risollevano così le respiriamo facilmente.

Abbiamo sopportato per decenni l’inesorabile contributo dei motori diesel all’emissione di particelle immediatamente captate dai nostri bronchi. Erano false le notizie sulla loro minor nocività diffuse dalle aziende automobilistiche e da ingegneri embedded. La stessa insistenza a ripetere che altre fonti, innanzitutto le caldaie alimentate a gasolio, fossero altrettanto o maggiormente responsabili ha in seguito comprovato la capziosa spinta diversiva (peraltro a Milano molti impianti sono stati convertiti al metano).

L’assunzione di «aria diesel» deriva per una parte dal privilegio concesso ai mezzi di trasporto, specialmente ai famosi «camioncini» (in verità molti sono «camion» di media stazza) per il carico e lo scarico delle merci fin nel centro del centro storico: secondo orari che parrebbero scelti da sconosciuti inesperti di vita urbana. Infatti, il permesso dalle 10 alle 14, dalle 16 alle 18 (per i generi alimentari) e dopo le 19 parrebbe riguardoso delle ore di punta riservate al traffico automobilistico, quando i cittadini e gli stessi pendolari sanno che non è più questa la condizione metropolitana. Passate in qualsiasi zona pedonale dalle ore 10 in poi, vedrete mezzi di trasporto e carrelli in continuo andirivieni. Uno spettacolo assurdo giacché ammesso in ore buone per lo spostamento e la sosta pedonali, per lavoro, per svago, per riposo. (Tralasciamo i torpedoni turistici: quando mai se ne sono visti in altre grandi città scaricare, come a Milano, i trasportati insieme a nuvole di gasolio per portarli troppo vicini agli alberghi del centro?).

Le nascite a Milano sono poche, tuttavia è facile credere il contrario osservando la numerosità di pas­seggini e relativi bambini condotti spericolatamente da giovani madri e padri o da nonni lungo i marciapiedi e dove sia possibile non essere immediatamente abbattuti. Lo scarico delle automobili transitanti lungo il bordo del marciapiedi o, peggio, ferme a motore acceso lì o sopra, è all’altezza delle boccucce e dei nasini: sicché, stante un’attesa di vita seconda solo a quella dei giapponesi, i benpensanti non dubitano dell’effetto di mitridatismo, ossia lo stato di immunità grazie all’assunzione costante della materia velenosa in dosi non mortali. Già. Non negano, essi, l’esito effettivo: vita lunga, ma richiedente costante attenzione sanitaria per la minor efficienza dell’apparato respiratorio.

Nondimeno, una ricerca nell’ambito dell’associazione italiana di epidemiologia ci avverte: per incrementi di 10 μg/mc di PM10 si osserva un effetto immediato sulla mortalità naturale (+ 0,51%). Intanto, a sparare raffiche di ve­leno sui piccoli si aggiungono le motoci­clette, con il loro tubo quasi a contatto fisico del piccolo quando esse vagano ondulando sui marciapiedi a motore acceso, dirette velocemente al punto di parcheggio più comodo, im­proprio e illegale; talvolta in posti tracciati in area pedonale.

Le misure antismog attivate a Milano dal 1° gennaio rientrano nel protocollo comune di Lombardia, Pie­monte, Ve­neto ed Emilia-Romagna. Temporanee e misere: divieti orari ai diesel euro 4 e riscaldamento urbano fino a una temperatura massima di 19 gradi, quest’ultimo obiettivo talmente irrealistico che chi lo ha proposto sapeva di con­traffarlo.

La lotta contro la mal-aria, per essere vincente, deve trasformarsi in attacco possente contro: l’inquinamento automotoristico

Inquinamento automotoristico

Il pedaggio che le automobili … (et al.) pagano per l’accesso al centro risente del pensiero originario volto soprat­tutto a combattere lo smog. Pollution charge, la parola d’ordine. Ci son voluti anni di sperimenta­zione per com­prendere (e non tutte le autorità ci sono riuscite) che il nemico della vita urbana è il traffico in se stesso dei mezzi privati, fossero anche tutti dotati di motori senza emissioni dannose e di copertoni in materia incorruttibile. È di Con­gestion charge che è necessario discutere, proponendola molto più costosa mentre maturerà la co­scienza nelle persone che le percorrenze delle automobili devono presentare ostacoli sempre più difficili da aggirare.

Non abbiamo mai sentito sindaci e assessori sostenere progetti di calming traffic e attuarli, tranne l’installazione di qualche cartello o avviso dipinto sul manto stradale indicante «zona 30». Il calming traffic favorisce la tranquillità di vita nel quartiere o nella parte di città mediante un’organizzazione degli spazi residenziali profondamente umaniz­zata, di modo che il passaggio benché lento di un’auto apparirà come quello di un animale feroce in un recinto di eleganti gazzelle. Insomma, ostacolare la motorizzazione privata è un principio da cui può nascere la nuova condi­zione di vita urbana incentrata sul benestare e il benessere dei cittadini, sulla bellezza della nuova vi­sione di strade e piazze coronate dalle case non rovinata dal serpentone di automobili in movimento o fermo al loro piede.

(Il crollo della produzione di automobili, per ora non rispecchiato dall’uso, dovrebbe essere giudicato, in­vece che calamità entro il processo economico, un segnale verde di una sperata liberazione da una sog­gezione affliggente e in definitiva, osiamo crederci, rivoluzione di una forma attuale di vita prossima all’imbarbarimento: vuol dire ricon­quista dell’umano personale e collettivo, corporeo e immate­riale).

La limitazione imposta ai diesel conferma la propensione a trattare l’aria, non l’immane violenza verso la specie umana che la massa di entità mo­torizzate esercita senza tregua. Insufficienti i provvedimenti in favore della bici­cletta (il tema delle piste ciclabili davvero appropriate è sempre all’ordine del giorno), secondario l’effetto bike sha­ring, so­prattutto ingannevoli le dichiarazioni sul rafforzamento del trasporto pubblico. Dovrebbe, quest’ultimo, già in facile prima posizione di una classifica riguardante le sole città italiane, raggiungere tanta nuova potenza da ribal­tare il rapporto col trasporto privato (il cui uso per i pendolari è quasi un obbligo).

È ai tram che occorre assegnare il compito di surclassare i motori personali. Invece l’ultima «razionalizzazione» delle linee (falsità di turno) è consistita in tagli radicali: sbagliata, peccaminosa senza remissione nella misura in cui ha tradito soluzioni tecniche e sociali di cui la tradizione aveva mostrato la giustezza; come le linee tranviarie da pe­riferia a periferia transitanti per il centro. Oggi, altro che rafforzamento: ritenute troppo lunghe sono state brutal­mente amputate di uno dei capilinea, trasposti e concentrati in strade attorno al Duomo, in spazi ardui, inadatti. Ri­configurato lo schema da periferia a periferia, la trasformazione dovrebbe comportare anche il ripristino di binari ab­bandonati e la costruzione di nuove linee.

A proposito di lunghezza. È quella smisurata di certi tram ritenuti esempio di modernizzazione che dovrebbe essere rivista. I milanesi si aspettavano che ne sarebbe derivato l’aumento d’attesa alle fermate, del resto programmato dall’autorità «tecnica» (ma politica!) che li aveva voluti. E si sono adattati a prendere due tram invece di uno rad­doppiando il tempo, se non forzati a tornare all’auto non amata.

Dovremmo osservare la variazione del rapporto numerico fra popolazione residente e automobili; urge però dare la precedenza a quelle dei pendolari. Infatti, credevamo che in quarant’anni gli ingressi giornalieri in Mi­lano fossero diminuiti da circa 800.000 a 500-600.000. Invece, sui quotidiani del 14 aprile e sul sito di Sinistra per Milano ab­biamo letto: «La sorpresa di Area B. Ogni giorno un milione di ingressi in città. Corrette dalle telecamere le vecchie stime di 600 mila. L’assedio delle auto che da fuori irrompono ogni giorno a Milano sarebbe ben più asfissiante di quanto si è sempre pensato. Il nuovo calcolo è un risultato “collaterale” dell’avvio di Area B: in base ai registri delle prime telecamere accese da oltre un mese e mezzo ai limiti estremi della città, i tecnici di Palazzo Marino stanno “correggendo” le stime su cui fino ad oggi si era sempre studiato il traffico».

Abbiamo capito: hanno commesso un errore madornale, da licenziamento immediato, invece restano lì come imbullonati alle loro poltroncine mentre tutto è cambiato. Quasi una particolare applicazione del pronunciamento di Tancredi, il nipote del principe di Salina, nel romanzo di I Viceré di Federico De Roberto. Il Sindaco dichiara subito: «più trasporto pubblico e metrò fino a Monza per ridurle». Siamo alla banalità, nonché del male, dell’improvvisazione in-attitudinale di tutti i comandanti, politici e funzionari.

Dove va questo esercito impressionante per numerosità di armati dopo aver varcato i confini del comune? Si muove dividendosi per tutta la città e quando essi cercano sosta, lo fanno in qualsiasi maniera (rispettosa o no delle regole) nelle strade e nelle piazze, anche eludendo i vecchi ricoveri sotterranei (noto esempio, la maggioranza, di una scelta urbanistica fallimentare: richiamo delle auto verso il centro e rovina strutturale dell’estetica urbana). Ad ogni modo i numeri provano che la crisi economica non ha inciso sull’impiego di automobili da parte dei pendolari mentre ha comportato una diminuzione poco indicativa della quantità appartenente ai cittadini residenti.

La popolazione milanese, dopo la lunga ca­duta demografica dal 1972 al nuovo millennio, è ricresciuta soprattutto grazie all’arrivo di stranieri (meno «automobilisti», in proporzione). Questa la condizione attuale: residenti quasi 1.400.000, venti per cento di stranieri, automobili possedute circa una ogni due persone. Sappiamo che una parte non esce dal ga­rage essendo i proprietari abituati a servirsi dei mezzi pubblici, ma il rapporto 1/2 rappresenta un primato negativo nella classifica delle principali città europee. L’obiettivo-sogno comune in Europa sarebbe una città purificata della moto­rizzazione, dotata di una fitta rete tranviaria garante della mobilità come diritto assoluto delle persone: quando l’organizzazione degli spazi sia essa stessa dipendente dal sogno.

Per depurare sia l’aria sia il traffico non possiamo ignorare l’invasione delle motociclette (vedi lo svolgimento del tema nell’articolo Anche l’occhio vuole la sua parte: di orrore. Motociclisti i campioni dell’indisciplina?) Le stimiamo cresciute con il nuovo secolo in progressione più che aritmetica dacché ostentano una quasi naturale capacità riproduttiva, soprattutto a causa dell’inopinato favore che ogni giunta comunale ha loro dispensato e dispensa tuttora. Moderni Minotauri che di moderno non hanno niente, anzi regrediscono verso la condizione di Moloch selvaggio, insofferente di qualsiasi condizionamento.

Insomma, i motociclisti con il loro destriero spadroneggiano nella città senza alcun ritegno: superano del doppio e oltre i cinquanta Km/ora (e ci spaccano i timpani …), occupano la strada a sciami come cavallette, sgusciano veloci sui marciapiedi fra persone e cose senza spegnere il motore, disprezzano i divieti e corrono contromano, percorrono le ciclopiste, superano i tram da entrambi i lati … La vocazione dei motociclisti è la trasgressione, premiata con l’esenzione dalle contravvenzioni e da un pedaggio fosse anche minimo (p. es. 1 €) per accedere all’Area C. Assessori hanno affermato che l’aumento delle motociclette provoca la diminuzione delle automobili. Non è così. La quantità di motociclette è aggiuntiva, non sostitutiva: lo dimostra la disamina sui pendolari e i residenti.

Articolo uscito in contemporanea su Arcipelago di Milano.

Non ci resta che questo se vogliamo vivere, giacché non ci fidiamo dei falsi accordi internazionali (scordati) fra sconosciuti personaggi nelle discussioni sul clima, in verità ridotte a: se accettare o no (segue).

Non ci resta che questo se vogliamo vivere, giacché non ci fidiamo dei falsi accordi internazionali (scordati) fra sconosciuti personaggi nelle discussioni sul clima, in verità ridotte a: se accettare o no un certo aumento, o un altro, della temperatura (media del globo?).
Piantare alberi dappertutto, negli spazi aperti aridi definitivamente persi per sempre all’agricoltura (anche un misero filo d’erba contribuisce alla sintesi clorofilliana) e nelle città cementate senza tregua dal dopoguerra a oggi, in ogni lacerto di terreno (terra) ancora libero o cercando di spaccarne la coltre mortale che le ricopre.

Una studentessa universitaria di archeologia nel n. 1, gennaio 2019, del bimestrale «il novarese» ci avvisa che le foglie delle piante assorbono l’anidride carbonica e altri inquinanti atmosferici e rilasciano in cambio ossigeno pari a un fabbisogno (se l’albero è cresciuto bene) di dieci persone. Cito la giovane Marina De Pieri non tanto per questa funzione arborea, risaputa, ma perché conosce una legge nazionale di enorme importanza riguardo alla piantumazione: la n. 113 del 29 gennaio 1992 che obbliga i Comuni a porre a dimora un albero per ogni nato, con registrazione sul certificato di nascita. Qualcuno ha mai verificato il rispetto di quest’obbligo almeno in una parte dei 7.982 Comuni? Non lo sappiamo. A Novara l’attesa è stata tradita di là da ogni scusante: dal varo della legge a oggi, cita De Pieri, i nuovi alberi avrebbero dovuto essere circa 40.000, mentre il totale delle presenze comprese le vecchie piante arriverebbe solo a 15.600: numero così basso che suscita dubbi sulla capacità/volontà di contarle degli «uffici competenti» (unica fonte della ricerca).

Milano: dapprima possiamo valerci di un vecchio, magnifico libro illustrato a colori (librone 30x21 cm) di Fabrizia Gianni, Via per via gli alberi di Milano. Quali e dove sono i 160.000 alberi della città (Edizioni Il Mondo Positivo, Milano 1987). Poi, proviamo a stimare la consistenza attuale del patrimonio arboreo nel territorio comunale mediante l’applicazione della legge. Del resto l’amministrazione milanese ha potuto giovarsi della scarsa natalità, e della generale regressione demografica dopo il vertice di popolazione del 1972. Ad ogni modo, calcolando il totale dei nati dal 1987 al 2018 secondo una media annuale di 12.000 (tasso di natalità circa 0,8 %, dimostrativo dell’incapacità riproduttiva di un gruppo umano) si sarebbero dovuti piantumarne 384.000 alberi. Aggiunti ai 160.000 (considerati tutti sopravvissuti) costituirebbero un discreto patrimonio arboreo di 544.000 unità.

Benché ora si possano ricavare diverse informazioni dal Geoportale comunale, riguardo alla quantità totale di piante possiamo solo affidarci a una «mappa [in cui] sono indicizzati 235.000 alberi gestiti dal Comune»: gli unici che sono dotazione pubblica, (altre eventuali «gestioni», evidentemente private se esistessero, non possono rientrare nella nostra analisi). Saremmo dunque alla presenza di una risorsa di poco superiore al 40 % di quella conforme agli obblighi di legge, quando dovremmo pretendere, in una condizione pessima dell’aria cui dobbiamo giornalmente sottostare, l’adeguamento a un vecchio modello dell’urbanistica ecologica: obiettivo per il verde urbano un albero per ogni abitante. Traguardo ora difficilmente raggiungibile per mancanza di superfici di impianto, anche supponendo di ricuperarne da infrastrutture ripristinabili a terra adatta (non agraria). Eppure se progettassimo pezzi di bosco fittissimo, da naturalismo massimamente disordinato (magari venti essenze per dieci mq), potremmo credere nell’avvicinamento al risultato.

Elzéard Bouffier è il pastore protagonista di un incantevole racconto scritto da Jean Giono nel 1958 a Manosque in Provenza, L’Homme qui plantait des arbres. Conosciamo due edizioni italiane, la prima di Libri Sheiwiller, Milano 1995, con titolo di fantasia, L’uomo che piantò la speranza e crebbe la felicità, tuttavia poeticamente non estraneo al contenuto, la seconda di Salani Editore, Firenze 1996-98, titolo L’uomo che piantava gli alberi, testo seguito da un’interpretazione di Tullio Pericoli attraverso colorati disegni a piena pagina, se non doppia o tripla. L’io narrante incontra Bouffier prima della Grande Guerra, lungo le chine aride e desolate dell’Alta Provenza, versanti delle Alpi che scendono verso regioni francesi deserte, terra sterile e incolore dove cresceva solo lavanda selvatica. Quale compito si era dato il solitario occupante di terre abbandonate? Dove un paesetto denominato Vergons aveva nel 1913 solo tre abitanti ridotti a creature selvagge in mezzo alle rovine? Voleva ricostruire i boschi come in antico. Preparava ghiande di quercia, separava le buone fino ad averne cento in un sacchetto da tenere in un secchio d’acqua. S’arrampicava sulla cresta, ficcava un bastone di ferro nel terreno, metteva una ghianda nel buco e la ricopriva. Esaurita la scorta ripartiva da capo, magari dopo aver consumato il suo spartano pranzo nella sua casetta. Nei primi tre anni aveva piantato centomila alberi in quel deserto, ventimila erano nati e crescevano.

Il racconto attraversa le vicende della storia europea. Il piano del nostro uomo, se così si può dire, continuerà a realizzarsi, le guerre sfioreranno appena quelle terre quasi sconosciute. Alle querce si aggiungeranno altre essenze, specialmente faggi. A dieci anni dall’inseminazione con le ghiande il narratore vede già uno spettacolo impressionante: «passammo l’intera giornata a camminare in silenzio nella sua foresta. In tre sezioni misurava undici chilometri in lunghezza e tre in larghezza». Il pastore lavorava incurante giacché una sorta di reazione a catena creava la nuova realtà, il vento aiutava a distribuire i semi, ritornava l’acqua nei ruscelli asciutti da secoli. Fortunatamente, quando a metà degli anni Trenta delegazioni ufficiali si accorsero della trasformazione di una intera ragione per opera di un solo uomo, la forza delle cose s’impose e i burocrati non fecero danni. Durante la guerra del 1939 l’enorme lavoro correrà un serio pericolo, infatti si comincerà a tagliare le querce piantate nel 1910 per far legna. A causa della lontananza della ferrovia l’impresa sarà abbandonata.

Il narratore incontrerà per l’ultima volta Elzéard a giugno del 1945. Tutto è cambiato. Un nuovo paesaggio esteso ai quattro orizzonti rendeva incerto il ricordo di una regione tutta rovine e desolazione. Ricostruito il villaggio di Vergons, eretti nuovi casolari. Cambiata anche l’aria. Soffiava un venticello profumato. «Un suono come d’acqua veniva dalla montagna; era il vento della foresta». Il vecchio pastore morirà tranquillo in un ospizio nel 1947. Passati solo otto anni dal 1939 e quasi quaranta dal primo impianto delle ghiande, tutta quella regione era diventata splendente di salubrità e di prosperità. «Più di diecimila persone devono la loro felicità a Elzéard Bouffier».

Disegno di Tullio Pericoli

Giovannino Semedimela è una figura dell’idealizzazione americana, allegoria di un desiderio o volontà di far vivere la terra per far vivere l’umanità. A confronto del pastore provenzale che nel racconto di Jean Giono percepiamo come persona vivente, quasi un nostro avo appartenente alla storia e geografia (se così si può dire) d’Europa, Semidimela ci pare fiabesco, se non al servizio di un apologo per la classe media. Philip Roth, il prolifico autore di romanzi incentrati sulle diverse facce e le contraddizioni della società americana, più efficaci di tanti testi sociologici, ce ne fornisce un abbozzo in Pastorale americana (orig. 1997, Einaudi super ET 1998, 2013): «Grande camminatore, non doveva essere altro. Tutto piacere fisico. Aveva una bella falcata, un sacco di semi e un affetto grande e spontaneo per il paesaggio, ovunque andasse spargeva i suoi semi. Andava dappertutto a piedi… Giovannino Semidimela, là a piantare meli…».

È però dal primo che trarremo la forza fisica e morale per assolvere il dovere dichiarato.

Che deve riguardare, a questo punto, l’aspetto biofisico, ossia la funzione di protezione del terreno e di condizionamento dell’ambiente, preminenti per salvare o ricostituire un buon assetto delle pendici montane e collinari. Infatti, l’Italia è costituita per il 40 per cento da montagne, il 40 per cento da colline, solo il 20 per cento da pianure. Non è poi lontanissimo il passato in cui tutte le pendici e parte delle pianure erano coperte densamente da boschi e foreste naturali. Sono miriadi le cause che ne determinarono la distruzione, man mano tanto più estesa quanto più si affermava il cosiddetto sviluppo economico e una presunta modernizzazione. Se ne cerchiamo un simbolo, lo troviamo nella spaventosa abolizione della coltre di boschi e foreste sulle Alpi e sugli Appennini per sostituirla con enormi superfici innevate lisce come il panno di un bigliardo, lunghe e larghe prive del minimo ostacolo alla pratica dello sci. Convertite da piste ad autostrade, è stato detto da una vecchia guida alpina della Valfurva (patente quarantennale).

Termino con un raccontino. Coppa del Mondo di sci alpino 2000, a Bormio (conclusa il 19 marzo). Il programma per l’assetto delle piste richiedeva l’abbattimento di una spaventosa quantità di pini, non meno di 100.000. Non bastarono proteste e opposizioni manifestate immediatamente non solo dai movimenti ecologisti. Si mobilitò anche una parte della popolazione valtellinese. Al contrario, tutti i giornali, locali e nazionali, sostennero la necessità della distruzione, di sicuro ricompensabile mediante certi vantaggi economici. Gravissimo fu l’allineamento dell’Unità, nonostante la perplessità o la negazione di qualche redattore. Laura Conti, medico, ecologista, comunista, deputata della X legislatura intervenne con un inconfutabile articolo sul quotidiano, ma la risposta fu soltanto una serie di lodi paternalistiche. La critica da parte mia la concentrai in una lettera al direttore aspettandomene la pubblicazione. Che non avvenne. Il direttore, Sergio Staino (questa stessa nomina mostrava a che punto fosse giunta la crisi del giornale) mi scrisse direttamente menando il can per l’aia. Intanto si stagliava all’orizzonte la nemesi, che piombò sul giornale il 28 luglio e lo chiuse.

In memoriam Jean Giono
Milano, 19 marzo 2019

Di quanto? 1,5 – 2 %. Siccome la domanda non poteva aumentare giacché la crisi perdurava (ve­dremo in seguito che molte fabbriche staranno chiudendo, mentre la produzione di automobili crollava del 20 %, dato per noi umani confortante), le oscure centrali economiche imponevano l’aumento dei prezzi di beni primari, specie gli alimentari; non solo la casalinga di Voghera lo notava immediatamente facendo la sua solita spesa. Le cose ne­ces­sarie e irri­nunciabili per la permanenza in vita si acquistano in ogni modo salvo sot­to­porle a una maggior attenzione riguardo al rapporto qualità prezzo.

Comprare comprare com­prare affinché la produzione corra. Schema vec­chio, formula elementare e appros­simativa che, mentre il whirl capitalism s’inceppa e i manovali della globalizzazione non riescono a ripararlo, è stato condiviso da spezzoni di una pseudo-sinistra acco­data ai mar­pioni della speculazione finan­ziaria e indu­striale. Mancanza di cultura, di idee, di fantasia, di risorse morali. Alli­nearsi ai cultori dello scambio ineguale? Ai maestri di altrui rovina? Non doveva, questa recessione, essere colta come occa­sione per ricominciare da capo, per pensare a un modello di società diverso da quello capi­talistico neoliberistico? Non solo socialmente ma econo­micamente insostenibile, se persino co­lossali aziende per­dono buona parte del valore azionario e i banchieri debbono rim­pol­parlo coi soldi dei risparmiatori. Esi­stesse un fantasma comunista dovrebbe denunciare l’il-lo­gica del consumare di più per produrre di più. E dovrebbe bollare con forza la menzogna diventata verità per cervelli alienati al consumismo: che l’aumento progressivo del Pil genera più ricchezza per tutti; quando statistiche sicure dimo­strano il contrario: più reddito e ric­chezza per pochi maggior gran­dezza del divario con chi non ne possiede, né dell’uno né dell’altra.

Enrico Berlinguer, dimenticato se non vilipeso dai dirigenti succedu­tigli (p.es. Piero Fassino), fu chiaroveggente a perorare au­sterità nei consumi, significando vigilanza verso lo spreco. Un bilancio diverso dagli obblighi fissati dalla commis­sione europea. Un’intesa per fondare una nuova sinistra popolare – non un partito tradizionale – do­vrebbe ri­partire dal suo pensiero e proporlo accanto a ela­borazioni contestatrici del concetto di cre­scita confusa con lo sviluppo. Carla Ra­vaioli, l’intransigente studiosa da me ricordata con un articolo nel numero di giu­gno 2017 del bimestrale «il nova­rese» («Crescita» ingannevole, guerra dominante), irri­ducibile accusatrice del ca­pitalismo, spiegava in ogni contro­versia: cre­scita con­cerne le merci e il reddito, sviluppo deve rife­rirsi a tutti i fattori di umanizzazione delle risorse.

Come non vedere che esistono pen­sieri e proposte su economia e società diversi dal dogma ricusabile per iniquità? La decrescita o a-cre­scita, la prospettiva anticonsumi­stica, socialitaria e umanistica, che non appartiene solo al modello di Serge Latouche, potrebbe assicurare essa la soste­nibilità. La sconcertante acquiescenza del centrosi­nistra di un tempo verso l’ossimoro sviluppo soste­nibile era segno di ar­retratezza culturale, infine politica: si vide con quali con­seguenze. Perché non verificare le critiche di un Jared Diamond (Col­lasso. Come le società scelgono di vivere o di morire, 2005, Einaudi) e di tanti altri studiosi? Sembrano manifesto dei nostri gironi. Perché non libe­rarsi della suddi­tanza al liberismo propu­gnando idee e progetti per una di­versa econo­mia, punto di partenza per deviare la rotazione del mondo?
In questo mo­mento (1 febbraio 2019), quasi fossero chiamati a gran voce da noi l’Istat annuncia i numeri della recessione eco­nomica giacché il Pil sarebbe diminuito di 0,2 % dopo un precedente calo di 0,1. Come un segnale di pentimento lanciato dalla dea olimpica Ate, personificazione dell’errore, dice agli umani incorrotti: cogliete l’occasione! Se parliamo di cambiamento, locuzione sproloquiata troppo spesso dagli attuali governanti, noi vecchi sappiamo che rispetto a 60-70 anni fa la spe­ranza socialista è diminuita fino a ridursi, con i nuovi potentati al governo, al sogno infantile come dell’idiota dostoevskiano. 70 anni vuol dire 1948, ossia la sconfitta del Fronte popolare. Ma si ricomin­ciò subito con lena. Socialisti e comunisti, con l’apporto di Unità Popolare (che riviveva la Resistenza) vinsero nel 1953 la batta­glia contro la «legge truffa». La legge elettorale nazionale d'oggi è assai peggiore, idem le re­gole (circa venticin­quennali) per le elezioni locali che hanno ridotto i Consigli a ritrovo di sudditi dei dittatori sindaci e presidenti, con le giunte imbottite di «chiamati»; da un lato i consiglieri di maggioranza gratificati, dall'altro i frustrati. Ep­pure allora si risalì la china a partire dai Comuni. La dimensione ricostituita della sinistra costrinse la Democrazia cri­stiana a trattare, di qui le conquiste sociali che adesso le destre vorrebbero ridiscutere o abolire. Non intendo rac­contare come i nonni ai nipo­tini, preferisco saltare tutti i passaggi di una storia politica che a un certo punto ha pro­dotto un Berlu­sconi, poi il saltapicchio di Rignano sull’Arno, e oggi gridare «al fuoco al fuoco», all’incendio che po­trebbe ridurre la democrazia in ce­nere.

In ogni frangente del secolo breve e all’avvio del nuovo millennio ho cercato di conservar memoria delle parole: sin­goli vocaboli che all’improvviso provenivano da qualcuno o da qualche partito o sindacato o movimento sociale, ridondavano, scadevano nell’abuso, sparivano nel gorgo della miscela linguistica. Torniamo a: cambiamento. Nella mente degli attuali governanti, stando ai fatti e ai propositi dichiarati significa da un lato razzismo al potere, dall’altro riciclaggio di bandiere come stracci social-fascistoidi. Attenzione, anche il bravo Maurizio Landini, nuovo segretario della Cgil, è inciampato nella parola, l’ha esaltata anche lui come obiettivo del movimento sindacale. Vedremo cosa rappresenterà il «cambiato». Spero in una ripresa della battaglia dei perdenti di quest’epoca sul fronte di lotta della classe mondiale ricca e padrona contro la classe operaia e la parte a minor reddito della classe me­dia.
È Henri Le­febvre – finalmente ristampato nel 2014 Il diritto alla città, ed. orig. 1968, nota finale «Parigi 1967 (Centenario del “Capitale”)», Marsilio 1970 – lo stu­dioso francese pre­parato in diverse discipline, uomo totale simile alla figura ipotiz­zata nel suo modello di cam­biamento, a offrirci il senso più veritiero del termine. Direbbe Marx: i filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di tra­sformarlo. Così, per Lefebvre, occu­parsi del quotidiano signi­fica cambiarlo, liberan­dolo dagli elementi che rendono la vita mediocre, soffocante e banale. È dunque necessario aggiungere ai concetti essenziali marxiani: il quotidiano, il tempo e lo spazio sociale, la tendenza verso un modo di produzione orientato dallo stato.


Il diritto alla città secondo Lefebvre non esprime semplicemente la rivendicazione di bisogni essenziali. «Esso si configura piuttosto come una qualità specifica dell'urbano, che comprende l'accesso alle risorse della città e la possibilità di sperimentare una vita alternativa alle logiche e ai processi di industrializzazione e di accumulazione del capitale», così Anna Casaglia nell’introduzione della ristampa odierna. Ugualmente, Cesare Bairati nell’introduzione del I° maggio 1970 scriveva: «Questo diritto […] non può che formularsi come diritto alla vita urbana trasformata dal superamento delle leggi del mercato, del valore di scambio, del denaro, del profitto. I fatti economici – anche se permarranno – non saranno più degli obiettivi ma dei mezzi. I nuovi obiettivi saranno valori intellettuali culturali, affettivi, spirituali […]. L’homo economicus si rivelerà solo una parte dell’homo sapiens». Il luogo di questa possibilità sarà «la società urbana, la città intesa come opera continua dei cittadini, come valore d’uso, tempo e luogo della gioia».

Il cambiamento investe in pieno l’urbanistica: riformarla comporta «una teoria integrale della città e della società urbana, alla definizione della quale» dovranno concorrere «filosofi, urbanisti, scienziati, artisti e proletari». In definitiva, Lefebvre si rivolgeva a tutti noi e noi lo abbiamo ascoltato, ma quale breve tratto della strada indicata abbiamo percorso. Oggi dobbiamo ricominciare approfittando delle crepe che sembrano moltiplicarsi nell’edificio del tardo capitalismo (o sono abbagli?). Il suo messaggio resta il medesimo (dopo mezzo secolo): «Il nostro principale compito politico consiste nell'immaginare e ricostituire un modello di città completamente diverso dall'orribile mostro che il capitale globale e urbano produce incessantemente».

Il soggetto sociale trascurato anzi sprezzato in Italia da tutti i governi e dalle opposizioni (anche nella campagna per le elezioni del 4 marzo 2018) su cui dobbiamo pattuire un im­pegno quotidiano dell’immaginabile «nostra» sinistra è la scuola, dagli asili nido all'università. Le varie riforme proposte nei decenni scorsi erano false, privatiste, confessio­nali. Ne cito una (2017) disegnata da Veltroni per cadere in un fallo imper­do­nabile. Credendo di ren­dersi gradito a certi poteri locali opportunistici e trafficoni promise 100 (100!) nuove università sparse sul territo­rio nazio­nale. Come se non conoscesse l'ec­cesso di prolife­razione clientelare delle sedi. Quando sono piccole quindi prive di strumenti moderni non possono istituire ambiti seri di ricerca, né quadri didattici coerenti a una cultura com­plessa. Intanto la condi­zione universitaria dell'esistente è rimasta in fondo alla classifica europea, salvo poche eccellenze bilanciate da diffuse inferiorità. La di­dattica sopperi­sce alla mancanza di pro­fessori e ricercatori di ruolo con insegnanti improv­vi­sati, assegnatari annuali di «contratti di diritto pri­vato» (economicamente mi­seri); la ricerca - lo sanno tutti - è in crisi da de­cenni per mancanza di finanziamenti ade­guati. Quando iniziò un’emigrazione di ragazzi e ragazze cólti e atti a studi di alto livello, politici e rettori parvero sorprendersi. Non capi­vano, non capiscono: poiché non compiono mai indagini serie sulle effettive condizioni della generalità e delle sedi. Eppure ogni membro della classe dirigente potrebbe influire sulla costitu­zione nel bilancio nazionale di risorse finanziarie per la ricerca e l’educazione universi­taria che non li svergo­gnino per la loro esiguità.

Intanto l’insegnamento primario, secondario e superiore non si libera dei lacci imposti al rapporto scuola pub­blica / scuola privata (per lo più confessionale); quest'ultima continua a incassare ri­sorse tolte alla prima. La laicità è in crisi in ogni settore, nella scuola, come nell'altro grande servizio sociale pri­mario, la sanità (SSN), è sulla difen­siva; non decolla verso nuove mete nei primi gradi, anzi recede a causa della disperazione degli inse­gnanti. Il Partito democra­tico era pieno di papisti e di presunti laici cosiddetti fedeli, non potette mai schiodare dall'as­sito su cui è ben fissato il privilegio degli istituti pri­vati e delle famiglie borghesi che ne godono. Attorno alla scuola, che ra­dunerebbe a sé tutte le altre questioni, la nuova sinistra dovrebbe mobilitarsi al massimo secondo una ritrovabile autonomia culturale, rifondata impiegando le infinite risorse dell’opera di Marx riguardo a altrettanti aspetti del cambiamento sociale.
Obiettivi iniziali della rivoluzione scolastica: riduzione a zero degli analfabeti di ritorno; dote minima di istru­zione per la to­talità dei cittadini di­ploma di scuola media di secondo livello, ossia studio nel quinquennio di uno dei licei tematici; ma, in questi, riconsiderazione dei piani di studio iniziando dagli squilibri disciplinari e sot­trazioni culturali provo­cati brutalmente dalla cancellazione di culture unificanti per dare troppo spazio alle specializ­zazioni (vedi la cancellazione o il ridimensionamento della geografia e l’abolizione della storia agli esami di maturità). Dal raggiun­gimento di questi obiettivi deriverà un decisivo aumento degli studenti universitari, infine una proporzione di laureati almeno uguale a quella degli altri paesi europei e, in prospettiva, maggiore. Un primo passo, forse meramente statistico incurante delle arretratezze reali, ma non solo questo. L’aumento delle frequentazioni disciplinari e culturali (scientifiche e umanistiche) richiederà necessariamente una riorganizzazione non burocratica degli studi.


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Cominciando dalla domanda: quale sarebbe la velocità minima di un treno alla quale applicare l’aggettivo «alta»? Non c’è un’unica risposta, in Europa si sono succeduti lungo tre decenni diversi modelli reali, specialmente nelle regioni francesi, tendenti a raggiugere man mano nuovi traguardi, accantonando però obiettivi assurdi. Il problema non consiste solo nell’ottenimento della tal velocità, ma di un sistema che comporta la costruzione o ricostruzione dell’armamento coerente (cioè tutta l’impiantistica ferroviaria ed energetica) e, altrettanto, dei treni; questi che a causa della noiosa ridondanza dell’acronimo TAV sembrerebbero l’unico oggetto del programma. Esempio nostrano: nella Milano–Roma è appunto l’armamento a non ammettere velocità massime «alla francese». In Francia si può viaggiare a 300 km/h e oltre, non è serio porsi tale traguardo nel nostro paese per una qualsiasi durata di viaggio.

Quando furono compiute nel 2006 le prove sulla (famigerata… vedi avanti) Milano–Torino si raggiunsero «in un punto» i 352 Km/h. E lì rimasero come un santino. Di quest’opera resa possibile dalla berlusconiana Legge obiettivo dovrebbero, gli interessati al tema delle infrastrutture, ricordare gli elementi fondamentali prima di affrontare discussioni oneste attorno alla Torino–Lione. Fino a quando?

Chi ha occhio per dare un primo giudizio indicativo sulle costruzioni osservandole al vero, prima di conoscere l’intero quadro dei dati normativi, tecnico-costruttivi, tecnico-politici e così via, è invitato (da me, novarese di origine) a percorrere l’autostrada da Milano a Torino, i cui lavori di ricostruzione dovuti alla presenza anzi al pretesto della nuova ferrovia sono durati fino all’altro ieri, circa quindici anni. Potrebbe essere distratto, il nostro alla guida, dall’impressionante spettacolo offerto dai manufatti di calcestruzzo armato. I viadotti della ferrovia – per la fittezza delle pilastrate, tanta da apparire come mostruosa muraglia continua e per l’altezza e lo spessore delle travature – e i rifacimenti esorbitanti dei cavalcavia e dei ponticelli dimostrano come le imprese abbiano sfruttato spudoratamente, al fine di lucro illegittimo o ingiusto, il lassismo della legge obiettivo, ossia una straordinaria mancanza di regole per buone azioni e buone spese. Tutto questo è una parte notevole seppure non preponderante dell’intera spesa sopportata dello stato; aggiungendo l’imponente opera riguardante propriamente la ferrovia, sappiamo, infatti, che il costo totale espone, come una bandiera gialla della peste a bordo, una cifra spropositata, tale da meritare un’inchiesta che invece nessuno, nessuna parte politica, nessuna istituzione pubblica ha preteso.

Guardiamo i numeri e giustifichiamo l’aggettivo «famigerata» . Siamo stati informati oltre dieci anni fa del costo della Torino–Milano confrontato da Il Sole 24 ore (2007) con quello di una linea ferroviaria francese, analoga per varie caratteristiche, la LGV Est européenne: da Torino a Novara costo di 62,4 milioni di euro al Km contro 16,6 dell’esempio francese. Per la tratta da Novara a Milano poi, all’epoca non ancora finita, previsione di 74 milioni al Km! Incidiamo nella pietra i totali: 7,8 miliardi + 2,9: 10,7 miliardi. Prezzi della follia: la distanza da Milano Centrale a Torino porta Susa è di 126 km, il tempo di percorrenza non meno di 50 minuti cui occorre sommare circa 12 minuti per raggiungere lentamente Torino Porta Nuova. Di quale alta velocità coerente con i costi dell’opera stiamo parlando? Ricordo l’accusa di Giorgio Bocca: la pianura padana da Torino a Novara squarciata, devastata, cementata dalla linea ferroviaria dell’alta velocità… Per risparmiare un quarto d’ora di viaggio si è piantata nella più fertile e bella pianura d’Italia una gigantesca linea Maginot.

Ritorno all’osservazione dei manufatti lungo l’autostrada durante il rifacimento che non pareva finire mai e finalmente a opere (quasi) concluse. Altrettanto impressionante dal punto di vista dello spreco «volontario» di cemento e ferro, e di altre materie (non sappiamo però a chi accollare le – sconce – paratie anti-suono) appare la ricostruzione dei caselli e, soprattutto, dei percorsi per accedervi dalle strade comuni (o l’inverso). In questo caso la visione dimostrativa rischia l’allucinazione, giacché non vige la realtà di collegamento tra due punti dettato dalla razionalità, ma la fantasia di scollegamento rinviante a lontani punti aleatori nello spazio, come fossimo dentro il mondo di Flash Gordon e dell’imperatore giallo Ming rappresentato nei fumetti della nostra infanzia: astronavi d’ogni tipo incrociate con tracce spaziali ad anello, a saetta, a spirale, quaggiù impiegate per ottenere una smisurata lunghezza del tragitto completamente avulsa dalla logica geometrica, quindi una spropositata quantità di lavoro e di materiali.

Le ragioni del TAV in Val di Susa sono diventate totalmente politiche. Anche prescindendo dalla conclusione dell’analisi costi/benefici, è sempre più difficile esaltare un’opera la cui effettiva necessità non è mai stata dimostrata, né di qui né di là delle Alpi; non si capisce come sia iniziato lo scavo di un tratto del «tunnel di base» in Francia. Se ammettessimo la realizzazione, lo faremmo senza conoscerne la destinazione effettiva. A cosa servirà? Che cosa trasporterà? Gli accordi internazionali e i contratti prevedono trasporto di merci e passeggeri. Merci? Con quale disinvoltura o insipienza si disquisisce di merci che viaggerebbero, per esempio, a 250 Km/h? Qualcuno ci prende per i fondelli.

Chi non vorrebbe che la movimentazione di una miriade di materiali si spostasse dalla strada alla ferrovia; ma nel caso in esame gli accordanti e gli specialisti ci hanno ingannato, spacciando moneta falsa. Macché trasferimento dall’una all’altra; non può darsi, anche tecnicamente, l’uso della medesima struttura per i pesantissimi treni merci e per i veloci convogli passeggeri. Un documento del coordinatore per il progetto Laurens Jan Brinkhorst, divulgato dalla rivista francese Reporterre, rivela che in futuro per trasportare le merci fra Italia e Francia (quelle stesse che secondo i nostri saccenti richiederebbero un tunnel di oltre 50 km nelle montagne) potrà essere utilizzata la linea ferroviaria esistente, recentemente ristrutturata e gravemente sottoutilizzata. Le merci, pochissime oggi, anche se aumentassero di tre-quattro volte nel futuro, transiteranno tranquillamente sui binari e nella galleria attuali. [1].

Non possiamo non domandarci a chi servirà questa TAV (femminile improprio) se realmente costruita. Esclusa la mercanzia, quanti torinesi con l’aggiunta di qualche milanese approderanno a Lione, per che fare? Se liberi e colti pensatori, per godere la bellezza della città dei due fiumi, la Saône e il Rodano.

note
[1] Cfr. T.A.V. in Val di Susa. Un buio tunnel nella democrazia, di Marco Cedolin, Ed. Arianna Remainder, 2009.

«Confesso […] che ho trovato più straordinari gli otto minuti di applausi tributati a Mattarella all’inizio dello spettacolo, battimani calorosissimi e per nulla scontati […]; platea, palchi e gallerie, tutti in piedi […] rivolti verso il palco reale dove il nostro Presidente, imbarazzatissimo, accompagnato dalla figlia e dal sindaco Sala, continuava a far timidi cenni di ringraziamento che sembravano dire “basta, non esagerate”. Un gesto di chiarissimo significato politico che sembrava a sua volta voler dire “grazie di esserci” e forse anche “grazie di essere qui con noi a Milano”. E’ vero che non era una platea molto popolare (ma gli applausi sono stati tanti anche nella piazza […]); era però composta da persone che quel gesto lo hanno voluto fortemente, consapevoli del suo valore e soprattutto del suo significato politico». Paolo Viola, nella recensione su ArcipelagoMilano della prima rappresentazione alla Scala dell’opera Attila, di Verdi, 7 dicembre, Sant’Ambrogio.

Si può dire? sono rimasto di stucco. Non avevo ancora assorbito l’incazzatura con malumore e senso di disfatta politica e umanista a causa della sottoscrizione presidenziale senza alcun se o ma del Decreto Sicurezza. Il peggior atto, un’azione di fascistica concretezza da parte del governo impersonato e simboleggiato dal lombardo Salvini. Incapace, questi, di adempiere le più strombazzate dis-utilità sociali, si muove sfrenato nell’arraffare potere d’ogni parte approfittando dell’enorme vuotezza della società italiana. Per un triplice uso: picconare la Costituzione nelle parti di alto valore comunitario, cancellare ogni possibilità di autonomia e di difesa delle istituzioni sociali e sindacali storiche, istituire smoderate liberalizzazioni private coronanti il nuovo primo governo ego-centristico, esclusivo concessionario di obbedenti corporazioni. Come avvenne dopo il 1922 mediante la Camera dei fasci e delle corporazioni. Tutto questo appartiene al Decreto Sicurezza e alla sua interpretazione [1], in aggiunta a provvedimenti già adottati dal ministro degli interni del tipo: ognuno diventi cittadino armato per sparare agli umani illico et immediate, nel pericolo magari immaginato.

Non è vero che il presidente della repubblica non abbia alcuna facoltà di intervento sulle deliberazioni governative. Decreti respinti in prima istanza per ottenere correzioni se ne sono visti. Non pretendevamo tanto dall’onesto e cauto Sergio Mattarella. Ma in una situazione politica come l’attuale, zeppa di tormentose novità e di gravi rischi nell’andamento della democrazia, egli ha avuto l’occasione di erigersi al disopra dell’arrogante Salvini, e l’ha persa. Almeno una moral suasion avrebbe dovuto indirizzargli. Il super-cattolico Oscar Luigi Scalfaro, uno dei più tenaci difensori della legge fondamentale dello stato, l’avrebbe fatto. Terminato il periodo presidenziale, lo ascoltammo a Milano in Piazza Duomo, accanto ad altre autorità, commentare la Carta e rivendicarne l’alta portata politico-sociale con veemenza e rara chiarezza.

L'assassinio di Moro (9 maggio 1978) e la morte di Berlinguer (11 giugno 1984) segnarono duramente ancora due volte il corpo di un paese che, lo vedremo in seguito, non sarebbe stato capace di uccidere il «mostro» tenuto da sempre entro di sé e di costruire almeno una socialdemocrazia antagonista del capitalismo improduttivo e corruttivo. L’«oggi è ben altro» (in senso positivo) dichiarato da chi ricorda lontane e affliggenti vicende non convince. Invece che uccidere il «mostro» il popolo è passato da un'accettazione all'altra di oltranzismi degenerativi politici, economici, sociali. Non è il caso di far una rassegna punto per punto, basta fissare due picchetti della storia recente, di partenza e di arrivo, dal 1994 al 2018, da Berlusconi a Salvini, costui icona del razzismo al potere: roba mai vista.

Qui a Milano, nella micro-sinistra culturale in opposizione verso un'amministrazione usurpante il nome di centrosinistra, vanitosa e cantante in noioso coro filastrocche sulla «attrattività» di Milano, ci domandiamo: «Che fare?». Vorremmo grandi manifestazioni. Difficili se non impossibili. Dobbiamo anteporre le dimostrazioni per non dimenticare gli attacchi fascisti, le stragi di innocenti, esempi il 12 dicembre 1969 alla banca dell’agricoltura in piazza Fontana (pochi giorni fa la commemorazione affollata) e il 27 luglio 1993 al Pac, Padiglione di arte contemporanea. Dobbiamo continuare a battagliare per mezzo della scrittura, denunciare gli errori, disvelare le fanfaronate degli amministratori, abbattere il «colmo…offerto dalla situazione milanese dove la maggioranza PD fa un gioco sfacciato a vantaggio di interessi privati»[2]. Battiamoci per chiamare cittadini e visitatori a quei luoghi della cultura meno soggetti al «Turismo inquinante»[3]; la città ne presenta ancora grazie a un originale precedente economico-sociale, l’esistenza di una borghesia industriale produttiva non dominata della finanziarizzazione e di una forte classe operaia urbana: destinate a risolvere la contraddizione antagonistica a favore di un buon funzionamento della città nei settori vitali.

Siamo obbligati, ora, a causa di un incredibile intervento del sindaco Giuseppe Sala, a tornare al tema della riconversione dei sette scali ferroviari svuotati della vecchia funzione. Un lungo silenzio è seguito al periodo delle discussioni, delle (inutili) commesse progettuali illegali e del rifiuto del concorso… e altro. Il più importante problema urbanistico attuale di Milano sembra sia stato gettato dalla finestra dell’ufficio dell’assessore Pierfrancesco Maran (urbanistica, verde, agricoltura) e raccolto dal sindaco che passava per caso lì sotto, pronto a enunciare finalmente la destinazione del famoso milione e 300 mila metri quadrati. La conosceremo in un’intervista ritrasmessa da Radiopopolare (ascoltata il 10 dicembre). Premessa: «Noi non facciamo case “popolari”». Seguito: «Le Ferrovie facciano quello che vogliono. Basta che il 30 per cento sia riservato a edilizia convenzionata» (sottolineatura nostra). Conclusione di una storia locale di significato pedagogico universale: il Comune di Milano nega l’occasione di cingere il territorio urbano con opere volte al bene dei cittadini, in particolare grandi parchi; e abbandona gli scali al programma di sempre che FS vogliono realizzare: trasformarli in rendita fondiaria ed edilizia totalizzante attraverso le più libere, incontrollate accumulazioni di volumetrie: applicando una densità territoriale capace di produrre diversi milioni di metri cubi. Così la richiesta del Sala, stante la sostanziale identità della convenzionata con l’edilizia tout court, non è altro che consentimento alla cementificazione dell’intera superficie.

Note

[1] Il Decreto Sicurezza è una legge repressiva anche nei confronti degli italiani. Rende reato il blocco (anche non violento) delle strade o delle ferrovie, proibisce l’assembramento di persone, impone il Daspo (Divieto di accedere alle manifestazioni sportive) e gli sgomberi. Ma la maggior imposizione risiede nella negazione dei principi di solidarietà e di uguaglianza che sono alla base della Costituzione. Infatti, prevede per i migranti l’abolizione della protezione umanitaria, il raddoppio dei tempi di trattenimento nei Centri per il rimpatrio (Cpr), lo smantellamento dei centri Sprar (Sistema per i richiedenti asilo e rifugiati) affidati ai Comuni, la soppressione dell’iscrizione anagrafica con pesanti conseguenze, l’esclusione all’iscrizione del servizio sanitario nazionale e la revoca di cittadinanza per reati gravi.

[2] Jacopo Gardella, in una lettera del 6 giugno 2018. In un passo della risposta accenno al ribaltone dell’urbanistica e altro in ex regioni rosse e a Bologna: «Dove esistevano le migliori gestioni dell’urbanistica ,i progetti consapevoli del rapporto necessario con la condizione sociale, proprio lì la classe politica dirigente ha voluto (una scelta culturale oltreché politica) gettare il destino del territorio e della città nelle mani delle aziende, degli speculatori, dei finanzieri: sono essi che devono dirigere, comandare (possiamo impiegare con perfezione linguistica il termine di classe egemone e classe dominante insieme)», 7 giugno 2018.

[3] Titolo di un articolo per eddyburg, 11 aprile 2005, di Carla Ravaioli (1923-2014), coraggiosa ad affrontare un tabù, a rompere un idolo e a rischiare pesanti critiche dai DS (Democratici di sinistra). «Quella sinistra che non ha mosso un dito almeno per definire una propria visione del problema e separarla da quella dominante, dei governi succedutisi in mezzo secolo e delle stesse popolazioni», così lo scrivente in Coraggiosa Carla Ravaioli, in eddyburg pochi giorni dopo, 22 aprile, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano 2006, p. 11.

L’urbanistica del progetto di opposizione ai devastatori del territorio e volta al bene comune ha dovuto ritrarsi nelle catacombe delle città, nel freddo e nell’oscurità. Segue

L’urbanistica del progetto di opposizione ai devastatori del territorio e volta al bene comune ha dovuto ritrarsi nelle catacombe delle città, nel freddo e nell’oscurità; nella luce superiore vige un’urbanistica usurpatrice del nome per essere invece un’altra cosa in attesa del giusto titolo; forse DOCG?

Tutto – dopo cinquant’anni di cammino dell’Italia da Bel Paese a Malpaese [1] – ricominciò allo scorcio del secolo breve dischiuso al proemio del nuovo millennio. Un documento programmatico scritto da un collega per la giunta municipale di Milano (Documento di inquadramento…) annunciava che la costruzione della città deve basarsi sulla libera dinamica dell’imprenditoria fondiaria ed edilizia; con essa l’ente pubblico concerterà… che cosa? (dubitavo) se non la già avvenuta decisione o propensione comune di rifiutare un qualsiasi piano generale o, qualora ne esistesse uno vigente, di variarlo a morsi successivi in coerenza a un raccomandabile «gioco delle forze»?

Esemplare antecedente, giacché gli amministratori pubblici e la potenza imprenditrice si erano mossi d’intesa anni prima, caso stupefacente fra altri minori, la vasta operazione edificatoria alla Bicocca sui terreni liberati dall’insediamento industriale Pirelli [2]. L’espansione in-calcolata di Milano sarebbe avvenuta lì non sulla base, almeno, di un’idea generale di città manifestata e discussa, una scelta sostenuta da ragioni plausibili e più convincente di altre possibili, insomma una dimostrazione che gli interessi generali della cittadinanza, la miglior vivibilità della metropoli esigevano una vasta urbanizzazione proprio lì; ma perché l’indiscusso industriale, già autorevole rappresentante del profitto capitalistico che non aveva saputo far rivivere e fruttare secondo la doppia funzione, economica e sociale, era scivolato nel campo della rendita, presunto avversario storico del profitto. In ciò confortato da tre atti: consenso entusiasta di sindaco e assessori estranei a un sentimento nobile del progetto pubblico; glorificazione da parte di una borghesia votata a spericolati guadagni nella finanza, nell’edilizia e nel commercio; rispetto compiaciuto di una sinistra ossimorica definita liberale.

Troppo nota per indugiarvi se non per un rapido appunto, la vicenda urbanistica si dipanò in maniera coerente alla madre Pirelli di tutti i successivi ribaltamenti e tradimenti culturali: avvenimenti, storie, cronache… nuove legislazioni, personaggi accondiscendenti, parole di noto sputtanamento riscoperte e rilanciate come emblemi di modernizzazione (negoziazione, contrattazione, accordo di programma…) fino a concludersi in morte delle ultime due sopravvivenze: il famoso modello bolognese, capovolto nell’esagerazione masochistica dichiarata, ossia alienare la pianificazione e ogni progetto ai padroni della rendita e dell’edificazione intanto che l’ente pubblico anticipa il consenso e il supporto magari oneroso; il meno famoso ma adeguatamente propagandato nuovismo urbanistico toscano, pronto dopo una lunga gestazione per un’applicazione rispettosa del bene pubblico, respinto dai benpensanti consiglieri «licenziando» l’autore [3].

L’urbanistica «di lotta e di governo» (effettiva, non parolaia) sembra esseri esaurita con l’azione di coloro che l’hanno praticata negli anni Cinquanta e Sessanta. Pochi progettisti, giovani dediti a contrastare la proliferazione di un’edilizia privata affaristica e brutta, la pianificazione di comodo o la non-pianificazione, assumevano nei comuni di sinistra il compito di amministratori nei settori coerenti alle loro competenze. Non poteva bastare però la scelta di un’esigua solitaria minoranza a fermare, se non per qualche anno e per singole località, la rovina della città, del territorio libero, del paesaggio. Ma un segno di capacità politico-professionale alternativa, un’istanza di moralità furono trasmessi a chi volesse raccoglierlo.

Tuttavia i pazzeschi sconvolgimenti divenuti normale processo decostruttivo del territorio nazionale ebbero anche l’effetto di ricacciare quelle capacità e quelle istanze. La frana di Agrigento (19 agosto 1966) fu singolo evento che quei giovani-maturi videro come reductio ad unum di un intero universo di malefatte. La relazione al ministro Mancini di Michele Martuscelli, l’ingegnere direttore generale dell’urbanistica al ministero dei lavori pubblici, presidente della Commissione d’indagine sulla situazione urbanistico-edilizia di Agrigento, fu clamorosa, estesa com’era, fuor d’ogni localismo, alla denuncia di una particolare «gravità della situazione urbanistico-edilizia dell’intero paese che [aveva] trovato in Agrigento la sua espressione limite» [4]. Così essi presero la relazione Martuscelli come un altro emblema: della ritirata già avvenuta dell’urbanistica professionale dinnanzi alla perdurante devastazione del paese, quando non attrice deuteragonista in questa stessa.

Intanto era moribonda l’architettura umanista, già separata dall’urbanistica e, per questo, indebolita anziché rafforzata dall’autonomia come si era potuto credere. Agonizzava quale mestiere civile comunitario, negazione dell’individualismo sprezzante i contesti sociali e spaziali teso all’esclusiva esaltazione del sé – anche quando il risultato appariva irrimediabile errore e offensiva bruttura a chi esercitava i propri sensi e dunque sapeva riconoscere appropriatezza, utilità e bellezza,. Era ancora ventesimo secolo quando i giovani invecchiati potettero individuare un efficace simbolo di quelle edificazioni in forma neoliberista e ghiribizza di grattacielo, noncuranti del contenuto, che sarebbero proliferate nel Ventunesimo: era nato a Londra il gherkin di Norman Foster, l’architetto padrone di cento architetti-robot al suo servizio (“cetriolino” dissero gli inglesi, che poi è uno spaventevole cetriolone, o una supposta per King Kong centuplicato).

La resistente ricerca di un nuovo sentimento sociale ed estetico della costruzione rifiutava la sudditanza al mondo dell’impresa dominante. Ma non poteva scalfire l’orrore della montante edilizia ostile all’architettura, e doveva dividere lo scarso spazio culturale dimenticato ai margini del processo produttivo con la debole benché dignitosa architettura desunta da una riedizione di modelli d’antan. Frattanto sorsero le professional consulting interdisciplinari per rispondere alla domanda di progettazione a scala vasta, ma non durarono molto. Il passaggio al progetto industrializzato poi computerizzato doveva riconoscere il dominio non più soltanto del mercato economico stricto sensu e delle imprese imperanti [5], ma di un mercato politico-culturale nuovo, universale, potentissimo, a cui obbedire per poter edificare gli oggetti, quali quando dove come esso, un re, un moloch, li voleva. Qui si può chiudere il cerchio contornandone il gherkin e bollare la mania di grattacielo inchiodata nella mente di troppi architetti felici di soddisfare il moloch [6].

Note

[1] Ho nominato in diversi testi l’inventore di questo attributo: il giornalista di «Repubblica» Giovanni Valentini, nel 2003.

[2] Vedi in eddyburg il mio primo approccio a questo tema: Le Nuove Milano estranee. L’architettura servile, 30 ottobre 2004, poi in Parole in rete. Interventi in eddyburg, giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005, p. 142.

[3] Per questi avvenimenti (Bologna e Toscana) vedi in eddyburg il mio articolo Storie locali. Morte della sinistra, strapoteri e omologazione, 7 maggio 2018.

[4] Chi, magari per ragione d’età, non conosce bene la vicenda agrigentina dovrebbe farlo mediante «Urbanistica», n. 48, dicembre 1966, che vi dedica la gran parte del fascicolo (peraltro preceduta da due brevi memorie sulle rovinose alluvioni di Firenze e di Venezia - 4 novembre dello stesso anno, cioè meno di tre mesi dopo il disastro agrigentino).

[5] Ad ogni modo anche gli imperatori cadono. I milanesi conoscono la storia di Salvatore Ligresti, della figlia Giulia (proprio ora ritornata in carcere) e altro. Decine di raggruppamenti di grattacieli per uffici (4÷8 ognuno per un totale di una cinquantina ) circondano le periferie, come a voler mostrare una formidabile capacità di controllo sulla vita della città. Fallimenti e ruberie, condanne e fughe. Ma quella corona di edifici dotati anche di due piani abusivi poi sanati inopinatamente svuotandoli e conservando le strutture e la copertura, rimane lì a svergognare non solo gli autori ma anche gli amministratori comunali degli anni ligrestiani trionfanti.

[6] La vicenda architettonica del concorso per Ground Zero, quanto vero o falso non si sa, è stata dominata da stolti esibizionismi personali, tutti sotto la bandiera del Guinness dei Primati e tutti mancanti di moderatezza espressiva. Ce lo aspettavamo, ha vinto il grattacielo più alto, di Daniel Lebeskind, che a Milano contribuirà alla costruzione di City Life – cosiddetta – nel luogo dell’ex Fiera Campionaria, dispensando insieme agli altri due progettisti, Arata Isozaki e Zaha Hadid, insensatezza e tristezza urbana.

(segue)

Introduco questo breve articolo con la selezione dei titoli di altri, scritti nel corso di una dozzina d’anni specie per eddyburg, poi pubblicati in libri delle edizioni Libreria Clup o Maggioli. Ne ho aggiunti tre apparsi nel sito arcipelagomilano. Il problema dell’abitare nel senso più esteso è trattato in ognuno dei testi secondo le prerogative richieste da un semplice articolo di giornale volto soprattutto alla denuncia delle inadeguatezze, ma anche descrittivo di specifiche condizioni urbane e sostenuto dalla polemica sociale-politica, ancorché sbrigativa. Voglio dire che la scientificità insita nella definizione di «Questione delle abitazioni» (come in Engels - e vorrei dire gramscianamente «quistione») appartiene ad altre ricerche approfondite, sui testi e sul campo, per esempio quelle effettuate ai tempi del mio insegnamento di urbanistica (di per sé non avulso dall’architettura) correlato con quello di insegnanti di composizione architettonica. Ma, in definitiva, l’insieme degli articoli e il presente tassello aggiuntivo spero che costituiscano una buona base per conoscere la larghezza della «Casa».

Inevitabili certe sovrapposizioni e ripetizioni.

- Esiste ancora una «questione delle abitazioni»?, in eddyburg, 10 novembre 2005, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano, 2006, p. 103.
- Avere non avere casa a Milano, idem, 17 marzo 2006, poi in idem, p. 147.
- La casa della città pubblica. Bigino di storia per la scuola di eddyburg, in eddyburg, 18 giugno 2006, poi in idem c.s., p. 165.
- Allora esiste ancora il problema della casa?, in eddyburg, 5 marzo 2008, poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2008, p. 143.
- Come dare l’ultima mazzata alla città pubblica, in eddyburg, 8 gennaio 2010, poi in Promemoria di urbanistica, architettura, politica e altre cose, Maggioli, 2010, p. 129.
- Un po’ di conti sulla casa, in eddyburg, 25 novembre 2010.
- Equivoci, ambiguità ed errori del censimento, in eddyburg, 8 maggio 2012
- Com’era Milano e com’è al tempo dell’Esposizione Universale, in arcipelagomilano, 22 aprile 2015.
- Scali ferroviari: “Rito ambrosiano” e nuovi ritualismi, in arcipelagomilano, 9 novembre 2016.
- Ultime note sulla casa, in eddyburg, 14 febbraio 2017.
- Realtà e propaganda nella condizione urbana, in eddyburg, 22 febbraio 2018.

Lodo Meneghetti, 6 settembre 2018

Durante il fascismo nulla poteva ostacolare l’attuazione di una politica demaniale reazionaria riguardo a una grossa parte del patrimonio pubblico in terreni: cioè la loro svendita, destinatari i potenti imprenditori edilizi collusi con l’alta gerarchia fascista. Diversamente, l’Istituto autonomo per le case popolari, grazie a una parziale indipendenza proveniente dall’attività originaria, esibiva risultati discreti benché non riuscisse, per divieto dell’alta gerarchia fascista, a provvedere alle spaventose condizioni abitative degli operai pendolari settimanali costretti a vivere in stalle abbandonate, masserie diroccate e baracche ai margini della città e nei co­muni limitrofi. (Le Indagini sul problema delle abitazioni operaie in provincia di Milano, di Piero Bottoni e Mario Pucci, impressionanti anche grazie all’apparato fotografico, furono loro commissionate nel 1938 dall’amministrazione provinciale e pubblicate l’anno seguente).

Dall’immediato dopoguerra il pretesto dell’urgenza trasforma la ricostruzione in una tumultuosa edificazione privata e una speculazione immobiliare che non avranno mai fine. Subito, nel 1945, Ernesto Nathan Rogers avverte che «ricostruire con criterio significa rispondere con la tecnica alle esigenze della morale». Un popolo può dirsi realmente civile se ricostruisce secondo un ordine di precedenza coerente agli interessi della società, ossia se risponde con chiarezza alla domanda per chi ricostruire. ENR non ha dubbi, si deve ricostruire per i lavoratori, per i loro bisogni: casa e lavoro ma anche scuole, ospedali, musei. Sulla stessa lunghezza d’onda e nello stesso momento Piero Bottoni pubblica da Görlich il libretto La casa a chi lavora, estensione di un articolo apparso in Domus dell’agosto 1941, Una nuova previdenza sociale: l’assicurazione sociale per la casa. Ma, a chi credeva in un forte rilancio della politica sociale della casa basteranno tre anni per verificarne l’insuccesso se non il fallimento. Il più anziano dei razionalisti, Enrico Griffini, in un saggio su Edilizia moderna del dicembre 1948, scrive di orrendo disastro milanese, di decadenza morale e civile, di ordine edilizio sostituito dal caos: «Una licenziosa e babelica febbre costruttiva conduce questa nostra città a imbruttirsi oltre ogni previsione, perdendo tutta la sua organicità e l’unitaria bellezza formata e difesa dai nostri padri nella pazienza dei secoli».

Eppure, grazie alla fiduciosa vocazione di personaggi resistenti in amministrazioni pubbliche o sul fronte della cultura urbanistica e architettonica, la casa popolare cercava di farsi largo nella città benché non riuscisse a bloccare un’attività privata senza scopi sociali che come una marea sarebbe montata sempre più su se stessa – non solo abitazioni, uffici di ogni tipo – andando a occupare gli spazi prima poveri di attrattive per le bande armate della speculazione. Ad ogni modo bisognava rilanciare la dotazione pubblica danneggiata dai bombardamenti o impedita durante la guerra: case dell’Iacpm, Incis (Istituto nazionale case impiegati statali), case comunali e di altri istituti delegati a possederne o a realizzarne. Esemplare la nascita del QT8, con la nomina di Piero Bottoni a commissario da parte del Comitato di liberazione (11 maggio 1945). Troppo noto il QT8 per indugiarvi, va detto però che se fosse permansa una dedizione degli amministratori pubblici eguale a quella che aveva permesso la rivoluzione della funzione stessa della Triennale, non saremmo costretti a riconsiderare oggi le denunce di Rogers e di Griffini. Nuovi quartieri di edilizia popolare se ne realizzeranno specialmente negli anni Cinquanta e Sessanta, ma gl’interventi saranno ultra-periferici e malamente progettati. Unica eccezione il quartiere Feltre, favorito sia da una progettazione di diversi architetti coordinati da Gino Pollini, sia dalla prossimità del parco urbano del torrente Lambro.

Milano si avviava a un drastico cambiamento sociale. La città, pur sospinta verso l’affermazione del proprio ruolo finanziario e commerciale, presentava una corposa entità di operai o assimilati e di posti di lavoro industriali. Delle persone attive, 47,5 % dei residenti, il 54,3 % erano operai. Gli stabilimenti industriali in città dovevano richiamare anche una parte di forza lavoro da fuori, come si evince dalla differenza fra attivi e addetti. Nei decenni successivi a Milano imperverserà il rivolgimento demografico, economico, sociale. Gli abitanti residenti continuano a diminuire, sicché il milione e182.000 del primo censimento del nuovo millennio rappresenterà l’estremo di un impressionante crollo demografico. La successiva inversione di tendenza sarà dovuta esclusivamente all’ottenimento della residenza di immigrati stranieri, così che la città potrà riconquistare una consistenza demografica almeno non inferiore a quella del 1951.

Gli operai stabili per abitazione (residenti), occupati in città o altrove, che a suo tempo superavano la metà della popolazione attiva e dunque imprimevano un potente marchio di classe lavoratrice tradizionale, diminuiscono molto più velocemente dell’intera popolazione e degli attivi totali, così che il loro peso, già ridotto al 10 % entro la fine del secolo, risulta oggi trascurabile. L’industria è sparita da Milano, vuoi per abolizione pura e semplice vuoi per delocalizzazione, ma il processo di azzeramento lungo gli anni ha colpito molto più pesantemente il risiedere operaio che il lavorare, mentre si susseguivano ondate di terziario che allagavano spazi di ogni specie, in primis quelli residenziali.

I quartieri popolari di una volta non bastavano ma servirono. Al contrario: da un lato, amministratori comunali prima estranei a una cultura europea in materia di case popolari, poi, da oltre tre decenni, fedeli interpreti dei principi fondiari ed edilizi liberisti, da un altro lato la terziarizzazione selvaggia: queste le cause essenziali che hanno provocato l’espulsione da Milano di famiglie e persone di quei ceti ma, ormai avvenuta la trasformazione strutturale e occupazionale, hanno anche impedito nuovi ingressi in città per risiedervi ai lavoratori del terzo settore (gli operai dell’epoca attuale) che avrebbero potuto diminuire la penosità del rapporto casa lavoro. Non da oggi non occorre essere operai per essere poveri o comunque inidonei a fronteggiare gli oneri imposti da una città come Milano.

Il terziario milanese, si sa, è pieno di lavoro a termine, precario, faticoso anche se franco dalla tuta sporca d’olio di macchina; se non è provvisorio è comunque spesso sotto la minaccia del licenziamento. Cosa possono offrire alle classi disponibili per lavori veri e seri i settori decantati ineguagliabili in Europa, anzi nel mondo, come la moda (del resto man mano venduta ad atelier stranieri) e il design ridotto a rappresentazioni di forme malthusiane o di stranezze, in generale tradimento della grande tradizione milanese, epitome di utilità e di bellezza, conclusa molto prima della fine del secolo breve. Del commercio generale e generico meglio tacere, per quel dominio di mafia e ‘ndrangheta che lo contraddistingue.

Le famiglie e le persone resistenti in città nonostante tutto, rappresentano il rimanente della classe d’antan, non più propriamente classe mancando uno specifico rapporto di produzione, infatti sono per lo più pensionati anziani – compresi gli ex occupati in lavoro non operaio ma a basso salario – soprattutto donne. La struttura della popolazione milanese è sbilanciata verso le fasce d’età elevate. Anni fa, quando la popolazione era maggiore, demografi e sociologi descrissero in maniera fulminante uno dei caratteri dominanti della struttura demografica milanese: essere donne, essere vecchie, essere sole. Le donne erano ben l’80 % dei residenti ultrasessantenni soli, a loro volta una presenza relativa forte mentre cominciavano a diminuire le fasce d’età giovanili, in seguito man mano sempre più ridotte.

Oggi sappiamo che la decadenza demografica milanese deriva anche dalla struttura d’età sempre squilibrata nella stessa direzione (per ora è troppo scarsa l’incidenza dovuta ai giovani immigrati). La malaresidenza, oltre alla malasanità, infierisce più che nel passato; la proporzione conta più della numerosità assoluta e proprio per questo la città ne risente maggiormente l’effetto. I pensionati, le donne sole anziane, i nuovi poveri, gli ex affittuari di case popolari costretti all’acquisto o ad arrangiarsi in un mercato libero criminoso rappresentano il volto oscurato di una Milano che crede di accecarci con le luci violente della moda, delle fiere, delle strade di negozi e atelier in buona parte in mano alla mafia legale degli investimenti commerciali e finanziari.

L’Aler (Azienda invece che Istituto) ha tradito l’eredità dell’Iacp migliore, coerentemente al cambiamento del nome, il secondo può scusare la propria inerzia con le conseguenze degli atti di un sindaco (Albertini,1997-2006) industrialotto lombardo, deciso da subito, disse, ad amministrare il municipio come un condominio. Il Comune ha privatizzato le migliori delle sue case estromettendo i vecchi inquilini mentre ha lasciato degradare quelle affittate alle famiglie dal reddito per così dire inadeguato; la peggior giunta comunale liberava begli edifici in zone pregiate affittati da decenni a popolo residente con il pretesto di ristrutturarli; poi, magari trascorsi due decenni come nell’incredibile caso (dimenticato?) dei 157 alloggi di piazzale Dateo, negava il diritto al rientro e decideva di guadagnarci vendendoli a prezzi di mercato preferibilmente a un unico imprenditore-speculatore. Altro pretesto quello di reinvestire in alloggi popolari nell’estrema periferia «meno costosi di tre volte», sempre secondo il sindaco Albertini. Da qualche anno il Comune si è accollato una parte modesta del patrimonio di Aler, ma per ora non si conosce l’auspicata politica sociale di sinistra nella gestione delle assegnazioni, della manutenzione, del rapporto fra proprietà e affitto.

Allora, a Milano (in Lombardia) è cambiata la qualità del servizio sanitario nazionale. Molti cittadini (etiam ego) hanno sperimentato sulla propria pelle l’arretramento dalle posizioni di eccellenza invidiate dalle altre regioni. Lo spostamento delle risorse a favore di un numero enorme di cliniche private convenzionate e ad ogni modo il privilegio ideologico e pratico riservato al privatismo più ricco corrispondono al decadimento dell’offerta pubblica. Siamo giunti al momento in cui a Milano e in Lombardia la malasanità si afferma come sistema sociale ed economico. Dovremo aggiungervi la constatazione di una malaresidenza, seconda fettuccia di un legaccio che rende irreversibile la difficoltà di vita di tante famiglie.

(segue)

Bisognerebbe abolire nella discussione politica e sul modo di vita nel paese la parola «sinistra» o la locuzione «di sinistra». Si diventa abitudinari nel linguaggio specialmente quando prevale la mediocrità e la ristrettezza verbale nella comunicazione, non solo fra le classi povere; anzi oggi è la classe nello stesso tempo egemone e dominante a imporre l’uso generalizzato di uno smilzo vocabolario necessario sia a se stessa che detta legge, sia agli sfruttati che chiedono, perorano. Una buona cultura generale, una «lingua salvata» (Canetti) non abita più qui. «Sinistra» nella storia sociale europea è sempre corrisposta a un scelta precisa nell’azione e nell’intenzione, chiare e distintive; l’esempio della rivoluzione francese travalica il puro dato della collocazione dei deputati a destra o a sinistra del presidente dell’assemblea.

Dove gli ideali e le idee? Dove le realizzazioni socialdemocratiche, non dico socialiste, nelle amministrazioni regionali o comunali giacché la scena nazionale, dopo il quarto di secolo berlusconiano (e Berlusconi è ancora lì), presenta solo il sorprendente tempo breve di un gradasso Matteo Renzi per il partito del quale si è pur continuato a parlare di centrosinistra: partito che ha cancellato nell’acronimo la s (Pds) di «sinistra», per conservare la d, democratico (ci mancherebbe), approfittando della mancanza di cultura nelle sue file e fuori per far credere di ispirarsi alla tradizione rooseveltiana dell’omonimo partito statunitense, peraltro ridotta a deboli ricordi dopo le sconfitte elettorali al senato e alla camera e l’uscita di scena di Barack Obama. È badando ai fatti che anche il più generoso degli analisti politici non riuscirà a trovare alcun segno di riforma d’avanguardia o realizzazioni di tipo comunitario dove una presunta sinistra detenesse in questo secolo o detenga il potere, anzi strapotere (giunta comunale o giunta regionale e attinenti maggioranze). Dico strapotere e spiegherò più avanti.

Come una nemesi saettata dal cielo da un urbanista sincero d’altri tempi, ora vige il tradimento dell’urbanistica pubblica e sociale anche nei punti di maggior resistenza. Ah, il mito emiliano bolognese. Si è visto il nuovo modello. Le «sette città» bolognesi come i peccati capitali, o il settimo sigillo aperto dall’Agnello, da cui le strombettate trionfali dei sette angeli che non impediranno l’avvento di grandine e fuoco misto a sangue. O come la settima delle età dell’ansia, un’ultima città inquieta prossima alla morte (Auden/Bernstein, The Age of Anxiety, 1947). I bravi bolognesi d’antan, convinti di aver realizzato il miglior esempio di pianificazione generale e locale, se sopravvissuti si sono ritrovati nel nuovo contesto culturale ultraliberista, anzi reazionario, soggetti al più tristo patto col diavolo, quasi fossero il povero soldato col suo violino (Ramuz/Stravinskij, 1918) ma non giustificati dalla stessa sprovvedutezza.

E l’ultimo mito toscano? La rattristata Anna Marson ha creduto di far la rivoluzione (in urbanistica) e s’è trovata sola, sguarnita da ogni parte, salvo il gesto consolatorio di qualche collaboratore. Nella carta d’Italia che rappresenta il colore politico regionale dopo le ultime elezioni (impiegando i vecchi schemi), Emilia-Romagna e Toscana esse sole appaiono in rosso. Di buona memoria, come usa dire. Il distacco da tutto il resto, centrodestra o cinque stelle, è menzognero poiché un’omologazione generale ha cancellato le differenze, quelle profonde, credute irreversibili. La mondializzazione ha in sé l’italianizzazione, uniformità piatta dalla Vetta d’Italia a Capo Passero. Un colossale schiacciasassi si è aggirato dappertutto discendendo dal monte settentrionale al mare siciliano spianando ogni corrugazione.

Poteri e strapoteri oligarchici di sindaci, presidenti, giunte: ammessi da una normativa antidemocratica che i partiti della sinistra (eravamo ancora ben dentro al secolo scorso) avrebbero dovuto boicottare invece che sottoscrivere in ossequio al peana della stabilità. Sindaci e presidenti governano super-garantiti dalla numerosità post-legale della maggioranza, con le loro giunte imbottite di tecnici o amici non eletti. Ad ogni modo, per assurdo se ne poteva approfittare in senso progressista; come la destra poteva farlo in senso conservatore. Sarebbe stato scontro degli opposti. Così dove primeggiava, la formazione politica ritenuta di centrosinistra avrebbe potuto ottenere risultati superiori alle attese in ogni campo, avendo per presupposto i diritti e il bene della classe lavoratrice. Primo obiettivo: cercare di ribaltare gli esiti della nuova lotta di classe, quella, descritta da Luciano Gallino, dei ceti borghesi o arrivisti, ricchi vincitori contro i ceti subalterni poveri e perdenti (L. G. La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza 2012). E dove stava all’opposizione, nonostante la punizione numerica causata dalla regola elettorale, avrebbe potuto superare la frustrazione e scatenare battaglie d’impedimento, d’ostacolo all’amministrazione conservatrice o reazionaria.

La sinistra approvò la nuova legislazione rivendicando un principio assoluto di autonomia locale, l’esigenza di democrazia capillare, la garanzia di libertà da qualsiasi controllo d’ordine politico-amministrativo superiore. Non erano motivazioni, queste, di vecchie battaglie di comunisti e socialisti? Eh, no. Quando ci battevamo per una vera autonomia locale il potere di sindaco e giunta era in tutti i sensi estraneo all’enormità dell’attuale condizione oligarchica. In primo luogo tutte le deliberazioni della giunta, fosse anche quella per lo spostamento di un tombino della fognatura, dovevano essere approvate dal Consiglio comunale, luogo non fittizio di discussione democratica fra posizioni diverse e opposte, spesso al limite dello scontro; in ogni caso difficoltosa (non esistevano premi spropositati di maggioranza). Poi le delibere dovevano sottostare al taglieggio della giunta provinciale amministrativa, alias prefettizio (ossia lo stato). Controllo di legittimità, la formula; al contrario, visto il merito lo scopo consisteva nell’ostacolare e respingere le decisioni dei Comuni di sinistra su pressione della Democrazia cristiana.

Tuttavia l’azione dei Comuni rossi trovava la strada per distinguersi in realizzazioni locali differenti da quelle delle amministrazioni bianche e alleati grigi o rosa sottomesse alla ragion di stato e, sempre, agli interessi del padronato (termine non più in uso, ma largamente espressivo). Guardiamo l’urbanistica. Non tutto splendeva a sinistra nel piano regolatore e attinenze, per misurata competenza e anti-velleitarismo previsionale; ma non erano pochi i casi di questo tenore. Si videro anche tentativi quasi rivoluzionari: al di là della scontata dotazione dei servizi sociali, un disegno organico e strategico di terreni ricostitutivi di demanio pubblico attraverso l’esproprio (Milano possedeva fino agli anni Trenta un ampio patrimonio fondiario. Ci pensarono podestà e compari a smantellarlo, svendendone buona parte a cricche speculatrici e a pesci grossi dell’economia). Ancora: quando la rivista «Urbanistica» (direttore Giovanni Astengo) pubblicò nel fascicolo n. 41 del 1964 i primi Piani di Zona, si notava che almeno un Comune rosso non aveva adottato progetti di quartieri emarginati in lontane periferie per non turbare la continuità di riproduzione reddituale nell’aggregato urbano.

Omologazione, dicevo. Riguardo alla pianificazione urbanistica locale esiste una sola tendenza, un solo progetto egemonico: liberismo impietoso, spesso culturalmente provocatorio nell’essenza di servizio agli appetiti del «padronato» (guarda caso) ora indentificato come finanzieri, speculatori fondiari, industrialotti (i grandi industriali magari illuminati almeno a 60 watt si sono estinti), imprenditori edili e imprese di costruzioni.

Quando fu diffusa la nuova maniera dei bolognesi, talmente esagerata nell’aver gettato il destino della città in mano al Moloch per natura dedito a distruggere i beni dell’umanità e del singolo uomo, qualcuno credette di poter vantare, qui a Milano, una diversità, una distinzione motivata con noti vecchi titoli – capitale economica e capitale morale… capitale della moda e del design: eppure, i primi scaduti come una cambiale fasulla dell’ex campione milanese del mercato immobiliare Ligresti, i secondi propagandati come «attrattività» mondialista di una città che in quattro decenni era riuscita a perdere mezzo milione di residenti e si è salvata dal temibile crollo demografico grazie a 250.000 immigrati extracomunitari, sfruttati silenziosamente nei lavori trascurati dai milanesi, autoctoni o alloctoni che siano [1].

[1] Ho scritto diversi articoli in eddyburg su Milano. Per chi volesse inserire l’attuale in una informazione critica ampia se non esaustiva, ne elenco alcuni ritrovabili nel sito:
- Com’era Milano e com’è al tempo dell’Esposizione, 9 aprile 2015.
- La contesa degli identici a Milano, madre della compravendita, 21 aprile 2016.
- I sindaci: l’urbanistica è mia, 15 maggio 2016.
- Meno «rito ambrosiano» ma nuovi ritualismi, 21 settembre 2016.
- Negli anni Ottanta ci invitavano a berla, Milano, ora ci chiamano a darle l’incenso, 17 novembre 2016.
- MILANO ONALIM. La vita d’oggi in città, 17 marzo 2017.
- Realtà e propaganda nella condizione urbana, 22 febbraio 2018.

o... (segue)

1.- Anni fa uno studioso di demografia e problemi sociali scriveva che abbiamo aggiunto anni alla vita ma non vita agli anni. Dentro il senso così vero e profondo di quest’affermazione si radica la questione dell’ambiente vitale: la qualità dello spazio, una città e un territorio umanamente abitabili. La classe dominante (oggi la borghesia finanziaria e speculatrice) e i ceti sottoposti consenzienti poiché stretti nella logica consumistica non hanno voluto realizzare quegli assetti economici, sociali e spaziali che appunto aggiungano vita agli anni poiché rivolti esclusivamente al benestare e al benessere dell’uomo e a produrre superiori relazioni umane nella comunità vantaggiosamente insediata.

2.- Lo spazio e il suo uso, in una situazione antropologica di civiltà nel significato straussiano, dovrebbero rappresentare elevati rapporti sia ravvicinati che estesi fra gli uomini. Così, spesso, è avvenuto nel passato. Oggi sono diventati fattore ostile, generatore di penosità e ansia, alla fine punitivo, come una prigione: condizione ben più pesante per gli strati più deboli della popolazione, in primis per gli anziani, sempre più numerosi grazie alla durata media della loro restante vita, nonostante tutto molto maggiore che nel remoto passato. Non sembrerebbe necessario fornire nuove dimostrazioni, misure, come se esistesse ancora qualcuno da convincere circa la realtà in cui si ritrova. Eppure le lamentale di singole persone e di gruppi di cittadini risuonano qua e là ma non riescono a diventare contestazione di massa. Allora competerebbe a sociologi, economisti antiliberisti, urbanisti, architetti, geografi… indicare gli ideali che dovranno distinguere il sentimento comune, per ora invalidato da incultura, insipienza, vocazione all’assoggettamento.

3.- In una visione sia a scala territoriale che a scala urbana il nodo strutturale da cui partire è la diminuzione della popolazione nelle città, specie nel centro storico, cui corrisponde la dislocazione nelle periferie metropolitane e regionali. Fenomeno che a Milano ha raggiunto fino al primo decennio del XXI secolo entità assolute incredibili (perdita di 550.000 residenti), ma che non aveva risparmiato gli altri capoluoghi. Se Milano non potesse contare su oltre 250.000 stranieri residenti regolari (per l’abitazione si arrangiano in ogni maniera) avrebbe circa un milione e 100.000 abitanti (oggi, circa 1.350.000), quando all’inizio degli anni Settanta ne conteneva 1.740.00 [1]: una città ancora arricchita dalla presenza di tutte le classi sociali, classe operaia e borghesia produttiva per prime, totalmente diversa dalla città commerciale e finanziaria priva del confronto fra differenze, se non quelle fra vendere e comprare: le merci e lo stesso denaro.

4.- La Milano propagandata come centrale dell’animazione attorno ai due settori ritenuti motori di nuovi sviluppi economici e, addirittura, culturali, salone del mobile e tanti saloncini delle sfilate di moda non inganni; non si caschi nell’abbaglio dei tanti posti per giocosi incontri al momento dell’uno e degli altri (ah! la città viva…). Le case di moda in crisi, già vendute ad aziende straniere o prossime a chiudere, come poterle ritenere fonte di buona vita, attiva o non attiva? A una giornalista di «Vogue», pendolare fra New York e Milano e indubitabile conoscitrice del settore, chiedo di qualificare il prodotto d’oggi (prescindendo dal fatto che la maggior parte della lavorazione avvenga in paesi orientali ove lo sfruttamento tocca livelli inammissibili nell’Europa occidentale e nordica); la risposta è secca: «fuffa!». Il salone del mobile, poi, con la sua immensa catasta di cose d’ogni genere non prodotte nella nostra città – e se lo fossero non si potrebbe spacciarla come fondamento dell’economia sociale riformatrice – rappresenta il grado a cui è giunta la confusione a-culturale della domanda e dell’offerta [2].

5.- Mentre le nascite continuano a essere superate dalle morti, le uscite, quasi mai emigrazioni a lunga distanza, raffigurano un obbligo ad andarsene fuori dalla città, una decisione forzosa anche se magari descritta da sociologi ciechi quale libera volontà di tornare alla (scomparsa) campagna. La causa consiste nella mancanza di una decisa, convinta politica della residenza milanese rivolta alle famiglie lavoratrici. La realtà amministrativa e politica si è dipanata lungo i decenni fra distruzione dello storico Istituto autonomo case popolari (Iacp) e formazione dell’Azienda lombarda edilizia residenziale (Aler), premessa alla privatizzazione del patrimonio pubblico e impedimento a una domanda di giovani coppie per un’affittanza «popolare» milanese. Unica fuggevole speranza: il Comune, che si è accollato meno della metà degli alloggi, potrebbe comportarsi in senso opposto, garantendo la difesa del patrimonio indiviso.

6.- Questa insufficienza è il risvolto logico di un laisser faire a favore di una terziarizzazione spropositata in primo luogo fagocitatrice di abitazioni esistenti, poi destinataria dei tristi edifici di quest’epoca, spesso grattacieli presto invecchiati e abbandonati (decine quelli di Ligresti) o nuovi lucidati col Sidol-Henkel difficili da riempire; mentre era già iniziato lo svuotamento negli edifici del centro storico e del contorno non destinabili a un mercato di abitazioni a buon mercato. Tutte le amministrazioni succedutesi fino a oggi a iniziare da quella del sindaco Formentini (anni Novanta) hanno cavalcato un fenomeno ritenuto inevitabile e non governabile, creduto in ogni caso ultramoderno, post-industriale, post-tutto [3].

7.- Mentre vigevano anche gli effetti autonomi di trasferimento residenziale causati dalla pesante deindustrializzazione, i maggiorenti vantavano primati di terziario «avanzato» quando la gran massa invasiva e aggressiva apparteneva ai settori più tradizionali (magari anche «neri»), il contrario che generatori di progresso civile. Il peggior liberismo urbanistico in ordine ai settori funzionali non solo ha costretto molte famiglie a trasferirsi nei circondari ma esse hanno dovuto farlo senza poter scegliere il luogo. Intanto, nell’insieme il sistema classista impediva nuovi ingressi in città per risiedervi a lavoratori dipendenti del terzo settore milanese che avrebbero potuto riequilibrare in equa misura il rapporto casa lavoro.

8.- Possedere una casetta nell’hinterland più scomodo non reca alcun vantaggio se il prezzo aggiuntivo consiste nel penare due o tre ore, e più, di andirivieni per lavoro (stressanti spostamenti in automobile e avvilenti viaggi su mezzi pubblici inadeguati). La proprietà della casa secondo l’Agenzia delle entrate (giugno 2017) riguarderebbe in Italia il 77 % delle famiglie, per questo un Berlusconi continua tuttora a ripetere (il condannato ritornato nell’agone politico senza che qualcuno obiettasse) che il problema della casa non esiste. Al contrario, è il momento di distinguere prescindendo dalla diffusione della proprietà che peraltro nelle città grandi è molto inferiore (Milano, circa 60 %, secondo la stessa agenzia). Riguardo a nuovi modelli di organizzazione dello spazio fondati sulla conoscenza delle diseguaglianze sociali e sulla certezza che le divisioni classiste del territorio hanno comportato la sua degradazione funzionale ed estetica, occorre proiettare la residenzialità nella concezione e nella realtà di habitat: collocare in una prospettiva di nuova città (nuova metropoli) la città storica e la città nuova (il territorio comunale), la città madre e le periferie metropolitane.

9.- La scelta in favore di un potente rilancio della residenza urbana, accompagnata dalla visione di una metropoli indipendente dall’economicismo liberista, può influenzare la struttura della popolazione per fasce di età e per classi di lavoro/non lavoro, indirizzandola verso forme coerenti ai bisogni e alle libere più alte aspirazioni dei gruppi umani. La resistibile caduta quantitativa e selettiva della residenzialità nei centri urbani, contrastata solo dagli immigrati stranieri in forte maggioranza extracomunitari, sancisce la perdita di un complesso sistema di rapporti e di equilibri fra le destinazioni funzionali (produttive e riproduttive) e un conforme uso degli spazi. Un sistema che Milano e le altre città medie e piccole, pianeti e satelliti di un’organizzazione territoriale policentrica quanto mai funzionale, hanno potuto conservare a lungo nel corso storico. Il territorio lombardo, fino alla seconda rivoluzione industriale costituito da poli urbani compatti e da ampie fasce agricole estese a tutta la regione, anche nella parte meno fertile a nord della linea delle risorgive, ha divorato se stesso attraverso il soddisfacimento dell’appetito del capitale trascorrendo dapprima lentamente poi a rotta di collo dal piano dei profitti a quello delle rendite fondiarie ed edilizie, infine declinate in assoluta e criminosa speculazione finanziaria ruotante spiralmente su se stessa senza alcuna validazione sociale.
NOTE
[1] Per un’ampia trattazione di questi temi, vedi il mio articolo Com’era Milano e com’è al tempo dell’Esposizione, eddyburg, 9 aprile 2015.

[2] Il collegamento del Salone ai numerosi negozi di arredamento ha prodotto un ulteriore legame con luoghi per i consumi e il divertimento, preesistenti o nuovi (movida e consimili). Sembra che il design abbia introdotto una specie di estetismo di massa commettendo falli irreparabili. La cultura di un design milanese ineguagliato altrove e punto di riferimento internazionale per l’arredo e l’allestimento di qualità si è esaurita con lo spirare del secolo breve. In seguito gli autori si sono rifugiati nell’azzardo o nel semplicismo o nell’insensato inquinando le sorgenti delle idee e degli ideali.

[3] Si criminalizza il terziario, dicono gli amministratori pubblici. Invece è valutazione della realtà. Ho lasciato da parte la presenza massiva dell’ndrangheta-mafia che, come ho descritto in altri articoli, sguazza soprattutto nel commercio (25%, pizzerie 50%, stima della procura milanese) ripulendovi facilmente capitali senza etichetta di provenienza, e nei cantieri per i movimenti di terra e le fondazioni.

(segue)

Sulle pagine milanesi dei quotidiani è riapparsa la questione del turismo, da una nebbia padana che non ha potuto nascondere le stolidezze che dicono o fanno gli amministratori pubblici (la bandiera nera spetta per una parte alle arie dei lavori per la nuova linea della metro, per un’altra al patto illegittimo per il riutilizzo degli scali ferroviari. Al turismo bandiera gialla).

Già alla fine di settembre 2017 il sindaco vantava grandi conquiste con sorprendente imprecisione: sette milioni di visitatori nell’anno, la notizia di un giorno; superamento degli otto milioni quella di un altro appena successivo. E «gli pare» che Milano batterà Roma; vittoria che «per l’economia e la reputazione di Milano è fondamentale». Tutti capiscono che il nostro spara palle di grosso calibro per abbattere la vecchia capitale reale, così che appaia più alta la capitale economica (non morale, con tutta quella ’ndrangheta che l’accompagna). Un assessore romano risponde che Roma sconfigge Milano 14 milioni a 7. Statistiche provenienti da La Stampa - Secolo XIX indicano che la capitale disperata resta pur sempre la regina di bellezza per italiani e soprattutto stranieri, 20 milioni gli arrivi e 40 le presenze nell’ultimo anno: incredibile dictu audituque? Ad ogni modo, fossero anche molti di meno, mostrerebbero la predominanza delle visite dette «mordi e fuggi» per additare un turismo rientrante nel grigio sistema del consumo di tipo culinario, anziché nella grande conca della cultura generale e dell’arte.

Ugualmente Venezia. Da molto tempo le quantità (anche decisamente inferiori a quelle segnalate da istituzioni, da enti pubblici e privati, da amanti appassionati - etiam nos) paiono insopportabili dalla città storica - come fosse una persona tanto fisicamente fragile - con l’osteoporosi diffusa per cause persistenti dalla fine del XVIII secolo; ma dalla seconda metà del XX concentrata nella corporeità del torso, al limite della frattura, eppure selezionato dalle agenzie turistiche per darlo in pasto a irresponsabili grappoli umani: sarebbero questi a morsicare le ruskiniane pietre prima di fuggire? L’isola veneziana deve fronteggiare la parte gravosa dell’assalto al territorio comunale, tuttavia forse inferiore all’attesa preoccupata se crediamo ai numeri dell’annuario municipale dell’anno 2016. Infatti: riguardo all’intero comune si sarebbero registrati 4 milioni e mezzo di arrivi e 10 milioni e 200.000 presenze turistiche (cifre arrotondate); nella città storica i primi e le seconde si riducono al 60÷70 per cento, ossia rispettivamente a circa 2.800.000 e a 6.800.000: però in uno spazio urbano di meno che 50.000 residenti, spazio e abitanti fissi ancor più ridotti, fin quasi a zero secondo l’ipotesi di concentrazione in quel torso.

Esposti disciplinatamente i dati numerici, quanto sicuri non sappiamo, li accantoniamo riconoscendogli un peso generico assoluto ma non la capacità di raccontarci la realtà degli accadimenti nelle città malversate dal turismo. Sì, è così, il turismo nella maniera d’oggi e del passato prossimo è malversazione, Carla Ravaioli ce lo ha spiegato una dozzina di anni fa con l’articolo in eddyburg Il turismo inquinante (11 aprile 2005), da noi rilanciato dopo pochi giorni con Coraggiosa Carla Ravaioli (22 aprile 2005), entrambi ricordati da Salzano insieme al fondamentale quasi saggio di Luigi Scano Turismo insostenibile, 8 dicembre 2006 [1]. Niente è cambiato da allora.

Il turismo di folla, lasciato allo sfruttamento liberistico dai governanti, dallo stato al piccolo comune, o, peggio, profittato direttamente da questi per risanare i bilanci e diminuire i debiti, inquina con la propria impronta contro-culturale ogni ambito della vita, le città e il territorio; una maniera che seziona il 10÷20 per cento dei beni culturali, artistici, paesaggistici in conformità alla convenienza dell’azienda o dell’ente, li delimita teoricamente e materialmente, li spreme, li schiaccia, li tagliuzza, ne riduce il valore mentre aumenta il consumo di gruppo (gruppone); ossia ne cava il massimo di produttività quindi di incasso. L’80÷90 per cento è destinato all’avvilimento, se non al degrado, all’abbandono, infine al disconoscimento. A meno che si tratti di coste marine, montagne, laghi, colline che quanto più si estendano, si invadano e si denaturalizzino tanto più generano il compiacimento di massa per vacanze e divertimenti stagionali, intanto che la conquista della seconda casa in proprietà permanente ha soddisfatto o soddisfa in avvicendamento oltre cinque milioni di famiglie: in tutto questo risiede per Carla Ravaioli il peggio dell’«inquinamento turistico».

Seguirà l’invettiva di Luigi Scano verso azzardate soluzioni per la sua Venezia, del resto epitome al cubo del falso daffare e dei veri affari di politici, amministratori, manager pubblici e privati in tutte le città storiche. Scontata l’attenzione agli interessi dei pochi residenti, ben più decisivo sarà il principio «di non ledere, se non marginalmente e inavvertitamente [quelli] arroccatissimi e fortificatissimi delle categorie, delle sotto-categorie, dei gruppi, dei soggetti, individuali e societari, che, per lucrare sulla funzione turistica della città storica di Venezia e della sua Laguna, da anni e da decenni stanno, come locuste predatorie e voraci, sfregiando, sconciando, divorando, consumando l’una e l’altra». Eppure restano ai veri amici, piccola minoranza di conoscitori e amatori, le parti, non poche, trascurate dalle locuste; fortunatamente, vien da dire, giacché resistono riservate ad essi, cui raccontano la loro storia umana e sociale e la connaturata bellezza, ormai estranee agli intontiti residuali abitanti.

Dicevamo della grande conca della cultura generale e dell’arte. Il turismo ufficiale contabilizzato che ne è fuori non vi rientrerà mai senza un rivolgimento sociale. Le masse guidate da un’azienda o da un ente pubblico verso quel 10÷20 per cento dei beni adatti o adattati a cavarne un plus-profitto applicando gli stessi metodi storici del capitalismo nell’utilizzo del lavoro, restano prigioniere della loro ignoranza così come gli operai restavano prigionieri della loro povertà. Se Venezia ne è testimone, Milano ne è primatista. Ne consegue d’altra parte un ostacolo ai desideri e alla libertà delle persone colte o propense a valersi del cervello e del cuore per continuare l’autoformazione e, attraverso la percezione dell’elevatezza dell’arte, goderne l’effetto di puro piacere e di elevamento del sé.

Prima di tutto: niente scalfisce il dominio del turismo commerciale. L’abbiamo mostrato nell’articolo La contesa degli identici a Milano, madre della compravendita [2]. E siccome nel gigantesco ruotante sistema delle entrate e uscite relative agli spazi commerciali i capitali della ‘ndrangheta si puliscono e si legittimano coprendo almeno il 25 per cento dell’intero affare (secondo la Procura milanese), ne desumiamo ancora una volta con Carla Ravaioli che li turismo milanese è intriso di mafiosità.

L’ente che indirizza le masse e ne ricava profitto forse più di ogni altro è la curia. Le indirizza verso la visita del Duomo e le governa nell’acquisto del biglietto, nell’ingresso, nell’uso dei sevizi igienici (costruiti addosso all’angolo meridionale della facciata). Uno spettacolo spiacevole che supera quant’altri ne esistano riguardo all’accesso «turistico» di altre cattedrali, anche una San Marco, o una San Pietro… Come bestiame incanalato mediante transenne metalliche in un percorso ritorto più volte, le si conduce anziché al macello alla biglietteria o ai servizi, poi a uno dei portali, adesso l’ultimo a destra dei cinque della facciata.

Sembra logico che per aumentare l’introito sia utilizzata e messa in risalto, dirimpetto al fianco destro della chiesa (guardando la fronte), la vecchia entrata al museo per accedere al nuovo Duomo Shop, punto di vendita ufficiale della Veneranda Fabbrica. L’allestimento commerciale si incentra sulla grande sala viscontea colonnata, alcuni anni fa esposizione di importanti testimonianze della signoria. Il museo, per dar spazio allo shopping, è stato spinto all’indietro nel corpo del Palazzo Reale, è accessibile dalla piazzetta del palazzo e a sua volta diventa un altro passaggio al magazzino di vendita [3].

Non siamo troppo scandalizzati per la gestione turistica della curia profittante dell’enorme richiamo in Italia e all’estero del Duomo e della piazza. È innegabile l’indirizzo commerciale prevalente rispetto alle domande della cultura. Che la manutenzione della cattedrale richieda un mucchio di quattrini è vero ma, di questo passo e generalizzando una condizione che non è soltanto milanese benché quest’ultima sia in testa alla classifica, dove verrebbe cacciata se non nella discarica delle buone idee e azioni la possibile mobilitazione politica e delle quasi-classi minoritarie consapevoli dell’ingiusta distribuzione delle risorse pubbliche?

Una divisione che rispecchia l’essere attuale del capitalismo italiano. Magari a scapito di più convenienti rese sociali futuribili, per un lato punta forte sulla speculazione (finanziaria, edilizia, commerciale), per un altro conduce una «nuova» lotta di classe per contrastare lo sviluppo delle classi operaia e media [4]: infatti, prende le iniziative più adatte a impedire la costituzione di risorse, nei bilanci economici dello stato e di ogni altra istituzione, che possano favorirlo. Così il potere capitalistico coarta tutte le funzioni che devono appartenere ai diritti sociali e popolari: la scuola, l’università, la ricerca sia scientifica che umanistica; deve diminuire costantemente, in proporzione e in assoluto, il sostegno pubblico delle arti, della musica, della cultura in generale, il sostegno di ogni popolazione e persino delle singole persone che aspirino alla conoscenza. La lotta anticapitalistica delle classi subalterne, che non sono affatto scomparse, comprende la riconquista di questi diritti.

Vi rientra, non è una forzatura affermarlo, anche il diritto di godere l’effetto di una visita esauriente, preparata e orientata, del Duomo di Milano sull’intelligenza e sul sentimento!

Il municipio con gli assessorati e altre istituzioni pubbliche o pubblico-private, dal momento dell’avvento del centrosinistra succeduto all’amministrazione del sindaco Letizia Brichetto Moratti, ex ministro dell’università e ricerca scientifica, ha in sostanza confermato una politica culturale frammischiata col turismo. Siccome quest’ultimo, come si è visto, trionfa dentro all’incessante ciclo della compravendita, le istituzioni indirizzano le masse aspiranti a conoscere i beni artistici e culturali della città allo stesso modo, cioè secondo la maggior resa economica.

Per questo «servizio» funziona oggi Milanoguida, un’organizzazione che propone con largo anticipo visite guidate a pagamento (biglietto d’ingresso più accompagnatore-narratore) in primo luogo alle mostre, poi a qualcuno dei complessi storici monumentali. Enorme lo squilibrio numerico delle visite offerte fra le prime e i secondi, peraltro scelti, quest’ultimi, secondo criteri inadeguati rispetto alla grandezza della dotazione milanese. Dev’esserci una specie di virus che infetta i decisori occulti per le visite d’arte e i relativi aspiranti. Infatti persiste inguaribile e diffusa la malattia denominata Frida Kahlo. Insomma, per una nuova mostra delle pittrice messicana (3 febbraio - 3 giugno 2018, Milanoguida vanta già ora 18 esauriti delle 31 visite guidate previste nel mese di febbraio (prezzo tout compris 22 euro). Per capirci senza altre discussioni: nello stesso mese, finora Sant’Ambrogio non ottiene alcuna indicazione mentre ha ospitato a gennaio due sole visite guidate. Per chiudere con un altro dei tanti esempi possibili riguardo agli squilibri che è la stessa politica a-culturale di Milanoguida a provocare: Santa Maria della Passione, la seconda chiesa di Milano per dimensione dopo il Duomo, magnifica l’architettura, bellissimi il decoro e le opere d’arte, unica la contrapposizione di due famosi organi del ’500-‘600 ai lati del presbiterio, dotati di ante dipinte e protagonisti di concerti in duo, non è stata selezionata per visite di gennaio e presenta una sola segnalazione per febbraio [5].

[1] Qui riportiamo il dato giornalistico di 12 milioni di visitatori annui. Che sarebbero diventati 20 secondo scritture o parlate dei giorni nostri.
[2] In
eddyburg, 21 aprile 2016.
[3] L’incentivo all’acquisto avviene rivolgendosi direttamente e paternamente al visitatore: «Potrai immergerti in un percorso coinvolgente e unico, suddiviso per tematiche ed esperienze: dal design all’abbigliamento e gli accessori, passando da oggetti per la casa, libri e souvenir originali e di qualità, presentati in modo suggestivo e attraente». Davvero un emporio in linea con il miglior consumismo.
[4] Vedi: Luciano Gallino,
La lotta di classe dopo la lotta di classe, Intervista a cura di Paola Borgna, Laterza, Roma-Bari 2012.
[5] Tutt’altra levatura culturale, generale e specialistica, presenta un’intraprendenza estranea alla macchina organizzativa di Milanoguida. La denominazione: Iniziative culturali di Pierfrancesco Sacerdoti, di Google Gruppi. Sacerdoti è un giovane architetto conoscitore, entro una competenza complessa di architettura e di arte, delle testimonianze milanesi a partire dall’eclettismo ottocentesco fino all’attualità, attraversando il Liberty, il modernismo e il Novecento, il razionalismo, la nuova critica post-razionalista e le contraddizioni dell’attualismo internazionaliste. Su queste basi egli conduce piccoli gruppi di cittadini, magari in bicicletta nelle buona stagione, alla scoperta di una città poco conosciuta o in ogni modo non esibita secondo l’effettiva qualità delle opere che la contraddistinguono.

Sia che le proposte urbanistiche degli anni Venti fossero di «urbanisti» o di «disurbanisti», ci pensò il Comitato centrale sovietico del 16 maggio 1930 a decretarne la morte o la stentata sopravvivenza (segue)

Sia che le proposte urbanistiche degli anni Venti fossero di «urbanisti» o di «disurbanisti», ci pensò il Comitato centrale sovietico del 16 maggio 1930 a decretarne la morte o la stentata sopravvivenza, tacciandoli di estremismo, utopismo e, per eccesso di incoerenza, di opportunismo. Lenin era morto da sei anni. Egli riconosceva il ruolo indispensabile della città per il progresso sociale ma l’ideale di sopprimere l’antagonismo fra città e campagna era al primo posto. Sarà Stalin a dichiarare con impressionante noncuranza tautologica che «l’eliminazione delle differenze sostanziali fra l’industria e l’agricoltura non potrà portare all’eliminazione di qualsiasi differenza fra di esse. Una certa differenza… incontestabilmente rimarrà, a causa delle differenze esistenti nelle condizioni di lavoro nell’industria e nell’agricoltura»[1].

Il realismo era avverso all’utopismo e soprattutto al modernismo, come si confermerà in seguito per la restante durata dello stato sovietico a causa dell’ordine zdanovista applicato all’arte e all’architettura.

Leggiamo l’articolo del Guardian in eddyburg. Da una parte risaltano trionfalistiche costruzioni e sistemazioni pseudo-sociali di abbellimento urbano, dall’altra risuonano pesanti passi dell’oca verso il «cambiamento», ossia la privatizzazione dell’edilizia includente vecchi e umani spazi comunitari. Non esiste in Russia nel modo di costruire la città alcuna cultura e pratica differenti da quelle dominanti nel mondo della globalizzazione urbana.

L’architettura di oggi a Mosca
Quella, sempre a Mosca, del 1952

Come in qualsiasi paese d’occidente deturpato dalle ignobili scelte d’architettura urbana in un medio ed estremo oriente in grado di esportarle, Mosca esibisce, e continuerà a farlo nel futuro, i soliti grattacieli dritti, torti, sciancati come dappertutto, credendo con questi di dar lezione sbeffeggiante ai sette famosi edifici alti e complessi definiti «stalinisti» (Stalinskie Vysotki): dall’Hotel Ucraina all’Università Lomonosev, dall’Hotel Lenin al Ministero degli esteri, e così via: uniche grandi costruzioni realistiche da noi selezionate come architetture storiche difese dalla loro stessa consistenza massiva nella determinata funzione, e recepite sensitivamente come organi emittenti note estreme di un neo-romanticismo né europeo né asiatico, o forse fusione di entrambi. Il romanticismo musicale russo potette prolungare la propria esistenza, proporzionalmente appartata, oltre l’ultimo ventennio dell’Ottocento grazie a Rachmaninoff (che lasciò la Russia nel 1917), musicista estraneo ai movimenti espressionistici e al rivolgimento viennese ma capace di portare gli ascoltatori che riempivano e riempiono tuttora gli auditori al più alto grado di commozione con le sue invenzioni tematiche, esaltate da un pianismo mirabolante e in se stesso tecnicamente (diremmo) romantico.

Cosa è successo all’architettura e all’arte della rivoluzione, cosa potrebbe succedere? Qual è il grado di riconoscimento dell’autorità e dei cittadini verso l’architettura moderna e l’arte geometrica parente stretta della prima? L’arte è caduta prima del 1930; aveva raggiunto vertici d’espressione oltre l’astrazione, collegata com’era al tema della construction e all’impaginato colto della propaganda sovietica negli anni precedenti e immediatamente successivi al 1920. La pittura e la scultura realiste (oltre alla letteratura), celebrative o commemorative, dovettero ad ogni modo attendere il superamento (effettivo o apparente) dei contrasti politici e culturali al centro e alla periferia del potere per approdare alla più inerte forma di interpretazione della vita nella Grande Russia quale modello di felicità. La prospettiva zdanovista al congresso degli scrittori nel 1934 sanzionerà definitivamente ogni deviazione. Dopo la sua morte sarà Stalin in persona, nei pochi anni che gli resteranno da vivere, a emanare pesanti critiche, censure e divieti, il cui effetto durerà a lungo. Sicché, all’interno di un consenso popolare privo di strumenti conoscitivi, non potranno formarsi né tantomeno affermarsi, nuovi artisti in nessuna disciplina. Unica eccezione la straordinaria figura di Dmitri Shostakovich, personaggio centrale di un racconto, non proponibile qui, sul rapporto fra l’arte e il potere.

L’architettura dopo la rivoluzione presenta una propria versione della tendenza che in diversi modi percorre l’Europa, tutti diretti a contestare l’eclettismo ottocentesco e i suoi retaggi, a cercare nuove strade, nuovi stili improntati alle ragioni fondamentali delle funzioni relative alle persone e alle domande sociali. Architetture diverse possono manifestare la stessa volontà di riforma, ma si è soliti identificare come maggioritario ed europeista il razionalismo originato in Germania e diffuso in altri paesi, magari trascurando esperienze non meno importanti benché localizzate in contesti regionali, per esempio Vienna o Amsterdam. In Russia numerose associazioni di architettura o di cultura in cui l’arte e l’architettura concorrono a creare condizione nuove, «rivoluzionarie », agiscono per rispondere modernamente alla gigantesca domanda di ogni genere di edifici e infrastrutture.

Gli architetti con alla testa i giovani non estranei agli sviluppi della disciplina in Europa ricevono il messaggio razionalista ma ne vogliono approfondire la costituzione più avanzata. Così si affermano correnti originali, in alleanza con l’arte geometrica cui abbiamo accennato, che avranno risonanza fuor dei confini. Razionalismo «sovietico», costruttivismo, cubofuturismo (preavvisato, se così si può dire, dall’avanguardia futurista in pittura fin dal 1912) testimonieranno con interventi in diverse città la grandezza di molte realizzazioni. La nuova architettura, diversamente dall’urbanistica, sembrò poter superare l’anatema del 1930 e infatti qualche risultato conforme lo ottenne ancora al principio del decennio, ma bastò poco tempo perché suonasse la grancassa del realismo socialista ripudiante l’opera avanguardista degli anni Venti.

Di qui possiamo riallacciarci agli interrogativi fatti. Esistono ancora in Russia, e anche in nuovi stati distaccatesi dall’«impero», numerosi complessi architettonici o unità che, come già avvenuto nel passato, potrebbero rischiare di scomparire stante la concezione urbana e architettonica predominante.

La Royal Academy of Arts ha organizzato per la fine del 2011 e l’inizio del 2012 la mostra Building the Revolution: Soviet Art and Architecture 1915-1935. Quattro città europee l’hanno accolta, Salonicco, Barcellona, Madrid e Londra. Il magnifico catalogo ci è arrivato da poco. Ne abbiamo ricavato una selezione, cinque lavori di grafica-pittura-modellini (quattro dal titolo Construction, uno con la proposta grafica di El Lizzistzky per il monumento a Rosa Luxenburg), sedici di architettura, disparati. Con queste ventuno figure abbiamo costruito un corpus di immagini facilmente consultabili: vedi qui sotto il rettangolo del frontespizio blu con la scritta; basta il doppio clic per aprire la serie a pieno schermo del pc, passando dall’una all’altra con un semplice clic o con le freccette di spostamento.

Clicca qui per sfogliare il catalogo

Il quadro d’insieme delle architetture evidenzia:
1.- Molti edifici appaiono in stato di degrado, tanto da richiedere interventi urgenti di restauro. In verità dove ha prevalso l’abbandono, spesso concentrato nell’industria ma non estraneo a nuclei abitativi, l’ipotesi del restauro sarebbe illusoria se non falsa.
2.- Qualche caso di restauro accurato emerge dalla rassegna. Vedi in particolare la bellissima scala «novecento» in un complesso a Ekaterinburg destinato originariamente a personale del KGB (privilegio delle élite?).
3.- Risalta la mancanza di manutenzione in edifici residenziali famosi, vedi la Casa comune di Ginzburg e Milinis in viale Novinski a Mosca.
4.- Al contrario, si nota come possa perpetuarsi la funzione sociale di complessi abitativi un tempo pubblici quando la soluzione urbano-architettonica sia stata particolarmente felice, vedi la Casa comune di Ginzburg e Pasternak a Ekaterinburg.

[1] G. Stalin, Problemi economici del socialismo nell’URSS, Ed. Rinascita, Roma 1953, pp. 40-41, cit. in V. Gerratana, Introduzione a F. Engels, Antidüring, Editori Riuniti, Roma 1971, p. XXVII, nota 11

(segue)

Dopo oltre undici anni dall’articolo Abusivismo o no, questa è l’urbanistica italiana [1], conseguente a un intervento di De Lucia contro chi risuscitava l’«abusivismo di necessità», ora ritorno non alla brughiera come Clym ma all’ugualmente desolato campo dell’incolto casalingo. Qualcuno, mentre l’edilizia, appunto abusiva e no, continua a crescere inconcepibilmente in ogni luogo, ci ha investito nuovamente con la falsificazione estrema dell’abusivismo giustificato da un supposto impellente bisogno di povera gente.

Brevi note qua e là

1.- Da un buon dizionario: «Abusione», termine letterario dismesso, sta per «abuso», ma più risonante. Infatti suona come qualcosa di gonfio, abbuffante. Propongo di inserirne la propensione fra le distinzioni delle classi italiane per le parti di esse che, diverse, si uguagliano per vari conformismi e soprattutto per tendenza a fare dell’illecito o dello smoderato una norma di comportamento: nel modo di operare contrario alle leggi e alla disciplina, specialmente nel campo edilizio.

2.- Abusivus è il termine del tardo latino (XV secolo) per indicare un fatto o un detto impiegati senza averne il diritto. «Abusivismo» è voce moderna; sempre secondo i dizionari sarebbe apparsa solo nel 1961. Ma Pier Paolo Pasolini nel suo viaggio del 1959 lungo le coste d’Italia da Ventimiglia a Trieste aveva già notato i segni di un imminente sconvolgimento del territorio a causa di una continua tempesta edilizia scoppiata dal dopoguerra. Pochi anni dopo il film Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963) sancirà la già avvenuta rovina di Napoli attraverso una sfrenata anarchica speculazione edilizia. Appena tre anni e dovremo assistere sbalorditi alla frana di Agrigento, nuova prefazione al romanzo nero del territorio italiano in centomila pagine.

3.- Ogni processo economico sociale aveva fatto la propria parte. La linea rispettosa delle leggi ma non della storia e della cultura produceva un’extra large urbanistica, brutale, volta a sostenere una possibilità edificatoria di cinque, dieci volte superiore a quella di una previsione attendibile basata sulla ricerca scientifica storico-sociale. Intanto, ben prima della novità terminologica anzi con un anticipo di oltre tre lustri, la curva irriguardosa di leggi, norme, buone consuetudini fondava l’anti-urbanistica privata ma anche scandalosamente pubblica indirizzata, fuori del quadro legale, alla decuplicazione della rendita fondiaria. L’accompagnava un’edilizia mala e brutta capace di mobilitare il profitto verso altezze sconosciute ai pur banditeschi impresari di casacce per operai delle Manchester o Londre descritte da Marx-Engels.

4.- Subito dal dopoguerra, specie nelle città vittime dei bombardamenti inglesi e americani, l’urgenza della ricostruzione, in ambito di concessioni o autorizzazioni già esse dotate di ricchi premi di cubatura su basi di normative pasticciate, provocò un caratteristico abusivismo a metà mediante l’«interpretazione». C’erano maestri di questa insidiosa maniera, sicché ulteriori esorbitanti maggiorazioni delle superfici e delle volumetrie erano accettate dall’ente pubblico (insieme alle spaventose brutture).

5.- A Milano la ricostruzione, tempo e luogo della speranza degli architetti razionalisti per realizzare un’architettura sociale nuova, in questo senso fallì. La fine dell’anno 1948 celebra tre anni di attività edilizia dominata da imprenditori e impresari del tutto disinteressati agli scopi sociali ed estetici dell’architettura, non meno cinici dei costruttori detti al punto 3. Sarà Piero Bottoni nella rivista Comunità di maggio-giugno dell’anno successivo a lamentare che «la ricostruzione basata essenzialmente su scopi speculativi ha ripetuto ingigantendoli tutti gli errori delle architetture precedenti». Intanto il decano Enrico Griffini già nel fascicolo di dicembre 1948 di «Edilizia moderna (nn. 40-41-42) aveva attaccato duramente gli abusi nei sopralzi anche totali di edifici risparmiati dalla guerra «...conseguenza di decadenza morale e civile…». E concludeva: «tutto il problema edilizio è oggi deformato dalla speculazione con abusi di ogni genere a dispetto delle Sovrintendenze, delle leggi, dei decreti… Domina la norma del ‘fatto compiuto’» [2].

6.- Il grande quadro urbanistico edilizio di Milano, all’epoca, è uno specchio di abusivismo generalizzato giacché spesso nemmeno la preesistenza di edifici monumentali teoricamente intoccabili fermava il caterpillar demolitore. Fra una miriadi di casi ricordiamo lo scandalo della distruzione di San Giovanni in Conca, chiesa medievale, per far spazio a colossi di uffici incardinati sul nuovo stradone, ultimo tratto della infida “Racchetta” (la maltrattata e deformata facciata della chiesa fu rimontata altrove!). Antonio Cederna, sconfitto da poteri avvinti troppo forti, non perdonerà mai a Milano tale peccato mortale. Lui che, lo vedemmo increduli, riuscì a salvare la Chiesa borromeica di San Raffaele, vicina al Duomo, dal fiero pasto come dell’Ugolino cucinato da Municipio e Curia in onore della Rinascente, che voleva mangiarsela. Una prospettiva di «Abusione» elevata al cubo.

7.- La logica del fatto compiuto specie nei sopralzi postbellici fuorilegge denunciati da Griffini provvide a generare la spirale di uno specifico dna milanese che continuò a svolgersi senza interruzione fino a fissarlo come in acciaio, imprimendo una violenta malformazione del volto urbano più rovinosa che in ogni altra città stante la buona qualità dell’architettura urbana. Come e più che a Roma venne a erigersi al di sopra della gronda, senza opposizioni istituzionali e senza avvertimento dei cittadini a cui pur capitava di muoversi col naso all’aria, un’altra città residenziale a pezzi e bocconi. Sregolata ma completa delle dotazioni necessarie per vivere bene (anche giardini, serre, boschetti), noncurante quando la esibizione di sé eccedesse il troppo. Il milanese, quel tipo di milanese (e il commuter milanesizzato) si sapeva che tutt’al più avrebbe mugugnato, gran filosofo dei fatti suoi.

8.- Così non poteva che accadere, al tempo di una retrograda «modernizzazione», dopo il periodo classico delle sanatorie di tutti gli abusi edilizi (e delle evasioni fiscali) comprendenti la città soprana postbellica e successiva, la festa della costruzione di fertili cubature oltre gronda secondo specifica legislazione regionale, consenziente il Comune. Siamo nell’ultimo decennio del secolo breve (o lungo?) e scatta la normativa per gli «interventi finalizzati al recupero dei sottotetti». Che man mano diventerà sempre più larga, più generosa verso progettisti e costruttori, lontanissima dallo spunto originario fino a confondersi con un progetto globale di sopralzare la città senza guardare in faccia a nessuna architettura, fosse anche quella magnifica di palazzi storici in strade perfette per disegno urbanistico. La giustificazione più barbina: quella di evitare ingombro edilizio sul terreno libero (solito slogan menzognero «no al consumo di suolo»), intanto che un’impressionante espansione calcolabile in milioni di metri cubi spesso in forma di grattacielo, cominciata per grazia del sindaco Gabriele Albertini (a capo di un centro destra dal 1997 al 2006), era proceduta e procede di pari passo pesante con la deturpazione della città storica.

9.- In eddyburg abbiamo attaccato questa maniera, un secondo «rito ambrosiano» non meno difficile da contrastare, a cominciare dall’inizio del millennio. Primo articolo nel 2003, seguito da un secondo l’anno seguente [3]; poi diversi interventi ogni volta che la permissione relativa ai sottotetti diventava tutt’altro, per esempio applicazione alle case con la copertura piana e, per chiudere una fase piena di riconosciute ambiguità e contorcimenti giuridici, spiattellamento della verità: vocazione dell’autorità ad accettare progetti di «innalzamento urbano» (se così si può dire) per un certo numero di piani in qualsiasi edificio e qualsiasi altezza abbia. La linea del cielo milanese cambia tuttora ogni giorno.

10.- L’abusione provocatoria. Ne consideriamo emblema la vicenda, raccontata oltre dieci anni fa, di un edificio milanese in una strada del super-centro, via San Paolo. Sei piani esistenti, cresciuti rapidamente a otto senza che il Comune intervenisse. Il quotidiano la Repubblica svelò lo scandalo che valse cinque milioni di guadagno netto. Quei due non furono demoliti. Una multa? Chissà [4].

11.- Unico abusivismo di necessità autentico eppure non propriamente un abuso, quello del dopoguerra e per tutti gli anni Cinquanta nei comuni dell’hinterland milanese. Chi non ricorda le Coree? I sindaci regolarizzavano gli edifici in base a progetti minimi «di sanatoria» presentati da geometri locali; ma alcuni sorsero con progetti, pur poverissimi, corredati di licenza edilizia regolare e tempestiva. È il momento di rileggere o leggere per la prima volta Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati. Magari aggiungendo la ricerca «Immigrazione e habitat nell’hinterland milanese 1948-1960» [5].

[1] In eddyburg, 10 maggio 2006. Poi in L’opinione contraria. Articoli in eddyburg.it. Giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2006, pp.157-163.
[2] Vedi, per gl’interventi di Bottoni e di Griffini, L. Meneghetti, Note (e meno note) cronologiche sulla ricostruzione a Milano, dedicate agli studenti nel cinquantenario della sua conclusione (1948), in Quaderni di Architettura, 22, settembre 2000, p. 77 e p. 81-82.
[3] L. Meneghetti, La distruzione della linea del cielo milanese, in eddyburg 10 dicembre 2003, poi in Parole in rete. Interventi in eddyburg giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005; Idem, 2, in eddyburg 17 giugno e idem, p.119.
[4] Dettagli in L. Meneghetti, Nuovi abusi vecchio abusivismo, in eddyburg, 2 novembre 2008, poi in Promemoria di urbanistica, architettura, politica e altre cose, Maggiolo, Santarcangelo di Romagna 2010, p. 35.
[5] F. Alasia / D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano 1960. Seconda edizione accresciuta, 1975. – L. Meneghetti, Immigrazione e habitat nell’hinterland milanese 1948-1960, clup, Milano 1984. Collaboratori alle indagini in luogo, L. Aloi e M. Migliavacca.

eddyburg potrebbero aver conosciuto quasi un decennio fa il caso del restauro, (invero ricostruzione) del Castello visconteo-sforzesco di Novara ... (segue)

eddyburg potrebbero aver conosciuto quasi un decennio fa il caso del restauro, (invero ricostruzione) del Castello visconteo-sforzesco di Novara in Piazza dei Martiri, una volta Vittorio Emanuele II: il grande spazio quadrato tipicamente piemontese eredità della città storica interna circondata dai bastioni spagnoli. Un restauro che in seguito definito (a mala pena) discutibile equivalse a sminuirne la violazione delle buone regole quand’anche riferibili a interpretazioni del modo di Viollet-le Duc. Ricostruzioni di corpi di fabbrica immotivate, falsità spacciate per libertà d’architettura, soprattutto l’invenzione secca di una torre di 24 metri al centro dell’edificio prospiciente la piazza (a sua volta rimaneggiato, rimpastato come fosse un avanzo di torta mordicchiata dai topi). Torre pazza, insensata con quell’altana priva di destinazione chiusa per tre lati da alti muri ciechi. Non bastò l’opposizione di Italia Nostra e di molti intellettuali. Bastò invece il favore della soprintendenza e, ovvietà scontata, di altri intellettuali fra cui architetti amici o conoscenti del progettista fiorentino (in eddyburg, 20 marzo 2008).

Di qui, per aprire un nuovo argomento (in prima persona) debbo ripensare a momenti di oltre mezzo secolo fa. Il 1956 è una data cruciale nella storia moderna di Piazza dei Martiri. Pochi possono ricordarlo, pochissimi non anziani lo sanno: allora l’insieme urbanistico e architettonico fu in gravissimo pericolo di sovversione. Una terribile violenza edilizia stava per abbattersi sul Palazzo del Mercato, l’edificio insigne, magnifico esempio di architettura neoclassica del secondo ventennio dell’Ottocento, di solito designato come Palazzo Orelli dal nome del progettista, ingegner Luigi Orelli (progetto 1816, completamento 1842). Ogni passante oggi può godere la perfezione architettonica della vasta, compatta ed elegante costruzione quadrilatera, completamente porticata, dotata di un solo piano al disopra delle arcate e di un potente stilobate atto a ripianare le differenze di quota del terreno lungo i fianchi e il lato opposto alla piazza (Corso Italia, con la doppia scalinata).

Palazzo Orelli (Palazzo del Mercato)

Ebbene, in quell’anno l’amministrazione di sinistra appena insediata si trovò a sfogliare il progetto per il sopralzo di un piano del palazzo per l’intero quadrato: progetto voluto e approvato dagli amministratori precedenti (democrazia cristiana) e avallato in maniera definitiva dal direttore generale delle antichità e belle arti presso il ministero della pubblica istruzione, Guglielmo De Angelis d’Ossat. Sandro Bermani è il nuovo sindaco, chi scrive giovane assessore a tutto ciò che concerneva allora l’urbanistica, comprendente lavori pubblici ed edilizia privata. La battaglia per «tornare indietro» fu subito iniziata e richiese anche un difficile e non poco imbarazzante confronto romano del sindaco e dello scrivente col principe dei soprintendenti. Come si vede e spero si vedrà per sempre passeggiando nella piazza ammirando il palazzo (permettendolo la molesta presenza, alle spalle, della famosa torre nonché delle automobili), la battaglia fu vinta. Un successo insperato, giacché i rapporti di forza a livello politico nazionale parevano impedirlo.

In quello stesso anno, mentre da una parte fu assicurata la persistenza della più importante piazza della città nella sua conformazione storica, da un’altra non si potette ignorare l’esistenza, lì vicino, di quel grande spazio fra il palazzo della scuola Bellini e lo spalto del bastione spagnolo: un grande rettangolo a cui era difficilissimo attribuire un senso: squallore, incertezza di appartenenza e utilità urbana lo segnavano insieme al disinteresse dei cittadini: uno spazio di nessuno, essendo semmai sentiti come propri solo la scuola e, contiguamente, l’ospedale. Aumentare il verde della città, specialmente dotato di vaste alberature, era un obbiettivo primario del nostro programma di amministratori. Mi impegnai con massima decisione insieme a ingegneri dell’ufficio tecnico in un progetto di piantumazione integrale del Largo intitolato alla benefattrice Giuseppa Tornielli Bellini.

Pensai che non bisognava diminuirne il significato e la funzione ecologica (perché no, miglioramento della sintesi clorofilliana) inserendo altre destinazioni (sportive, ludiche, commerciali…). Il risultato doveva consistere nella nascita e crescita di un vero bosco, un «bosco urbano», locuzione che più tardi il linguaggio dell’urbanistica inserirà finalmente nel proprio vocabolario. Così si procedette rapidamente a definire la griglia dell’impianto e la scelta dell’essenza, unica e a crescita non troppo lenta, appropriata al nostro territorio e al clima padano, già applicata durante le vicende storiche novaresi. I platani trasferiti dai vivai comunali non erano alberini come bambini appena nati, ma fusti di diametro apprezzabile e di chioma fremente al venticello. Dopo oltre mezzo secolo il bosco, bello e necessario, rivendica la propria intoccabilità. Alla conclusione dei lavori mi permisi ciò che altri avranno magari (non lo so) ritenuto uno sfizio, un grillo: all’inizio dell’alberata (provenendo dalla piazza) feci piantare tre ciliegi, frutto del tipo rosso-bianco che da ragazzi chiamavamo «tabarin». Anni dopo, venuto da Milano con mia moglie in visita a parenti e ad amici, potemmo gustare i frutti maturi colti da noi.

Il bosco di Largo Tornielli Bellini

Ora un progetto degli attuali amministratori comunali (Lega) riguarda entrambi gli spazi oggetto di questa memoria. Vorrebbero distruggere il bosco urbano per farne un parcheggio (sotterraneo o a livello non fa differenza) allo scopo (dicono) di liberare la Piazza dei Martiri dalle auto e cacciarle lì. Da quale cultura deriva una scelta così retrograda? Nessuno può dire che in tema di paesaggio urbano l'una cosa valga di più o di meno dell'altra. Piazza dei Martiri (nonostante la torre) e Largo Tornielli Bellini reso fitto di piante nel 1956 (altrettanto storico, dunque) sono entrambe costituzioni alla pari del paesaggio novarese, quasi in reciproca sequenza l'una verso l'altra. La prima va restituita ai pedoni, senza se e senza ma, secondo un programma di riconquista dell'intera parte di città all'interno dei bastioni volto al bene di cittadini e visitatori. La seconda va difesa in ogni modo, a spada tratta come a fronte di una nuova invasione delle nostre terre (novaresi e vercellesi) di barbarici Cimbri, ben conosciuti e sconfitti dalle formazioni romane guidate da Caio Mario al tempo della battaglia di Campi Raudii (vedi Sebastiano Vassalli, Terre selvagge. Campi Raudii, Rizzoli, Milano 2014).

Nota. Diverse associazioni novaresi hanno consegnato alla vicesindaco una lettera firmata da 1.206 cittadini che perora la rinuncia al progetto del parcheggio. L’iniziativa proviene da Idee di Futuro, Novaresi Attivi, Sermais, Legambiente, Italia Nostra, Pro Natura, Unione Tutela Consumatori, Comitato Spontaneo per la Tutela del Centro Storico, Comitato Territoriale Novarese Acqua, Esposti all’Amianto, Medicina Democratica.

NOTA DELL'AUTORE - 19 GIUGNO 2017
Dopo diversi anni sono passato da Novara. Brutta sorpresa: Largo Tornielli Bellini, ora, lontano e deforme parente della sistemazione 1956, durevole per qualche decennio nella configurazione originaria man mano più bella per la crescita delle piante.
Sono rimasti solo due filari di platani, naturalmente alti ma potatura che più sbagliata (e ritardata) non si può, cioè taglio progressivo dei rami bassi per ridurli come scopini per la polvere. Spariti i tre magnifici ciliegi dalla chioma fitta pendente fin quasi a terra (era stato facile per noi cogliere i frutti…). Responabili non solo una ciclopista e i soliti privilegi al traffico automobilistico: il municipio non ha mai amato questo luogo e il progetto di realizzare un parcheggio sotterraneo non è di oggi. Ad ogni modo valga la forte opposizione dei movimenti elencati (il numero di firme ha superato le 5.000), benché il personale disamoramento (a quest'età!) invogli a cacciare il ricordo nel cestino.

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Due sembianti della città appaiono chiari solo casualmente ai milanesi (per quanti ne esistano ancora e ricordino le vicende sociali). Come due linee parallele che man mano allungano il proprio tracciato mentre il tempo trascorre, quindi non spariscono mai, anzi seguono la logica dell’accumulo e diventano linee di forza, la mafia (in Lombardia specialmente ‘ndrangheta) e il fascismo-nazismo coltivano la propria distinzione. Come le parallele non si incontrano né si scontrano, benché lo si sarebbe potuto immaginare pensando a storie di mafia e di fascismo del meridione [1]. La prima occupa un largo spazio del capoluogo e tanti altri spazi nella regione, come fosse ormai canonizzata per due motivi: legittima appartenenza a diversi settori economici, quelli in cui è diventata «grande azienda» attraverso una lunga esperienza spesso sanguinosa in Calabria e in Sicilia; partecipazione al dialogo politico-sociale, se così possiamo esprimerci. Il secondo, fenomeno minore al confronto solo per dimensione corporea ma preciso e puntuto, è capace di strascicarsi dentro le mille fenditure nel cretto di una società che perde coesione, che tende, appunto, a fratturarsi come una terra condannata da molto tempo alla siccità.

1. Un procuratore milanese conoscitore dei fatti e misfatti mafiosi per aver lavorato oltre un decennio nella Direzione distrettuale antimafia (Dda), ci dimostrò in un convegno di cui cade ora il decennale che ‘ndrangheta, mafia e consimili diventavano preminenti possessori nella nostra città di interi settori economici o di una loro grossa parte [2]. Dell’edilizia si sapeva, nel Sud il comando sull’intero ciclo produttivo dal terreno all’edificio era già un dato storico. Nulla si erano vietati i clan per liberarsi di qualsiasi ostacolo, assassinio compreso. Nell’esportazione al Nord della potenza imprenditrice non occorrerà più uccidere per conquistare il mercato, semmai basteranno intimidazioni mediante danneggiamento o incendio ai cantieri. E si approfitterà intensamente della tipica condizione esecutiva nel settore delle costruzioni che al temine delle procedure essenziali si sedimenta nella pacchia dei subappalti. Ah.. l’Expo!

Intanto, da cittadini abbiamo quasi toccato con mano la conquista di posizioni dominanti o in ogni modo notevoli nel commercio in tutte le sue declinazioni, negozi di abbigliamento, turismo, alberghi, ristoranti-bar, pizzerie… Secondo voce di popolo le probabilità di portar soldi a ‘ndrangheta o mafia cenando in una qualsiasi pizzeria sono almeno del cinquanta per cento. Del resto la magistratura aveva segnalato che la mano mafiosa detiene circa il 25% del valore commerciale milanese e che «sul mercato» operano intoccabili gruppi di comando potenti quanto e più della vecchia nomenclatura siciliana o calabrese. I negozi e gli empori di abbigliamento che si susseguono inesorabilmente lungo gli oltre quattro chilometri da piazzale Loreto fino al Castello (non esiste quasi nient’altro, se non i bar-falsi-ristoranti per la sosta-pranzo degli impiegati) [3] e s’ingrovigliano fra sparizioni e avventi, cambiamenti di insegna, di marche e di prezzi, ci narrano che la sfera dell’intero processo commerciale gira come un pianeta dove ogni attore sociale svolge il proprio compito, anche truffaldino, nel perseguimento della legalità: ogni capitale d’origine sconosciuta, anche il più intriso di indecenti e nere costituzioni, diventa bianco e si appariglia ai consanguinei allo scopo di vendere solo in apparenza.

Ancora un magistrato ha letto un elenco di comuni lombardi nei quali mafia o ‘ndrangheta rappresentano forze determinanti dell’economia e dei rapporti sociali. Città e paesi, per prima Milano, (non si poteva dubitare…), ma ci sono Varese e Como e Lecco e Monza e Busto Arsizio e molta Brianza e comuni popolosi. D’altronde la Regione conosce i Consigli comunali sciolti per mafia. Le pagine locali dei quotidiani rappresentano la Lombardia come una metafora perfetta della ramificazione della ‘ndrangheta in tutto il settentrione. La questura milanese (la squadra mobile) possiede una mappa - pubblicata dai giornali - che mostra i centri appena importanti fra il capoluogo (compreso) e il confine svizzero «colonizzati».

Le mafie, soprattutto le cosche calabresi, si sono rigenerate dopo le pesanti condanne subite dai capi-famiglia negli anni Novanta grazie all’entrata in azione di figli e altri famigliari che si muovono in maniera per così dire moderna allo scopo di inserirsi nell’economia legale. «Le risorse specializzate» assegnate ai distretti per combattere la mafia sono insufficienti. Quello di Milano, comprendente fra l’altro le città mafiose di media dimensione sopra citate, è costituito da poco più di 200 uomini. La Dia (Direzione investigativa antimafia) che ha competenza su tutta la Lombardia da soli 68. A noi appare ancor più grave la dichiarazione che aggiunge una ragione sociale della mancanza di risorse per una lotta efficace: sta prevalendo «un contesto di “disattenzione”» dei cittadini e delle autorità perché l’attenzione si rivolge «al tema della percezione della sicurezza, che ha spostato i riflettori sulla microcriminalità collegata alla presenza di stranieri e di altri soggetti operanti sul terreno della devianza sociale».

2. Disattenzione, parola chiave. Disattenzione di prefettura, questura, Comune di Milano, polizia locale, consigli dei municipi, associazioni, cittadini. Non si era ancora spenta la risonanza di un 25 aprile popolare trascorso col successo delle manifestazioni e, finalmente dopo diversi anni, col divieto del prefetto (una gentile signora) alle formazioni fasciste-naziste contrassegnate da varie sigle di entrare in corteo nel cimitero Maggiore di Milano, a Musocco, e commemorare alla loro maniera con atti apologetici i soldati della Rsi sepolti al campo 10, quando, il giorno 29, scatta la disattenzione.

Le dimostrazioni (e di più) vietate il 25 accadono in forma massiccia ed esaltata quattro giorni dopo. Il raggruppamento dei tanti movimenti fascisti, neofascisti, neonazisti, nazionalsocialisti, razzisti, (non meno di 1000 militanti, forse 2000?) aveva preparato in segreto la doppia beffarda provocazione: la parata e la celebrazione con i perfetti riti-reato (in primis gli spropositati saluti col braccio alzato) al Musocco, la rievocazione in piazzale Ss. Nereo e Achilleo del camerata Sergio Ramelli ucciso nel 1975 appunto il 29 aprile. Centrati così due obiettivi: «il primo è una prova “muscolare”, beffare lo stato aggirando il divieto della prefettura… Il secondo è strategico: offrire una rappresentazione plastica - visibilissima - dell'attuale compattezza del blocco nero» [4].

Quanto più le numerose formazioni di estrema destra troveranno ragioni per unirsi, tanto più dovremmo preoccuparci per la loro capacità di attrazione in tempo di crisi economica accompagnata da scomposizione sociale e deprivazione della politica di sinistra. Questo nuovo fascio-nazismo sembra più forte del neofascismo degli anni Settanta, anche nei riferimenti culturali che i meno rozzi militanti riescono a sbandierare. Inoltre potrebbe sviluppare una propensione (magari con tattica mistificante) ad alleanze con partiti e movimenti di una destra non propriamente fascista attorno a principi e pratiche effettive di nazionalismo oltranzista, razzismo, odio verso l’immigrato, omofobia, decontaminazione etnica (per esempio Lega, Fratelli d’Italia, pezzi di altri partiti, varie formazioni locali).

Per attrarre i giovani, in parte almeno diplomati della scuola superiore, rivendicare certi presupposti culturali e certi autori-personaggi è il meno che possiamo attenderci quando già abbiamo sentito vantare più volte quali guide magistrali un Julius Evola o un Ezra Pound, entrambi ammiratori di Mussolini ma diversi fra loro. Il primo, innegabile peggior «pedagogo» giacché col suo orientalismo, misticismo, esoterismo, ascetismo, spiritualismo e alchimismo offrì al fascismo ciò di cui aveva bisogno, in sintesi: ogni forma di irrazionalismo per sorreggere e rendere suggestiva la propria brutalità: mito del sangue, della razza, dell’élite spirituale, della sacralità del capo, della fedeltà ai principi eterni lo raffigurano chiaramente. Il secondo, abbagliato da un’Italia fascista creduta acerrima nemica di banchieri, usurai, speculatori, burocrati del capitale, giornalisti servitori del potere finanziario, quando la sua furiosa indignazione avrebbe dovuto indirizzarsi proprio contro un regime completamente asservito al potere capitalistico. Come fosse cieco, il poeta ha creato da sé il proprio inganno e i neo fascio-nazisti che ne fanno un loro eroe scelgono un uomo che illustrava un fascismo inesistente.

Tutto l’armamentario culturalista sfruttato cominciando al principio del Novecento lo potranno sfoltire puntando sull’italianità, accantonando i Drieu La Rochelle, i Charles Maurras, i Louis-Ferdinand Céline (quello «troppo» antisemita di Bagatelles pour un massacre), non un Knut Hamsun, collaborazionista del regime di Quinsling durante l’occupazione nazista della Norvegia e per questo processato, ma premio Nobel del 1920, narratore dall’immaginazione «neoromantica», mistico e visionario. Secondo Claudio Magris «anarchico di destra che sceglie di vivere rifiutandosi di scorgere qualsiasi orizzonte di valori al di là della vita stessa e scoprendo perciò […] l’assoluta irrazionalità dell’esistenza, anche se mitigò [nei romanzi] tale vitalismo con una gentile e perduta poesia delle lontananze» [5]. Resteranno così i maestri nostrani del nazionalismo e, alcuni, del sovversivismo, grani di un rosario contando dai primi tre precursori, Giovanni Pascoli elegiaco bellicista (giustificò la guerra imperialista d’Etiopia con la teoria del «posto al sole), Gabriele d’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti (signori di lettere e arti d’epoca). Poi Giovanni Papini (la violenza necessaria…) e forse il Giuseppe Prezzolini studioso dei mistici tedeschi (per il resto, attivissimo e colto pubblicista, interventista e spettatore davanti al fascismo); e il rosario sgrana nomi su nomi mentre vige la mediocrità (salvo eccezioni!) del «ritorno all’ordine» fino a sciogliersi nel disastro della guerra finché l’ultimo granello disperso recherà il segno di Alessandro Pavolini, scrittore e giornalista, squadrista d’antan, ministro della cultura nel regno, fondatore delle brigate nere, segretario del partito fascista nella Rsi (Repubblica sociale italiana, 23 settembre 1943 – 25 aprile 1945). Fucilato a Dongo il 28 aprile 1945.

[1] I rapporti mafia-fascismo erano evidenti sia prima che dopo l’8 settembre 1943: mafia, fascisti e istituzioni collaborarono secondo una logica repressiva dei movimenti socialisti, comunisti e anarco-rivoluzionari che si stavano affermando in Sicilia. È la propaganda fascista che ha sempre raccontato il regime mussoliniano quale implacabile nemico della mafia.
[2] Vedi il mio La rendita e le mafie, in il Novarese, a. XXVVII, n. 4, dicembre 2016, p. 8.
[3] Vedi la mia descrizione del tragitto in La contesa degli identici a Milano, madre della compravendita, in eddyburg, 21 aprile 2016.
[4] Paolo Berizzi, Milano, la deriva neofascista ricompatta la galassia nera: così l’ultradestra unita sfida lo stato, in la Repubblica/Milano, 6 maggio 20017.
5] Claudio Magris, Il prigioniero della vitalità, in C. Cases, C. Magris, L’anarchico al bivio, Einaudi, Torino 1974, p. 38.

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La città rovesciata, la città sottosopra. Avevamo creduto che l’amministrazione «arancione» gui­data da Giu­liano Pisapia avrebbe raffigurato un tipo nuovo di centrosinistra urbano, risolutamente orientato a sinistra. Invece, l’abbiamo verificato ben prima della conclusione, esso fu apportatore di pensieri e pratiche che avrebbero potuto appartenere a un qualunque moderatismo senza punti socialdemocratici, attento alla do­manda dei dominatori della città: finanzieri, corporazioni commerciali, imprenditori e impresari edili, questa coppia soprattutto. Se c’è oggi una città esemplare della libertà edificatoria come una volta Roma, è Milano. Del resto, dispersa da trent’anni anche la me­moria della grande vitalità dovuta a una miriade di produzioni industriali e una dotazione terziaria in buona parte funzionale al sostegno delle produzioni, l’ascendenza della costituzione attuale sembra piuttosto quella delle tornate amministrative del centrodestra, con sindaci come Gabriele Al­bertini («governare la città è come amministrare un condominio») e Letizia Brichetto Moratti (ex ministro di università e ricerca scientifica - «meglio le scuole private della scuola pubblica di massa»).

Fu il primo, contraddicendo la dichiarazione minimalista, ad aprire le porte della città ad architetti internazio­nalisti, estranei alla storia e ai contesti urbani, per voler innalzare i tre (uno è in ritardo) balordi grattacieli di una City Life (la prima «Nuova Milano») sull’area dell’ex-Fiera, accompagnati o circondanti da impressionanti cataste di casamenti: quelli che un sagace collega ha paragonato alle non meno gigantesche e spaventevoli navi da crociera che ogni giorno infliggono incessanti vibrazioni al corpo di Venezia, scuotendolo e così av­vicinandolo al crollo finale. Un geniale foto­montaggio, un’immagine di quegli edifici milanesi come sorges­sero dall’acqua al fondo di una calle larga, denuncia la doppia orrendezza, di architettura terranea e navale-marinara, attestante la de­cadenza delle due città. Riguardo a Milano, demolisce l’artificio basato su due car­dini: il gradi­mento popolare delle forme edilizie balzane in sé oltre che prive di qualsiasi ordinamento urbani­stico; l’assordante coro assessorile intorno a una prodigiosa «attrattività» milanese. Similmente, di­svela il senso mortale della svendita di Venezia a un turismo contro-culturale dei 20 milioni di visi­tatori an­nui e della violenta trasformazione di edifici carichi di storia socioeconomica e di bellezza archi­tettonica in contenitori per consumi di una massa estranea alla città: guarda caso, mediante il compito as­segnato all’archi-star di turno, quasi per inviare un segnale di appartenenza ai confratelli infurianti sempre più a Milano nel tempo dei centrosinistra, il primo col sindaco proveniente da Sel, il suc­cessivo col novizio e invece gran marpione Giu­seppe Sala.

Ancora una volta in Italia, anche nella città che nel corso storico si è contraddistinta per conve­niente diver­sità (la capitale morale…), gli amministratori accettano e cavalcano con le molte entità interessate l’esclusiva riproduzione edilizia urbana la più smaccata, sprezzante i bisogni di proletari e piccolo borghesi, mobilitante incalcolabili capitali d’ogni provenienza, compresa quella mafiosa. E questo, ossia le più recenti “Nuove Mi­lano” del «Progetto Porta Nuova» (pro­prietà fon­diaria comprata da emirati e principati) i nostri lo vantano come autentica modernità pro­gressista, nuovista, solo perché espressa attraverso forme di corpi suscitanti le meraviglie dei compari e dei qualunque a causa del loro consistere: colossali come lo scimmione d’epoca so­verchiante omini e donnine, contorti come il discorso di un analfabeta, volgari come i loro gemelli qatarini, sauditi, kuala-lumpuresi…

Nella nostra città la mania di grattacielo il più alto impossibile imperversa nella mente (se è questa la sede…) di sindaci, assessori, funzionari municipali, di numerosi architetti, critici d’arte (Philippe Daverio), forse anche della casalinga di Voghera fosse venuta ad abitare qui. Sicché la previsione pertinente alla più vasta opera­zione fondiaria d’oggi a Milano, la riconversione dei sette scali ferro­viari, circa 1 milione e 300 mila mq, non lascia alcuna speranza alla moderazione di interventi uni­camente destinabili alla realizzazione di una col­lana di parchi (parchi veri, senza snaturamento at­traverso sospettabili «attrezzature») e, di edilizia, soltanto quanta ne occorra per risolvere la do­manda arretrata di alloggi popolari [1]. Invece l’accordo di programma fra FS e Comune di Milano si sta definendo lungo la linea del soddisfacimento di ingiuste pretese pecuniarie delle prime e di in­casso della porzione di speculazione privata che spetta al secondo. E come?

Immagi­niamo ogni scalo come un’aiuoletta coltivata a verdura o prato nel centro e circondata da una filza fit­tissima di paletti per l’avvinghio di altro cultivar. Ingrandiamo l’immagine di cento volte appor­tando i dovuti adatta­menti realistici e presenteremo il progetto per uno qualsiasi dei terreni-scali in causa (ma anche, notiamo, degli altri spazi destinati da Prg - Pgt a parco territoriale e grandi ser­vizi): come nell’aiuola, in mezzo il verde, poco alberato e fratturato dalle «attrezzature», lungo il pe­rimetro una schiera di grattacieli da 100 - 200 metri di altezza, magari «verdi» come usa adesso a causa di terrazzi ripieni di pianterelle e cespugli, forse anche di fagiolini o pomodori [2]. Può darsi che i cinque professionisti incaricati dall’assessore all’urbanistica (vio­lando la regola del concorso pub­blico) di proporre soluzioni di massima per lo sfrutta­mento intensivo delle aree sia diversa, ma lo sarà di poco giacché uno schema di questo tipo cir­cola da mesi e assicura formidabili cubature mediante l’inganno del «grande verde».

Mentre gli scali ferroviari perdono la vecchia funzione, non c’è milanese, residente o lavoratore pendolare, qualsiasi sia la sua appartenenza, che non spenda discorso per richiamare l’urgente necessità di creare un moderno sistema di trasporto metropolitano incentrato «sul ferro e non sulla gomma», ad ogni modo sul mezzo pubblico, specie linee tranviarie e autobus a bassa emissione di residui inquinanti della combustione. Questa dovrebbe essere, pare ovvio, la posizione del Comune e dell’Atm (Azienda tranviaria milanese). Al contrario costoro, quatti quatti, operano in stretta alleanza per obbiettivi retrogradi. Così, tre fra le principali ragioni concatenate che rendono difficile la vita cittadina, traffico automobilistico, inquinamento dell’aria, uso disagevole dei mezzi pubblici di­ventano simbolo di tradimento delle aspettative civili.

Vediamo. Hanno cominciato a gennaio con l’abolizione del servizio di dieci linee di bus notturni dal lunedì al giovedì e la domenica (salvata la movida di venerdì e sabato…). A metà febbraio è co­minciato l’inasprimento dei tagli anche nelle tre linee storiche della metropolitana (Rossa, Verde, Gialla): aumento degli intervalli fra i treni e restrizione dell’orario di punta. Dal 20 febbraio, poi, le lunghe attese domenicali dei passaggi in 17 li­nee di tram spingono i «clienti» a desistere… Infine, dal 26 febbraio il piano denominato dall’Atm «raziona­lizzazione» (l’utente esperto capisce subito cosa vuol dire), si apre in tutta la sua aziendale e comunale elo­quente espressività: venti linee gra­vemente amputate. Negate per sempre soluzioni intelligenti e molto utili, per prima quella, usuale nel passato, di percorsi tranviari da periferia a periferia passanti per il centro. Ora, linee troncate brutalmente hanno un ca­polinea presso piazza Duomo. Diventa normale la costrizione a im­piegare due mezzi anziché uno, moltiplicando la durata e la penosità dello spostamento, oppure a rinunciare o ricorrere all’automobile. Altri particolari pur interessanti li trascuriamo.

Complessivamente le decisioni cozzano pesantemente contro uno solido muro di contraddizioni. Sottrag­gono mezzi pubblici, aumentano le auto, l’aria pericolosamente inspirata satura di polveri sottili, Pm10, non demorde (l’altr’anno 85 giorni di forte superamento della soglia dei 50 mcg/mc – n.b. soglia troppo alta, e nessuna regola per Particulate Matter da 2,5, le micro-polveri terribili, per così dire). Tutto si tiene, basta os­servare gli investimenti: l’anno scorso il Comune non è stato capace di contrastare il governo che ha sot­tratto 12 milioni al trasporto pubblico; quest’anno se ne aggiunge­rebbero altri 11. Ascoltiamo consiglieri co­munali di partiti diversi: I° «Tagliare il trasporto pubblico mentre lo smog sale è da irresponsabili… ora si sta esagerando» (da Forza Italia). II° «Di­venta biz­zarro chiedere ai cittadini di lasciare a casa l'auto se non si potenziano i mezzi pubblici, anzi si ta­gliano» (dal presidente della Commissione mobilità, del Pd). III° «I tagli al trasporto pubblico dan­neggiano soprattutto chi vive in periferia e nei Comuni della cintura. Costringerli a spostarsi in auto significa condannare Milano al traffico e all'inquinamento» (da M5S).

Intanto altri motivi complicano la vita in città. La costruzione della linea 4 della Metropolitana (suc­cessiva alla quinta già in funzione) procede sconvolgendo in maniera incomprensibile il centro e grandi direttrici viarie ra­diali, residenziali commerciali e di penetrazione dall’hinterland o dalla tota­lità regionale. Nei cantieri estesi lungo i viali che ricordiamo alberati anche in tutto lo spazio interno (parterre) sembra che si voglia impedire la visione e il controllo degli accadimenti. Alti pannelloni di plastica dura e spessa connessi perfettamente fra essi e con la base diventano muraglie impenetrabili. Quale tecnica stanno impiegando le imprese, se questi larghi e lunghi viali completamente re­cinti sembrano richiedere lo scavo per intero della superficie? Perché non si sono scelte le tecno­logie che rendono il «tube» indipendente dai tracciati stradali? Troppo co­stoso? Lo sappiamo, non si è costruita la metropolitana in altri tempi, quelli giusti, per così dire. Come a Londra, a Parigi, a Mosca…Adesso gli enti pubblici locali non possono che affrontare gli alti costi per l’impiego delle tecniche più aggiornate agendo sugli equilibri di bilancio e soprattutto ottenendo maggiori fi­nanziamenti statali; debbono farlo, l’adeguamento alla riduzione non può diventare il sistema corrente.

Il sacrificio delle alberature per il Comune è scontato: quante saranno a fine lavori le piante ad alto fusto perdute se verso la fine di luglio gli abitanti di una sola parte di Viale Argonne denunciavano «l’inutile abbat­timento di 573 alberi, molti dei quali secolari»? E nel vasto spazio del viale proseguente verso il centro, con il corso Indipendenza e oltre? E dalla parte opposta della città il massacro di via Lorenteggio, dobbiamo darlo per accettato? [3]. Attenzione, qui non stiamo piangendo inutilmente la morte arborea che i nostri governanti considerano una pinzillacchera. Stiamo affermando che i loro errori o le loro pretese o le loro inadempienze nei confronti dello stato spingono verso il brutto il segno barometrico della qualità vitale milanese. Infatti ai lavori per la metropolitana si intersecano per durate incommensu­rabili la posa delle tubazioni e i relativi sbancamenti per il teleriscaldamento, nonché la sostituzione, qua e là, dappertutto all’improvviso, dei tubi metaniferi nelle vaste fosse. Da ultimo ma non il meno impor­tante: si è ritornati all’assurda costruzione di silo sotterranei in pieno centro, calamite che attirano quelle automobili a cui si vorrebbe impedire l’entrata. Que­sta volta si tocca il vertice della incon­gruenza con un grande garage in via Borgogna, vale a dire addosso a piazza San Babila (super-centro conosciuto da tutti), d’altronde quasi impossibile da percorrere fino a quando non sarà pronta la nuova stazione della metropolitana. Ah… dimenticavamo: i lavori per questa linea 4 e contorni dovrebbero terminare nel 2022 (annunci su diversi cartelloni). L’esperienza ci informa che signi­fica: non prima del 2024.

Osservazione conclusiva. La questione delle opere pubbliche urbane si deve porre dapprima come verifica del grado di necessità, poi immediatamente come dovere di pianificazione integrale e inte­grata: dei luoghi, dei momenti, delle durate, del livello di incidenza sul benessere e benestare dei cittadini, partendo quanto­meno dal rifiuto dell’affastellamento dei cantieri, insensato per defini­zione. Purtroppo l’attinente vocazione delle istituzioni pubbliche e delle aziende non rientra in alcun capitolo della presunta efficienza milanese, d’altronde sbandierata troppo spesso per non crederla un distintivo ammaccato, al più una medaglia di ver­meil.

[1] Cfr. L. Meneghetti, Meno «rito ambrosiano» ma nuovi ritualismi», in eddyburg, 21 settembre 2016.
[2] «Babilonia del 2000. Coltivare sui terrazzi dei grattacieli zucchine, cavoli, fagiolini, cipolle, pomodori, pa­tate, mele, fragole, verdura e frutta da esibire come status symbol: è l’ultima follia miliardaria di New York, una moda che il New York Times ha definito “l’esclusiva fattoria dello zio Tobia”. Le cifre? Da vertigine, of course. 90 dollari per un pomodoro o una mela, 4.000 dollari al mese per il giardiniere, quasi un metro cubo d’acqua al giorno per l’innaffiamento. Questi orti che vanno trasformando New York in una sorta di Babilonia del 2000, sono curati come lussuosi salotti da specialisti del Landscape Design, ribattezzati dallo slang “i giardinieri dei piani alti”». In «Condé Nast Traveller», fascicolo monografico New York. New millennium city!, p. 137, siglato M. S. [Massimo Spampati].
[3] Non importa se i non milanesi non conoscono i luoghi citati. Basti ricordare che la struttura urbana è ra­diocentrica, cerchie attorno al nucleo storico e radiali. Strade e viali di penetrazione immaginabili possono essere riportati alla realtà di quelli nominati.

A.- Avvenimenti tragici hanno contrassegnato la mancanza di abitazioni per i lavoratori immigrati, fossero anche ridotte al minimo le dotazioni... (segue)

A.- Avvenimenti tragici hanno contrassegnato la mancanza di abitazioni per i lavoratori immigrati, fossero anche ridotte al minimo le dotazioni. Le storie crudeli dei raccoglitori di frutta e verdura nel meridione costretti a vivere quasi senza alcun riparo o, al meglio, in accampamenti di lamiera, cartone ed eternit residuale, ci hanno raccontato persino di sangue e di morte. Casi di infima minoranza, ci dicono istituzioni e popolazioni, locali e no. Ancor meno di quelli riguardanti i Rom, episodi che pure non hanno ceduto molto ad altri in materia di rischio vitale per persone e famiglie. Fra le comode dimenticanze («è passato tanto tempo…»): l’incendio accuratamente completo dell’insediamento di Opera (comune confinante con Milano), appiccato da cittadini razzisti scatenati dall’odio e dal rancore verso l’altrui «diversa» esistenza stessa.

B.- Detratto tutto questo ma anche quanto del rimanente non conosciuto nel modo di abitare dei residenti italiani e stranieri (ora circa 5 milioni) sia presumibilmente non conforme a misura e qualità richieste dalla partecipazione di tutti al processo sociale che distingue il nostro paese, dobbiamo per l’ottava volta (dunque il settimo sigillo non ha sancito il compimento!) richiamare l’attenzione di eddyburg al problema della casa[i]. Infatti, nessuno qui si pone dalla parte menzognera di un’idea di mercato iper-liberistico già attuato o prossimo all’esclusività: «lasciato a briglia sciolta il mercato trova esso la piena soddisfazione del problema». Lo proponiamo invece secondo una concezione sorta nell’immediato dopoguerra e cresciuta nella realtà degli anni Sessanta, per diventare concreto obiettivo (illusorio non solo per i liberisti antemarcia): la casa per tutti, parallelamente al lavoro per tutti.

C.- Riprendiamo in mano un opuscolo 15x21 di trenta pagine con una bella copertina gialla edito a Milano da Gőrlich nel 1945, macerie dei bombardamenti ancora fumanti. È quel fiducioso entusiasta di Piero Bottoni l’autore (iscritto al Pci dal 1944, tra parentesi). Il titolo: La casa a chi lavora[ii]. Carta povera, da dopoguerra; bel carattere, bodoniano; stampa chiara, forte; il meglio possibile dati i tempi. La finta fascetta stampata sulla copertina reca l’assunto: «L’abitazione non più oggetto della speculazione individualistica, ma servizio della vita collettiva. L’abitazione, come l’alimentazione, diritto base dell’uomo sociale derivante dal dovere del lavoro. “L’assicurazione sociale per la casa”, la nuova previdenza atta a garantire vita natural durante a tutti i lavoratori l’uso di un’abitazione confortevole e sana».

D.- Per un cittadino d’oggi insaccato nel neoliberismo queste affermazioni di principio parrebbero oscure, incomprensibili o, se capite, pericolose. Ad ogni modo il testo resta un saggio di inquadramento di diversi temi urgenti (fra cui una prospettiva di capovolgimento nel campo urbanistico ed edile) che s’involgono intorno alla questione centrale; e se non approderà alla reale attuazione del progetto più che previdenziale, influirà di qualcosa sulla costituzione dell’Ina-casa, sullo sviluppo degli Istituti autonomi per le case popolari (Iacp) e, nell’immediato, sui criteri di assegnazione degli alloggi «sinora al di fuori dei “diritti del lavoro”»: infatti, «la crisi degli alloggi per il popolo già prima della guerra esisteva per un complesso di cause» fra le quali la negazione di un diritto «derivante… dal dovere del lavoro» accompagnata dall’«assoluta indipendenza di luogo fra gli organismi del lavoro e le abitazioni per i lavoratori… e un assoluto agnosticismo dell’industria nei confronti del problema sociale della casa».

E.- La relazione originaria fra dovere e diritto approderà a un principio basilare della sinistra sindacale e politica, l’identificazione dei due diritti, al lavoro e alla casa; ma solo dopo che il primo, scolpito fra le più chiare rivendicazioni dell’Assemblea costituente e premessa alla definizione del primo articolo della Costituzione, pareva conquistato una volta per tutte al momento del nuovo contratto all’Alfa Romeo (1963), manifesto di un sensibile spostamento di reddito dal capitale/profitto al lavoro/salario. La rivendicazione del diritto alla casa non apparteneva alla tradizione culturale dei sindacati. Quando Bottoni pubblicò il suo progetto, la loro rifondazione non era compiuta, le propaggini disastrate della struttura corporativa fascista non poteva non averla ritardata. Così fu lui, architetto già impegnato nella ricostruzione materiale e morale del paese (anche consultore nazionale della Camera dei deputati nel 1945-46) ad arrivare primo nel porre sul tavolo delle misure urgenti quelle dell’abitazione per tutti, aprendo un orizzonte sconosciuto nel campo dei diritti. Che i «tutti» fossero lavoratori pareva scontato (in realtà famiglie di lavoratori, secondo il modello una famiglia = un alloggio adeguato).

F.- Furono invece i sindacati, seppur in ritardo rispetto alle lotte per i contratti, a organizzare il primo e poderoso sciopero generale «per la casa», 19 luglio 1969 (preceduto il 3 dallo sciopero operaio di Torino chiuso dal lungo scontro in corso Traiano fra manifestanti e polizia) e a indicare un obiettivo più radicale, emblematizzato dall’espressione «casa uguale a servizio sociale». Si saldavano in uno i due diritti e si aprivano speranze di nuove costruzioni sociali e politiche. Inoltre la parte più avanzata dei movimenti di opposizione traeva da «casa e lavoro» una nuova rivendicazione di straordinario valore sociale e politico: il diritto alla città. Il libro di Henri Lefebvre, Le droit à la ville era stato pubblicato in Francia nel 1968[iii], prima del maggio. «Questo diritto… non può che formularsi come diritto alla vita urbana trasformata dal superamento delle leggi del mercato, del valore di scambio, del denaro e del profitto».[iv] Quasi mezzo secolo dopo Salvatore Settis ricupererà il principio lefebvriano davanti a una Venezia in corso di spopolamento irreversibile e in vendita, anzi venduta a un turismo internazionale incolto, cieco, distruttivo. La stessa civiltà urbana è in pericolo, e potrebbe travolgere l’intera società umana[v].

G.- Al di qua dell’ipotesi rivoluzionaria dello storico e sociologo francese, all’epoca poteva essere ancora viva e crescere la speranza che la città confermasse e arricchisse la capacità di assicurare a uomini e donne il lavoro e l’abitazione. Intanto il riformismo socialdemocratico europeo, quando attuava importanti programmi per l’abitazione pubblica nella città industriale accettava che il capitalismo moderno urbano dovesse sostenere la riproduzione, di cui componente fondamentale era l’abitazione adeguata al bisogno, per assicurarsi un buon andamento della produzione. Quando la globalizzazione ridurrà in briciole le precedenti coerenze economiche e sociali, il capitale potrà dislocare la produzione ovunque, muovere i lavoratori a piacere usufruendone la riproduzione, ma fregandosene di farli abitare degnamente.

H.- Gli Istituti autonomi avevano agito in conformità alla situazione politica. L’Iacpm (milanese) fin dal primo Novecento distingueva il capofamiglia lavoratore come assegnatario dell’abitazione: prevalentemente operaio (67% 1909-10; 58 % 1919-20) fino a che la logica fascista non cominciasse a privilegiare altri ceti (1923-24, operai 49,6%; 1926-27, operai 46,8%)[vi], allineandosi con le disposizioni del Testo unico 1919 che nel campo dell’edilizia popolare stabiliva condizioni molto favorevoli alla classe media (appartamenti anche da dieci stanze!). Nell’immaginario catalogo delle realizzazioni negli anni Trenta a Milano, periferiche ma non tutte ristrette e mediocri per forma (Iacp era già diventato Ifcp, Istituto fascista case popolari), emerge il quartiere Fabio Filzi, in Viale Argonne, noto esempio di un nitido razionalismo milanese sia per impianto urbanistico sia per l’architettura (Albini, Camus e Palanti, 1935-38). Nel secondo dopoguerra e nei successivi decenni l’Istituto sarà presente anche con altri istituti come il Comune e l’Incis nella costruzione di nuovi quartieri. Sarà Il QT8, quartiere sperimentale dell’ottava Triennale (1947) progettato da Bottoni dal 1945 insieme al parco del Monte Stella, capolavoro di architettura naturalistica, a mostrare l’alta qualità urbanistica e architettonica a cui può giungere la quartieristica popolare. Solo alla fine degli anni Cinquanta un'altra realizzazione di Iacp e Incis, il quartiere Feltre prossimo al fiume Lambro (confine orientale del comune), progetto di diversi architetti coordinarti da Gino Pollini, presenterà una bella abitabilità.

I.- La stragrande parte degli insediamenti saranno deludenti per ubicazione anti-urbana, disegno d’insieme e degli edifici, né potranno rispondere almeno quantitativamente alla domanda di casa d’affitto a canone controllato. Non sarà unica responsabile la soppressione degli Iacp (che comincerà dal 1977) e la loro trasformazione in aziende: Ater la sigla, cioè Azienda territoriale per l’edilizia residenziale, il territorio sarà quello della regione; la prima lettera del nome potrà sostituire la t di territorio (in Lombardia, Aler, che gestirà anche l’edilizia sociale del Comune fino a che sarà da questi affidata a Metropolitana Milanese). Eloquente l’abolizione del termine popolare e la sostituzione di istituto con azienda. Che infatti non nasconde la voglia di privatizzazione, non tanto «giuridica» quanto per il modo di amministrare e per quale scopo. Si comincerà col privatizzare il patrimonio privilegiando la proprietà dell’alloggio contro l’originaria funzione sociale dell’affitto, si venderà non solo agli inquilini presenti ma anche sul mercato generico, si lasceranno peggiorare le condizioni di degrado; talvolta ne approfitteranno gestioni di tipo mafioso speculando su occupazioni abusive di famiglie senza casa. Bisogna ricordare che la Lombardia era ed è governata dalla destra (Lega e alleati). Ugualmente il Comune di Milano, amministrato a lungo da Forza Italia e alleati prima del tardo centrosinistra, non poteva esprimere alcun interesse a contrastare le immobiliari, per condivisione dei principi neoliberisti fautori della massima deregolamentazione dei rapporti economici e sociali in ogni campo, non ultimi lavoro e casa.

Uno sguardo statistico con sorpresa

K.- Bisognerebbe sempre dubitare dell’Istat quando pubblica per la prima volta i risultati di un censimento. Lo stesso istituto li definisce «primi risultati» o «risultati provvisori». Anni dopo arrivano i «risultati definitivi». E le interpretazioni possono cambiare, anche radicalmente. Capita con la revisione del censimento 2011 verso la fine del 2014. L’aumento modesto delle abitazioni in totale sembrava dovuto alla diminuzione degli alloggi non occupati (emblema dello spreco, Italia primatista europea) da 5,640 milioni a 4,865. Ah! finalmente un segnale positivo... I tabulati definitivi mostrano un capovolgimento: abitazioni 31,208 milioni invece che 28,864 (errore incredibile), occupate 24,135, non occupate ben 7,072 milioni, il 22,6%, nuovo primato. Per l’Istituto gli alloggi non occupati possono essere «vuoti» o «occupati da non residenti». Sappiamo che i Comuni accoppiano strettamente la residenza all’obbligo di «stare» in una casa con indirizzo civico preciso, la condizione che non lo soddisfa è rara; ad ogni modo, utilizzando numeri non revisionati risulterebbero meno di mezzo milione le famiglie in abitazioni senza avere la residenza. Oltre alla coabitazione, che permane intorno agli 800.000 casi, esiste la sistemazione scandalosa in baracche, tende e simili che riguarderebbe circa 71.000 persone. Numero di sicuro molto inferiore alla realtà, ma che l’Istat cerchi di individuare gli homeless significa riconoscimento di un fenomeno drammatico in aumento (più che triplicato – sempre secondo l’Istat), distintivo dell’allineamento italiano alla coerenza capitalistica odierna.

L.- La proporzione degli alloggi vuoti, seconde, terze… abitazioni, o libere per affittarle o venderle o tenute artatamente fuori mercato per favorirne l’aumento del prezzo o rallentarne la caduta in tempi di crisi (nell’insieme circa il 5-6%), è risultata ancora del 21%, altro che 17 % calcolato al momento della prima diffusione dei dati censuari. Allora la gran quantità di abitazioni non occupate definite dall’Istat «per vacanze o fine settimana» continuano a rappresentare una parte dell’irrisolta questione dell’eccesso di produzione. Da oltre quattro decenni ripetiamo che in Italia abbiamo prodotto troppe case, soprattutto le case che non servono, tra l’altro componenti non secondarie del consumo irragionevole di suolo; mentre resta viva e senza risposta adeguata la domanda di case popolari specialmente nelle grandi città.

Concludiamo riportando il valore Istat circa il cosiddetto titolo di godimento dell’abitazione relativo alla proprietà. Che ristagna attorno a un dato del 72%; sarebbe probabilmente più alto se lo ricavassimo dai consuntivi dell’Agenzia delle entrate. L’ipotesi di Berlusconi governante, proprietà della casa all’80%, sembra un obiettivo (ammesso che lo sia) difficilmente raggiungibile.

[i] Vedi gli articoli:
1.- Esiste ancora una «questione delle abitazioni»?, in eddyburg, 10 novembre 2005, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano, 2006, p. 103.
2.- Avere non avere casa a Milano, idem, 17 marzo 2006, poi in idem, p. 147.
3.- La casa della città pubblica. Bigino di storia per la scuola di eddyburg, in eddyburg, 18 giugno 2006, poi in idem c.s. , p. 165.
4.- Allora esiste ancora il problema della casa?, in eddyburg, 5 marzo 2008, poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2008, p. 143.
5.- Come dare l’ultima mazzata alla città pubblica, in eddyburg, 8 gennaio 2010, poi in Promemoria di urbanistica, architettura, politica e altre cose, Maggioli, 2010, p. 129.
6.- Un po’ di conti sulla casa, in eddyburg, 25 novembre 2010.
7.- Equivoci, ambiguità ed errori del censimento, in eddyburg, 8 maggio 2012.
[ii] Il testo è l’ampliamento e l’approfondimento di un articolo apparso in «Domus», agosto 1941.
[iii] Edizione italiana: H. Lefebvre, Il diritto alla città, introduzione di Cesare Bairati, Marsilio, Padova 1970.
[iv] C. Bairati, Ivi, p. 14.
Quasi mezzo secolo dopo Salvatore Settis richiamerà i principi lefebriani in un libro su una Venezia in via di continuo spopolamento e di svendita a un rovinoso turismo internazionale. È in pericolo la stessa civiltà urbana. Solo comprendendo come e da chi i diritti sovrani sono calpestati si potrà organizzare una riscossa.
[v] Cfr. S. Settis, Se Venezia muore, Einaudi, Torino 2014, p. 96.
[vi] Dati percentuali in D. Franchi, R. Chiumeo, Urbanistica a Milano in regime fascista, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1972, tabella di p. 143

(segue)

L’anno appena sorto dalle ceneri di un 2016 che nessun europeo, tanto più nessun italiano vorrà rimpiangere, se proposto secondo la tradizionale retrospettiva di cent’anni prima offrirà un ampio panorama di eventi da non dimenticare, sembrando che essi siano stati di tale importanza da costituire una sorta di primato. In verità ogni anno scorrente che volesse, come una persona, rispecchiarsi nei fatti e nelle cose di un secolo prima, troverebbe a sua volta buone ragioni per sgranare gli occhi dalla meraviglia. Eppure il 1917 vide davvero compiersi avvenimenti epocali, alias irripetibili, corredati poi da numerosi e originali casi minori al confronto, ma significanti per delineare forti e unici connotati dell’annata. Va detto infatti che, diversamente da quel che siamo propensi a pensare, cioè che tutti gli anni, bene o male, presentino un bilancio in pareggio dell’uno (bene) con l’altro (male), è ricca la storia di annate per così dire deboli (forse le più confortevoli per i viventi).

Funzionava a pieno regime la macchina del massacro nella Guerra Mondiale. Il nostro paese visse la tragedia della dodicesima battaglia dell’Isonzo conclusa con la disfatta di Caporetto, 24 ottobre. La rivoluzione russa di febbraio (marzo) non aveva risolto i rapporti fra le diverse formazioni politiche. Sarà la rivoluzione bolscevica di ottobre (novembre) ad abbattere il governo provvisorio «moderato», ad assegnare tutto il potere ai soviet e a dar vita alla Repubblica socialista federativa sovietica russa. Iniziava la guerra civile.

La guerra infuriava e sconvolgeva l’esistenza dei popoli nazionali. Eppure in qualche città pur non estranea alle vicende del fronte interno, qualcuno sembrava non farci caso, invece cercava di esorcizzarla. Il miglior esempio? Parigi dove, fra altre iniziative culturali e artistiche, si distinguevano (paradossalmente…) gli spettacoli dei Balletti Russi: che, superando solide tradizioni e modi convenzionali, sostennero (cito un solo evento fra numerosi) il cubismo picassiano per la triade Cocteau-Satie-Massine col balletto Parade.

L’Olanda riuscì a tenersi da parte. Il popolo olandese aveva costruito la propria stabilità identitaria, morale e materiale, la certezza e la sicurezza del proprio habitat attraverso altre battaglie, per lo più incruente se non quelle necessarie per ribellarsi all’impero. Il secolo d’oro olandese, il Seicento, con propaggini temporali prima e dopo, fu il tempo dell’incredibile repubblica pacificamente dedita a raggiungere il primato mondiale nel commercio senza confini (l’autentico primo propulsore dello sviluppo sociale), delle scienze, delle arti. Dal vertice raggiunto intorno al 1650 non ci fu caduta improvvisa. Potette reggere l’enorme pressione dei grandi regni nazionali come l’Inghilterra e la Francia fino a Settecento inoltrato quando lo sviluppo dei due potenti stati cominciò a intaccare lo slancio olandese. Ad ogni modo la libertà conquistata allora, anzi i princîpi di libertà uniti a quelli di collettività costituiranno la più preziosa eredità per i secoli futuri. (La vicenda repubblicana del piccolo paese affacciato sul Mare del Nord è stata raccontata da Charles Wilson, La repubblica olandese, Il Saggiatore – Alberto Mondadori, 1968).

Al principio del XX secolo gli olandesi, impegnati come sempre nella loro storia a «costruire» il loro territorio, a difenderlo dal mare, a ricavarne demanio pubblico per i bisogni della comunità, si distinguono nuovamente e nettamente, ma in tutt’altro campo, dai grandi stati nazionali. In questi, infatti, deludono i tentativi rivolti a produrre una legislazione in materia urbanistica e edilizia che detenga una forte carica sociale riformatrice, un decisivo cambiamento rispetto al passato. È appunto dall’ Olanda che proviene l’indicazione rivoluzionaria, un’apertura verso orizzonti più vasti col varo della Legge sulle abitazioni (Woningwet), ben conosciuta dai frequentatori di eddyburg, non solo urbanisti o architetti. Che converranno ad osservare che la definizione pare impropria per un provvedimento di vasta portata che spazia dalla questione della pianificazione secondo diversi livelli a quella della realizzazione di una moderna edilizia sovvenzionata.

La condizione obbligante per passare dal nudo terreno all’edificazione pubblica è l’esproprio, da effettuarsi sulla base certa del piano particolareggiato. Esso è il cardine dell’unificazione fra previsione urbanistica (“disegno” del piano) e strumenti economico-sociali per la realizzazione architettonica. Del resto, come la cooperazione è un connotato largamente presente da molto tempo nella società olandese, così l’esproprio è una pratica storica ampiamente accettata dal corpo sociale. Entrambe le tradizioni sono ormai sperimentate e verificate in conformità a obiettivi di interesse generale delle popolazioni. Cooperazione e bisogno di terra per la comunità costituiscono il presupposto per effettuare le colossali opere atte a formare i polders, i terreni strappati alle acque sfruttabili prima per il pascolo, più tardi per le coltivazioni, infine, eventualmente, per ampliare la città.

Hendrik Petrus Berlage all’inizio del secolo appariva dubbioso di un radicale progresso della situazione sociale e artistica nell’Europa dominata dal capitalismo: mancando un ideale di vita, di cooperazione per obiettivi comuni è difficile risolvere i problemi dell’architettura e dell’urbanistica, in realtà un problema unico. Tuttavia egli pare propenso a superare la visione critica attraverso un’apertura di credito verso la socialdemocrazia avanzante. Vincent van Rossen nota che per lui tale avanzamento potrà determinare «un nuovo movimento nell’arte. L’ordine esistente in campo sociale ed estetico merita biasimo: ma “la grande lotta è cominciata”» (Berlage e la cultura urbanistica, in Sergio Polano, Hendrick Petrus Berlage. Opera completa, Electa, Milano 1987, p. 54). In altre parole: per assicurare all’architettura nuova vita occorre condividere l’azione del movimento operaio affinché annulli l’influenza negativa del capitale e dello «spirito» capitalista che impediscono la nascita di un stile nuovo. E, osserviamo, se solo attraverso i comuni intenti la società potrà costruire la nuova città, efficiente e bella, dove più che in Olanda, punto geografico e storico di rapporti sociali sconosciuti altrove, si sarebbero potute trovare risorse umane e culturali adeguate?

C’è stata dunque una lunga preparazione, per così dire, nel campo sociale, politico e legislativo-normativo all’incontro decisivo fra un maestro dell’architettura politicamente impegnato e la prassi urbanistica sotto il controllo pubblico. Il piano di ampliamento di Amsterdam a sud si ricollega sia alla legge del 1901 sia alla vocazione cooperatrice della società olandese in generale e dei cittadini di Amsterdam in particolare. Così l’incarico del 1900 e il primo progetto del 1904-1907 approdarono a un nuovo progetto esecutivo compiuto a un livello di definizione pre-architettonica, nel 1917. Su questa certezza potranno operare gli architetti della «Scuola di Amsterdam» (valga per questo il testo a cura di Maristella Casciato, La Scuola di Amsterdam, Zanichelli, Bologna 1987).

H. P. Berlage, Amsterdam Sud(primo progetto 1904-1907; progetto definitivo 1917)

Amsterdam Sud, col progetto dei grandi blocchi residenziali di altezza media lungo i margini dell’isolato e il vasto rettangolo interno destinato totalmente a giardino, con l’architettura, vorremmo dire, incorporata nell’urbanistica forse come mai prima e dopo, è troppo nota per descriverne ancora i caratteri particolari e riaffermarne il valore sotto diverse prospettive (ved. fra altro in eddyburg La sostenibile infelicità della divisione / La memoria, 15 marzo 2015). Riprendiamo invece il giudizio di Giedion, l’alfiere indefesso del razionalismo. In primo luogo egli riconosce l’importanza dell’urbanistica residenziale olandese giacché, per esempio, «Amsterdam riuscì davvero a costruire interi quartieri omogenei e rispondenti alle esigenze della comunità»; poi ammira la posizione di Berlage verso «gli organi di controllo edilizio che non dovrebbero considerare case isolate, ma strade intere e tronchi di strade» in modo da raggiungere la massima unità delle case; cita la raccomandazione, dinnanzi alla «produzione di massa» di abitazioni, a «usare di nuovo l’isolato, e più estesamente di una volta»: ma, non può non concludere, secondo la logica razionalista, che «l’Amstellan… rientra nella corrente principale dell’urbanistica ottocentesca…[ed] è rappresentativa dell’intero progetto: c’è una riforma, ma non una concezione nuova» (cfr. Sigfried Giedion, Spazio, tempo e architettura (orig. 1941), Ulrico Hoepli, Milano 1954, pp. 669, 675, 677, 679).

Allora, cosa contraddistingue il blocco berlaghiano, 1917 e seguenti, da esempi ottocenteschi di edificazioni lungo i margini dell’isolato? L’isolato di Amsterdam Sud è costruito lungo i lati e il rettangolo interno è un grande giardino che è rimasto così fino ad oggi, privo di ingombri invasivi, di costruzioni estranee al progetto. Lungo i lati le case instaurano una doppia coerenza: l’omogeneità relativa al blocco e il superiore livello di unitarietà con gli altri blocchi che definisce l’ordine e la bellezza architettonica delle strade e dell’intera parte di città (caso perfetto di architettura urbana). Gli incroci stradali rientrano nella normale geometria della rete. Gli spazi diversi, come le piazzette, appartengono alle soluzioni ottenute dagli architetti.

Prendiamo ora il più importante dei progetti ottocenteschi realizzati, il Plan Cerdà di Barcellona. L’ordinamento dei blocchi quadrati coi lati di 113 metri e con gli angoli smussati è inflessibile, non ammette tregue. Nelle prime prove del progettista gli isolati prevedevano anche l’edificazione solo su due lati, paralleli/frontali o consecutivi/ad angolo. La soluzione definitiva consiste nella costruzione sui quattro lati ma spezzettata in tratti edilizi diversi, anche molto fitti e in migliaia di incroci stradali contrassegnati da un previsto effetto spaziale e volumetrico singolare, grazie alla giustapposizione dei quattro smussi e quella degli altrettanti vuoti degli imbocchi stradali. Non sappiamo se per tutti, per noi contò la sensazione di appartenere a un paesaggio urbano «diverso», ma anche di spaesamento, con una breve oscillazione della certezza d’orientamento. Infine, il quadrato interno immaginato libero da costruzioni per averne un giardino: al contrario, lasciato libero all’inserimento, man mano, di un’edilizia non molto più controllata che dalla ragione della rendita. D’altronde la suddivisione dell’isolato in lotti secondo diverse soluzioni era prevista fin dal principio.

Siamo sotto i nostri cieli milanesi. Anche il piano regolatore di Cesare Beruto prevedeva un’espansione, all’esterno della circonvallazione, con grandi isolati non solo quadrilateri, con lati persino di 200-300 metri. Una destinazione dell’interno esclusivamente a giardino non fu mai pensata e progettata. È lo stesso Beruto a comunicarlo nella relazione alla giunta municipale : «Gli isolati a grandi dimensioni si prestano a qualsiasi destinazione; i nuovi fabbricati vi si possono svolgere a piacimento; nel centro dominerà lo spazio; riescono suddivisibili in qualsiasi sistema di minori lotti, senza alterare la rete stradale principale…» (cit. in M. Boriani e A. Rossari, La Milano del piano Beruto (1884-1889), in Rivista milanese di economia, n.10, aprile-giugno 1984, p. 43). Tuttavia in qualche tratto della realizzazione più interna, lotti regolari e limitati concorrono a identificare un tessuto quantomeno non caotico e strade corredate da cortine edilizie di altezza costante (gli interni non contano…). Per questo, talvolta, lo abbiamo dichiarato preferibile a certo disastroso scompiglio urbanistico cominciato subito nel dopoguerra.

MargaretKropholler, Edificio d’abitazione entro un complesso di case per 2000 alloggi,1921-23.

In quel cruciale 1917 l’avvio alla realizzazione del piano di Berlage attraverso l’opera di architetti che lo considerano anche maestro di architettura civile, sta dimostrando come la capacità di pianificare e di architettare secondo l’imprescindibile compartecipazione delle due prerogative (si è visto come i problemi delle due discipline dovessero riunirsi in uno solo) onora «l’arte di costruire le città» di Camillo Sitte al rango di eccezionale prova al vero, vittoriosa. A questa stregua, l’arte del maestro e dei Van der Mey, Kramer, De Klerk, Van Epen, delle Kropholler rappresenterà la più forte alternativa, con antecedenti negli anni Dieci, al nascente e progredente razionalismo, fino ad influenzare i progetti anche di tutt’altri periodi e contesti urbani nazionali: come negli anni Cinquanta in Italia riguardo alla generazione di architetti seguente a quella dei razionalisti. Ad ogni modo Giedion, che non presterà alcuna attenzione alle opere degli appartenenti alla «Scuola», ammirava la figura di Berlage.

H. P. Berlage, La borsa diAmsterdam, 1895-1903.

Nella Borsa di Amsterdam, riconosciuto capolavoro d’inizio secolo, «il consapevole ascetismo… si unì col suo amore fanatico per la verità ad ogni costo; col risultato che l’edificio diventò una pietra miliare per molti. Egli diede l’esempio di come risolvere onestamente un problema architettonico. Nessun altro edificio si accorda così bene con l’istanza che era alla base delle tendenze architettoniche in quel particolare momento – l’istanza morale» (S. Giedion, cit., pp. 301-303). Lasciato il critico alle sue predilezioni, ripensiamo a un altro accordo, nostro, con le architetture singole e con l’architettura d’insieme in quello straordinario ambiente tutto costruito col mattone. I giovani nominati e altri si ispiravano al maestro, la «Scuola» crescerà secondo i suoi principi, ma essi erano radicali nelle loro espressioni e, all’interno di un comune sentire, volevano esprimere il proprio carattere, la propria forza. Espressionismo, moderno romanticismo, fantasia… questi attributi ci sembrano rappresentare il punto di convergenza del pensiero critico. L’esperienza in sito lo conferma, percepiamo un’irremovibile coerenza dell’insieme esaltata dai diversi particolari costruttivi e decorativi.

1917. A Parigi, si è visto, nonostante la guerra la cultura non rinunciò a cercare nuove strade e raggiunse traguardi rivoluzionari benché settoriali. In Olanda la cultura non racchiusa in ambienti di stretta specializzazione presentava un panorama multilaterale di gruppi, di iniziative, di riviste. L’evento da evidenziare è unico e sdoppiato: la fondazione a Leida del movimento De Stijl con alla testa Van Doesburg, seguito da diversi e noti protagonisti dell’architettura (dal design all’urbanità) e delle arti visive; la fondazione a Leida-Amsterdam della rivista De Stijl. I principi e gli scopi resteranno autonomi dal razionalismo, tuttavia alcune istanze non saranno in contrasto: un’arte universale, uno «Stijl» dovevano nascere.

L’architettura doveva essere di tutti. La produzione di massa e la standardizzazione avrebbero potuto dare a molti una buona abitazione. Nel merito dei particolari architettonici e artistici (arredi per la casa) lo stesso Van Doesburg, con Van der Leck, Rietveld… scelgono la funzione del colore come partecipazione a una concezione spaziale nuova, con ciò apportando un piccolo segno a un sembiante espressionistico. Il contenuto del primo numero della rivista, datato ottobre 1917, è quanto mai adatto a chiudere il cerchio olandese aperto con Berlage. Un articolo di Oud, L’immagine urbana monumentale (datato Leida, 9 luglio 1917), è un fondamentale approccio al problema della città; il richiamo a Camillo Sitte si sviluppa attraverso l’interposizione del maestro olandese. «Il concetto di “monumentale” è di natura interiore, non esteriore e può quindi manifestarsi in oggetti sia piccoli che grandi… l’architettura si evolve, come la pittura, nella direzione dell’universale e del monumentale. In ciò essa segue la linea stabilita dalla scuola di Berlage… L’architettura è un’arte plastica, l’arte di definizione dello spazio, e come tale si esprime nel modo più universale nel paesaggio urbano… Nel moderno ampliamento urbano… l’edificazione a isolati o in grandi raggruppamenti prenderà il posto dell’abitazione singola» (citazione riportata in G. Fanelli, Architettura edilizia urbanistica. Olanda 1917-1940, Papafava Editore, Monte Oriolo (Firenze) 1978, p. 52). Di tutto questo l’Amsterdam Sud è il compimento.

H. P. Berlage, Museo municipaledell’Aia (Den Haag), 1919 - primi anni Trenta

Berlage: fin troppo noto per la Borsa di Amsterdam immortalata in una sorta di aura ferma, come opera di altezza inusitata, icona di un moderno romanticismo; riconosciuto maestro del progetto urbano, con qualche riserva alla Giedion: non si fermò mentre il tempo fuggiva trascinando con sé cambiamenti in tutte le arti, soprattutto grazie alla liberazione degli spiriti e delle vocazioni nelle persone e nelle classi sociali dopo la guerra. Egli non si sottrasse alla prova dinnanzi all’affermazione di nuove correnti culturali, di nuove tendenze. Occorsero anni per ottenere importanti, sorprendenti risultati col progetto architettonico. Si dedicò soprattutto per quasi tre lustri alla progettazione e alla realizzazione del Museo municipale dell’Aia, la sua città d’adozione (morì l’anno prima dell’inaugurazione). Un complesso spettacolare articolato in volumi derivati da uno studio accurato del rapporto fra esterno e interno. La presenza di bacini d’acqua, quasi obbligata dalla storica condizione del paese, ne aumenta il fascino. Il disegno riflette la correlazione fra le diverse sperimentazioni e conquiste dell’architettura in Olanda, (con qualche riverbero di tutt’altra origine): Il movimento De Stijl, l’architettura lineare di Dudock, l’Art Déco evoluzione dell’Art Nouveau e dell’espressionismo, il pensiero di Wright, l’amicizia con Mies van der Rohe… Berlage non ne trasse imitazioni, ognuna concorse ad aumentare la preparazione critica verso la realtà dell’arte del suo tempo e a partecipare alla creazione tutta sua di un capolavoro.

(segue)

Matteo Renzi l’ha detto apertamente, anzi l’ha ripetuto in diverse occasioni: la miglior legge elettorale sarebbe quella a doppio turno con ballottaggio finale fra i due candidati presidenti meglio piazzati, a meno che qualcuno non abbia ottenuto la maggioranza al primo turno. Si voterebbe, dunque, per scegliere direttamente il primo ministro. Il modello, noto e applicato più volte, è quello dell’elezione del sindaco nei comuni con più di 15.000 residenti. Di più: la lista o il gruppo di liste collegate al sindaco eletto si prendono il 60% dei seggi col 40% dei voti (a meno che il 60 non l’abbiano già ottenuto al primo colpo).

Aggiungiamo le impressionanti regole sui poteri che permettono a sindaci e giunte di surclassare qualsiasi richiesta “democratica” dei Consigli comunali (si intende, delle minoranze) per render giustizia alle rare proteste, al momento di quelle novità, di chi aveva vissuto l’esperienza delle vicende consiliari quando sindaco, giunta, consiglieri dovevano confrontarsi rispettando almeno due principi basilari: l’obbligo, per sindaco e giunta, di “portare” nel Consiglio tutte le “pratiche”, relative sia alla risoluzione dei più complessi problemi urbani sia alla risposta a domande di minimo rilievo locale, di metterle in discussione assicurando a tutti la pari dignità di funzione con la votazione. E sopra il Comune, indipendente in teoria, sorvegliava come un cerbero il prefetto a capo di una autoritaria commissione provinciale di controllo, messa lì apposta per rendere grama la vita democratica delle amministrazioni pubbliche d’ogni colore, per principio, ma nei fatti con prevalenza al 100% del colore rosso.

Vecchi quadri ammuffiti, questi, ignoti alle nuove generazioni ma dimenticati persino da protagonisti politici d’allora. Per noi, invece, una chiarezza fissata come un palo nella memoria, conficcata ben dentro al durame del ricordo.

Tutti, poi, erano stati eletti, mentre oggi il sindaco è una specie di principe che nomina gli assessori cortigiani pescando dove vuole, anche fuori della logica elettorale principalmente per i ruoli più alti: ricorrendo al topos del “grande tecnico” da reperire sul mercato più ampio e ben frequentato delle professioni (credono, anche in tempi di mafia legalizzata?) e quasi sempre sconosciuto al popolo elettore. Del resto, Renzi è stato eletto? No, è (era) un giovane borghigiano fiorentino di Rignano sull' Arno nominato da un presidente della repubblica detto, guarda caso, re Giorgio. A sua volta il rignanese s’è procacciato i ministri, i suoi ministri, forse mai come questa volta esonerati da attendibili apprezzamenti magari coram populo.

Ma torniamo a sindaci, giunte e Consigli, materia che sentiamo più nostra rispetto a certa estraneità dei giochi di sfere ministeriali e governative, che girano, cozzano, si respingono e si attraggono; benché una città come Milano, se è per questo, non sempre perda il confronto. Sono passati mesi dalle elezioni del nuovo sindaco Giuseppe Sala e nulla è accaduto dal punto di vista di un sano svolgimento delle relazioni politiche e amministrative (ovvia dimostrazione…). L’enorme problema del riutilizzo degli scali ferroviari dismessi richiama l’interessamento in diversi ambienti culturali; ma non in Consiglio comunale che sembra in disarmo (senza essersi armato), proprio come una vecchio vagone delle ferrovie. Parla qualche assessore qua e là, pareri personali e superficiali[i].

Finalmente, sotto la cappa di silenzio istituzionale in una città sventrata da rumorosi lavori (vecchia amministrazione) per l’ultima linea metropolitana[ii], il teleriscaldamento, la sostituzione di tubature del gas, nuovi (inconcepibili!) parcheggi sotterranei nel cuore della città, si è svegliato l’unico consigliere eletto con l’unica lista di opposizione da sinistra “Milano in Comune”[iii], Basiglio Rizzo, presidente del Consiglio comunale prima delle elezioni. Ha dichiarato, protestando signorilmente, che niente passa attraverso il Consiglio; sindaco o giunta decidono deliberano decretano fuor d’ogni dovere di instaurare la discussione nell’assemblea, o, per i provvedimenti di bassa ordinarietà, di informarla. «In questo modo fanno passare di tutto», scriveva sessantacinque anni fa il viennese Heimito von Doderer[iv]. Si rivolga, l’ingenuo, all’albo pretorio. Così leggerà almeno un elenco completo, si suppone.

Sala, che prima delle elezioni si era autodefinito (alla pari col rivale del centrodestra Parisi) un manager, si è mosso e si muove ben al di là dei presumibili compiti coerenti al titolo qualificante, giacché la versione italiana direbbe solo dirigente. Un comportamento da capo indiscusso, il suo: disinvoltura e spregiudicatezza siano il mio motto, sfruttamento della fama di eroe di Expo sia il mio daffare. Così l’abbiamo visto sbrigativamente noncurante di certi brutti inceppi nella gestione personale del potere. Notati e descritti da rari giornalisti non ossequienti[v]. Ora, passate e ripassate di un buon cancellino hanno ripulito a fondo la lavagna con le «note», come quelle che la maestra o il maestro segnavano per le mancanze più gravi degli scolari. Noi però conserviamo i ritagli degli articoli di quei giornalisti. Allora, promemoria minimo:

assegnazione senza gara a Eataly (alias Farinetti sostenitore di Renzi) dell’intera ristorazione nell’Expo; triplice dimenticanza nelle dichiarazioni obbligatorie: una casa in Svizzera, due società (in Italia e in Romania); disinteresse e supponente distacco di fronte agli allarmi e inchieste della magistratura milanese su corruzione negli affari all’Expo e resistibile larga partecipazione mafiosa; dolente svarione nell’affrettata prima nomina del segretario generale del Comune, la prescelta era stata rinviata a giudizio per turbativa d’asta a Como (ricordate lo scandalo delle famose paratie - muraglie di cemento - davanti al lungolago?).

Nel campo delle azioni legittimate dagli enormi poteri personali impressi nella figura del sindaco, Giuseppe Sala s’è infischiato di cautela, opportunità, buon gusto. Il potere di nomina l’ha esercitato senza il minimo ritegno. In certe scelte per cariche fondamentali, in primo luogo quella del nuovo direttore generale del Comune (dopo lo svarione), sembra che la garanzia di qualità e altezza morale dovesse risiedere nella provenienza bancaria. Il peggio tuttavia, sempre entro il troppo largo ventaglio delle condotte lecite ma criticabili, è rappresentato dall’assegnazione dell’assessorato al bilancio (vi sembra poco?) al suo socio in affari; un personaggio già gravato da tali carichi (non mancano quelli bancari) da destare preoccupati dubbi sulla possibilità di reggere il più pesante presente nella casa comunale.

Permane infine il mistero sulla sorte delle aree Expo. Chi ne ha vantato il successo grazie soprattutto a sé medesimo, non potrà defilarsi di faccia sia all’eredità negativa che comprende l’abolizione di un’area agricola acquistata peraltro a prezzo eccessivo e i debiti bancari di Comune e Regione, sia alla prospettiva del riutilizzo che esigerà un mucchio di investimenti pubblici (forse irragionevoli), intanto che ammetterebbe una gigantesca speculazione edilizia a Città Studi se una delle destinazioni fosse il trasferimento dell’università.

[i] Cfr. il mio articolo Meno “rito ambrosiano” ma nuovi ritualismi, eddyburg 21 settembre 2016.
[ii] La numero 4, successiva alla 5 già in funzione.
[iii] La lista “Sinistra X Milano”, sinistra del cavolo,
embedded nel gruppone pro Giuseppe Sala.
[iv] Trascrivo il passo che introduce la sconfortante locuzione: «…solenni invenzioni di gente interessata, di politici di professione, di generali, di palloni gonfiati, di storici, o esalazioni di persone alle quali il linguaggio dei giornali guazza nel cervello, come lo sciacquone nel vaso del w. c.», in
Die Strudlhofstiege oder Melzer und die Tiefe der Jahre, Biederstein, Monaco 1951; edizione italiana di un capolavoro della letteratura austro-tedesca: La scalinata, traduzione di Ervinio Pocar, Einaudi, Torino 1965, p. 375.
[v] Come Gianni Barbacetto, autore di un’inchiesta su Milano e Sala,
Il fatto quotidiano, alcuni numeri dell’estate 2016.

(segue)

Il distintivo di Milano appiccato all’ex capitale morale da Vezio De Lucia ai tempi del sindaco Gabriele Albertini e del successore Letizia Brichetto Moratti significò gettar via l’urbanistica tradizionale della pianificazione comunale, vale a dire operare sulla base di un’idea complessiva di città dimostrando volta a volta l’ineluttabilità dell’intervento classificato primo nell’elenco delle priorità, ancorché provvisorio; e, al contrario, costruire nuove parti di città secondo intese private, talvolta segrete, fra il sindaco e il potente imprenditore proprietario di suoli e/o costruzioni da dismettere. Il primo caso che fece scalpore e suscitò diversi commenti e critiche fu la combine immobiliare fra Albertini e Tronchetti Provera[i]: da cui la distruzione di una grande industria come la Pirelli e la realizzazione alla Bicocca di un’espansione urbana imprevedibile, indimostrabile.

Valse soltanto l’incontro fra il potere forte dell’industriale, disceso dal piano del profitto capitalistico a quello della rendita fondiaria/finanziaria, e il potere debole, verso i forti, di un’amministrazione comunale priva di un alto sentimento del progetto pubblico. Un gran numero di altri episodi simili segnarono il corso degli anni in cui la Milano del nostro destino perdeva completamente il proprio connotato storico di città dotata di una miriade di settori produttivi, di una coerente economia di sostegno e di una eccezionale ricchezza sociale per diventare l’emblema nazionale del dominio affaristico di finanza, commercio, edilizia privata unite come sotto una sacra corona; e della conseguente asfissia di classe.

Oggi è il tempo degli Accordi di programma con le Ferrovie dello stato (FS/Sistemi urbani)[ii] per la «trasformazione dei sette scali ferroviari[iii] [che costituiscono una grossa fetta dei 21 ATU - Ambiti di trasformazione urbana] in una visione di trasformazione della città»: così l’assessore Pierfrancesco Maran, che aggiunge altro, più come vaga speranza che come decisivo impegno («mi piacerebbe molto che…»). È in ballo un affare gigantesco che parrebbe spiegare l’unico interesse di FS. Quello di ottenere il massimo di rendita fondiaria, ossia la massima volumetria complessiva, quindi il più alto indice edificatorio. È attorno a quest’ultimo che si gioca una delle partite. Mentre risuona nell’aria qualche parolona circa i mirabolanti benefici che i milanesi riceverebbero da una collana di grandi parchi, ritualistica è la diatriba sull’edificazione.

FS se ne frega della funzione sociale che dovrebbe essere intrinseca al nuovo utilizzo delle sue proprietà. Si è visto quale livello di lucro speculativo comportante distruzione di storici assetti funzionali ed estetici abbia toccato il famoso programma Grandi stazioni. Basti l’esempio della stazione di Milano. Una mascalzonata nel confronto dei viaggiatori per avergli sottratto le comodità e le facilità d’uso, altresì vessandoli con incessante pubblicità visiva e sonora; per di più un’inconcepibile violenza verso l’architettura di Ulisse Stacchini sia riguardo alle funzioni sia al decoro (esempio, le magnifiche sale d’aspetto demolite in toto per aggiungere spazio al commercio).

Intanto Maran mette le mani avanti. Contano poco le volumetrie, dice, cioè gli indici di edificazione, conta invece lo spazio che resta libero: esempio i grattacieli di Garibaldi/Repubblica: si è operato bene lì. Ma quali spazi liberi, osserviamo noi. Quel modello, insensata presenza di figure urbane come in un qualsiasi emirato (Qatar proprietario al 100%) è parte integrante di una speculazione fondiaria ed edilizia smaccata, guai se la si applicasse allo scopo di un accordo che dovrebbe concludersi con la famosa “collana”. Ma l’assessore si contraddice, altro che la nonchalance verso i parametri edificatori.

Risaliamo al documento di piano del Pgt in scadenza, all’edificabilità delle ATU consistente in 0,70 mq/mq. Maran si inchioda a una fede di 0,65 mq/mq (interamente assegnata alla proprietà fondiaria FS/Sistemi urbani), che solo i tremori della minuscola sinistra milanese (un solo rappresentante in Consiglio comunale, l’ex presidente dell’aula Basilio Rizzo), evitano di discutere e di negare. A questo punto, ci valiamo delle analisi seccamente veritiere, inattaccabili di Sergio Brenna, delle sue tabelle che dimostrano le differenze di risultato, anche enormi, a seconda dell’intreccio fra diverse scelte parametriche di partenza.

Mentre la diatriba intorno agli ex scali sembra nascondere qualcosa della effettiva posizione di FS, come avvenne col progetto Grandi stazioni quando la realtà violenta del fatto compiuto (ma chi doveva controllare dal punto di vista degli interessi dei cittadini?) impedì di “tornare indietro”, a Milano potrebbe diventare tempestoso l’orizzonte di tutti gli spazi destinati a parco territoriale e a grandi servizi da Prg poi Pgt, come ex Gasometri, Parco Sud, Parco Vittoria, Parco Naviglio Martesana e altri, il cosiddetto Fiume Verde. Secondo Brenna l’indice di 30 mq/abitante di spazi pubblici vuol dire lasciarlo all’edificazione privata.

Pochi lo sanno o non lo ricordano, ma in maniera simile la città ha perduto una riserva di bellissimo verde sportivo col recinto del trotto a San Siro. Bastò una (con orribile dizione!) “Determina dirigenziale”. Allora, altro che accordo su 0,65 mq/mq. Calcoli precisi del nostro che mettono in chiaro diversi dati frazionari, mostrano un loro legame stretto che può provocare effetti paradossali, ossia disastrosi: gli spazi pubblici dovrebbero salire a 45 mq/ab e corrispondere a un’edificabilità territoriale dei 0,45 mq/mq per evitare l’inverarsi di una densità fondiaria che potrebbe raggiungere addirittura i 40 mc/mq.

Preferiamo esprimerla in metri cubi per ettaro, 400.000!! e piangere sull’urbanistica tradizionale quando criticati colleghi, succubi rigorosi dello zoning, “osavano” indicare per le zone dense, le più centrali o più vicine al centro della città, 60.000 mc/ha (densità eccessiva ma una pinzillacchera al confronto), poi cercavano di interpretarla attraverso i tipi di edificio, i servizi, il verde e così via. Supponiamo ora di ottenere per gli ex scali le migliori condizioni, secondo la nostra visione, nella dinamica (quasi un gioco) degli indici fondiari ed edilizi. Ma non dovrebbero, sindaco e giunta, finalmente proporre cosa sarebbe utile, giusto realizzare concretamente lì?

Occorrono nuovi alloggi, nuove case residenziali? Per chi, per quale popolazione in una città che ha vissuto (e vive) una lunga crisi demografica ripianata solo da un costante afflusso di immigrati? Questi sono circa 260.000, il 19% dei residenti; dove e come abitano? La statistica numerica ci spiega che sono distribuiti in tutti i nove “municipi” del decentramento[iv], non c’è un ghetto enorme in una presunta peggior periferia; ma non sappiamo come abbiano potuto affrontare un mercato libero delle abitazioni se non, per la maggior parte di loro, aumentando le coabitazioni. È di oggi la notizia che i nuovi arrivati, poche decine di profughi, troveranno sistemazioni provvisorie apprestate dal Comune, come al Palasharp.

Quanti sarebbero gli alloggi liberi a Milano? Non possiamo saperlo da ricerche credibili del Comune. Possiamo affidarci a una stima dell’anno 2014 di Scenari Immobiliari. Alloggi privati vuoti 60.000 di cui 40.000 sul mercato tra affitto e vendita e gli altri 20.000 sfitti. “Numeri che stridono se messi a confronto con le 22.000 richieste di alloggi popolari e i 17.000 sfratti esecutivi registrati”. E quanti saranno gli alloggi vuoti nelle “Nuove Milano” dei grattacieli qatariani e contorno? Secondo noi moltissimi. In ogni modo per abitarvi bisogna essere straricchi. Fresche cronache cittadine notate da Brenna segnalano che il noto (ai giovani) rapper Fedez (Federico Leonardo Lucia) abita a City Life (ex Fiera) in un attico di 400 metri quadrati.

Cosa si intende offrire ai cittadini “comuni” in cerca di alloggio a prezzo coerente al reddito nella parte residenziale degli scali convertiti, dicono, al bene comune? L’assessore sembra propenso a superare la quota del 20% di edilizia sociale ora abbozzata. Intanto, in piena contrapposizione con le intenzioni parolaie dei benpensanti sociali, l’Aler, l’Azienda lombarda di edilizia residenziale che ha cancellato, all’avvento dei governi regionali leghisti e forzisti, il glorioso Iacpm (Istituto autonomo per le casa popolari milanesi), ha già predisposto un piano di vendite straordinario per la dismissione entro il 2019 di 10.000 appartamenti. Destinati a chi? Agli attuali “utenti” (in affitto) se possiedono risparmio sufficiente, ma anche a famiglie affittuarie di alloggi esistenti in condominio con proprietari privati. Siamo all’ultimo atto del meccanismo messo in moto anni fa con la crisi degli ideali socialisti per sancire il primato assoluto della casa in proprietà.
Quanto alle possibilità e volontà dell’amministrazione comunale di fare la sua (piccola) parte in senso comunitario, in questo momento è aperto il 19° bando “per l’aggiornamento della graduatoria valevole per l’assegnazione di alloggi… sino al 7 ottobre 2016”. Al contrario, non ci sono attualmente bandi per attribuire alloggi a canone convenzionato in edifici di proprietà comunale. Nel complesso le iniziative per dar casa alle famiglie impossibilitate ad accedere al mercato libero sono sbagliate (Aler) o misere (Comune). Di qui l’obbligo che diventi effettivo l’investimento nei terreni degli ex-scali secondo un programma di edilizia sociale risolutivo di un fabbisogno sorto dopo la distruzione dell’Iacp e aumentato progressivamente con la perdita di qualsiasi relazione sensata fra prezzo della casa (proprietà o affitto) e valore del salario-stipendio[v].
E quanti e quali nuovi uffici occorrerebbero? Si conta su nuove sedi di grandi aziende internazionali? Non conosciamo nessuna ipotesi in questo senso. Quello che sappiamo è che nel cuore della città ci sono migliaia di uffici vuoti da molti anni. Conseguenza della consegna di Milano a un settore terziario gonfiato come un pallone aerostatico. Un terziario avanzato, si diceva; invece spesso nero, monetario, speculativo, incontrollato, aperto a ogni genere di mafia. La procura milanese ha stimato nel 25% l’appropriazione di commerci da parte della ‘ndrangheta specialmente attraverso l’acquisto di negozi e pizzerie.
Qualcuno ha gettato un mozzicone sul pallone che è sgonfiato lasciando però aerate le pieghe più nascoste e asfissiando le altre. Così basta guardarsi intorno e notare i lenzuoli o i pannelli di offerta in grandi e talvolta famosi palazzi del centro, quelli una volta punto di riferimento di attività legittime per capire che, aggiungendo l’invenduto o in attesa di locazione nei nuovi grattacieli, non bisognerebbe costruire nemmeno un nuovo metro cubo di uffici. E nell’hinterland? Grattacieli ne sorgono qua e là (per incamerare pura rendita che si riproduce anche se rimanessero oggetti scenografici esteriori, privi di allestimento interno). D’altra parte svettano ancora i complessi multipli ligrestiani in una decina di luoghi, in gran parte vuoti o abbandonati.

Quale conclusione? Negli scali solo grandi parchi, nessuna costruzione salvo le case di edilizia sociale, come detto sopra. Parchi che non devono finire nella fossa delle false presunzioni come quelle riguardanti il terreno dell’Expo. Vantarono un sicuro lascito di metà superficie a verde, una misura irrisoria giacché un tal “verde” interessato da una miriade di “sistemazioni” non approderà mai a un “grande parco”, che in primo luogo dev’essere fortemente arborato, come una foresta. Per realizzare la sognata catena di parchi che avvinghi Milano e contemporaneamente apra il beneficio verso l’hinterland, bisogna che il rapporto fra terreno destinato all’edilizia sociale e quello a verde intensamente arborato e pochissimo intaccato da impianti per lo svago sia almeno di uno a cinque. Così l’assessore Pierfrancesco Maran potrà calcolare se le case, essendo talmente vasto lo spazio libero, potranno raggiungere l’amata altezza di mille metri. Sarebbe sempre meno del grattacielo immaginario di Frank Lloyd Wright (denominato The Illinois) alto un miglio. Guarda caso, il maestro realizzò solo case basse, connaturali alla terra.

[i] Cfr. L. Meneghetti, Le nuove Milano estranee. L’architettura servile, in eddyburg 30 ottobre 2004; poi in Parole in rete. Interventi in eddyburg, giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005. Vedi anche, dello stesso autore, Contraffazione dell’architettura e privazione dell’urbanistica, in eddyburg, 11 settembre 2006; poi in L’opinione contraria. Articoli in eddyburg.it, giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2006.

[ii] Vedi Scali ferroviari a Milano - Storia, progetto, conflitto. Scritto (anonimo) per eddyburg, 10 febbraio 2016.

[iii] 1. ATU Farini-Lugano, 2. ATU Greco Breda, 3. ATU Lambrate, 4. ATU Romana, 5. ATU Rogoredo, 6: ATU Porta Genova, 7. ATU San Cristoforo. Promemoria: il sindaco Albertini, appassionato sostenitore dell’intervento sull’area dell’ex-Fiera campionaria incentrato sui tre grattacieli di Hadid-Lebeskind-Isozaki, parlò di un “nostro” Centra Park nello spazio libero, mero spazio di risulta, sformato, scarso e in parte solettone di garage sottostanti. Oggi è Pierfrancesco Maran che “pensa” alla scalo Farini come Central Park. Non ci libereremo mai a Milano dei governanti provinciali e presuntuosi?

[iv] Al 31.12.2015: Zona 1, 11.900. Zona 2, 44.200. Zona 3, 20.400. Zona 4, 29.800. Zona 5, 21.500. Zona 6, 23.400. Zona 7, 31.000, Zona 8, 33.400, Zona 9, 43.600.

[v] Oggi il prezzo della casa (che è di per sé una rendita) appare logico solo se commisurato a remunerazioni esse stesse come rendite (costruzioni, commercio, finanza, turismo…).

(continua la lettura)

Un riassunto

Due principi hanno guidato il pensiero e l’azione di quelli che hanno coltivato l’urbanistica e l’architettura credendo nella loro unione come, riguardo alla cultura in generale, nel superamento della scissione fra cultura umanistica e cultura scientifica. Il primo, adozione di un punto di vista univoco circa le due discipline, rappresentabile nel progetto e nel piano con la pretesa che il tutto sia presente nelle parti e le parti nel tutto; il secondo, conseguente, ideazione non solo di singole architetture nobilmente motivate e urbanistiche redistributive di standard quantitativi, ma compimento di un’architettura collettiva urbana[i] («fare città», si dice oggi): aggregazione delle diverse componenti di una organizzazione spaziale in un’unità complessa, dove le ineluttabilità sociali, le funzioni e le estetiche si muovano e si fondino per ritrovare il significato comune e la bellezza di quei luoghi (piazze, strade…) che distinguevano la storia urbana italiana ed europea. In molti casi possiamo goderli ancora oggi, da spettatori, come opere d’arte sociale scampate al rovesciamento distruttivo in ogni campo, territorio e città compresi, provocato da un capitalismo che non guarda in faccia nessuno (inteso: le persone, i gruppi sociali, i beni comuni, gli edifici privati e pubblici…) pur di perseguire un’«economia dell’arricchimento» che richiede lo sfruttamento intensivo del plusvalore del lavoro nei periodi di deindustrializzazione (di recessione)[ii] e del plusvalore della terra (moltiplicazione delle rendite).

Dai tempi della semplificazione funzionalista-razionalista che ha sancito la crisi già in corso della città di strade e piazze residenziali, l’urbanistica e l’architettura, ognuna per sé sorda ai suoni della storia, non possono creare spazi di vita ed estetici di quella giustezza sociale e di quella bellezza[iii]. Il brulicare di vita collettiva, gli intensi rapporti sociali che li rendevano mirabilmente adatti erano imprescindibile necessità di una specifica formazione economico sociale; oggi non sappiamo o non possiamo praticare rapporti umanizzanti e solidari perché l’attuale società li ricusa (così ne deriva il recepimento di quei luoghi solo come nude opere d’arte…).

Ha avuto successo negli anni recenti la raffigurazione degli ipermercati, dei centri commerciali, degli aeroporti…, essenzialmente i «nonluoghi» nell’accezione di Marc Augè (Non-lieux), quali nuovi spazi di socializzazione, nuove «piazze» dove la gente s’incontra, dialoga vive…la vita. A noi paiono luoghi ultimi di cui le persone assoggettate al consumo devono accontentarsi in mancanza d’altro, impedite d’incontrarsi e di dialogare davvero. Lì all’«uomo della metropoli» manca soprattutto la comunità, la condivisione del desiderio e del ritrovamento del luogo di tutti. Le piazze e piazzette di città, cittadine e paesetti, i campi e campielli veneziani, le strade e stradine d’ogni parte: erano spazio conchiuso o delineato dalle cortine edilizie, abitate e destinate a miriadi di utilità; forma in ogni caso decisamente progettata nel senso di un concerto della popolazione per una comune scelta per così dire urbanistica. In quei nonluoghi vige forse la denaturazione psicologica e biologica dell’uomo come previsto da Willy Hellpach ottant’anni fa[iv].

La critica e la contrapposizione al razionalismo da parte degli architetti nati nel decennio 1925-1935, ispirate alle esperienze pre-razionaliste o espressioniste di olandesi e tedeschi, a F. L. Wright, a movimenti rinnovatori come la Wiener Secession si sono risolte da una parte in ingegnose architetture affatto minoritarie, neoliberty e talvolta storicistiche, dall’altra in urbanistiche pubbliche (Piani per l’edilizia economica popolare e simili) pensate in opposizione alla speculazione o indirizzate alla ricostituzione di demani locali ma, salvo poche eccezioni, respinte in innocue applicazioni troppo lontane dal corpo urbano compatto, inoltre difficilmente rapportabili alle isolate novità architettoniche[v].

Lunghi decenni fluivano attraverso vicende da cui ogni tanto sorgevano deboli speranze di cambiamento dell’urbanistica pubblica grazie all’adozione di singole normative di stampo quasi-illuminista (ma una nuova legge urbanistica generale era continuamente dilazionata fino alla rinuncia odierna!). Nei fatti si susseguivano le vittorie di uno smaccato neoliberismo speculativo e profittatore coerentemente alla progressiva finanziarizzazione dell’economia, d’altronde essa stessa propizia all’ancor più veloce decadimento della produzione industriale fino alla distruzione o riduzione all’insignificanza dei settori tradizionali. Il disinteresse della politica riguardo agli enormi danni reddituali personali, sociali, culturali provocati dal dominio delle rendite di ogni genere, unificate in una sorta di Santo Principio Primo (Spp) come statuto materiale e morale del paese, giungeva a ogni grado del potere, dal capo del governo fino al sindaco del più piccolo Comune di trentasei abitanti valtellinesi, e decretava così l’agonia della sovranità popolare (demo-kratía).

L’iniziativa urbanistica privata negoziata in apparenza col potere politico, in realtà lo surclassava anzi lo assorbiva ostentando essa presunti valori pubblici. Pseudo-concorsi «chiavi in mano» fra coppie di impresa-architetto, accordi al chiuso fra sindaci e padroni spacciati per gestiti all’aria aperta, realizzazioni urbane di enorme portata sostitutive di grandi e buone industrie con disprezzo di piani generali o di note priorità locali e regionali, architettura incapace di proporsi come arte dalla parte dei cittadini invece che subalterna alle imprese: questa, dal punto di vista del destino di città e territorio, era la trama che guidava il paese verso la fine del millennio e l’inizio del nuovo.

Una figura milanese la rappresenta in modo ideale: Gabriele Albertini, il sindaco del decennio 1997-2006, colui che impersonò gli affari urbani definiti da Vezio De Lucia «rito ambrosiano», forse primo fra gli amministratori pubblici, presto seguito da altri di altre città e dai successori di destra e di sinistra (Letizia Moratti e Giuliano Pisapia), a sostenere l’avvento degli architetti internazionalisti al servizio del municipio e dei possessori della rendita urbana. Progettisti che prospettano la costruzione di grattacieli-giganti per contesti a loro sconosciuti e tuttavia non studiati, personaggi a ogni modo propensi ad accettare o addirittura offrire essi straordinarie densità di fabbricazione.

Così valse la diffusione della fandonia, grazie anche alla condivisione di colleghi distratti, che le grandi cubature ottenute mediante inusitate altezze degli edifici applicando indici di densità fondiarie inammissibili nella pianificazione onesta comportassero il guadagno di vaste superfici di terreno da destinare a parco; quando è vero il contrario: eventuali notevoli altezze in regime di basse, molto basse densità spingono lontani l’uno dall’altro i volumi e lasciano ampie zone aperte.

Il tipo edilizio detto grattacielo o gran mole spuntava qua e là nel paese in posti inimmaginabili, Savona con Fuksas quanto mai balzano e Bofill, Sarzana coi funghi velenosi di Botta, Salerno col muraglione di Bofill, Torino la bellissima, famosa per l’elegante perfezione e uniformità delle sue strade porticate, arresa all’arroganza della più potente banca italiana, con Alessandro Antonelli sacrificato all’improvvisa insensibilità di Renzo Piano…

Milano, dopo la fallimentare prova del terzetto Hadid-Isozaky-Lebeskind al servizio della cordata Generali-Ligresti-Lanaro-GLDR nell’area dell’ex Fiera, esibiva a Porta Nuova-Isola il luogo topico della nuova architettura urbana. Già diversi mazzi di grattacieli ligrestiani per uffici, abusivi nei due ultimi piani, si erano distribuiti al di là della cinta ferroviaria quasi per declinare rapidamente verso rugginoso abbandono (intanto la rendita avanza lo stesso). Ora il raggruppamento di alcuni giganti, come in qualunque emirato o qualunque Kuala Lumpur segnato da astruse esteriorità formali e falsità sostanziali, attua in quella parte di città, guarda caso non più milanese giacché comprata interamente dal Qatar, la contestazione dell’architettura urbana laddove fosse persistita dal passato nella sua giustezza e bellezza, mistificando infine l’intera operazione targandola col nome di «piazza»: Gae Aulenti per di più.

Intanto la vendita di terra milanese a potentati stranieri procede. Se da una parte è soddisfatto l’emiro dall’altra lo sarà la dinastia dei reali sauditi: sta sorgendo su terreni utilizzati per l’Expo a Cascina Merlata (destinazione agraria sacrificata per sempre) il più grande centro commerciale della città. Sono solo due esempi fra tanti di una tendenza irreversibile. Tutto si tiene rispetto ai nuovi luoghi di falsa socializzazione. È raggiunta nell’intero paese l’obbedienza alla legge della mondializzazione; così funziona anche in questi casi il capitalismo vòlto, come detto, all’economia dell’arricchimento nell’epoca di impoverimento dei lavoratori.

Grattacieli

1.- Un’architetta intervistata in piazza Gae Aulenti disse che Milano ha il grattacielo nel suo DNA perché ha eretto la guglia del Duomo con la Madonnina. Macché DNA, macché Duomo. L’unico edificio di altezza inusitata (al suo tempo) significativo non per aver fondato una tendenza ma per essere emblema di singolarità, il contrario di possibile molteplicità, è il grattacielo Pirelli (Ponti, Nervi, Rosselli e altri, 1956-60, 32 piani, 127 metri). Quasi un contradditorio architettonico radicale ma non arrogante alla magnifica Stazione Centrale di Ulisse Stacchini (nota: opera di un fantasioso tardo eclettismo, da noi amata e per disgrazia massacrata dai lavori del Progetto Grandi Stazioni senza alcuna opposizione di ordini professionali, istituzioni culturali, politecnici, università…). Altri pochi edifici alti, da non potersi più definire grattacieli stante le spaventose gonfie verticalità raggiunte a Milano Porta Nuova-Isola (se è per questo, nemmeno il Pirelli…) non contano nulla da entrambe le prospettive: danno grave o vantaggio apportati al paesaggio urbano. Un’ammirabile eccezione sarebbe la cosiddetta Torre Rasini, la parte «alta» di un palazzo residenziale all’angolo fra corso Venezia e i Bastioni, con la Porta Venezia da un affaccio e i Giardini Pubblici piermariniani dall’altro (Emilio Lancia e Gio Ponti, 1933-34), se dovessimo accettare l’inganno nominalistico e includerla con i suoi miseri undici piani più un parziale dodicesimo arretrato. Conta invece il disegno urbano e la bellezza di un’architettura tipicamente «milanese» fra razionalismo e Novecento.

2.- Al Palazzo Reale di Milano c’è una mostra di Umberto Boccioni, abbastanza ampia se non esaustiva. Qualche giornalista innamorato dei nuovi grattacieli ha preso «La città che sale», del resto presente solo in bozzetti (uno è nella collezione della Pinacoteca di Brera; l’opera compiuta, 200x300 cm, è al Moma di New York) per una profezia del 1910 alla vocazione dei costruttori milanesi a erigere, appunto, grattacieli. Grossolana deduzione dal puro titolo. Basta osservare con attenzione le immagini di bozzetti e del quadro finito, aggiungendo magari la lettura di qualche passo di critica d’arte moderna, per capire che Boccioni lavora in piena assunzione del «dinamismo» preludente al compimento del Futurismo. Quattro quinti del dipinto sono occupati da cavalli e uomini in contorsione «fusi esasperatamente insieme in uno sforzo dinamico»[vi]. Solo in un piccolo spazio in alto a destra sbuca una forma che potrebbe rappresentare una casa in costruzione di quattro o cinque piani, oppure alludere a un quartiere periferico in corso di realizzazione come tanti all’inizio del Novecento. «La città che sale» significa una Milano che scala la china del progresso, come l’artista la vede nella realtà e la proietta in visione avveniristica.

[i] L. Meneghetti, La sostenibile infelicità della divisione, in eddyburg, 15 marzo 2015.
[ii] Intervista a Luc Boltansky del Collettivo La Boétie,
«L’Indice dei libri del mese», a. XXXIII, n. 5, maggio 2016.
[iii] L. Meneghetti, Alla ricerca dello spazio perduto (Discorsi di piazza), in eddyburg, 25 novembre 2006. In «il Grandevetro», a. XXX, n. 184 novembre-dicembre 2006; poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2008. – L. M., La strada, la piazza. Un cuore antico per il futuro, in eddyburg, 7 febbraio 2009; poi in Promemoria di urbanistica architettura, politica e altre cose, Maggioli, 2010. – L. M., Dov’è la bellezza di Milano?, in eddyburg, 11 giugno 2015.
[iv] W. Hellpach,
L’uomo della metropoli (Mensch und Volk der Grosstadt, 1935, prima pubbl. 1939), Edizioni di Comunità, Milano 1960.
[v] Cfr. la rassegna di Piani di edilizia economica e popolare in
«Urbanistica», a. XXXIII, n. 41, agosto 1964. L’unico progetto, inserito nel contemporaneo Prg, che appare meno marginale è quello di Novara.
[vi]
Boccioni a Milano Catalogo della mostra al Palazzo Reale, dicembre 1982-marzo 1983, Mazzotta, Milano 1982.

(continua la lettura)

La perdita

La figurazione e l’ironia di "la paura fa (quasi) 90" come a tombola. Anni però. Guardo o riguardo indietro nel tempo, guardo la consolidata cultura di eddyburg, guardo certe scarse note per il confronto, quella di Fabrizio Bottini reclamante «una seria interdisciplinarietà» nel commento critico al Vittorio Gregotti di Periferie: una rinascita senza ghetti (5 gennaio 2015), e il mio successivo Pensieri indisciplinati e no (9 gennaio 2015). Non possiamo più girare intorno al formaggio come fanno i topi e poi appena tentano un piccolo morso l’arco dentato li acchiappa e gli affonda le punte nella carne. Volevamo il dialogo fra le discipline, il superamento della cieca specializzazione (tipo eccessi della matematica a Oxford per selezionare la razza); volevamo onorare la vecchia battaglia di un Edgar Percy Snow affinché le due culture, l’umanistica e la scientifica, almeno si parlassero[i]; chiedevamo di riconoscere le conquiste a scuola (rare ma rivoluzionarie) nel campo della reciprocità (intra-bisogno) fra le cinque componenti della famiglia architetturale, di confermare e aumentare la capacità dell’urbanistica di introiettare l’essenziale delle scienze umane; soprattutto volevamo l’urbanistica e l’architettura, differenti ma non divergenti nella storia della città e dello spazio aperto, laboriose su cattedre e tavoli vicini, unite e compartecipanti nel fissare e perseguire gli obiettivi del progetto (del piano). Appunto, i topi intrappolati.

L’urbanistica e l’architettura sono entrambe, da una parte, nettamente staccate dalle nostre concezioni e dalle coerenti concrete prove, da un’altra «godono» quanto mai di una separatezza assoluta, un’intolleranza cruda quando gli capitasse di sfiorarsi. I campi recinti, d’altronde, non contemplano la vita. La loro divisione ha contribuito al fallimento della città e del fuori. Non interessa qui discutere la negazione di Franco La Cecla[ii] o l’ottimismo di Stefano Moroni[iii]. È la perdita dell’unità, il rifiuto del retaggio storico (una sola arte, come l’artifex dei latini) la causa dello stato attuale: l’urbanistica esiste come il cavaliere inesistente che esiste ma è un magatello; l’architettura ha surclassato la realtà come non-architettura, quella di autori che, attenti a nient’altro che a se stessi (e, horribile dictu, alla massima resa finanziaria per l’imprenditore) commettono clamorosi falli culturali e professionali pur di realizzare violente testimonianze del proprio protagonismo: cose e cosi sprezzanti i contesti storici e sociali, ostili alla città e alla comunità; forme per lo più astruse, talora contro-statiche in veste di grattacielo; contenuto? irrilevante. Ai cittadini col naso all’aria (non molti, la «classe media» potrebbe agire come l’io narrante in La vita agra di Luciano Bianciardi[iv]) basta meravigliarsi per l’imponenza vetrosa dai riflessi abbaglianti. Quando esistessero per il dato luogo, grazie a strana sopravvivenza della vecchia maniera, chiare definizioni e norme attuative, quei King Kong, succubi alla volontà del domatore padrone, le stritolerebbero, proprio come il gran scimmione stava per fare con la bella ragazza tenuta in una sola mano.

Forse l’ottica che adottiamo è deformata dalla taratura dell’obiettivo sul caso milanese? Come altre vicende in altri momenti[v], il «rito ambrosiano» (Vezio De Lucia), ossia la manipolazione delle regole, ha indicato al paese la melodia e l’armonia del corale che celebra lo sbaraglio dei difensori della legalità e dell’onesta verità storica della nostra cultura. Ne è il compendio assordante, altra volta descritto, la «Nuova Milano» di Garibaldi-Repubblica-Isola, terra straniera giacché è per intero proprietà qatarina: giustamente, vorremmo dire, dal momento che il paesaggio urbano sembra importato pari pari da quello del noto emirato[vi]: orrori, orrori disumani, un marchio mortale che distingue tutti gli emirati della penisola arabica.

La memoria

L’interno della Borsa di Amsterdam
Particolare di Amsterdam Zuid

Un metodo di progettazione in cui il tutto sia presente nelle parti e le parti nel tutto, un punto di vista univoco circa l’urbanistica e l’architettura: questo ci ha insegnato Hendrik Petrus Berlage, il maestro che tuttavia lega l’obiettivo di costruire la città nuova all’esistenza di un ideale di vita, di una larga cooperazione per obiettivi comuni; ma, infine, anche alla lotta politica contro la potenza del capitalismo. Ad ogni modo il piano per Amsterdam Zuid rappresenta in sé, a quella data, il miglior risultato rispetto alla coerenza dei principi: fedeltà alla storia della città (il demanio della terra, l’esproprio, l’isolato); affermazione e rilancio della socialità (la tradizione cooperativistica); piena applicazione della legge sulle abitazioni del 1901 (regolamentazione promotrice dell’edificazione per blocchi). Il progetto d’insieme fortemente unitario nella successione degli isolati, crea un più alto livello di unità attraverso i fabbricati ai margini e i giardini interni, luogo decisivo dove l’architettura mostra indubitabilmente, se così si può dire, la propria funzione urbanistica unita al riconoscimento dei valori cooperativistici, infatti il numero degli alloggi corrisponde a quello di una cooperativa di media dimensione. La realizzazione avverrà con gli architetti della Scuola di Amsterdam. I De Klerk, i Kramer, le Kropholler… Espressionismo, moderno romanticismo, alcune mirabolanti mostre delle risorse laterizie nell’esclusivo impiego del mattone… L’effetto è di una inflessibile coerenza dell’insieme e dei particolari, in armonia con lo spirito e l’arte del maestro. Conosciamo le critiche di Giedion (che sarà alfiere del razionalismo) al piano: le soluzioni proposte sono ancora legate a certa urbanistica ottocentesca. Ma a noi la «vecchia» Amsterdam Zuid basta ora: come preferiremmo, ora, una «Nuova Milano» tutta berutiana.

Bruno Taut, dopo una visita nel 1929, definì l’addizione meridionale un contributo eccezionale all’architettura moderna: «… è avvenuto il prodigio, la creazione di un’architettura collettiva, dove non è più la singola casa ad essere di particolare importanza, ma le lunghe schiere di case lungo le strade e ancor più l’aggregazione di molte strade in una unità complessa, anche quando in queste strade hanno lavorato architetti diversi».[vii]

La Hufeisensiedlug della Groβsiedlug Britz
Case a schiera con diversificazione della tinteggiatura

A questo punto sembra pura fortuna (invece è ricerca) poter introdurre la figura di Bruno Taut, da subito scelta insieme a quella di Berlage per far comprendere la superiorità del ricordo, tramite un suo alto apprezzamento dell’opera del maestro olandese. Pochi, forse nessun altro protagonista del Moderno può vantare, come Taut, una tanto ricca dotazione culturale fra idealità filosofica e politica, passione progettuale, capacità realizzativa. L’unità in Berlage fra architettura e urbanistica sovrintesa socialmente dalla cooperazione è naturale obbligazione in Taut. Ma esiste una più complessa relazione fra critica della città esistente e modelli deliberatamente utopici come in Die Stadtkrone e Alpine Architektur, o storico-idealistici come in Die Auflösung der Städte (Kropotkin evidente riferimento). Dobbiamo interpretarli quali potenti metafore della sua visione della società: ossia del rapporto fra società e città-territorio, dell’organizzazione degli spazi e dell’architettura. La definizione di Erdstadt per il progetto urbanistico e la precisazione con Die Erde eine gute Wohnung dicono quanta importanza Taut attribuisse alla terra, alla campagna: che all’interno della nuova città, le Siedlung, significherà anche grandi parchi, giardini, orti intanto che l’eine gute Wohnung realizza magnifiche soluzioni d’insieme urbano e di architettura di case per il popolo studiata a fondo secondo pochi tipi (fu Taut a ritenere che l’uomo trova un facile rapporto immediato con la sua abitazione fino al limite di tre piani. Superatolo comincia il momento dello straniamento che costringe a ricorrere a qualche accorgimento distraente).

Bruno Taut accettò doverosamente importanti compiti in cariche pubbliche per realizzare il suo programma, dimostrando come l’intero presupposto teorico e ideale fosse pronto a precipitare in una grande intrapresa di realtà. Da Stadbaurat a Magdeburgo lavorava da un lato per il progetto e la costruzione di alloggi popolari, dall’altro per il rinnovamento urbano attraverso la tinteggiatura policroma delle facciate attuata da artisti: «Magdeburgo colorata» si dice e si legge. A Berlino, invece, direttore dei programmi residenziali della GEHAG[viii] disegnò il piano di diverse Siedlung, talvolta con Martin Wagner, e progettò come altri noti colleghi (il fratello Max, Ludwing, Scheiderei, Häring, Poelzig…) l’architettura degli edifici. Così prima della crisi per l’avvento di Hitler decine di migliaia di alloggi furono assicurati alle classi lavoratrici. Fra i diversi e bei luoghi, il primato spetta alla Gossiedlung Britz, con la grande corte denominata Hufeisensiedlung (Hufeisen = Ferro di cavallo) altrimenti detta Lowise Reuter-Ring (Ring=Anello).

Note
[i] E. P. Snow,
Le due culture, orig. 1959 e 1963, Feltrinelli 1964, Marsilio 2005.
[ii] F. La Cecla, Contro l’urbanistica, Einaudi 2015.
[iii] S. Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile, Carocci 2015.
[iv] Vedi in eddyburg l’ultimo capoverso di L. Meneghetti, Migrazioni passato e presente. Seconda parte, 10 gennaio 2016, e la relativa nota 7.
[v] Vedi in eddyburg-archivio in data 11 settembre 2006 (quasi dieci anni fa!) L. Meneghetti, Falsificazione dell’architettura e privazione dell’urbanistica, poi in L. M., L’opinione contraria, Libreria CLup, dicembre 2006, p.189-196.
[vi] Vedi in eddyburg L. Meneghetti, Dov’è la bellezza di Milano? 10 gennaio 2016.
[vii] Citazione in M. Casciato (a cura di), La Scuola di Amsterdam, Feltrinelli 1987, p. 23, da B. Taut, Die neue Baukunst in Europa und Amerika, Stutttgart 1929, p. 41.
[viii] Gemeinützige Heimstätten Aktien Geselschaft = Società anonima per residenze di pubblica utilità.

(continua a leggere)

Seconda parte [1]

Angela Dorothea Merkel è intelligente (cioè capisce) molto più degli altri leader europei. Alcuni di loro non lo sono per connaturata inibizione poiché sono fascisti e nazisti quasi di­chiarati (Kaczynski e Andrzej Duda, Orban…); altri sembrano come indica la seconda scelta di un qualsiasi dizionario dei sinonimi e dei contrari, idioti – stupidi; altri ancora, chiamiamoli intermedi, si muovono solo secondo gli umori classisti prevalenti; altri infine, piccoli per piccolezza di patria, devono vivere nell’ombra di uno grosso, adeguandosi.

Per Angela Merkel, incurante di contestazioni e persino di proprie contraddizioni, la Germania ha di nuovo bisogno di immigrati in massa, come nel passato. Solo con l’immissione di popolazione giovane, dice, essa potrà riequilibrare lo stato demografico e, udite udite, il si­stema pensionistico. Infatti, il diagramma piramidale della popolazione per età presenta una base molto ridotta e un vertice allargato: pochi giovani e giovani-adulti, tanti anziani. Tassi di natalità minimi (8 per mille, idem l’Italia) e tassi di mortalità superiori (11 per mille, 10 l’Italia), movimenti migratori a parte, minacciano la stessa riproduzione. Tutto questo nonostante la crescita lungo cinque-sei decenni della presenza di stranieri provenienti da diverse nazioni, tuttavia propensi, evidentemente, ad assimilare rapidamente comporta­menti di vita famigliare o personale. Ma si devono risolvere due enormi problemi: assicu­rarlo davvero quel lavoro, del quale il paese sembra avere urgente necessità, ai nuovi cit­tadini; garantir loro un’abitazione dignitosa insieme a un coerente modo di vita. Solo così si potrà ricostituire un processo relazionale costruttivo e stabile fra rapporti di produzione e riproduzione.

Vogliamo dire, indipendentemente dalla questione tedesca, che la vecchia e durevole lo­gica capitalistica e mercatistica volta a restringere o a espandere la forza lavoro secondo gli investimenti e i disinvestimenti nel gioco fra sviluppo e crisi, può essere battuta da una realizzata condizione sociale e politica incentrata su due atti: riduzione per tutti del tempo di lavoro, magari prendendo spunto dalla provocazione di Paul Lafargue (i francesi hanno provato…) e radicale modificazione del rapporto fra consumo di beni d’uso e di beni di scambio in favore dei primi, compresi quelli immateriali. In altre parole: parallelamente alla diminuzione del tempo penoso (lo è per la stragrande maggioranza), aumento del tempo vissuto con felicità attraverso la cultura, per la crescita di sé razionale e sentimentale.

La Germania è il più popoloso paese dell’Unione, ottantuno milioni di abitanti. Gli stranieri sono più del 10 % (di questi il 20 % vi è nato) ma se si aggiungono gli immigrati pervenuti man mano alla cittadinanza tedesca la percentuale quasi raddoppia, 19%. La tumultuosa ricostruzione sostenuta dall’enorme ammontare degli aiuti americani anche in funzione dell’alleanza antisovietica e la gigantesca espansione industriale degli anni Cinquanta e seguenti richiesero un incessante flusso di mano d’opera da altri stati europei. I meridionali italiani espatriarono in massa, insieme ai turchi (che oggi rappresentano la più numerosa comunità straniera, oltre un milione e mezzo), ai polacchi, ai greci e altri…

Come simbolo del lavoro italiano in terra tedesca scegliamo Wolfsburg (Bassa Sassonia), “Città del Lupo”. Furono specialmente nostri muratori e artigiani a costruire, insieme alle prime case, la fabbrica della “Macchina del popolo” voluta da Hitler nel 1938. Volkswagen, programma industriale, politico e “sociale” bloccato dalla guerra fu rilanciato dopo la scon­fitta, intensificato fortemente dal 1955 e negli anni Sessanta grazie al lavoro degli immi­grati meridionali. Non fu a caso l’arrivo a Wolfsburg di tantissimi compaesani, fu dovuto a una preferenza, a un atto di fiducia degli industriali e dell’Istituto Federale per il Colloca­mento della Manodopera e per l’Assicurazione contro la Disoccupazione.

Probabilmente valse il riflesso delle prestazioni d’opera risalenti alla fondazione della fabbrica e della città. Ne derivò anche la modifica del termine che designava i lavoratori: dapprima Gastar­beiter poi, a causa della contrarietà degli industriali a considerarli solo “ospiti”, Südländer. Così il clamoroso successo del Maggiolino (Käfer) incorporava l’abilità e l’affidabilità degli operai siciliani, calabresi, abruzzesi… e la loro accettazione di un modo di abi­tare che non aveva nulla dell’abitazione famigliare nella propria regione, seppur povera, magari cadente, igienicamente inadeguata.

Una ricerca svolta presso l’Università degli studi di Roma Tre, pubblicata nel semestrale Altreitalie[2], presenta un quadro preciso degli alloggiamenti. Non furono usate le vecchie baracche ma si costruì un Villaggio degli italiani (Italienerdorf) costituito da lunghe “case” a due piani prefabbricate in legno. Nel 1964 erano 46, nel 1966, 58. Gli immigrati tuttavia continuarono a chiamarle baracche: ognuna con 32 stanze per 2-4 persone, a ogni piano una cucina comune, un gruppo di servizi igienici, un locale “per stirare” (?).

Wolfsburg cambiò notevolmente lungo i decenni fino ai giorni nostri. Da luogo-fabbrica de­dicato solo alla produzione divenne una città di oltre 120.000 abitanti dotata di tutte le ri­sorse che ne designerebbero l’abitabilità e la gradevolezza. Lo scrittore Maurizio Mag­giani, autore di quel romanzo fuori del rigo convenzionale che è Il coraggio del pettirosso[3] racconta in un articolo sul Secolo XIX di una delle sue visite[4]. Ha amici compatrioti, del re­sto un quarto degli abitanti ha origini italiane o è tuttora nostro concittadino. L’italianità la si trova non solo nei ristoranti nelle gelaterie nei caffè ma anche nelle scuole, nelle bibliote­che. Per Maggiani «Wolfsburg è una bella città… ricca di verde, funzionale… i suoi quar­tieri operai sono formati da villette a schiera, separati da parchi e collegati con ampi viali».

Il maggior vanto civico è la presenza del Phaeno, il più grande museo scientifico interattivo della Germania dotato di 250 postazioni. Progettato da chi? Diamine, dall’immancabile Zaha Hadid (vogliamo subito paragonarlo col meraviglioso Exploratorium di San Franci­sco, fondato da Frank Oppenheimer nel 1969, un grande spazio entro un’ariosa semplice struttura di ferro, come fosse testimonianza della rivoluzione industriale). Non manca un museo d’arte moderna. Infine la Kulturhaus di Alvar Aalto, che ricordiamo non fra le opere eccelse, funzionava già nel 1962.

Maggiani discorre con gli amici, tutti hanno in certo modo nostalgia dell’Italia; «ma, fatte le ferie se ne tornano a starsene nel cuore della Bassa Sassonia a casa loro, che è Wolfsburg, dove il clima non sarà un granché, ma dove dopo le quattro del pomeriggio nessuno lavora più, si va a passeggiare sui viali, a nuotare nei laghi, al cinema, a teatro, a bere birra sul lungofiume…». E la settimana di ferie autun­nali, l’asilo nido sotto casa, le tessere per i musei e le gallerie, il medico che li chiama per accertarsi della loro salute? Allora una specie di paradiso? Forse il nostro simpatico ro­manziere è propenso a romanzare, ma non a contar balle. In ogni caso un tale paesaggio urbano e umano non può riguardare l’intera Germania; e quali conseguenze proprio lì, nella sede madre dell’azienda, provocherà l’attuale vicenda delle emissioni inquinanti truc­cate in certi modelli?

Stiamo osservando una fotografia del 1964: in un’aula scolastica immigrati italiani ascol­tano qualcuno che li sta istruendo sul lavoro da minatori per essere avviati alle miniere carbonifere di Duisburg, Renania Settentrionale-Vestfalia. Tutta la Ruhr rappresentava, a quell’epoca, una delle massime concentrazioni territoriali minerarie (è noto che soprag­giunto il tempo della chiusura, l’intera regione, con le sue città grandi e piccole, sarà tra­sformata in un insieme multicentrico ricco di occasioni culturali, paesaggistiche, turistiche). I cavatori italiani meridionali, a nostra memoria, furono più fortunati dei loro colleghi emi­grati in Belgio, dove a metà degli anni Cinquanta lavoravano 142.000 minatori, fra i quali 63.000 stranieri comprendenti 44.000 italiani. A Marcinelle, miniera di carbone Bois du Cazier nella periferia meridionale di Charleroi, l’8 agosto 1956 a causa di un irrefrenabile incendio morirono 262 minatori, i sopravvissuti furono solo 13. 136 le vittime italiane, le metà abruzzesi. Sfogliando le notizie in memoriacondivisa.it leggiamo che il ricordo della tragedia è ancora vivo; anche quest’anno nel sito minerario del Bois du Cazier, dal 2012 entrato nel patrimonio mondiale dell’Unesco, si terranno le cerimonie di commemorazione dell’evento.

Ai lavoratori italiani per morire in miniera non occorreva emigrare all’estero. Poco più di due anni prima dello sterminio di minatori a Marcinelle era stata la Maremma, terra di miniere dove l’attività della società Montecatini era iniziata alla fine dell’Ottocento, a essere teatro di una tragedia. Provincia di Grosseto, comune di Rocca­strada, frazione di Ribolla (in effetti, un villaggio Montecatini), miniera di lignite sezione “Camorra”: nella prima mattina del 4 maggio 1954 una spaventosa esplosione di grisù causò la morte di 43 operai. I minatori erano in totale poco più di 1.400, in forte diminu­zione dal 1948 coerentemente alla politica della Montedison, smobilitare anno dopo anno: condotta che comportava la riduzione delle provvidenze per la sicurezza del lavoro. Il libro “d’epoca” di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I Minatori della Maremma[5] dedica un capi­tolo a La sciagura di Ribolla.

Fu per noi una lettura importante. Due ricercatori che sali­ranno la china della letteratura d’autore e della fama fino al vertice ci ragguagliavano sulla storia e la condizione sociale poco conosciute della loro regione, in maniera così accurata e dimostrativa come solo una vocazione allo studio storico e una diretta partecipazione alle vicende potevano permettere. Chi conosceva quale fosse l’abitare per i lavoratori scapoli arrivati lì provenendo da territori lontani? Ecco i “camerotti”, costruiti per cacciarvi i prigionieri di guerra. “Costruzioni a un piano, lunghe e strette, divise all’interno in tante stanzette quadrate…gli scapoli… vivono là dentro, a gruppi di tre o quattro per stanza: brande di ferro, armadietti, pure di ferro, un tavolo, sgabelli… In cima all’armadietto una cassettina di legno… La sensazione è quella, la caserma”.[6]

L’io narrante di La vita agra, il capolavoro di Luciano Bianciardi, sente la “missione” di vendicare le vittime della tragedia: «…venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento [sarebbe la sede della Montecatini a Milano], chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli assegni assisten­ziali, dove la cartella personale… di tutti i quarantatré i morti del quattro maggio. Chieden­domi dove, in che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione; metano miscelato con aria in proporzione fra il sei e il sedici per cento. Tanto ce ne vuole perché diventi grisù, un miscuglio gassoso esplosivo se lo inneschi a contatto con qualsiasi sorgente di calore su­periore ai seicento gradi centigradi. La missione mia… era questa: far saltare tutti e quat­tro i palazzi».[7]

[1] Vedi la prima parte in eddyburg, 2 dicembre 2015.


[2] Katiuscia Curone, Italiani nella Germania degli anni Sessanta: immagine e integrazione dei Gastarbeiter, Wolfsburg 1962-1973, in Altreitalie, rivista internazionale di studi sulle popolazioni di origini italiane nel mondo, n. 33, luglio-dicembre 2006.

[3] Edito da Feltrinelli nel 1995, ha vinto nello stesso anno i premi Viareggio, Rèpaci, Campiello. Nel 2010 la quattordicesima edizione.

[4] Maurizio Maggiani, Povera Italia, vista da Wolksburg, in Il Secolo XIX (unito a La Stampa), 31 agosto 2010.

[5] Luciano Bianciardi – Carlo Cassola, I minatori della Maremma, Editori Laterza, Bari 1956 – Libri del tempo.


[6] Ivi, p. 50-51. «Le famiglie, che dovettero costituirsi parte civile accettarono le offerte in denaro della Montecatini e il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati e il disastro fu archiviato come ‘mera fatalità. A seguito del disastro la direzione della Montecatini decise la chiusura della miniera, la cui smobilitazione richiese ben cinque anni», dal sito memoriacondivisa.it.

[7] La vita agra, 1967, in Luciano Bianciardi - L’antimeridiano - Tutte le opere, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Cipolla e Alberto Piccinini. Volume primo. Saggi e romanzi, racconti, diari giovanili, Isbn Edizioni e ExCogita Editore, Milano 2005, p. 595.

Il Ponte dal titolo “Emigrazione cento anni 26 milioni” ... (continua a leggere)
Il Ponte dal titolo “Emigrazione cento anni 26 milioni”, non tutti sembrarono credere alle cifre pubblicate. L’incipit nell’introduzione del direttore Enzo Enriques Agnoletti anticipava seccamente le verità che i numerosi saggi del volume avrebbero dimostrato e che i politici al governo e i ceti dominanti avrebbero preferito tener nascosta o fingere fosse normale vicenda riguardante l’economia mondiale e tutti i popoli: «dall’unità d’Italia non meno di ventisei milioni d’Italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro paese. È un fenomeno che per vastità, costanza e caratteristiche non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo». Non meno impressionanti i dati presentati nel saggio di Paolo Cinanni, presidente della Filef (Federazione italiana lavoratori emigrati e famiglie).
Nel 1971 i nostri concittadini residenti fuori della patria erano oltre 5.200.000, distribuiti in tutti i continenti con fortissima prevalenza di Europa e Americhe. Aggiungendo gli italiani con cittadinanza straniera acquistata dal dopoguerra, 1.200.000, ne consegue che a quella data fuori del nostro paese esistevano circa sei milioni e mezzo di connazionali. Milioni di vite in gioco, miriade di casi angosciosi nella ricerca di lavoro e di casa, impatto frustrante con lingue sconosciute, inenarrabili sfortune personali e famigliari. Per un risultato appena coerente con la speranza cento tradimenti del sogno e accettazione di ogni tipo di sfruttamento pur di lavorare e di abitare, tant’era pura sopravvivenza la vita in patria, e infine tanta volontà di costruire nuova famiglia. Dovremmo definirli, questi emigrati, adottando l’inammissibile invenzione idiomatica attuale, “economici”? Il pugliese Ferdinando Nicola Sacco e il piemontese Bartolomeo Vanzetti, l’uno operaio l’altro pescivendolo, onesti “economici” anarchici approdati negli Stati Uniti vi trovarono la morte sulla sedia elettrica. Oggi, invece, immigrati in Italia e in altri paesi europei, fuggiaschi o “economici” che siano, incontrano la morte in mare o nel carrello di un aereo o nel cassone di un TIR.
Come non commuoversi dinanzi a tante tragedie e non ragionare sulle loro cause? D’altra parte, come dimenticare che una nuova popolazione è riuscita a insediarsi qui, a lavorare, a produrre reddito, a contribuire al bilancio attivo nazionale e a ripianare il preoccupante deficit demografico italiano? Quattro milioni e mezzo di persone. Non abbiamo fatto nulla per sostenerne la vitalità, in primo luogo nella ricerca di abitazioni dignitose. Così accettiamo, esempio noto e crudele, il «modo di abitare» senza casa e persino senza baracca dei raccoglitori di frutta nelle regioni meridionali…Poi sopportiamo i Salvini, i Borghezio, i Maroni… e consistenti gruppi di concittadini organizzati in formazioni fascistoidi, xenofobe e razziste che, oltre a manifestare sentimenti di puro odio, falsificano la realtà sociale per ricavarne consenso; sanno infatti che fuori dei loro movimenti una parte dell’opinione pubblica, incolta e perciò propensa a tener per veri luoghi comuni fritti e rifritti sugli stranieri, si presenta come un campo fertile per seminarvi i loro criminosi principi e le loro eversive proposte politiche.
Eppure, al tempo delle grandi migrazioni interne, mai cessate dal dopoguerra ma di portata eccezionale negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, provenienza prevalente - a parte i vicinati regionali – dal meridione e, all’inizio, anche dal Veneto, destinazione il triangolo industriale, certi comportamenti di istituzioni e di italiani verso italiani potremmo considerarli batteri di una malattia sorta lì, in seguito rimasta latente e riesplosa ai nostri giorni. La realtà e il mito di Piemonte, Lombardia e Liguria, di Torino, Milano e Genova furono richiamo talmente potente da permettere illimitata libertà di sfruttamento in ogni senso del bisogno di lavoro e di abitazione che masse di povera gente sradicata dalle loro terre esprimevano con umiltà e sottomissione. A questo riguardo assumiamo la città di Torino degli undici anni dal 1951 al 1961 (studiata nei corsi di urbanistica insieme ad altri contesti nei primi anni Settanta) come maggiormente rappresentativa, simbolo di un’epoca che per alcuni aspetti e per tutt’altre cause sembra riprodursi oggi in diverse aree del paese, come fosse una contorsione della nostra storia sociale.
Torino simbolo dal momento che ne fu raffigurazione la Fiat, industria-richiamo come nessun’altra per tanti connazionali, anche se non era l’azienda a dare lavoro a tutti: «l’importante era essere vicino al benessere, nella città delle prospettive mirabolanti, lontani dalla fame e dalla miseria» (C. Canteri, Immigrati a Torino, Ed. Avanti, 1964). Il lavoro si trovava per lo più nelle fabbriche che vivevano grazie a essa o nei cantieri edili o in una falsa «cooperativa» di facchinaggio, oppure attraverso diffusi racket delle braccia. Intanto gli immigrati che non fossero piemontesi provenienti dalla campagne o dalle valli (aiutati dai parenti torinesi) dovevano scontrarsi con una legge fascista del ’39 avversa all’urbanesimo che sarà abolita solo nel 1960: per avere un lavoro occorreva possedere una residenza, per ottenere la residenza bisognava avere un lavoro; allora si registravano come lavoratori in proprio, ossia come «soci» di quelle pseudo-cooperative che li avviavano ai posti di una qualsiasi occupazione teoricamente stabile taglieggiandoli pesantemente sul salario. Oggi in Italia, se raggiungere la residenza avendo un recapito non è troppo difficile, purché non la si richieda in comuni amministrati da sindaci leghisti, razzisti, neofascisti e similari, è di fatto impossibile conquistare la cittadinanza.
Non diversa era la condizione degli operai utilizzati all’interno degli stabilimenti di Fiat ma non da questa dipendenti. Erano le organizzazioni a cui il lavoratore «si affiliava», dette «enti di offerta di lavoro», ad appaltare ogni genere di opere che la fabbrica, ormai avviata a una produzione di massa, aveva convenienza a non esercitare in proprio. L’azienda pagava all’”ente” per ogni operaio cifre inferiori anche del 50% agli oneri complessivi sopportati per il dipendente regolare. Cosa fanno oggi le poche fabbriche sopravvissute alla deindustrializzazione del paese se non accettare al loro interno operai estranei all’azienda e ricadenti nel «lavoro somministrato»?
Così la Fiat mentre da un lato propagandava una prospettiva di benessere per tutti da un altro accompagnava minimi spunti riformisti con politiche duramente discriminatorie. A queste apparteneva anche la piaga della raccomandazione al padrone attraverso i parroci, che potevano avviare a un posto fisso gli iscritti ai loro elenchi di partecipanti in qualche modo alla vita della parrocchia. Uno sguardo all’intera città all’inizio degli anni Sessanta rivelava che la condizione professionale degli immigrati era comunque ai livelli più bassi: circa due terzi manovali comuni, 30% ambulanti e artigiani, pochissimi operai specializzati. Eppure molti di loro dopo anni e anni di esperienza non erano più impreparata forza lavoro idonea solo alle prestazioni più mortificanti e magari pericolose.
Discriminati e sfruttati sul lavoro, discriminati sfruttati e ricattati per la casa. Vent’anni di cronache quotidiane mostrarono che Torino non ebbe eguali nella speculazione sulle spalle degli immigrati, nuova popolazione giovane di cui la città aveva pur bisogno per produrre e riprodursi. La classe dirigente torinese le offrì una gamma di possibilità abitative vergognosa: stalle dismesse ai confini del comune con la campagna, soffitte degradate prive di ogni dotazione igienica nel vecchio centro o nei trascurati quartieri operai, cosiddette «case alloggio» invece sudici dormitori in cui si affittava il posto branda, talvolta a rotazione secondo il susseguirsi dei turni lavorativi di otto ore; infine le bidonville da cui le famiglie furono sgombrate con la forza al momento delle celebrazioni del primo centenario dell’unità, per essere cacciate nelle cosiddette «casermette» prima adibite a ricovero dei sinistrati. Nel caso dell’alloggio decente e di un salario sicuro l’affitto ne sottraeva un quarto se proveniente dall’impiego in Fiat ma fino a metà se guadagnato in aziende piccole o comunque subalterne alla grande madre. L’aspirazione dell’immigrato di poter accedere a un alloggio popolare pubblico fu delusa dalla scarsità delle iniziative.
Per parte sua la Fiat mancò colpevolmente al dovere di accompagnare con una coerente politica della casa la scelta di forzare vantaggiosamente per sé l’immigrazione. La necessità, oggi nel paese, di un’estesa attività di edilizia popolare rivolta anche alla domanda dei «nuovi» immigrati è ignorata dalle aziende che hanno sostituito i vecchi istituti pubblici autonomi. In Lombardia, specialmente a Milano, per gran parte del secolo scorso agiva il più qualificato Istituto autonomo per le case popolari (Iacp) che realizzò quartieri spesso di notevole qualità. Il cambio del nome da Iacp ad Aler (Azienda lombarda per l’edilizia residenziale) avvenuto grazie al dominio politico nella Regione di Forza Italia e della Lega mostra lo stravolgimento dei contenuti: non più istituto pubblico ben identificabile ma azienda come altre, non più autonomia ma dipendenza dal potere politico, non più case popolari e precisa destinazione sociale ma pura edilizia residenziale generica dotata di sola identità economica.
Torino nel 1951 contava 700.000 residenti. Bastarono dieci-undici anni per diventare una grande città di oltre un milione di abitanti. Arrivò una nuova popolazione di mezzo milione di persone, mentre l’esodo fu di sole 160.000. Uno sconvolgimento epocale, un sovvertimento del precedente stato demografico. Nonostante le mille difficoltà di accoglimento, di lavoro, di insediamento, insomma di vita urbana lontanissima dal genere di vita dei luoghi di provenienza, fu merito degli immigrati, nuovi torinesi estranei alle tradizioni degli autoctoni, se una città chiusa in sé stessa, sorda e sospettosa per consuetudine di una vecchia borghesia, col ceto operaio tradizionale talvolta anch’esso reticente verso le novità, si rifondò, evolvette - lentamente - verso l’accettazione dei compiti che la stessa nuova composizione sociale richiedeva. Ne fu un primo attestato il successo delle celebrazioni per il centenario dell’unità. Tuttavia la Fiat, sempre più estesa, pretendeva ancora la reductio ad unum, cioè a se stessa, della rappresentazione di Torino, che infatti tardò a superare il dannoso statuto di città dipendente da una sola imponente monocoltura industriale.
Gli operai immigrati raggiunsero rapidamente la coscienza di classe nel vivo dei rapporti di lavoro e delle relazioni con gli altri lavoratori. Quando nel 1969 il grande sciopero generale non per aumenti salariali, non per diverse condizioni di lavoro ma, prima volta nella storia sindacale e delle lotte, per il diritto alla casa («casa uguale a servizio sociale» lo slogan sbandierato), imponenti manifestazioni conquistarono le strade e le piazze delle città italiane. Gli operai di Torino, immigrati e torinesi uniti in una comune rivendicazione vitale, mentre partecipavano alla giornata di lotta nazionale potevano vantare di averla preceduta con un’altra giornata di sciopero nella loro città, quando avevano manifestato in massa contro il potere del padronato, al comando il principe della Fiat, vassalli e valvassini obbedienti. Fu vera lotta perché si comandò ai poliziotti, per lo più poveri meridionali grati alle autorità per aver ottenuto un’occupazione, di attaccare duramente i cortei operai: infatti, la ricordiamo ancora oggi con la denominazione impiegata dai quotidiani di allora, «la battaglia di corso Traiano a Torino».

Gli abitanti di un palazzo milanese ottocentesco con la facciata di disegno classico – ricorrenze marcate, timpani sopra le finestre... (continua a leggere)

Gli abitanti di un palazzo milanese ottocentesco con la facciata di disegno classico – ricorrenze marcate, timpani sopra le finestre incorniciate, modanature della trabeazione o cornicione, linea di gronda netta indiscutibile conclusione dell’edificio contro il cielo, particolari di una rappresentazione unitaria severamente equilibrata – vedono ergersi là in alto un opaco volume come un camicione che nasconde un cantiere di lavori per sopralzare di un piano l’edificio. Non sanno, non sono informati di una nuova costruzione sulle loro teste. D’altronde sopralzi di ogni genere, e non di un solo piano, da quasi vent’anni stanno marchiando brutalmente la linea del cielo milanese.

Il rivolgimento, a cominciare dalla deregolazione voluta dalla legge regionale del 1996 per il «riutilizzo dei sottotetti» (veri e finti) e continuato attraverso ulteriori sfrenate liberalizzazioni allo scopo, mentivano, di contenere l’espansione edilizia (si vedrà come, quando l’edificazione delle «nuove Milano» ammucchierà metri cubi a milioni), non rispetta nulla della storica dote architettonica e urbana della città. Palazzi dell’Ottocento e del Novecento, intatti nella loro forma coerente, sono violentati due volte: la prima, nel «personale» valore architettonico; la seconda, nel loro contributo a costituire organiche cortine edilizie di altezza costante, in cui l’unità dei fondamentali urbanistici genera, attraverso uguaglianze e differenze di forma e stile, architettura di ordine superiore, che siamo soliti chiamare architettura urbana.
Incredibile: sopralzi sono concessi persino, giustificati con minimi visibili arretramenti, nei palazzi della più nota strada della città, via Dante, realizzata a metà dell’Ottocento secondo un piano urbanistico per una cortina prospettica inquadrante la visione centrale del Castello, e articolato in prescrizioni architettoniche vincolanti per ogni edificio da erigere su fondo di proprietà privata. Migliaia di progetti approdano a realizzazioni mostruose, giacché nessuno, né architetti, né critici, né comitati di quartiere, né generica opinione pubblica sembra disposto a discutere il problema dell’addizione di parti nuove in sopralzo su costruzioni d’epoca la cui bellezza è acquisita da tempo nel catalogo dei beni da conservare. Sembra che il caso appaia trascurabile, non rilevante dal punto di vista dell’estetica urbana perché l’accostamento avviene per così dire «in verticale».
Invece, quando avviene «in orizzontale» nuove dispute si aggiungono a quelle corse incessantemente nella storia dal dopoguerra, con qualche anticipazione degli anni Trenta. Così oggi balza in primo piano l’ampliamento dell’hotel Santa Chiara a Venezia, con discussioni senza sbocchi in base al principio, falso nonché indice di asineria, «mi piace/non mi piace».
Intanto i nostri concittadini cominciano a preoccuparsi. Cosa copre il camicione? Lo sapranno presto, quando esso si affloscerà come un pallone bucato e loro guardando verso il cielo si sentiranno colpiti da una mazzata sulla testa e contro il petto (diranno dopo). Lassù, sopra il bel cornicione, appare «una cosa dall’altro mondo». Quasi tutti recepiscono subito: inconcepibile devastazione del volto della loro casa, come se questo non detenesse bei lineamenti e anche caratteri profondi durevoli nel passato e da tramandare integri al futuro. Perché abbiamo atteso la fine dei lavori e non ci siamo mossi prima? dicono alcuni. Allora scatta come una molla di ritorno e tutti decidono di invitare a valutare l’orrendo sopralzo l’assessore all’urbanistica e all’edilizia privata, insomma il potente personaggio da cui dipendono le concessioni a costruire (e gran parte delle scelte comunali riguardanti il destino del territorio di Milano e dintorni).
L’assessore viene, osserva come fosse estraneo alla vicenda del palazzo, e si esprime proprio secondo quel gioco duale tanto da sbalordire gli ospiti e chi propende a sopravvalutare la statura culturale dei nostri amministratori: può piacere o non piacere, è una questione di gusto; ossia: non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace. Tiè, direbbe il principe Antonio De Curtis.
Ecco servita la risoluzione del difficile problema, che infine dovrebbe allargarsi alla discussione su bellezza e bruttezza. A questo riguardo, soprintendenti, sindaci, assessori, eminenti istituzioni pubbliche e private si allineano nella lunga rassegna dei giudizi contrastanti. La scelta, in un senso o nell’opposto, appare quasi sempre stravagante, mai motivata in maniera convincente poiché mancante della doppia prerogativa: una multiforme preparazione che superi l’antagonismo o l’estraneità fra «le due culture», l’umanistica e la scientifica; una sensibilità acquisita attraverso l’esercizio, il movimento di tutti i sensi. Allora la scelta si configura liberamente nel rifiuto inoppugnabile dell’insulsaggine di «mi piace/non mi piace». Eppure ammissioni o negazioni anche inerenti a situazioni fortemente risonanti nella società civile accadono come fossero vincolate a questa alternativa. Perciò capita regolarmente che l’istituzione o il personaggio appaiano incoerenti e incomprensibili dinnanzi a circostanze simili o differenti.
Ritorniamo all’amata Venezia. Ora l’ampliamento dell’hotel Santa Chiara, anzi l’intero edificio nuovo appiccicato al vecchio genera discussioni senza capo né coda. Ognuno dice la sua nel modo insensato. L’equivoco perdura. Non sembra nemmeno scontata la negazione della soluzione mimetica – fare architettura «in stile» (benché, visti certi esempi di arrogante disinteresse, succeda talvolta di rimpiangere le intelligenti falsificazioni…). Il linguaggio non può che rappresentare il nostro tempo. Ma non possiamo fissare le parole «giuste». A questa stregua s’impone la ragione della sensibilità che, in conclusione del procedimento descritto, approda a identificare i due campi estremi della realtà formale, quello della bellezza e quello della bruttezza, inframmezzati dal terreno accidentato dell’ambiguità e dell’inganno, o dell’illusione.
La completezza e ricchezza delle sensazioni significano preparazione a impiegare un superiore linguaggio contemporaneo dell’arte, dell’architettura, della musica e così via, tanto da permettere a chi lo possiede di avvicinarsi umilmente e benevolmente al «glorioso retaggio». Come possiamo spiegare tale sensibilità? Non possiamo; essa è un’attribuzione spontanea, intrinseca, sottratta a pressioni dall’esterno; imposta dalla dotazione sensoriale personale sorretta dalla conoscenza indipendente, cioè libera da schemi del tipo, come (discutibilmente) nella lingua, «vince l’uso vince la consuetudine». Ancora una volta dichiariamo di detestare lo slogan «è bello ciò che piace».
Non può che essere misero l’estratto apprezzabile dall’enorme massa di opere destinata a coinvolgere, anzi travolgere presente e passato nel tumultuoso processo finalizzato alla costruzione della bruttezza totale del mondo, quanto mai conveniente agli interessi delle classi dominanti. E’ contro questi che James Hillman, fautore della simbiosi fra psicologia ed ecologia, accusa che il Grande Represso di oggi è effettivamente la bellezza, soggiogata dalla bruttezza titanica, il Moloch che distrugge i luoghi storici e il paesaggio.

L’edificio aggiunto del Santa Chiara non può di certo esser compreso nell’estratto. Non basta rivendicare una pretesa semplicità delle forme, siglata anche da timoroso soprintendente: che invece si riduce a un infecondo malthusianismo traditore consapevole dell’umanitarismo dell’antenato. Né sarebbe valsa una via di mezzo, l’azione in quel terreno intermedio fra i due poli. Ce lo dimostrano certi dolorosi risultati in edificazioni importanti, ormai digeriti, se così posso dire, dalla città. Per esempio il nuovo Danieli in Riva degli Schiavoni, l’hotel Bauer a San Moisè, la Cassa di risparmio in Campo Manin… Ma, allora (approssimativamente fino a cinquanta anni fa), la forza coesa dell’organizzazione storica dello spazio, essa stessa totalmente architettura, non aveva ancora perso per sempre la guerra contro i vandali. Il Moloch stava quatto nella tana sotto l’acqua in attesa delle occasioni per scatenarsi. Man mano arriveranno, ora sappiamo che non avranno mai fine.

Eppure, riguardo all’inserimento di nuove architetture entro un forte e fitto contesto storico, Venezia avrebbe potuto esibire la più straordinaria testimonianza di inclusione di un’opera moderna di immenso valore in un tratto della cortina lungo il Canale. Come altre volte, poiché la protesta urlata ci è rimasta in gola, ritorniamo al progetto di F. L. Wright per il Memoriale Masieri, un piccolo edificio commovente per l’evidente vocazione a collegarsi amorevolmente al vicinato in cortina (che del resto contiene forme di cinque o sei secoli saldate insieme dalla continuità e dalla specchiante partecipazione della strada d’acqua).
Le istituzioni locali e no, compresa la soprintendenza, con alla testa il municipio tenacemente caparbio nella negazione, accecate dal pregiudizio e dalla grettezza amministrativa, bocciano il progetto, quel meraviglioso saggio ispirato alla storia, alla natura, ai sentimenti artistici. Come se fosse un’offesa a un inesistente “stile” del Canale. L’architetto forse più grande del ventesimo secolo doveva subire l’ingiuria, lui custode del principio di bellezza più netto e risolutivo: l’artista vede più lontano e più chiaramente del suo popolo. Egli è l’unico a saper creare la bellezza.
È falso che il buonsenso sia peculiare dote di qualsiasi persona, che dunque sarebbe in grado di adottare le distinzioni giuste. Non possiamo calcolare l’esatta percentuale di responsabilità del popolo rispetto a quella di altri attori, sappiamo però che la distruzione della bellezza del nostro paese è avvenuta anche a causa dell’acquiescenza, spesso la spinta, delle popolazioni. Questo non significa che ogni cittadino non possa esprimere la sua opinione. I bravi milanesi che convocano l’assessore sono mossi da una visione secondo loro di impressionante bruttezza. La loro scelta è chiara. Purtroppo la realtà percepita e valutata è surclassata dalla presunzione del potente che ha scelto prima sulla base del più stolto criterio che si dia. A lui il sopralzo piace, da qui la decisione convalidante il reato già commesso di abuso e vessazione.

Riferimenti
Si veda in eddyburg di Lodo Menegnetti Pirani non docet, L’architettonica commedia di fine estate, L’opinione contraria, AIZENEV. La città rovesciata, Nnpp.

Lodo Meneghetti, La distruzione della linea del cielo milanese 1, in «eddyburg» 10.12.2003. Idem 2,
24.06.2004. Poi in Parole in rete. Interventi in eddyburg.
Giornale e archivio di urbanistica politica e altre cose, Libreria Clup, Milano 2005.
Lodo Meneghetti, Anno 2000. La memoria la bellezza, in «il Grandevetro», XXXI, n. 80 (186), ottobre-dicembre 2007. Poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2008.
James Hillman, Politica della bellezza, Moretti e Vitali, Bergamo 1999.Milano, 13 settembre 2015
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