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una giravolta dopo l'altra - hanno tradito tutti gli obiettivi sulla legalità, la trasparenza, l'ambiente. Che abbiano mutato pelle o rivelato la loro vera natura, poco importa, in questa triste parabola del M5S (m.b.)

Le elezioni europee sono alle porte, e se l’orologio tornasse a un anno fa, il M5S avrebbe una stratosferica vittoria in tasca. Non solo per il suo potersi proporre come pulito ricambio di una classe politica italiana non più credibile, ma anche per il vento fresco che ha ricominciato a sollevarsi in questi mesi soprattutto tra i più giovani, della mobilitazione per la difesa del pianeta, dell’ambiente, del patrimonio per le generazioni che verranno, di una vita più sostenibile per tutti. Venticello che profuma di speranza in un mondo migliore, quello che la sinistra e i suoi succedanei centristi hanno accantonato da tempo. Quello che in alcuni paesi europei ha già visto virare sul verde – quello vero, ambientalista – i risultati elettorali. In Italia un MoVimento che si chiama “5 stelle” dove le stelle stanno per “acqua, ambiente, trasporti, sviluppo ed energia”, intese come risorse pubbliche e sostenibili da difendere, sarebbe (stato) il più naturale portabandiera di un movimento globale che sta tornando ad infiammare animi finora rassegnati alla mediocre sopravvivenza.

Invece purtroppo un anno è passato, e il primo Partito/Movimento d’Italia salito a un Governo orgogliosamente definito “del cambiamento”, lo ha poi messo in pratica nella sua connotazione più passiva, cioè è cambiato lui stesso. E’ cambiato su molte promesse elettorali, in certi casi addirittura rovesciate – spesso per colpevoli sottovalutazioni precedenti delle possibili exit strategy – in altri per tentennamenti (o “rinvii”) persino su battaglie da sempre identitarie del Movimento. Ma soprattutto è cambiato nel rapporto con l’alleato di maggioranza: da ruolo di coprotagonista “di peso” – di maggiore peso – ad attore costretto a sgomitare per assicurarsi qualche spazio al centro della scena, bulimicamente occupata da un mattatore senza scrupoli.

E i sondaggi registrano tristemente gli effetti di questa narrazione leghista da campagna elettorale permanente, che lascia in secondo piano quello che il Governo a trazione salviniana sta effettivamente facendo su molti fronti: una politica di destra, agli antipodi di quella che aveva promesso il M5S, che ormai naviga a vista abbarbiccato alla zattera del reddito di cittadinanza, che appare sempre meno convincente.

Una battaglia tutta in difesa, che perde colpi e pezzi ad ogni nuovo provvedimento partorito, zeppo di rospi da ingoiare per i pentastellati: dopo il Decreto sicurezza, la “illegittima” difesa, l’autonomia differenziata delle Regioni più ricche (non ancora approvata), arriva ora il cosiddetto “Sbloccacantieri”. Un provvedimento che fa impallidire il renziano “Sblocca Italia”, ma anche le iniziative berlusconiane di qualche anno fa.
Un decreto che è già sulla Gazzetta Ufficiale, che cancella molte di quelle garanzie volute dall’Autorità Anti Corruzione, proprio perchè siamo un Paese in preda a una corruzione endemica che divora il suo futuro, un Paese che per un terzo è sotto il controllo diretto delle Mafie e per due terzi è terreno di affari delle Mafie, un Paese prono ai desiderata delle lobbies e dove ogni aspirazione deve fare i conti con il clientelismo, politico e non.
Invece, anzichè fare leva sulla trasparenza e sugli anticorpi civici, il Governo pentaleghista ha scelto di tornare al medioevo dei commissari e dei poteri speciali, delle deroghe alle tutele dell’ambiente, dei beni culturali e della salute dei cittadini, stabilendo che, per “gli interventi infrastrutturali ritenuti prioritari” ,”l’approvazione dei progetti da parte dei Commissari straordinari” “sostituisce, ad ogni effetto di legge, ogni autorizzazione, parere, visto e nulla osta occorrenti per l’avvio o la prosecuzione dei lavori”; poteri speciali che bypassano anche la tutela di beni culturali e paesaggistici, a cui si concede solo un piccolo margine in più, “non superiore a sessanta giorni”, “ decorso il quale, ove l’autorità competente non si sia pronunciata, l’autorizzazione, il parere favorevole, il visto o il nulla osta si intendono rilasciati” ( per la tutela ambientale i termini sono addirittura di 30 giorni).
E fa venire i brividi lungo la schiena che lo stesso articolo del decreto deleghi al commissariamento, in quei termini, la “programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione degli interventi sulla rete viaria della Regione Siciliana”.

Ecco, mentre i ragazzi di tutto il mondo scendono in piazza per chiedere fatti veri, e non le solite giaculatorie sul pianeta da salvare di chi continua a sfornare provvedimenti che vanno contro la tutela del nostro patrimonio naturale, il Movimento Cinque Stelle si è messo la corda al collo da solo.
Questi 10 mesi raccontano la tragica parabola di un MoVimento partito con l’ intenzione di guidare i cittadini alla riscossa e che si ritrova al seguito di una politica che ripete, spesso ampliandole, le efferatezze dei suoi peggiori predecessori. Pagheranno i Cinque Stelle, ma pagheranno anche gli italiani, soprattutto quelli che avevano loro affidato il compito di costruire un’Italia dei cittadini che avesse finalmente la meglio sull’Italia degli interessi, delle lobbies, dell’oscurità.
Ancora una volta assistiamo impotenti all’epilogo archetipico di chi, raggiunto il potere con le migliori intenzioni, se le rimangia una dopo l’altra per restare al potere. Anche a costo di vendersi l’anima.

Note.
La presente riflessione è espressa dall’autrice a titolo personale, sul sito Carteinregola.
Sul decreto sblocca-cantieri - definito "pericoloso" dal presidente dell'ANAC Raffaele Cantone - rinviamo al grido di allarme di Carteinregola. (m.b.)

Il Ministero per i Beni e le Attività culturali (Mibac) ha istituito con Decreto del 31 gennaio 2019 il vincolo di tutela dei beni culturali ai sensi dell' art. 12, D. Lgs. 42/2004 al Canal Grande, al Bacino e Canale di San Marco e al Canale della Giudecca, riconoscendo per la prima volta in Italia l’interesse storico-artistico delle vie d’acqua urbane.
L'applicazione del vincolo impedirebbe in questi canali il transito delle grandi navi, che (come abbiamo più volte spiegato in questo sito) sono una delle principali cause della devastazione della Laguna di Venezia, soggetta ad un drammatico processo erosivo causato dal moto ondoso e l'atrofizzazione della rete dei canali naturali provocato dall'entrata in laguna di questi transatlantici. Ricordiamo che l'effetto negativo di queste navi é riconosciuto dal mondo scientifico nonché sancito dal Decreto Clini Passera n° 79 del 2 marzo 2012, con il quale si stabiliva che nella Laguna di Venezia era vietato il transito nel Canale di San Marco e nel Canale della Giudecca delle navi adibite al trasporto di merci e passeggeri superiori a 40.000 tonnellate di stazza lorda.

Applicare questa tutela non significa che le grandi navi devono essere estromesse solo da Bacino di San Marco, soluzione non sufficiente per salvare Venezia dai processi di degrado in corso, ma devono essere estromesse dalla Laguna di Venezia. Quindi la folle proposta, che continua a ripresentarsi, di far risalire le navi da crociera lungo i canali industriali dalla bocca di Malamocco per approdare al Porto di Marghera o proseguire per raggiungere la Marittima attraverso il canale Vittorio Emanuele non è accettabile. Questa ipotesi, come spiegato da Andreina Zitelli , prevede stravolgenti trasformazioni urbane per adempiere ai bisogni logistici, ma ancora prima implica imponenti scavi ai canali industriali. Ricordiamo che il canale dei Petroli é anche esso soggetto a restrizioni, in quanto leggi vigenti prevedono che deve essere ridimensionato e riconfigurato, riducendone l'impatto negativo che esso ha sulle dinamiche dei canali naturali. Le Leggi speciali prevedono il «riequilibrio idrogeologico della laguna, [...] l'arresto e inversione del processo di degrado del bacino lagunare e l'eliminazione delle cause che lo hanno provocato, [...] l'innalzamento delle quote dei fondali determinatesi per l'erosione presso le bocche di porto e nei canali di navigazione». Tutte le soluzioni che mantengono l'entrata delle grandi navi nella Laguna dalla Bocca di Porto di Malamocco – percorrendo tutto o parte del Canale dei Petroli per fermarsi o a Porto Marghera o attraverso percorsi differenti arrivare alla stazione Marittima di Venezia - sono da scartare perché prevedono lo scavo di diversi milioni di sedimenti, anche contaminati, andando ad aggravare irrimediabilmente i danni all'ecosistema lagunare già prodotti negli anni industriali.

Questo nuovo decreto per tutela del Canal Grande, del Bacino e Canale di San Marco e del Canale della Giudecca non deve far abbassare la guardia e la mobilitazione cittadina per la difesa della Laguna. Infatti, la giunta comunale due giorni fa, il 26 marzo, ha approvato il ricorso al Tar contro i tre provvedimenti del Mibac e continuerà con ignoranza e spregiuticatezza la sua opposizione alle argomentazioni scientifiche, alle leggi e i piani vigenti messe in campo per la difesa della Laguna. L'alleanza tra i gestori delle grandi navi e dello sfruttamento turistico, i forti poteri economici, l'Autorità Portuale e l'amministrazione locale sono decisi a dilapidare il patrimonio accumulato con sapienza nei corso dei secoli per fare profitti. A questi poteri bisogna ribellarsi.
Sulle grandi navi a Venezia e le mobilitazioni contro le navi nella Laguna trovate in eddyburg molti articoli, per orientarvi potete cominciare con leggere «Venezia: perchè "No alle grandi navi»,

Mussolini urbanista
Nessuno lo ha ricordato, ma giusto quarant’anni fa cominciò a prendere forma il Progetto Fori, la più straordinaria proposta di rinnovamento dell’urbanistica di Roma dopo l’Unità. La sostanza del progetto – che raccolse grande entusiasmo e l’attiva partecipazione di migliaia di cittadini di ogni ceto e di ogni quartiere – consiste nella trasformazione dei più famosi resti dell’Impero romano in una componente vitale della città contemporanea. Ma dopo la morte del sindaco Petroselli lo stesso progetto è stato ricoperto da una montagna d’ipocrisia, e poi dimenticato. Mi pare perciò necessario rievocarlo, specialmente in una delle stagioni più amare della nostra povera capitale.
Comincio dagli sventramenti voluti da Benito Mussolini. Un secolo fa, all’inizio degli anni Venti, da piazza Venezia non si vedeva il Colosseo. Dove sta adesso la via dei Fori Imperiali, e sopra i resti dei Fori di Traiano, di Augusto, di Nerva, di Cesare, del Tempio della Pace, si trovava un vasto quartiere cresciuto nel corso dei secoli dopo la caduta dell’impero romano. A ridosso della basilica di Massenzio, si alzava la collina della Velia (che raccordava l’Esquilino al Palatino) sovrastata dallo splendido giardino di Palazzo Rivaldi. Fu tutto travolto per volontà del duce che – riprendendo le idee dei piani regolatori del 1883, 1909 e 1931 – volle nel cuore di Roma una strada adatta alle parate militari, in uno scenario che doveva celebrare la continuità fra l’impero romano e il regime fascista. Perciò fu scelto un tracciato “dritto come la spada di un legionario”, furono demoliti chiese, case e palazzi per decine di migliaia di metricubi, e alcune migliaia di sventurati abitanti furono sgomberati e in gran parte deportati nelle borgate che in quegli anni cominciavano a essere costruite dal Governatorato.
Lo sfondamento della via dell’Impero (oggi dei Fori Imperiali) è raccontato da Antonio Cederna in Mussolini urbanista. Lo sventramento di Roma negli anni del consenso. Feroci ed esilaranti, all’inizio del libro, le biografie dei sette maggiori responsabili, scritti in ordine alfabetico cognome e nome, a cominciare da Brasini Armando (“campione del titanismo di cartapesta”), quindi Giovannoni Gustavo, Muñoz Antonio, Ojetti Ugo, Piacentini Marcello, Ricci Corrado, Testa Virgilio. Le demolizioni ebbero inizio nell’autunno del 1931 e la via dell’Impero fu inaugurata “nel fatidico decennale”, il 28 ottobre del 1932. L’anno dopo fu la volta della via dei Trionfi (oggi di S. Gregorio), dal Colosseo al Circo Massimo. E, per trasformare il Colosseo in un monumentale spartitraffico, si distrussero il basamento del Colosso di Nerone e la Meta Sudante: un torrione conico in mattoni alto otto metri, unico resto a Roma di fontana monumentale.
Nel dopoguerra le cose peggiorarono. Le conseguenze degli sventramenti furono letali. Attraverso le vie dei Fori Imperiali e del Teatro di Marcello, via del Plebiscito – corso Vittorio Emanuele, il Corso, via Nazionale – via IV novembre, da ogni punto cardinale il traffico converge a piazza Venezia, ombelico del mondo. Per la via dei Fori transitavano 60 mila auto al giorno.

Anche il Progetto Fori fu una conseguenza del Sessantotto
Una conseguenza del Sessantotto fu certamente, nel giugno del 1974, la schiacciante vittoria del “no” nel referendum per abolire la legge sul divorzio. Ancor più sorprendente nelle elezioni amministrative del 15 e 16 giugno dell’anno dopo fu l’avanzata del Pci nelle maggiori città italiane: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Cosenza. A Roma la svolta avvenne il 20 e 21 giugno del 1976, quando il Pci guadagnò più del 35 per cento dei voti. Fu eletto sindaco Giulio Carlo Argan, insigne storico dell’arte, fortemente voluto dal segretario della federazione comunista Luigi Petroselli. Per Roma una novità epocale.
Con Argan, il Campidoglio si libera dai sordidi legami con la proprietà fondiaria che avevano caratterizzato le precedenti amministrazioni con la mezza dozzina di sindaci, sempre democristiani (da Salvatore Rebecchini a Clelio Darida) che si erano succeduti dal 1946 al 1976. La manifestazione più vistosa del vento di novità che attraversa la capitale fu l’estate romana, inventata dall’assessore alla cultura Renato Nicolini, che esplose nell’estate del 1977 e, proprio quand’era più cupa la stagione del terrorismo, convinse i romani a reagire, a uscire di casa, a stare insieme.
Per farla breve, esistevano a Roma tutte le condizioni perché prendesse corpo il Progetto Fori. La storia comincia il 21 dicembre del 1978 quando i giornali pubblicarono una dichiarazione del soprintendente archeologo Adriano La Regina sulle drammatiche condizioni dei monumenti corrosi dall’inquinamento. Per alcune opere i danni erano gravissimi e irreversibili. In verità, già da alcuni anni a Roma si discuteva del disastro dei beni archeologici, dell’inettitudine delle autorità e delle responsabilità politiche. Ma la dichiarazione del soprintendente introdusse per la prima volta una diretta connessione fra l’area archeologica centrale e l’assetto urbanistico della città.
La cronaca dei primi passi dell’operazione e dell’interesse che riscosse in Italia e all’estero è raccontata da Italo Insolera e Francesco Perego nel libro Archeologia e città. Storia moderna dei Fori di Roma dove sono raccolti i documenti, le testimonianze e le immagini fondamentali dell’area archeologica centrale, delle proposte e delle trasformazioni realizzate dal 1870 al 1983.
All’inizio, protagonista indiscusso è il soprintendente La Regina che con determinazione inconsueta nella burocrazia ministeriale “impedisce che il tema passi nel campo del deja vu martellando la scena romana con richiami talvolta ripetitivi, certamente efficaci”. La Regina torna sul tema il 21 aprile del 1979, invitato in Campidoglio dal sindaco Argan per le celebrazioni del 2732° anniversario della fondazione di Roma. Il soprintendente formula per la prima volta l’ipotesi della chiusura della via dei Fori. Dopo aver ripetuto che il centro storico di Roma non può più svolgere indiscriminatamente tutte le funzioni amministrative, politiche, culturali, commerciali e abitative che lo soffocano propone la soppressione della via dei Fori Imperiali, nel tratto tra piazza Venezia e lo sbocco di via Cavour, “al fine di restituire unità al complesso monumentale più significativo che esista, inutilmente sepolto dall’asfalto”. Non più guastati dalla strada che insensatamente li sovrasta, i Fori di Traiano, di Augusto, di Cesare, di Nerva, il Tempio della Pace possono essere trasformati in cinque sorprendenti piazze pedonali che tengono insieme passato e futuro. Per la prima volta i resti archeologici sono affrancati dalla secolare consuetudine di essere racchiusi in un recinto specializzato e vengono invece equiparati “ad altre parti storiche – medievali, rinascimentali, barocche – che la città non ha mai smesso di usare” (Insolera e Perego).
Con l’elezione a sindaco di Luigi Petroselli, quando Argan si dimette, il Progetto Fori occupa il centro del dibattito politico e culturale. Nei due anni che corrono dalla sua nomina (27 settembre 1979) alla repentina e prematura scomparsa (7 ottobre 1981) si raggiunge il livello più alto per l’urbanistica romana contemporanea. Il recupero dei Fori, che sembra a portata di mano, mobilita le migliori energie, raccoglie un consenso vastissimo che va dalle autorità di governo alla grande intellettualità internazionale, agli abitanti delle borgate che si stanno risanando.
Nell’ottobre del 1980 l’esordio del sindaco in materia di archeologia è lo smantellamento della via della Consolazione che da un secolo separava il Campidoglio dal Foro Repubblicano. Continua subito dopo con l’eliminazione del piazzale che separava il Colosseo dall’arco di Costantino e dal resto del complesso Foro – Palatino. Si ricostituisce così l’unità Colosseo – Foro Romano – Campidoglio e la continuità dell’antica via Sacra. E il Colosseo non è più uno spartitraffico.

Accorciare le distanze, di tempo e di spazio
La chiusura domenicale al traffico della via dei Fori comincia il 1° febbraio del 1981 e continua nelle domeniche successive. È una festa popolare, alle visite guidate organizzate dal Comune, prendono parte migliaia di persone. Il clima è lo stesso dell’Estate Romana, ma le domeniche pedonali sono soprattutto un elemento decisivo della strategia del sindaco di unificazione della città realizzata conferendo a un progetto urbanistico e archeologico anche uno straordinario valore aggiunto di natura sociale e democratica. La romanità, cioè il rapporto con l’antica Roma, non è più competenza esclusiva per studiosi e ceti benestanti e benpensanti, ma parte essenziale dell’esperienza quotidiana della cittadinanza romana. Un’unificazione che è l’esatto contrario dell’omologazione consumistica denunciata dal Pier Paolo Pasolini, non l’annullamento delle differenze, non la rinuncia alle radici e alla storia, ma un intento autentico e primario di uguaglianza.
A favore del Progetto Fori sono i quattro quotidiani a maggiore diffusione a Roma, che diventano anzi protagonisti dell’operazione: Corriere della sera, l’Unità, Paese sera, Il Messaggero, il cui direttore Vittorio Emiliani scende in campo personalmente.
Il consenso al sindaco è ormai vastissimo. Nel marzo del 1981 concludendo la seconda conferenza urbanistica cittadina, Petroselli dichiara che non c’è nessun contrasto tra la via dei Fori imperiali e la periferia romana, “si può partire da via dei Fori imperiali, come si sta facendo, per andare al Forte Prenestino, negli altri luoghi storici della città e concorrere al programma di difesa dei monumenti, ma soprattutto quello che accade e che vogliamo che accada è che non solo il tempo di percorrenza, ma il tempo mentale e il tempo culturale si accorci tra via dei Fori imperiali e la periferia, tra la periferia e via dei Fori imperiali”.
“Accorciare le distanze” è la sintesi del pensiero di Petroselli che si concretizza nel progetto Fori. Accorciare le distanze fra i tempi della storia, fra centro e periferia, fra borghesia e ceti popolari. I romani comprendono e apprezzano l’impegno del sindaco. Alle elezioni comunali del giugno 1981, il Pci raggiunge il 36 per cento dei consensi, meglio che nel 1976, risultato mai più raggiunto.
Ma il 7 ottobre del 1981, Petroselli improvvisamente morì, a quarantanove anni, mentre parlava al comitato centrale del Pci. E con lui finirono il Progetto Fori e tutte le cose che aveva cominciato a fare per Roma.
Cederna scrisse su Rinascita dello “scandalo” di Petroselli: lo scandalo di un sindaco comunista che aveva capito, a differenza di tanti anche autorevoli storici e intellettuali, l’importanza del passato nella costruzione del futuro di Roma.

Declino e fine del Progetto Fori
Con la morte di Petroselli opportunismo, buonsenso, prudenza, avvolsero lentamente il progetto. I tempi si prolungarono all’infinito. Il successore Ugo Vetere non smentì mai il programma di Petroselli, ma ne rallentò il passo. Decisamente contrari Cesare Brandi, Giuliano Briganti e Federico Zeri. Su la Repubblica Cederna è isolato e le pagine culturali sono in prevalenza occupate da chi contrasta il nuovo assetto dell’area archeologica centrale.
Con le elezioni del 1985 la sinistra fu sconfitta e al comune tornarono democristiani e socialisti. Non serve il resoconto delle estenuanti procedure che insabbiarono il progetto. Una ripresa della discussione ci fu nel 1989, quando Cederna, deputato della Sinistra indipendente, promosse il suo noto disegno di legge “per la riqualificazione di Roma capitale della Repubblica” (nell’anno successivo approvato con qualche modifica). Una legge rimasta del tutto inapplicata per entrambi gli aspetti che la qualificano, il Progetto Fori e lo Sdo (Sistema direzionale orientale), senza che nessuno l’abbia mai smentita.
Nel 1993, la sinistra tornò in Campidoglio con Francesco Rutelli sindaco. Dopo le amministrazioni Dc e Psi travolte dagli scandali e dall’azione della magistratura, doveva essere la grande occasione per riprendere le idee di Petroselli e le elaborazioni avviate in attesa di una nuova stagione dell’urbanistica romana. Ma la svolta non ci fu. Anzi Rutelli (che aveva firmato il disegno di legge Cederna) dichiarò che non sarebbe stata eliminata la via dei Fori. Come lui quasi tutti gli altri sindaci dopo Petroselli hanno continuano a evocare il Progetto Fori, ciascuno intendendo una cosa diversa, comunque mai mettendo in discussione la sopravvivenza della strada (con la sola eccezione di Ignazio Marino che rilanciò il progetto all’inizio della sua sfortunata esperienza).
Perché è successo questo? Certamente per la scomparsa di un sindaco dalla tempra eccezionale come Luigi Petroselli. Poi per la contrarietà di studiosi animati da storicismo esasperato, secondo i quali si deve conservare qualunque testimonianza del passato, anche del passato recente, sottraendola a rigorose valutazioni storico-critiche (un atteggiamento che in verità copre anche il fascismo sempre risorgente in una città come Roma). Ma l’archiviazione del Progetto Fori è stata determinata soprattutto dal tramonto di una politica sostenuta da partiti capaci di garantire l’esito di idee e proposte di valore strategico.
L’archiviazione era stata comunque burocraticamente formalizzata fin dal 2001 con la decisione della Soprintendenza ai beni architettonici di imporre un vincolo di conservazione sulla via dei Fori che da allora è tutelata al pari dei sottostanti resti dei Fori. La strada che Petroselli, La Regina, Benevolo, Cederna, Argan, Insolera consideravano un obbrobrio, di cui volevano cancellare la memoria, per il ministero dei Beni culturali è invece intangibile. A proposito del vincolo, Leonardo Benevolo scrisse sul Corriere della Sera che era “diventato illegale il disseppellimento degli invasi dei Fori di Cesare, Augusto, Vespasiano, Nerva e Traiano, che renderebbe percepibile ai cittadini di oggi uno dei più grandiosi paesaggi architettonici del passato. […] si è preferito Antonio Muñoz (lo sprovveduto autore di quelle sistemazioni) ad Apollodoro di Damasco, l’architetto dell’imperatore Traiano”. Poteva diventare un “sublime spazio pubblico”, si rammarica Benevolo, colto “da un sentimento di sconcerto e di rabbia”.
Appare inaudito il fatto che la via dei Fori sia diventata intangibile proprio quando non serve più come strada a seguito dei provvedimenti di Walter Tocci assessore alla mobilità che ha quasi azzerato il traffico per il quale è più che sufficiente la via Alessandrina (l’unica strada storica sopravvissuta allo sventramento fascista). A quasi un secolo dalla retorica della via dell’Impero di Benito Mussolini, resta il desolato paesaggio di tre inutili corsie per senso di marcia, come la Cristoforo Colombo.

Ho scritto prima che quasi tutti i sindaci dopo Petroselli hanno continuato a evocare il Progetto Fori, però ciascuno intendendo una cosa diversa, comunque mai mettendo in discussione la permanenza della via dei Fori Imperiali. Solo Virginia Raggi non può essere accusata di ipocrisia, credo che non abbia mai parlato del Progetto Fori. Ma ha attivamente operato per affossarlo definitivamente autorizzando la demolizione della storica via Alessandrina e decidendo di mettere i binari del tram sulla la via dei Fori.


Note.
Articolo scritto per la rivista Luoghi comuni diretta da Andrea Ranieri, in corso di stampa.


Il quarantennale sarà ricordato il prossimo 16 aprile da Adriano La Regina con una conferenza organizzata dall'Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli. Su eddyburg vi terremo informati.

Intervengono le elezioni; i grillini da oppositori diventano governati e la musica cambia.
Il 26 ottobre viene confermato quello che già si dsapeva da tempo, cioè che il gasdotto si farà.

Spetta al premier Conte la dichiarazione ufficiale: «Abbiamo effettuato un’analisi costi-benefici e abbiamo dialogato con il territorio. Ad oggi non è più possibile intervenire sulla realizzazione di questo progetto, che è stato pianificato dai governi precedenti con vincoli contrattuali già in essere. Gli accordi chiusi in passato ci conducono a una strada senza via di uscita. Interrompere la realizzazione dell’opera comporterebbe costi insostenibili, pari a decine di miliardi di euro. In ballo ci sono numeri che si avvicinano a quelli di una manovra economica».

"Quando abbiamo potuto studiare bene tutte le carte del gasdotto Tap e ci siamo concentrati sulla proiezione dei rischi, quando abbiamo capito che avremmo dovuto sborsare oltre 20 miliardi e rinunciare così al reddito di cittadinanza, alle pensioni e a tutto quello che stiamo facendo, e allora è chiaro che abbiamo dovuto dire la verità ai cittadini. E per questo ringrazio il presidente Conte che ci ha messo la faccia", spiega a Marcianise il vicepremier. La replica di Di Maio è puramente terroristica, in quanto essitono ai sensi della costituzione e ... che consentirebebro di liberare il governo dal ricatto degli oneri da pagare per la recessione dei contratti.

L'affermazione di Di Maio è mezioniera e Paolo Maddalena lo spiega chiaramente, in quanto non ce nulla che impedisce al governo di fermare l'opera e promuovere un’azione civile risarcitoria per ottenere il ripristino o il risarcimento del danno contro i soggetti privati che lo hanno prodotto il danno e promuovere un’azione di responsabilità ambientale nei confronti dei soggetti pubblici che hanno autorizzato l’esecuzione di dette opere.

Perchè l'opera è dannosa, perchè è un danno ambientale e alla salute.
Perchè il gas non è la risposta adatta a un politica energetica pulita e

Siracusa e l’orgoglio delle sue antiche fortificazioni. Costruite nell’Epipoli dal tiranno Dionigi nel V sec. a.C., costituiscono il più esteso sistema difensivo dell’antichità classica, maggiore delle mura di Atene e delle mura aureliane di Roma. Le cosiddette Mura Dionigiane, culminanti nel grandioso Castello Eurialo, insieme alle Latomie definiscono ancora oggi i confini settentrionali della città moderna. E infatti dopo oltre duemila anni, servite egregiamente a tenere a bada i Cartaginesi e gli altri nemici, si trovano oggi a dover fronteggiare una nuova prova di resistenza, questa volta all’interno delle stesse mura, proprio sul pianoro che le separa dall’abitato.

Non sono bastati i vincoli archeologici imposti fin dal 1959 ai luoghi dal grande Soprintendente dell’epoca, Luigi Bernabò Brea, né è bastata l’iscrizione di Siracusa nella World Heritage List dell’Unesco anche per la quantità di fonti “archeologiche tuttora presenti, caratterizzate da un eccezionale livello di conservazione”, a fermare il Comune di Siracusa dal varo, nel 2007, di un nuovo Piano Regolatore che ha stabilito l’edificabilità commerciale e ricettiva della zona.

E così, tra i privati proprietari delle aree interessate e il Comune, vennero stipulate due convenzioni urbanistiche con le quali i primi cedevano al secondo vasti appezzamenti di terreno da destinare a parco e servizi, in cambio di cospicua possibilità edificatoria sui terreni rimasti in proprietà privata.

Ma al progetto edilizio la Soprintendenza opponeva il diniego di autorizzazione, proprio per l’esistenza dei vincoli prima citati. Ne sortiva una impugnativa dei privati innanzi al TAR che dava ragione alla Soprintendenza, onde gli stessi privati si sono appellati al Consiglio di Giustizia Amministrativa, cui hanno anche richiesto un risarcimento per centinaia di milioni di euro per il fallito investimento immobiliare. Il C.G.A. ha quindi disposto perizia tecnica per accertare la possibile risoluzione delle convenzioni con gli eventuali danni economici per il diniego della Soprintendenza.

Intanto, nel febbraio del 2012, veniva adottato dalla Regione il Piano Paesaggistico di Siracusa che, per le aree interessate, ha previsto la massima tutela - attualmente con le sole norme di salvaguardia - cioè l'inedificabilità assoluta. Il giudizio in corso ha così coinvolto anche lo stesso Piano Paesaggistico, che si trova ancora nella fase antecedente l’approvazione definitiva.

Come si può capire, tra risarcimenti da paperone e vincoli a rischio in un’area di delicata valenza paesaggistico-archeologica, la posta è altissima e chiama in causa anche le responsabilità del Comune e la corretta pianificazione urbanistica in luoghi così importanti della Città.

Intendimento dell’Autore dello scritto in pubblicazione è quello di argomentare - attraverso la ricostruzione analitica dei vincoli e dei vari passaggi urbanistici della vicenda - la nullità radicale, piuttosto che la possibile risoluzione, delle convenzioni urbanistiche da cui i privati derivano oggi le loro pretese.

È chiaro infatti che, da una declaratoria di nullità per fatto imputabile ai contraenti (causa contrattuale contraria a norme imperative), non deriverebbero conseguenze modificative sulla destinazione dei luoghi. Anzi, secondo le regole generali del codice civile, tali conseguenze non si sarebbero mai potute produrre ab origine.

DELLO STRAORDINARIO CASO DELL'INTERVERSIONE RISARCITORIA DI UN VINCOLO PAESAGGISTICO NON INDENNIZZABILE

La querelle infinita nell’Epipoli, tra la solita Proprietà privata (connotata nei diversi assetti societari) e il Patrimonio Culturale della città di Siracusa, vede svolgersi in questi mesi, e negli immediati prossimi, un altro complesso capitolo giudiziario presso il Consiglio di Giustizia Amministrativa, ove è approdato l’appello dei privati avverso la sentenza del TAR Catania che ne aveva rigettato il ricorso. L’impugnativa al TAR era stata proposta nel 2011 per l’annullamento del diniego di nulla osta della Soprintendenza di Siracusa al corposo progetto edilizio (settantuno villette, un complesso commerciale e uno turistico-ricettivo) che la predetta Proprietà ha intenzione di realizzare nel pianoro dell’Epipoli immediatamente sottostante le Mura Dionigiane e il Castello Eurialo. L’appello è corredato di pesante richiesta risarcitoria, avendo lamentato, i privati, pure presunte difformità provvedimentali (id est: più largheggianti), poste in essere dalla Soprintendenza, in precedenti contesti, nella stessa area interessata dal progetto.

Con un articolato e motivato pronunciamento, anche a confutazione delle asserite disparità di trattamento, la Soprintendenza aveva spiegato le ragioni del diniego, in primo luogo con la sussistenza, in situ, del vincolo archeologico ex art. 21 l. 1089/1939 apposto con il Decreto Ministeriale 15 dicembre 1959, convalidato da un Decreto del Presidente della Regione fin dal 1966, pure trascritto nei registri immobiliari, quindi opponibile erga omnes, che espressamente inibisce l’esecuzione in quell’area di opere che non siano limitate alla “ordinaria conduzione del fondo” e alle “normali opere di trasformazione agricola eventualmente necessarie”.

Si parla qui del cd. “vincolo indiretto”, preordinato a “prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro”, oggi normato in totale continuità con la Legge Bottai, dall’art. 45 del vigente “Codice Urbani”, D.Lgs. n. 42/2004, che anzi, ne ha reso più stringente la disciplina, stabilendo altresì che le relative “prescrizioni… sono immediatamente precettive. Gli enti pubblici territoriali interessati recepiscono le prescrizioni medesime nei regolamenti edilizi e negli strumenti urbanistici”.

Il vincolo indiretto - è utile darne qui brevi nozioni ai fini della migliore intelligenza di quanto seguirà - viene imposto su specifici beni immobili, non costituenti di per sé “beni culturali” ai sensi del Codice, tuttavia indispensabili per integrare la tutela di un distinto immobile, ad esso vicino, ma non necessariamente contiguo, costituente il vero e proprio “bene culturale” (nella fattispecie il complesso delle fortificazioni dionigiane) a guisa di cornice archeologica, ambientale, storica, paesaggistica (prospettiva e luce) e di decoro anche urbanistico. Va evidenziato infine che il vincolo indiretto non è indennizzabile, pur potendo spingersi a sacrificare anche del tutto l’aspettativa edificatoria della proprietà da esso gravata.

A questo punto è necessario spiegare subito, rinviando più avanti la trattazione del profilo urbanistico-edilizio della vicenda, che la controparte privata della Soprintendenza di Siracusa esperisce due tesi logiche alternative, allo scopo di superare la validità del vincolo indiretto del 1959. Con la prima tesi, di tipo interpretativo, la Proprietà assume che l’espressione “ordinaria conduzione del fondo” contenuta nel dispositivo vincolistico vada letta attualizzandola alla situazione socio-economico-urbanistica dei luoghi, i quali, da meramente agricoli al tempo dell’emissione del vincolo (1959), si sono urbanizzati, edificati e quindi trasformati in terreni a vocazione commerciale e ricettiva, come per altro verrebbe sancito dal sopravvenuto P.R.G. che infatti ha impresso alle aree in argomento la destinazione edilizia. Dal predetto assunto deriverebbe anche la lettura attualizzata al presente, della successiva espressione “opere di trasformazione agricola” nel senso di opere di trasformazione urbana.

In conseguenza di questa “attualizzazione” del vincolo indiretto, oggi la Soprintendenza non potrebbe più negare il proprio nulla osta alle nuove edificazioni, ma, tutt’al più, dettare le sole prescrizioni sulle modalità dell'edificazione. Con la seconda tesi, ancora più drastica, la Proprietà assume che il parere favorevole del C.R.U. (Consiglio Regionale dell’Urbanistica), col voto conforme del componente Soprintendente p.t., sul P.R.G. di Siracusa consenziente all’edificabilità delle aree interessate, aveva comportato il superamento (cioè la caducazione) di quel vecchio vincolo del 1959 e l’ultroneità del diniego soprintendentizio di nulla osta del 2011 sul progetto edilizio.

Si arriva così all’approvazione del nuovo Piano Regolatore di Siracusa, nell’agosto del 2007, previo il sopra citato parere favorevole C.R.U. del 5 dicembre 2006, in seno al quale la Soprintendenza di Siracusa ebbe ad esprimere avviso favorevole sulla compatibilità fra le previsioni di Piano ed il vincolo in argomento. Più in dettaglio le aree interessate ricadono, ai sensi del P.R.G., in un unico comparto di intervento edificatorio, soggetto alla disciplina degli artt. 55 e 56 e 89 delle Norme Tecniche di Attuazione e della connessa “scheda norma” b12b, la quale subordina la possibilità edificatoria alla cessione al Comune di Siracusa delle aree denominate F2 ed F3 (da destinare in parte a “parchi e giardini privati sottoposti a tutela” ed in parte a “viabilità di Piano Regolatore Generale”).

In forza di quella “scheda norma” la Proprietà, il 1° marzo 2011, stipulava con il Comune di Siracusa due convenzioni: con la prima, la N. 6920, si pattuiva la cessione al Comune di un vasta estensione (mq 939.490) di terreni da destinare alla realizzazione del Parco Territoriale delle Mura Dionigiane; con la seconda, la N. 6925, si pattuiva la cessione al Comune di un’ulteriore cospicua (mq 205.537) quota di terreni da destinare a servizi pubblici, viabilità e parcheggi. Come corrispettivo della cessione la Proprietà riceveva dal Comune la “potenzialità edificatoria” sulle aree residue rimaste nella disponibilità.

Cosicché la Proprietà presentava istanza al Comune per la concessione edilizia e alla Soprintendenza per il nulla osta di competenza. La storia è andata come detto all’inizio di questo scritto ed oggi siamo al punto che il C.G.A. ha disposto perizia tecnica per accertare: 1) se il progetto edilizio sia compatibile col vincolo archeologico/paesaggistico indiretto, anche in relazione alle nuove destinazioni urbanistiche impresse alle aree dal vigente P.R.G.; 2) l’entità dell’eventuale danno economico causato ai privati dal denegato nulla osta; 3) l’eventuale risolubilità delle convenzioni urbanistiche de quibus e gli effetti sulla possibilità o meno di retrocessione dei terreni con esse ceduti al Comune.

Fin qui i fatti. È dunque venuto il momento di tentare un succinto esame giuridico degli stessi, scindendo partitamente gli istituti coinvolti, attesa la complessità delle questioni sub iudice.

I. Il vincolo indiretto ex art. 21 l. 1089/1939

La tesi che vorrebbe attualizzare il vincolo indiretto del 1959 da “filorurale” a “filoindustriale” per decorso del tempo e trasformazione edilizia (quanto legittima o illegittima e quanto invece sanata e condonata non vien detto) dei luoghi, appare una mera petizione di principio e non trova alcun fondamento, né nella lettera e ratio delle fonti normative e prescrittive sulla fattispecie, né tantomeno nella costante giurisprudenza del massimo organo di giustizia amministrativa, che, con riferimento proprio alle prescrizioni della tutela indiretta ex art. 45 D.Lgs. n. 42/2004, ha anzi evidenziato che “In tema di vincoli paesaggistici la compromissione della bellezza naturale ad opera di preesistenti realizzazioni … maggiormente richiede che nuove costruzioni non deturpino ulteriormente l’ambito protetto” (Cons. Stato, sez. VI, 27 giugno 2014, n. 3262). Questa stessa giurisprudenza, per altro, ha pure affrontato il tema specifico della pretesa trasformazione urbana, de facto, da agricola a residenziale/commerciale, statuendo che “non ha pregio l’argomento per cui l’area (di pertinenza del complesso immobiliare agricolo) sarebbe inserita in un contesto urbanistico fortemente antropizzato e tale da rendere illogica la tutela imposta” (ex plurimis Cons. Stato cit. ed ancora, in terminis, Cons. Stato, sez. VI, 3 luglio 2014, n. 3355).

Non meno arbitraria appare la tesi (tutt’altro che subordinata) secondo la quale il voto favorevole in seno al C.R.U. del componente Soprintendente p.t. sul P.R.G. di Siracusa che aveva previsto l'edificabilità delle aree interessate, aveva comportato il superamento (cioè la caducazione) di quel vecchio vincolo del 1959 e l’ultroneità, nel 2011, del diniego soprintendentizio di nulla osta sul progetto edilizio. A tal fine la parte privata si affida al dettato dell’art. 59 u.c. della legge urbanistica regionale 27 dicembre 1978 n.71, a tenore del quale “In materia di urbanistica, il parere del consiglio regionale dell'urbanistica sostituisce ogni altro parere di amministrazione attiva o corpi consultivi”.

Orbene, in primo luogo occorre delimitare la precettività della disposizione al suo corretto ambito e cioè “in materia di urbanistica”. Restano dunque esclusi gli atti promananti dai Rami di amministrazione diversi dall’Urbanistica. Non a caso, anche statutariamente, in Sicilia, Urbanistica e Beni Culturali, costituiscono distinti Rami di Dicastero e Amministrazione.

Ciò precisato, in questa sede si preferisce tralasciare per brevità ogni altra più specifica osservazione - che pur sarebbe stata legittimata dalla teoria dell’atto amministrativo - sulle reali possibilità caducatorie di un provvedimento amministrativo perfetto, ad opera di un atto consultivo collegiale.

Orbene, nel merito concreto, si rileva che il riportato disposto normativo fa riferimento solo all’idoneità del parere C.R.U. a sostituire un omologo “parere di amministrazione attiva o corpi consultivi” e dunque appare piuttosto ardito il tentativo di accreditare come “pareri” (pretesamente sostituiti dal voto C.R.U.) il Decreto Ministeriale 15 dicembre 1959 e il conseguente Decreto del Presidente della Regione siciliana 7 marzo 1966 n.1832.

Per altro il predetto decreto ministeriale, di imposizione del vincolo indiretto, è stato trascritto nei registri immobiliari e ciò non appare possibile a realizzarsi a norma degli artt. 2643 e ss. cod. civ., ove si fosse trattato di “parere”. Non a caso il Codice dei Beni Culturali stabilisce, con l’art. 128, un procedimento apposito per la revisione del vincolo indiretto, attribuendone la competenza al Ministero (in Sicilia all’Assessorato Beni Culturali), onde, anche sotto tale profilo non può in alcun modo configurarsi una potestà caducatoria in capo al voto espresso dal Soprintendente dell’epoca in seno al C.R.U., che sia competente a sostituirsi alle attribuzioni del massimo vertice amministrativo.

In larga parte le medesime considerazioni appena svolte valgono ad escludere una capacità caducatoria del voto C.R.U. anche sul diniego di nulla osta espresso nel 2011 dalla Soprintendenza di Siracusa, oggetto del giudizio, per le motivazioni già esaustivamente dissertate dalla sentenza del TAR Catania, attualmente appellata. In questa sede però vale la pena aggiungere che l’impugnato diniego della Soprintendenza di Siracusa non ha solo natura di parere, ma di vero e proprio atto (della categoria delle autorizzazioni), ai sensi degli artt. 21 e 146 del Codice, considerato anche lo speciale assetto amministrativo dei Beni Culturali in Sicilia. Pertanto, anche sotto tale profilo non sembra ammissibile alcuna capacità caducatoria del parere C.R.U. sul diniego di nulla osta della Soprintendenza di Siracusa, in quanto atti di natura soggettivamente ed oggettivamente diversa.

II. La proposta di vincolo paesaggistico ex l. 1497/1939 lungo le Mura Dionigiane di cui al verbale 9-28 aprile 1999 della Commissione Provinciale delle Bellezze Naturali di Siracusa.

La Commissione ex art. 2 l. 1497/1939, nell’aprile del 1999, aveva approvato il vincolo paesaggistico proprio nell’area delle Mura Dionigiane, a “completamento del più vasto progetto di tutela e di pianificazione paesistica delle aree vincolate della intera città, in parte attuato con l’emanazione del vincolo del Porto Piccolo e del vincolo del Porto Grande, con i quali la proposta in discussione viene a ricongiungersi”.

La proposta di vincolo, completa in ogni sua parte (storica, paesaggistica, archeologica, geologica, naturalistica, antropica, etc.) e redatta secondo il procedimento degli elenchi di cui all’art. 1 l. 1497/1939, venne quindi pubblicata per tre mesi all’Albo Pretorio del Comune. Non seguì il decreto regionale di approvazione definitiva, ma quella Proposta risulta oggi definitivamente trasfusa nel Piano Paesaggistico della provincia di Siracusa adottato con D.A. 1° febbraio 2012 n. 98, avverso il quale si è parimenti indirizzata l’iniziativa giudiziaria dei privati, in uno all’impugnativa del diniego di nulla osta per il vincolo indiretto.

L’obiezione sarebbe quindi che, nell’interregno tra la pubblicazione della suddetta Proposta del 1999 e la pubblicazione del Piano Paesaggistico del 2012, quasi 13 anni, non ha operato alcuna prescrizione (a parte il vincolo indiretto ex art. 21 L. n.1097/1939) idonea a “conformare” il Piano Regolatore del 2007 al rispetto delle destinazioni urbanistiche volute dalla Proposta di vincolo. Quindi legittima sarebbe la previsione di Piano che, per le aree interessate, ha previsto la possibilità edificatoria.

In realtà le cose stanno alquanto diversamente. L’art. 157 del Codice dei Beni Culturali rubricato “Notifiche eseguite, elenchi compilati, provvedimenti e atti emessi ai sensi della normativa previgente”, stabilisce al primo comma che “Conservano efficacia a tutti gli effetti … gli elenchi compilati ai sensi della legge 29 giugno 1939, n. 1497…”, mentre, al secondo comma, esplicitamente statuisce che “le disposizioni della presente Parte [n.d.r.: la Parte III “Beni Paesaggistici”] si applicano anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, sia stata formulata la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”.

La riportata norma transitoria, fin dall’entrata in vigore del Codice (1° maggio 2004) insomma, ha direttamente dotato la Proposta di vincolo del 1999 degli stessi effetti di salvaguardia, vincolanti e conformativi, che oggi sono attribuiti al Piano Paesaggistico, in particolare dagli artt. 143 u.c. e 145 comma 3 del Codice.

Codice che, sia al tempo della preparazione (incluso il voto C.R.U. del 2006) che della definitiva approvazione del P.R.G. di Siracusa, era pienamente vigente in Sicilia, come attestano fonti qualificate della stessa Regione [1]. Sorprendente appare, dunque, l’indifferenza o disattenzione mostrata dal Soprintendente p.t. deliberante in seno al C.R.U. all’istituto vincolistico qui ricordato e reso cogente dall’art. 157 del Codice.

La tesi appena sostenuta è avvalorata, nella giurisprudenza più recente, da ben due pronunce della Suprema Corte, Cass. Sez. III 28 aprile 2010, n. 16476 e Cass. Sez. III 17 febbraio 2012, n. 6617 quest’ultima resa proprio sulla Proposta del 1999 riguardante Siracusa ed eloquentemente concludente, anche con riferimento al lungo tempo trascorso dall’adozione della Proposta di vincolo, senza seguito di decretazione [2] .

III. Le Norme Tecniche di Attuazione - artt. 55 e 56 - del P.R.G. di Siracusa e le Convenzioni Urbanistiche 01 marzo 2011 nn. 6920 e 6925. Nullità e altri effetti.

Gli artt. 55 e 56 delle norme tecniche di attuazione (N.T.A.) del P.R.G. disciplinano rispettivamente le zone F2 (Parco territoriale di valenza archeologica delle Mura Dionigiane) e F3 (Parco territoriale di valenza ambientale delle Mura Dionigiane), stabilendo destinazioni ed interventi compatibili con la peculiarità dei luoghi, specificando che, in assenza di Piano Particolareggiato di Esecuzione “è consentito l’uso agricolo del suolo con divieto di edificazione...” (addirittura nell’art. 56 si dà atto che nella zona F3 grava il vincolo indiretto) salvo però a prevedere, tra le “norme particolari” (punto 5.2) “il riconoscimento ai proprietari di una potenzialità edificatoria... quale corrispettivo dell’indennità di espropriazione”, secondo quanto disposto nella scheda norma” b12b, che è lo strumento contenente le vere prescrizioni di dettaglio urbanistico edilizio (quanta superficie lorda ammissibile, quanta volumetria, quanta area di cessione, quanta area per servizi, parcheggi, viabilità, etc.).

La “scheda norma” cita perfino espressamente il gravame, sul comparto, del vincolo paesaggistico e del vincolo indiretto (rispettivamente indicati con gli artt. 149 e 49 del D.Lgs. n. 490/1999), il che avrebbe dovuto indurre già qualche scrupolo istruttorio nel dirigente dell’Ufficio Urbanistica, in sede preparatoria alla stipula delle Convenzioni di cui appresso.

Orbene, sulla base della predetta “scheda norma”, che, a detta dei privati, vale come “prescrizioni esecutive”, le quali, a loro volta “costituiscono a tutti gli effetti piani particolareggiati di attuazione” ex art. 2 L.R. n. 71/1978, il Comune e la controparte privata, il primo di marzo del 2011 stipularono le due Convenzioni in epigrafe, con le quali - ritenuta la Scheda Norma b12b legittimante a procedere - pattuirono la cessione di circa 120 ettari al Comune in cambio della “potenzialità edificatoria” ai privati sui terreni residui, in luogo dell’indennità di espropriazione, ciò "ancorché l'Ente Pubblico non abbia ancora provveduto a redigere i Piani Particolareggiati per le zone F2 e F3, così come previsto dal punto 2 degli artt. 55 e 56 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G." (così nelle premesse della Convenzione n. 6920).

La via si riteneva così spianata per l’edificazione, bypassato il Piano Particolareggiato, sarebbero bastate - secondo le intenzioni - solo una o più concessioni edilizie da rilasciarsi dallo stesso Ente ... che aveva già sottoscritto la Convenzione.

Ma prima occorreva acquisire il nulla osta della Soprintendenza. Hic Rhodus …

Nullità delle Convenzioni urbanistiche nn. 6920 e 6925

Dottrina e giurisprudenza, sia pure con vari distinguo, sui quali non ci si attarderà in questa sede, sono concordi nella sussunzione delle convenzioni urbanistiche tra gli Accordi pattizi pubblico/privato, sostitutivi di provvedimenti ex art. 11 L. 241/1990, categoria alla quale si applicano, in quanto compatibili, gli istituti del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, anzi, in quanto “consentono l'esercizio in forma contrattata dei poteri autoritativi di controllo dell'attività edilizia, anche sotto forma d'impegno ad un futuro atto di esercizio del potere di pianificazione urbanistica, conservano il loro carattere contrattuale” (Cass. Civ, sez. I, 10.01.2014 n. 364).

È stato esattamente rilevato che “mediante l’accordo, la Pubblica Amministrazione sostituisce il contenuto discrezionale di un provvedimento e, di conseguenza, essendo tenuta ad attenersi ai parametri di tipicità e di nominatività del potere, non è legittimata a inserire nell’accordo ciò che la legge vieterebbe al provvedimento unilaterale..” [3], come per altro aveva già da tempo statuito il Giudice delle Leggi, per il quale “la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo … si vale di tale facoltà … la quale, tuttavia, presuppone l'esistenza del potere autoritativo: art. 11 della legge n. 241 del 1990 …” (Corte Costituzionale 06/07/2004 n. 204).

Orbene, l’osservazione che sorge, a questo punto, naturale e conseguente, è che nella vicenda giudiziaria in commento, più che la risolubilità delle convenzioni, evocata dal Giudice d’appello nei quesiti al CTU, viene in evidenza la stessa validità ab origine delle stesse, atteso che la fattispecie non pare affatto integrare la funzionalità dell’operazione contrattuale (inadempimento, eccessiva onerosità, sopravvenuta impossibilità della prestazione) o un improbabile vizio del consenso ai fini dell’annullabilità, quanto piuttosto la questione radicale della stessa causa dei negozi urbanistici.

Considerato infatti che il P.R.G. di Siracusa, al tempo delle stipulate Convenzioni, era già inefficace nella parte delle N.T.A e relativa Scheda Norma che assentono l’edificabilità su aree gravate dai preesistenti vincoli già documentati e giuridicamente argomentati ai precedenti capitoli I e II, si conclude, come da dottrina e giurisprudenza costituzionale appena citate, nonché come da pacifica giurisprudenza amministrativa, che il dirigente dell’Ufficio Urbanistica si trovasse in assoluta carenza di potere a promettere e stipulare la “potenzialità edificatoria” ai privati. Anzi, vista la previsione del comma 4 bis del citato art. 11 L. 241/1990 [4], sarebbe quanto mai utile accertare quale organo e con quali procedure e contenuti abbia trasferito al dirigente una così grande potestà dispositiva di interessi pubblici in realtà poco o nulla disponibili. La questione appare di grande rilevanza e meritevole delle opportune valutazioni nella sede giudiziaria, atteso che, come si apprende da fonti giornalistiche [5], il 23 febbraio 2011 si era tenuta, tra Soprintendenza e Comune di Siracusa una delle sedute istruttorie di concertazione ai fini della adozione del Piano Paesaggistico, nel corso della quale era stata comunicata ai rappresentanti del Comune l’apposizione del massimo livello di tutela ai luoghi interessati e comunque ribadita la preesistenza degli altri vincoli. La prosecuzione della seduta di concertazione, fissata a breve per il successivo 1° marzo, non ebbe luogo, ma giusto il primo marzo risultano stipulate le convenzioni urbanistiche dal predetto dirigente, per conto del Comune.

Quanto alla parte privata, si rileva che anch’essa, per conto proprio, era consapevole quanto meno della trascrizione del vincolo indiretto, quindi non avrebbe potuto negoziare con l’animus dominicale effettivamente libero dall’impedimento in questione. Analoghe considerazioni valgono per l’ufficiale rogante che nonostante sembri edotto degli stessi vincoli ex D.Lgs. 42/2004, tuttavia nei rogiti li derubrica a meri adempimenti sulla denuntiatio ex art. 59 del Codice, per altro non dovuta in caso di terreni interessati da vincolo indiretto.

Ritiene pertanto lo scrivente che la fattispecie abbia classicamente integrato un caso di nullità contrattuale sotto vari profili, innanzitutto perché la causa specifica voluta dalle parti (cessione contro ius aedificandi) era impossibile in quanto indisponibile in capo alla parte pubblica, come prima spiegato, poi perché la causa è contraria a norme imperative e dunque illecita secondo la nozione dell’art. 1418 del codice civile. Inoltre sotto il profilo della condizione sospensiva dell’autorizzazione soprintendentizia (condicio iuris), cui le parti hanno rinviato l’efficacia delle convenzioni, stante che la già illustrata contrarietà di tale condizione alle norme imperative e quindi l’impossibilità del suo verificarsi, rende nulle le convenzioni anche ai sensi dell’art. 1354 del codice civile.

Non si trascuri neppure che il vincolo indiretto ex art. 45 D.Lgs. n. 42/2004 è assistito dalla norma penale di protezione di cui all’art. 172 dello stesso Codice [6], circostanza che ne rende quindi più pregnante la valenza imperativa e di ordine pubblico e pone ulteriori interrogativi scientifico-ricognitivi sulle diverse ipotetiche fattispecie di nullità per causa illecita, per i quali non può che rinviarsi alle più penetranti valutazioni nel potere della sede giudiziaria.

Si dubita qui, per altro, che la fattispecie possa essere inquadrata come un caso di “presupposizione”, giacché, secondo la giurisprudenza pretoria sull’istituto, questa ricorre quando il presupposto (nel nostro caso il nulla osta soprintendentizio) sia, non solo indipendente dalle parti e determinante del loro consenso, ma altresì che “sia stato assunto come certo nella rappresentazione delle parti” (Cassazione civile sez. II 14.06.2013 n. 15025). E certamente le parti della nostra vicenda non potrebbero sostenere – senza con ciò suscitare nuove gravi perplessità – di essere state certe di acquisire il positivo nulla osta soprintendentizio!

Ove non bastasse, le convenzioni, non avendo avuto esecuzione, risultano nulle anche sotto il profilo della sopravvenuta impossibilità, ancora una volta sia della causa che della condizione sospensiva, con riferimento all’entrata in vigore del Piano Paesaggistico, nel febbraio 2012, con i relativi effetti di salvaguardia e conformativi disposti imperativamente dagli artt. 143 e 145 del Codice, come al riguardo, inequivocabilmente, ha statuito di recente anche il C.G.A. [7].

Orbene, deve a questo punto ritenersi che, nonostante la delimitazione dei quesiti all’area della risolubilità delle convenzioni, con le conseguenti indagini risarcitorie, il Giudice dell’appello, per i rilevanti interessi pubblici in gioco, ben possa in ogni momento scrutinare il diverso e dirimente profilo della nullità, stante che “limitare l’area di rilevabilità officiosa alle azioni di adempimento … svilisce la categoria della nullità, l’essenza della quale... risiede nella tutela di interessi generali, di valori fondamentali, o che comunque trascendono quelli del singolo”. (Cass. Sez. Un., 4 Aprile 2012 n. 2012).
***
La nullità rende inefficace e privo di effetti il regolamento negoziale che pertanto non è mai stato neppure idoneo a trasferire la proprietà dei terreni privati nella sfera demaniale e, trattandosi di nullità cui sono convergentemente incorse le due parti contraenti, ne deriva la conseguente esclusione di ogni ipotesi di risarcimento, tantomeno a carico di terzi estranei, potendo tutt’alpiù residuare quella sola ipotesi risarcitoria inter partes che sia addebitabile alla responsabilità precontrattuale di una delle due parti contraenti verso l’altra, ai sensi degli artt. 1337 e 1338, ammesso che possa realisticamente configurarsi una tale ipotesi, nella fattispecie. A parte il diritto alle eventuali restituzioni – altra cosa dal risarcimento – e sempre nei limiti stabiliti dagli artt. 2033 e ss. cod. civ., anche sotto il profilo della buona fede.

Un caso speciale di nullità

L’Amministrazione regionale dei Beni Culturali potrebbe disporre, in ipotesi, anche dello speciale strumento dell'eccezione della nullità relativa, cioè esperibile dalla sola Amministrazione, per rendere inefficace e a sé inopponibile il trasferimento immobiliare.

Stabilisce l’art. 164 comma 1 del Codice che “Le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalle disposizioni del Titolo I della Parte seconda, o senza l'osservanza delle condizioni e modalità da esse prescritte, sono nulli”. Anche l'istituto del vincolo indiretto ex art. 45 del Codice figura ricompreso tra le “disposizioni del Titolo I della Parte seconda”. Si può argomentare che le convenzioni de quibus, avendo come propria causa esclusiva quella della concessione della possibilità edificatoria, si pongono in contrasto col combinato dell’art. 45 cit e del D.M. 15 dicembre 1959, recanti appunto le condizioni e modalità esplicitanti le sole trasformazioni possibili (opere di conduzione agricola) nei luoghi.

Il secondo comma dell’art. 164 lascia salva al Ministero (leggasi in Sicilia Assessorato BB.CC.) la facoltà di esperire la prelazione ex art. 61 comma 2, ma la migliore dottrina [8] è concorde nell’evidenziare la finalità autonoma e precipuamente sanzionatoria della nullità, indipendentemente dall'esercizio della prelazione, considerata meramente facoltativa dalla legge. Per altro, nella fattispecie, la denuntiatio risulta effettuata e la prelazione non esercitata, ma, oltre alla già citata indipendenza tra nullità e prelazione, occorre anche ricordare che la norma di cui all’art. 164, testualmente include anche il vincolo indiretto, il quale incide su un bene non direttamente culturale che, in quanto tale, non è assoggettabile a denuntiatio e prelazione (cfr. TAR Veneto, sez II, 08.09.2006, n. 2901).

Sempre sul punto in argomento, aggiunge acutamente un altro Autore che in ogni caso, "denuncia e prelazione presuppongono la sottostante esistenza di atti di trasferimento idonei ... Ma tali non sono gli atti nulli. Onde in questo caso manca il presupposto per lo stesso esercizio della prelazione..." (M.A. Sandulli, cit. in nota 8).

Detto altrimenti, in forza dell’art. 164 comma 1 del Codice, l’Amministrazione dei Beni Culturali, essa sola, potrebbe sempre eccepire - nel giudizio - la nullità delle convenzioni urbanistiche de quibus, per violazione dell’art. 45 cit. e del D.M. 15 dicembre 1959, a ciò non ostando la già ricevuta (e riscontrata) denuntiatio, in quanto la prelazione non è contemplata in materia di vincolo indiretto e in ogni caso ne mancherebbero i presupposti per gli altri vizi di nullità, aliunde radicati e opponibili da tutte le parti, oltre alla già evidenziata rilevabilità officiosa del Giudice.

Siracusa, 2 ottobre 2015

Salvo Salerno è avvocato e dirigente regionale, consigliere dell’ufficio legislativo e legale della regione siciliana; già responsabile dell’area affari legali dell’Azienda regionale foreste demaniali.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a Carte in regola e a Patrimoniosos.

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1 Pareri dell’Ufficio Legislativo e Legale n. 88/2004 e n. 7231/2004; decreto assessoriale n. 9280 del 28-07-2006; circolari assessoriali n. 7 del 09-03-2006; n. 15 del 06-07-2006; n. 39503 del 20-04-2007; n. 7 del 23-07-2008).

2 “Si osserva, inoltre, che la conservazione di efficacia di detti provvedimenti non prevede il silenzio-rigetto né termini perentori per l’adozione di provvedimenti definitivi. …In realtà, ad avviso del Collegio, è proprio il tenore della norma [n.d.r.: l’art. 140] che esclude la perentorietà del termine che, quando stabilita dal legislatore, è espressamente indicata come avviene, per la Parte Terza del D.Lv. n.42/2004, negli articoli 146, comma 9, 159, comma 2, 167, comma 5 e 181, comma 1 quater; …la giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte era costantemente orientata nel ritenere, sotto la vigenza della Legge 1497/39, che il vincolo di protezione delle bellezze naturali sorgesse con l’inclusione della località nell’elenco approvato dalla competente commissione provinciale e, quindi, anche prima del provvedimento definitivo di approvazione dell’elenco stesso da parte del Ministero dei beni culturali e ciò in quanto l’articolo 7 della legge richiamata faceva coincidere con la sola pubblicazione degli elenchi il divieto, per i proprietari, i possessori o i detentori a qualsiasi titolo dell'immobile che vi era compreso, di distruzione o di modificazioni che recassero pregiudizio all’aspetto esteriore tutelato. …Alla data di entrata in vigore del D.Lv. n.42/2004 il provvedimento spiegava, pertanto, piena efficacia indipendentemente dall’esaurimento del relativo procedimento e di tali effetti ha, infatti, tenuto conto il legislatore nel regime transitorio, con il già richiamato disposto dell'articolo 157, comma secondo D.Lv. n.42/2004. Ciò rende pertanto del tutto superflua ogni ulteriore riflessione sulla natura dei termini previsti dalla legislazione previgente, comunque non indicati come perentori…” (Cass. Sez. III 17 febbraio 2012, n. 6617).

3 A. Bertoldini, Le Convenzioni Urbanistiche, in Sanzioni Amministrative in materia di Urbanistica, a c. di A. Cagnazzo, Torino, Giappichelli, 2014.

4 Art. 11 comma 4 bis l. 241/1990: “A garanzia dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa, in tutti i casi in cui una pubblica amministrazione conclude accordi… la stipulazione dell’accordo è preceduta da una determinazione dell'organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento”.

5 “Il problema viene fuori durante le sedute di concertazione con il Comune di Siracusa per l’approvazione del Piano Paesaggistico (seduta del 23 febbraio 2011), quando si rileva che la Soprintendenza ha giustamente imposto un livello di tutela 3 (inedificabilità secondo le prescrizioni del vincolo) sull’area in cui invece il Comune ha previsto il comparto denominato b12b che contempla una ZCV. Si fa presente in maniera formale la sussistenza dei vincoli. La successiva riunione, fissata per il primo marzo 2011, slitta e intanto, in quei giorni, l’ing. Mauro Calafiore firma le convenzioni con la Ditta AM Group, convenzioni con le quali, in cambio delle cessione di aree di proprietà della ditta ricadenti in zona F2 ed F3 di P.R.G., viene riconosciuta alla ditta una SLA (Superficie lorda ammissibile) aggiuntiva per le zone ZCV del comparto b12b (la cessione era condizione necessaria per l’attuazione del comparto)” (“La Civetta di Minerva”, Siracusa, 30 giugno 2015, cf.)

6 L’art. 172 del Codice dei Beni Culturali, secondo i commentatori, punisce ogni “condotta astrattamente pericolosa, con riferimento alla messa in pericolo dell’integrità, si tratta di una ulteriore anticipazione della soglia di offesa al bene vincolato, che descrive i tratti di un reato di pericolo indiretto (di pericolo di pericolo: Marinucci-Dolcini, Corso di Diritto penale, 1, III ed., Milano 2001, pp. 592 ss.)”, così Gian Paolo De Muro a commento della sentenza della Cassazione Sez. III 22.09.2011 n. 36095 per la quale il vincolo indiretto ha pari valenza di quello diretto: “il vincolo di tutela indiretta può rientrare nel generale novero dei vincoli imposti per la conservazione e la protezione dei beni culturali, assolvendo a scopi analoghi a quelli concernenti i vincoli diretti né, peraltro, il legislatore sembra aver assegnato a tale misura di protezione una minore rilevanza rispetto questi ultimi, come si desume dalla previsione, nel D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 172, in caso di inosservanza delle prescrizioni di tutela indiretta, di una pena identica a quella prevista dai precedenti artt. 169, 170 e 171 per gli interventi illeciti sui beni culturali”.

7 Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd. 27.09.2012, n. 811: “Già da tempo era jus receptum come il contenuto degli strumenti urbanistici fosse conformato dai vincoli paesaggistici indicati nel relativo piano, donde l’illegittimità d’ogni assetto del territorio che risultasse incompatibile con detti vincoli. Ai piani paesistici è devoluta la funzione di dettare norme… non derogabili da ogni vicenda di gestione del territorio di qualsiasi livello, a salvaguardia dei beni vincolati e con riferimento a qualsiasi attività umana pur diversa da quella puramente urbanistico edilizia. Oggidì l’art. 145, c. 3 prevede espressamente che le previsioni dei piani paesaggistici ex artt. 143 e 156 “... non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, sono cogenti per gli strumenti urbanistici..., sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente (colà) contenute..., stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici e sono... vincolanti per gli interventi settoriali... ”. Ai fini della tutela essenziale di tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici prevalgono sul quelle contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale, previsti dalle normative di settore…”.

8 Cfr. F. Florian e A. Mansi in Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, a c. di M.A. Sandulli, Milano, Giuffrè, 2012, 1225.

Il destino riservato al Palazzo del Lavoro di Torino (su progetto di Nervi per “Italia ‘61”), al di là del giudizio di merito sull’opera (alla forse troppo facile sua iscrizione a capolavoro fondamentale dell’architettura del secolo scorso, personalmente rispondo suggerendo di andarsi a ripassare l’opera, tipologicamente corrispondente, del salone uffici della sede della Johnson Wax, di F.L. Wright, antecedente di 15 anni) ripropone il destino di tutti gli edifici ritenuti patrimonio artistico e culturale –imperdibile- dalle amministrazioni torinesi. E si ripropone, con indubbia monotonia, la loro trasformazione – in tutto o in parte- in shopville di vario taglio e rango.

A me si ripropone l’interrogativo di sempre e cioè: se l’ente locale non fosse con il coltello alla gola per i suoi debiti, riserverebbe lo stesso destino ai suoi capolavori, ritenuti tali (che sono pubblici, di tutti)? Nel caso specifico: sarebbe disposto a scegliere - quale immagine d’ingresso della sua città (metropolitana!)- quella di un supermercato annunciato da quattro torri con le sue sfavillanti insegne? E’ l’interrogativo lecitamente da porsi per altri siti di riconosciuto valore di ricerca della forma e dell’organizzazione di questa città nella sua storia recente e meno recente.

Va detto che il problema riguarda in più larga parte l’architettura del cosiddetto Movimento Moderno e successive tendenze ma non solo (non è detto che ne sarà esente, ad es., la ‘Cavallerizza Reale’ risalente a tre secoli fa e da un anno oggetto delle cronache). Dunque, siccome non si è in grado di far fronte al degrado di un simbolo dell’arte, per quanto considerato capolavoro, non resta altro destino che vendere ai privati e assistere allo snaturamento del suo significato e ruolo urbani. E si continua ad assistere all’indegna distinzione/ separazione tra forma esteriore e contenuto con vergognose giustificazioni -anche teoriche (!)- su tale indipendenza. Il risultato lo conosciamo ed è diventato ormai un ‘format’: ci si preoccupa di salvaguardare la ‘scatola’ (nel caso del ‘Palazzo a Vela di Rigotti, neanche quella: si è salvata solo la grande volta, utilizzata come un capannone per infilarci sotto un ‘palaghiaccio’) e, dentro, succeda quel che deve succedere. Così, l’architettura che è stata sede e simbolo della storia del lavoro di una nazione (prima riunita da Nord a Sud e poi capace di risollevarsi da una seconda e più devastante guerra); l’architettura che ha voluto essere espressione della forza -della fiducia nella propria forza- di un intero popolo ed eretta a spese delle istituzioni di quel popolo, viene spogliata e defraudata del suo contenuto storico per essere abbandonata, svenduta, per finalmente liberarsi del suo insopportabile peso, del suo fastidio. La separazione vuol dire questo, è strumentale a questo.

Ma non si può certo chiedere all’investitore privato di spendere i suoi denari per assicurare la continuità di una funzione pubblica. La separazione tra involucro e finalizzazione interna sono l’inevitabile conseguenza della rinuncia da parte pubblica. Gli utilizzi del Palazzo del Lavoro –decisamente parziali e costantemente improntati alla provvisorietà- esperiti in passato dal Comune, non sono mai stati il frutto di un piano organico di riassetto generale delle pubbliche proprietà volto ad assegnare, in modo stabile, la destinazione d’uso anche del Palazzo del Lavoro. Non ho notizie in tal senso che testimonino l’esistenza di proposte di utilizzo da parte di Regione, ex-Provincia, Comune. Perché scartare, ad es., l’idea di farne la sede amministrativa della costituenda ‘Città metropolitana di Torino’ ergendola ad immagine del potere e dell’amministrazione pubblici ? L’esempio, citato, della Johnson Wax (1944, Wisconsin) avrebbe potuto validamente indicare il possibile sfruttamento ad uffici open-space di tutto il primo livello tra i possenti pilastri (oggi tecnicamente molto più realizzabile dei decenni passati), oltre le balconate perimetrali già presenti . Invece, no. Si lasciano deperire migliaia di mq disponibili e, ad es., si buttano montagne di soldi in un grattacielo per la nuova sede della Regione. E dire che l’ipotesi di sede amministrativa metropolitana potrebbe contare proficuamente anche delle ‘palazzine’ in riva al Po che erano state sede della mostra delle regioni -sempre di “Italia ‘61”- progettate da Renacco. Palazzine –a suo tempo oggetto di alti riconoscimenti- alle quali è stato riservato lo stesso utilizzo parziale con lo stesso carattere di provvisorietà.

Ma, ripeto, la ‘separazione’ contenitore-contenuto è la conseguenza della decisione, politica, dell’abbandono, della vendita. Come qualunque meretrice di mestiere, non avendo altra possibilità economica, anche l’ente locale vende il proprio corpo. Ogni persona di buon senso, raccomanda sempre la costante manutenzione di ogni bene che si vuole conservare. Chiunque sa che, altrimenti, l’onere della conservazione diventerà ripristino e facilmente diventerà insostenibile. Ed è esattamente quel che –con imperdonabile miopia- ha continuato a succedere, in questo caso per mezzo secolo. Succede, per forza di cose, che alla profusione (spesso incontenibile) di giudizi positivi sul valore dell’opera per dimostrarne la preziosità (unicità) non corrisponda , in decine d’anni, un solo euro per la sua manutenzione e che quindi quella preziosità, quel gran valore siano, di fatto, la copertura solo verbale della più chiara quanto detestabile irresponsabilità nei fatti. Se, nello scorrere degli anni, confrontassimo le dichiarazioni dei politici sul valore culturale e storico di questo come di altri beni di Torino con lo stato di abbandono in cui loro li hanno continuamente lasciati (non di rado si arriva alla fatiscenza), qualche dubbio sul cambio di strategia e di atteggiamento dovrebbe assalirli. C’era -e c’è- un modo semplice: prevedere una voce di bilancio per l’accantonamento –programmato e costante- di somme per la conservazione e tutela, anno dopo anno, dei propri ‘gioielli’. Quanti sono i gioielli da tutelare? Se era veritiero l’interesse alla tutela, si doveva stabilire l’elenco delle opere considerate irrinunciabili da parte pubblica e programmare una linea di copertura finanziaria che consentisse il raggiungimento dell’obiettivo.

Che io ricordi, è da prima delle ‘giunte Castellani’ (1993) che si parla del degrado del Palazzo del Lavoro e di cosa farne. L’irresponsabilità è stata così pervasiva da farci arrivare a questo punto in cui giovani amministratori attuali ci vengono a dire, con sfrontato candore, che non resta altro che ricorrere alla vendita ai privati perché “..la stagione degli interventi a debito è finita..”. Ora, senza voler abusare del dilemma, nudo e crudo, se era meglio devolvere i miliardi spesi (a debito) per una olimpiade invernale o, invece, per il restauro di tutta la ex ‘zona di comando’ sei-settecentesca ( Juvara , Alfieri) di tutto il complesso di “Italia ‘61” (evitando così di disonorare la memoria di un valido collega come Rigotti) ) e degli altri gioielli della ‘lista’ che era da definire (es: To-Esposizioni, O.G.R., O.G.M.,. ecc.), mi pare legittimo ricordare ai nuovi politici di scuola liberista che è stata responsabilità della politica (la loro) e non della malasorte se si è giunti al punto di dover vendere il proprio corpo pubblico come qualunque merce. Il restauro della Reggia di Venaria -ciò che oggi essa rappresenta e significa- è la miglior risposta al ‘dilemma’ tra olimpiadi della neve e cura del patrimonio pubblico. Non siamo passati da un periodo più favorevole ad uno meno per cause indipendenti dalle decisioni di chi ha amministrato e governato. Con premesse di tale colpevole curriculum, non è permesso ai politici torinesi di mettersi in cattedra su come si salva e tutela la cosa pubblica. Anzi, con doverosa umiltà, dovrebbero partecipare, con noi, all’analisi dei gravi errori commessi e tentare di mitigare la pesante eredità da loro lasciataci e per la quale, secondo loro, altro non si potrebbe che affidarsi al mercato ed alle sue richieste/esigenze.

Al contrario, la nuova linea della politica locale è quella di riversare le colpe sulle lungaggini burocratiche (!), ulteriore dimostrazione che all’irresponsabilità -che è all’origine del dramma- non c’è limite. Non è certo sbagliato pensare –come fa l’assessore all’urbanistica- all’aggiornamento o al rifacimento del PRG torinese i cui studi preliminari risalgono a quasi trent’anni fa. Diverso è far discendere la necessità del suo superamento dallo snellimento delle pratiche così da mettere i supermercati nei capolavori dell’architettura senza troppe storie. Di semplificazione in semplificazione, la pubblica amministrazione segue la direzione del progressivo disinteresse e de-responsabilizzazione (niente più VIA e VAS, niente più freni dalla Sovrintendenza, niente più concorsi (tanto meno per opere di privati) ma solo ‘accordi di programma’ e formule derivate..) seguendo l’obiettivo dell’annullamento delle varianti (del dovervi ricorrere) perché ogni intervento sarà una variante di per sé, costitutiva del ‘Nuovo Piano’. Sono certo che avremo il catalogo dell’applicazione di tale principio-linea ispiratrice nonché guida, nella futura realizzazione della cosiddetta ‘variante 200’ nella parte Nord di Torino.

Abbiamo sentito ripetere il ritornello che non ci sono i soldi, che bisogna trovarli e che quindi bisogna fare quel che chiede chi quei soldi li mette. Quindi si aspetta che “Esselunga”, “Coop”, ecc. si facciano avanti perché a questo siamo ridotti. Con sicurezza (anche baldanza) ci viene dato questo destino come privo di alternative. E’ vero che i soldi pubblici –in base all’attuale sistema fiscale- non ci sono più. L’altra cosa vera è che i privati–certi privati- i soldi li hanno (più di prima). Pertanto, credo ci si possa riferire all’esempio fornito da Della Valle ed il restauro del Colosseo. Non è ripetibile e, in buona misura, generalizzabile? Quanti sono coloro in grado di rinverdire il mecenatismo a vantaggio del pubblico interesse? Non pochi, credo, già dal livello locale. A cominciare dal tanto osannato Marchionne, altri sono sicuramente coinvolgibili in operazioni di sponsorizzazione del loro nome e del loro brand per la rinascita di opere che offrirebbero un grande ritorno pubblicitario proprio per la loro levatura artistica e civile. L’incentivo alla detassazione –anche totale- dei novelli magnati si risolverebbe in un’operazione sicuramente in attivo per l’ente pubblico considerando che, facilmente, i maggiori possidenti sono anche i maggiori evasori. Per questa via si otterrebbe un risultato opposto a quello attualmente perseguito: verrebbe favorito e valorizzato l’apporto del capitale privato per la salvaguardia della proprietà e della funzione pubbliche! A questo impegno dei privati dovrebbe corrispondere quello pubblico di fissare, comunque, la voce permanente nel bilancio del/degli enti pubblici per il risanamento e recupero dei propri capolavori architettonici, non escluso il ricorso ad una tassa di scopo per deficit residuali dalle sponsorizzazioni. Spiegata e motivata alla cittadinanza come facente parte di un tale sistema di comprovata responsabilità (una vera new entry), penso che non sarebbe affatto respinta, soprattutto se accompagnata, di volta in volta, dall’evidenza delle realizzazioni compiute anche con quei fondi. Un tempo, il territorio partecipava alla costruzione delle cattedrali, in lavoro e donazioni. Sono convinto che anche oggi, se si proponesse a chi vive e lavora nel territorio del torinese (e non solo) di devolvere una giornata -o anche poche ore- del proprio lavoro al risanamento e recupero dei capolavori della sua città, ben pochi si rifiuterebbero.

Ciò che risulta insopportabile dell’atteggiamento -e delle scelte, ovviamente- dei nuovi responsabili della’urbanistica cittadina è il sentirli parlare di qualità urbana che, tra i suoi caratteri fondanti non può non avere proprio la partecipazione, il coinvolgimento della cittadinanza. Fondare la qualità della città sulla conversione di opere spiccatamente pubbliche -geneticamente pubbliche- come quelle di “Italia ‘61”, in centri commerciali privati non dà il diritto a chicchessia di parlare di qualità. La qualità inizia, semmai, dall’impegno ad evitare la decadenza, il vergognoso degrado delle opere che della città hanno fatto la storia, quella antica e quella moderna. La qualità si sviluppa, poi, evitando di provocare la scomparsa di funzioni care alla vita quotidiana come il commercio di prossimità, dei negozietti sotto casa. E continua realizzando luoghi d’incontro, di socialità come vere piazze sul modello di quelle che tutto il mondo ci invidia e che rendono Torino una delle città più belle al mondo.

Tutti, i turisti ma anche chi abita in periferia, vogliono vivere le piazze che ci ha lasciato in eredità il regno sabaudo, non la ‘piazza’ dell’IperCoop o quella futura pensata all’interno del Palazzo del Lavoro dal progetto per il supermercato. Siamo ormai abituati ad una tale lontananza dalla qualità urbana che accettiamo che ambiti e spazi che nulla –o quasi- hanno in comune, abbiano lo stesso nome. Chiederei di evitare di farsi scudo dei vagheggiamenti di Nervi (sull’utilizzo post “Italia ‘61” del suo palazzo) perché mi piacerebbe sentire dalla sua voce la reazione all’idea di fare della ‘porta Sud ‘di Torino un colosso del commercio anziché l’imponente -e coerente- simbolo di un’intera, straordinaria città. Invece, anche in un punto tanto strategico, ancora una volta, ci si deve rassegnare a veder sorgere l’ennesimo centro commerciale: non si sa se chiamarlo destino o condanna. Un altro, fondamentale, requisito della qualità urbana è andare incontro ai veri bisogni dei suoi abitanti ed è arduo dimostrare che a Torino scarseggino i supermercati. E’ rimasto insoddisfatto, invece, tanto bisogno di bellezza. Dopo le deludenti prove offerte dall’architettura delle ‘Spine’ non c’era proprio bisogno che fosse manomessa anche la bellezza -già realizzata- del Palazzo del Lavoro che richiedeva di essere almeno conservata nella sua interezza: non manomettendola (come è vietato per qualunque opera d’arte, se ritenuta tale) e non espropriandone la comunità locale e nazionale per la quale è stata costruita solo cinquant’anni fa.

Questi primi giorni di riflessioni politiche seguiti al drammatico accordo sulla Grecia indicano, a mio avviso, tre cose: la grandezza di Tsipras, l’inconsistenza di visione economica e istituzionale di una certa sinistra alternativa (oltre a quella, scontata della destra, di simile vaniloquenza) e infine la possibilità di un percorso di uscita dalla crisi, non solo greca, che passi per una ridefinizione degli obiettivi e delle istituzioni europee.

Tsipras si è trovato in un contesto di estrema difficoltà negoziale: un paese indebitato, con una economia debole e indebolita per anni da cure sbagliate, con gran parte della popolazione sotto la soglia di povertà o in miseria; un paese ancora segnato da istituzioni pre-moderne, corporativismi lobbistici e comportamenti sociali di ampiezza inaccettabile (corruzione, evasione fiscale). Ed è stato posto di fronte a un chiaro ricatto orchestrato dall’oltranzismo tedesco: accettare condizioni non solo pesanti ed economicamente irrazionali, ma soprattutto politicamente insultanti, proposte con l’intento esplicito di spingerlo ad abbandonare l’euro, e cioè al suicidio politico ed economico.

La sua risposta è stata politica: mostrare all’Europa un risultato di democrazia politica prendendosi il rischio del referendum (uno strumento non certo tecnico, che non lo avrebbe aiutato nella negoziazione quale che fosse il risultato); accettare condizioni che non avevano alternative ma aprire una frattura all’interno dei paesi e delle istituzioni europee sulle strategie di salvataggio e sul giudizio sui comportamenti politici dei maggiori governi nella vicenda.

In Germania, molte critiche – invero tardive ma comunque efficaci – si stanno levando nei media contro l’abbandono della linea dell’”umiltà” tedesca in Europa, in favore di una arroganza che evoca pesanti eredità; Jürgen Habermas sostiene che il “governo tedesco si sia giocato in una notte tutto il capitale politico che una Germania migliore aveva accumulato in mezzo secolo”.

Sul fronte economico, la insostenibilità delle condizioni imposte sul debito viene esplicitata dal Fondo Monetario in modo drastico, con la minaccia della sua non partecipazione al rifinanziamento, e viene sottolineata da Draghi che anticipa aperture di credito alle banche greche; la impossibilità di attuare alcune misure fantasiose previste dall’accordo verrà facilmente a galla nell’immediato futuro; la posizione assunta nel negoziato da Hollande, Junker e in parte da Renzi, ma rimasta ampiamente minoritaria al momento, non potrà che crescere in termini di appoggio mediatico e politico; le risorse messe a disposizione, al di là di quelle per il rinnovo dei prestiti internazionali, sono per la prima volta consistenti e tanto la Commissione quanto l’IMF potranno aiutare il paese a spenderle in modo più rapido e più razionale che in passato per investimenti infrastrutturali, produttivi e di formazione.

Sul fronte interno, Tsipras potrà concentrarsi sul tema di una più equa distribuzione dei sacrifici fra le classi e i ceti sociali, che è il vero tema per ogni governo di sinistra, sul contrasto alle posizioni di monopolio e alle rendite, grandi e piccole, e sulla lotta all’evasione, ben più efficace di un innalzamento dell’IVA su un settore, quello turistico, dove l’evasione è facile e assai praticata.

Ma veniamo alla nostra sinistra. Fuorviata da idoli che si pensava superati, come quello della sovranità monetaria nazionale; fuorviata anche dalla posizione aspramente critica assunta da Varoufakis sull’accordo, incomprensibile umanamente e inconsistente economicamente; sempre pronta ad imputare all’euro problemi veri ma che discendono da rapporti di forza economica e da leadership politiche; mai veramente impegnata su una linea europeista di riforma federale dell’Unione, la nostra sinistra sta mostrando una preoccupante confusione di idee e di visione.

A questa conclusione mi spinge la lettura del manifesto di ieri 17 luglio: tre articoli di riflessione sulla vicenda greca di Guido Viale, Stefano Fassina e di una ahimè sfiduciata Luciana Castellina. Il sottotitolo, e una delle tesi principali di Viale, è: “Draghi il vero regista del dramma”, “non Schäuble”. Un giudizio tecnicamente sballato (Draghi non ha scritto le regole che escludono alcuni paesi dal quantitative easing, guarda caso la Grecia, o i limiti di ELA ai finanziamenti di emergenza per le banche) ed economicamente insensato. Draghi è fino a oggi il solo Governatore della Banca Centrale Europea che ha imposto alla Bundesbank politiche che essa non condivideva, che ha forzato l’interpretazione dei trattati e delle regole sempre in favore degli stati più deboli (cosa che alcuni paesi nordici non smettono di rimproverargli) e di politiche di supporto all’economia reale; colui che con una frase (“faremo tutto ciò che è necessario”) nel settembre 2012 ha spiazzato la speculazione finanziaria contro i paesi indebitati dell’area euro. Assumere un punto di vista così lontano da non poter distinguere i nemici da anche solo potenziali alleati significa nichilismo e irrilevanza.

Per Fassina “le necessarie correzioni di rotta per rendere sostenibile l’euro appaiono impraticabili” e “continuare a invocare gli Stati Uniti d’Europa … è un esercizio astratto”. In conseguenza, “nella gabbia liberista dell’euro … la sinistra … è morta”! Quale sinistra? Certamente quella che oggi si balocca di sedicenti “piani B”: non l’Europa e l’euro di oggi; non l’uscita dall’euro di singoli paesi, che Viale giustamente indica come “insensata e grottesca”; ma, nelle parole di Fassina, “il superamento concordato, senza atti unilateriali, della moneta unica e del connesso assetto istituzionale, innanzitutto per il recupero dell’accountability democratica della politica monetaria”. A parte la bella convergenza con le ricette degli irresponsabili demagoghi nostrani, Salvini e Grillo, un insieme di insensatezze.

Quale dovrebbe essere lo strumento della liberazione monetaria (e democratica)? L’emissione di una moneta parallela, i pagherò di Varoufakis o i certificati di credito fiscale proposti da Grazzini e Gallino, con valore mantenuto alla pari con l’euro da non si capisce quale elemento di fiducia collettiva. Nel caso greco, una moneta emessa per pagare dipendenti pubblici e imprese da un paese in dissesto, a corto di riserve pubbliche e di risparmio privato, sarebbe certamente e immediatamente rifiutata dal mercato, perderebbe subito valore e si risolverebbe in una brutale tassa sui salari interni. Per non parlare del limitato effetto di questa svalutazione sulle esportazioni di un paese che non produce beni ma soprattutto servizi, che esporta pochissimo (meno della provincia di Reggio Emilia, come ha ricordato recentemente Romano Prodi) e che dovrebbe al contrario aumentare qualità e prezzo dei suoi servizi turistici e non diminuirli.

Nel caso italiano, credo che i certificati di credito fiscale avrebbero simile destino: perché le imprese dovrebbero scambiarli 1-a-1 con euro attuali in cambio di uno sconto fiscale futuro, promesso da uno stato come il nostro, che per far fronte al suo nuovo debito magari alzerà le tasse? Meglio lasciare la gestione della moneta e della liquidità a un principe forte e ben più credibile – come una Banca Europea, che peraltro già lo fa - in una Europa magari migliore.

Quali dunque le strategie da qui al medio termine, per Tsipras e per le sinistre europee? Innanzitutto un esplicito hair cut sul debito greco, già implicito nelle moratorie concesse su rimborsi e interessi, ma assai più chiaro sia per i debitori che per i paesi creditori. Un taglio che possiede una sua logica politico economica a fronte della maggiorazione degli interessi sin qui pagati ai creditori come premio al rischio-paese: essendosi il rischio di insolvenza manifestato nei fatti, anche se congelato consensualmente, si riconoscerebbero ai creditori i soli interessi “normali”, tagliando la parte speculativa maturata in passato e aggiungendo ulteriori riduzioni concordate sugli interessi. Quanto alla costituzione di un fondo in cui far convergere asset reali a garanzia del debito, non trovo così insultante e irrazionale la sua richiesta, se essa può servire ad alleggerire le condizioni di austerità imposte al paese. Ma ciò solo a due precise condizioni: che la sua dimensione non sia assurda come quella dei 50 miliardi attuali e soprattutto che non si pongano vincoli temporali a dismissioni e privatizzazioni, pena il rischio se non la certezza di svendite di patrimonio pubblico.

In secondo luogo, serve un riorientamento drastico delle politiche di austerità, che non preveda ulteriori riduzioni di salari e di occupazione ma che, insieme a un sensato equilibrio del bilancio pubblico primario per evitare di allargare il debito complessivo, avvii decise riforme istituzionali e fiscali, lotta ai privilegi, alle rendite e all’evasione fiscale, nonché politiche di redistribuzione del reddito e della ricchezza, un tempo cavalli di battaglia della sinistra, poi abbandonati strada facendo. In terzo luogo, occorre operare per un ritorno a uno spirito di coesione e solidarietà europea che si è chiaramente frantumato nelle ultime vicende. Occorre un rilancio del processo di integrazione politica dell’Europa, con la convergenza delle politiche fiscali e di spesa, la socializzazione del costo del debito dei diversi paesi innanzitutto attraverso l’emissione degli euro-bond garantiti dalla BCE per nuovi investimenti infrastrutturali e produttivi, una maggiore vigilanza e una tassazione comune sulle transazioni finanziarie e speculative, l’avvio finalmente di un percorso di creazione di un’Europa federale.

Per gli altri paesi altamente indebitati – molti! – il taglio del debito non dovrebbe essere applicato, almeno nel breve termine, e il suo alleggerimento dovrebbe provenire dalla riduzione degli spread conseguenti alla ritrovata coesione europea e alla auspicabile socializzazione del costo dei debiti sovrani (che non aumenta il costo del servizio del debito per i paesi forti ma riduce le aspettative di profitti su attacchi speculativi contro i paesi più deboli o più indebitati).

La sinistra, anziché defungere o defezionare, potrebbe avere un ruolo traente in questo lungo e difficile percorso politico. Merito di Tsipras quello di averci indicato, dal fronte incandescente del negoziato greco, oltre ai limiti e all’inganno dell’attuale metodo europeo di compromesso inter-governativo, anche questo cruciale obiettivo per le sinistre.

rcipelago Milano dell'economista dei trasporti Marco Ponti. Dal facebook dell'urbanista Sergio Brenna. 17 febbraio 2014, con postilla

Marco Ponti nel suo intervento sul n. 7 di Arcipelago Milano "pontifica" sull'eliminazione dei vincoli all'uso edificatorio dei suoli come l'eliminazione dei vincoli al "libero" mercato delle abitazioni. Il passo successivo è, ovviamente, che su quei suoli ogni proprietario/imprenditore sia libero di costruire con le destinazioni, quantità e altezze più confacenti alle proprie "libere" aspettative di mercato. In Italia i risultati li abbiamo visti in atto nelle città realizzatesi negli Anni Cinquanta-Sessanta tra la ripresa economica post-bellica e la la "legge Ponte" 765/68, e ancora ne soffriamo le conseguenze.

Certo anche l'idea del tendenziale azzeramento del consumo di nuovo suolo, altrettanto ideologica e in voga quanto il neoliberismo economico-urbanistico, rischia spesso di rovesciarsi nella promozione di spropositate densificazioni edificatorie nel riuso di aree già urbanizzate.

Giuseppe de Finetti nel 1946, riflettendo sul tema "Sulle aree più care case alte o case basse?", scriveva: "La manìa delle grandi altezze rientra nella manìa del "Kolossal" così caratteristica negli sviluppi moderni, nella megalomanìa moderna. Non la grande altezza dobbiamo desiderare nel caso di costruzioni sulle aree urbane più care, ma "la giusta altezza"; e questa va deterrminata mediante esperienze preventive di non ardua istituzione.(...) La stessa tendenza presiedette nelle nostre città a molte nuove iniziative edilizie che per essere di mole assai minore (dell'Empire State Building) non mancano di costituire col loro complesso una massa di cattivi investimenti assai gravosi per l'economia italiana e hanno recato immenso danno, spesso anzi definitivo ed irreparabile insulto al volto delle nostre città."

La "giusta altezza", dunque, ma anche "la giusta quantità edificatoria" e "la giusta localizzazione": e a chi spetterebbe stabilirle? Non certo al singolo proprietario/imprenditore, che perseguendo legittimamente il proprio lucro di mercato, si è dimostrato non in grado di stabilirne i limiti. Già la Legge Urbanistica del 1942 e poi il disegno di legge Sullo del 1963 proponevano questa soluzione: approvazione pubblica di un Piano Generale di urbanizzazione, facoltà dei privati di darvi attuazione singola o consorziata e, in caso di inerzia, esproprio a prezzi agricoli, urbanizzazione pubblica, riassegnazione a privati dei lotti edificabili al costo conseguente. Difficoltà belliche, sforzi ricostruttivi, opposizioni politico-ideologiche le fecero fallire entrambe, e forse non è opportuno oggi riproporle tal quali. Ma almeno la nostalgia del "glorioso" liberismo urbanistico Anni 50-60, quello vorrei proprio potermelo risparmiare e se proprio devo sposare una visione economica, vorrei poter essere almeno keynesiano!

postilla

Non è facile comprendere se in Marco Ponti, nel suo articolo per Arcipelago Milano, abbia preso la mano il gusto del paradosso, oppure se sia davvero convinto di quello che ha scritto. Se si dovesse escludere la prima ipotesi, allora bisognerebbe ritenere che Ponti ha una visione veramente distorta della città, e una visione molto neoliberista dell'economia. Intanto, sembra pensare che la città, l'habitat dell'uomo, sia composto soltanto di case (e naturalmente di strade, ferrovie, tram, metropolitane e le altre simili cose di cui è maestro. Il che è palesemente una follia, e non è ai frequentatori di
eddyburg che si debba argomentarlo. Che poi il suo pensiero economico si sia ridotto a Milton Friedman e ai Chicago boys, dimenticando non solo il filone Adam Smith-David Ricardo-Karl Marx, ma perfino quello dei liberisti alla Luigi Einaudi è cosa che può dispiacere, ma è nello Zeitgeist. Speriamo che, su un altro terreno, non invochi per l'Italia, scavalcando o anticipando Renzi, un altro Pinochet.

Cari cittadini che votate PD,
in questi giorni il partito in cui avete riposto le vostre speranze di un futuro migliore ha imposto nella discussione alla Camera sulla revisione costituzionale tempi ristretti come per un decreto legge: la Carta costituzionale trattata alla pari di un provvedimento di necessità e urgenza da liquidare alla svelta.
A questa obiezione i dirigenti del PD replicano in due modi. Sostengono in primo luogo: sono anni che se ne discute e ormai è l’ora di concludere. In realtà ha discusso solo, e male, il Parlamento, ma nel paese il tema è ignoto alla maggior parte dei cittadini, che non sono stati chiamati a ragionarne nemmeno dai loro stessi partiti. Voi stessi non siete mai stati convocati dal PD in assemblee cittadine; l’argomento è tabù per voi e appannaggio solo dei parlamentari. Se voi aveste voluto rovesciare le priorità e chiedere al PD di occuparsi prima di tutto della crisi economica e della mancanza di lavoro non avreste mai avuto la sede pubblica per farlo.
In secondo luogo il PD ribatte che, alla fine, la maggioranza ha il diritto di vedere realizzati i propri progetti e non può farsi soffocare dall’ostruzionismo delle opposizioni. Qui c’è la mistificazione più grave. Il PD ha l’attuale maggioranza dei seggi alla Camera solo a causa del mostruoso premio previsto dal Porcellum per chi prevale, sia pure di poco, nella competizione elettorale. E’ ora di ricordare che il PD ha preso nel 2013 circa il 26% dei voti. Ha prevalso a fatica sul Movimento Cinque Stelle, ma la sua maggioranza di voti ricevuti è poco più di un quarto dei voti scrutinati. Peggio ancora: poiché i non votanti sono stati circa il 40% degli aventi diritto al voto, la maggioranza del PD calcolata sulla totalità dei cittadini con diritto di voto è ancora più bassa: un’autentica minoranza. Che però col premio diventa maggioranza nelle aule parlamentari.
Ora questa falsa maggioranza ripete di continuo che sono necessarie le riforme. Non per migliorare le condizioni dei cittadini ma per cambiare le istituzioni: la riforma del Senato e la legge elettorale. La prima viene ritenuta necessaria perché il nostro tempo europeo esige rapidità e richiede il passaggio da due Camere legislative a una sola. La seconda è richiesta anche dalla Corte Costituzionale che ha giudicato in buona parte incostituzionale la legge elettorale, il Porcellum con cui abbiamo votatole ultime tre volte, 2006, 2008 e 2013.
Ma in realtà le riforme in discussione non risolvono affatto i due problemi.
Invece di abolire il Senato e passare direttamente a un sistema monocamerale si inventa un Senato posticcio e contraddittorio. Non è eletto dai cittadini ma ha potestà legislative. E’ dotato di poteri rilevanti (vota il Presidente della Repubblica, concorre a modifiche costituzionali) ma è composto da soggetti nominati dai consigli regionali. In nome della lotta ai costi della politica è ridotto dai 315 attuali a 100 senatori, ma alla Camera lo stesso criterio non vale: resta composta da 630 deputati. Il motivo è semplice: al contrario del Senato, alla Camera il premio di maggioranza garantisce, come si è visto, una maggioranza certa, anzi sproporzionata in rapporto ai voti ricevuti, quindi i deputati dovevano essere tenuti buoni.
Invece di mandare al macero la legge elettorale attuale se ne fa una copia che ne mantiene alcuni insidiosi aspetti incostituzionali. I capilista saranno bloccati e ciò comporta che circa due terzi dei parlamentari saranno nominati dalle segreterie di partito e non scelti dagli elettori. L’enorme premio di maggioranza renderà diseguale il voto dei cittadini: la minoranza più grossa uscita dalle urne avrà 340 deputati, tutte le altre minoranze dovranno dividersi i restanti 290. Chi voterà per la prima conterà molto di più di chi voterà per le altre.
Al confronto col Porcellum c’è un pericoloso peggioramento: il premio di maggioranza andrà non a una coalizione ma a un solo partito. Quindi la più grossa delle minoranze, divenuta falsa maggioranza, avrà il dominio assoluto alla Camera, ma a sua volta sarà dominata da chi avrà avuto il potere di nominare chi sarà stato eletto. Il risultato finale sarà una falsa maggioranza di ubbidienti al servizio di chi li ha fatti eleggere.
La sovranità popolare sarà ridotta alla scelta, ogni cinque anni, di un vincitore telegenico che diventerà dominatore assoluto. Egli infatti disporrà del potere di esigere che i disegni di legge del governo vengano votati entro sessanta giorni senza emendamenti. Tutte le attività parlamentari, di commissione e di aula, avranno funzione servile. La falsa maggioranza parlamentare avrà poi la possibilità di eleggere da sola il Presidente della Repubblica e plasmare la Corte Costituzionale e potrà così impadronirsi dei residui strumenti di controllo.
A ciò si aggiunge un colpo ulteriore: le possibilità di partecipazione diretta dei cittadini alla politica sono ora rese più difficili perché le firme da raccogliere per le leggi di iniziativa popolare passano da 50.000 a 150.000, quelle per i referendum da 500.000 a 800.000: i pochi padroni della politica vogliono essere sicuri di non essere disturbati.
In sintesi, le due riforme insieme cambieranno non solo la forma di governo ma anche la forma di Stato: si passa di fatto dalla repubblica parlamentare alla repubblica presidenziale. Peggio: sarà un presidenzialismo sgangherato, del tutto privo degli incisivi strumenti di controllo cui è assoggettato, per esempio, il presidente degli Stati Uniti.
Cari cittadini che votate PD,
per venti anni abbiamo lottato, anche insieme a voi, contro il disegno del centrodestra di modificare la Costituzione e sottomettere così il Parlamento alla volontà del governo. E ci siamo riusciti quando nel 2006 la volontà popolare ha bocciato la sua riforma della Costituzione. Ora quel programma del centrodestra è assunto in pieno e perfino aggravato dal PD.
Un partito consapevole che la sua maggioranza è frutto di una legge elettorale incostituzionale dovrebbe astenersi dal toccare la Costituzione e dedicare tutte le sue energie ad affrontare e risolvere i più gravi problemi del paese. I principi più luminosi della Costituzione sono ben lontani dall’essere realizzati: la Costituzione attende ancora di essere attuata. Il Pd invece la stravolge con l’obbiettivo esplicito di attribuire a chi vince le elezioni, anche per un solo voto, un potere illimitato che nemmeno nei suoi sogni più ottimistici Berlusconi aveva immaginato per sé. Ora si oppone a un disegno che gli è sempre piaciuto fino a pochi giorni fa, perché si è convinto che quel potere tocchi a Renzi invece che a lui.
Cari cittadini che votate PD,
può darsi che alcuni, o forse molti, tra di voi siano ormai convinti che il Parlamento non abbia da molto tempo dato buona prova di sé, e che è meglio un leader capace di apparire veloce piuttosto che un parlamento lento e impacciato. Bisogna ammetterlo: non è facile oggi difendere il Parlamento. Ma riflettete: è già tre volte che il Parlamento è stato eletto con una legge che ha frustrato in profondità la sovranità popolare.
Tre Parlamenti si sono succeduti senza che i cittadini potessero formarlo secondo la loro volontà. Tre Parlamenti composti in massima parte da raccomandati delle segreterie di partito incapaci di produrre attività legislativa in armonia con le esigenze più pressanti del paese. Invece di cambiare e migliorare la selezione degli eletti, la via imboccata dal PD con queste riforme costruisce un Parlamento ancora più raccomandato e lo consegna alla volontà di una persona sola.
Non è mai stato questo il vostro modo di pensare la politica. Convincete il vostro partito a cambiare strada: ampliate la democrazia invece di lasciare che sia soffocata.

(16 febbraio 2015)

La lettera che il segretario del PD toscano, ha spedito al Corriere fiorentino in replica all’articolo scrittoda Paolo Baldeschi per eddyburg, (ripreso il 23 febbraio dal quotidianofiorentino), ha già avuto una puntualerisposta dal nostro collaboratore suqueste pagine. Esso si presta però a qualcheconsiderazione di carattere più generale sul ruolo che quel partito stasvolgendo in Toscana, e su quello che i diversi attori stanno giocando. Vogliointervenire in proposito con un’osservazione e alcune brevi domande.
L’osservazione.
Afferma Parrini: «Di ognilegge dovremmo sempre tracciare, cosa che spesso non si fa, una Vib, unavalutazione di impatto burocratico. Cioè dovremmo continuamente domandarci se isacrosanti obiettivi che perseguiamo li stiamo perseguendo col minimo costoburocratico indispensabile o col massimo costo burocratico immaginabile. Non sose questo punto di vista sia renziano o meno. Non mi interessa. Basta che siadi buonsenso. E a me sembra lo sia».

Il riferimento del segretario del PD toscano allaburocrazia sembra del tutto allineato con il “senso comune”, e non con il “buonsenso”: per riferirci alla distinzione gramsciana: con la visionedel mondo inculcata dall’ideologia dominante, e non dal personale pensierocritico.
Cerchiamodi essere chiari, e di comprendere perche cosa, in un regime democratico, serva la burocrazia. Essa serve a dare le indispensabili basi tecnicaall’azione pubblica, a conoscere prima di decidere, a esprimere la volontàdelle decisioni politiche in modo coerente ed efficace, a definire regole certee chiare, a vigilare sulla loro attuazione e a consentire al potere giudiziariodi intervenire quando vengono violate.

Proprio per l’importanza della sua funzionein un regime democratico, nei paesi in cui il “pubblico” funziona (GranBretagna, Francia, Germania) la burocrazia pubblica gode della massimaconsiderazione, autorevolezza, prestigio, ed è invece ridotta a un ruolo servilenelle autocrazie..
Èovvio che la burocrazia è invececonsiderata un ostacolo per qualunque operatore economico che anteponga i propri interessi a quellidella collettività. Così come è unostacolo per ogni politico, sia essoeletto dal popolo o nominato dal suo boss, che anteponga gli interessi suoi odella sua parte a quelli della collettività e veda quindi nella burocrazia un ostacolo alpieno dispiegamento della sua discrezionalità.
Laconcezione della burocrazia che Parrinirivela nella sua lettera non è peraltroriducibile al “renzismo". Essa discende dall’ideologia globale che si è affermata come dominantenell’ultimo trentennio, e di cui Matteo Renzi esprime (per ora) il coronamentonella provincia italiana.

Si tratta infatti di un’ideologia che ha cominciatoad affermarsi, in Italia ben prima dell’impadronimento da parte di Renzi dellespoglie della vecchia sinistra: dal giorno in cui “destra” e “sinistra” furonoconcordi nel ritenere che la governabilità sia preferibile alla democrazia eche quest’ultima possa, e a volte debba, essere sacrificata alla prima.

Chi èavvezzo a guardare alla cittá da un punto di vista non meramente “tecnico”, matenendo conto delle relazioni di potere, ne ha visto l’inizio nella decisione di farscegliere i segretari comunali direttamente dai sindaci, e nel progressivotrasferimento di poteri dagli organi collegiali (e quindi pluralisti) delleistituzioni a quelli ristretti o divertice (quindi oligarchici o monocratici). Il buon Matteo è solo (per ora)l’espressione finale del ciclo apertosi, in Italia quando aveva appena smesso ipantaloncini corti.
Nelcaso specifico del Pit toscano c’è dadire solo che Parrini non sembra averlo letto con attenzione. Il piano non solo non introduce nuovi procedimenti (senon quando i piani comunali dovranno adeguarsi al piano), ma porterà, seapprovato con la validazione del ministero, a diverse significativesemplificazioni per i cittadini e gli operatori economici. Il vero obiettivosono quindi i vincoli, che si vorrebbero abolire.
La domanda.
Èvero o non è vero che nella sesta commissione consiliare, i consiglieri del PD (loro, nonaltri) hanno proposto al Consiglio regionale, come ultimo"emendamento" al piano paesaggistico, l'eliminazione di qualsiasilimitazione dell'attività di escavazione sulle Apuane e più in generale latrasformazione di tutte le “direttive” rivolte agli enti locali in “indirizzi”?

Quest’ultimaproposta è del tutto aberrante. Coincide con la delega piena di cospicuiinteressi pubblici, collettivi, comuni, all’imperio delle convenienze private. Ridurrei “comandi” che la Regione trasmette aicomuni in semplici suggerimenti significherebbe annullare l’efficacia del piano. L’approvazione formale di quellaproposta degli esponenti del PD coinciderebbe con la sepoltura della politicadi tutela avviata dall’assessore Marson e dal presidente Rossi.

Se le nuove norme della Regione toscanafossero in tal modo stravolte bisognerebbe concludere che solo il velo dell’ipocrisia resterebbe aseparare i sedicenti difensori del piano dai suoi più tenaci, e onesti,avversari.

Caro direttore, dispiace che Paolo Baldeschi, verso il quale, come lui sa, provo sentimenti di autentica stima, cada in un grosso equivoco, nel suo intervento sul Corriere Fiorentino di ieri, sul mio commento alle dichiarazioni del sottosegretario Borletti Buitoni.

Prima di tutto, trovo gratuita l'attribuzione di intenti maschilistici alle mie parole. Non c'è niente di meno vero. Rivendico poi il metodo e il merito della mia posizione.

La legge urbanistica e il piano del paesaggio della Toscana sono provvedimenti importanti. Io penso che il contributo ad essi fornito dal dibattito in Consiglio regionale sia stato positivo e di rilievo. E penso che positive siano state le modifiche effettuate in Consiglio regionale a seguito delle osservazioni dei sindaci e delle categorie economiche. Penso, infine, che anche nell'ultima fase dell'iter consiliare la commissione e l'aula svolgeranno il loro ruolo con spirito costruttivo e grande equilibrio.

Per questo ho trovato inopportuno l'intervento del sottosegretario. Mi è sembrato un tentativo di mettere sotto tutela un'assemblea rappresentativa che su questo fronte si è mostrata più volte lungimirante. Baldeschi sa bene, e lo ricorda, quale sia la storia delle mie posizioni in materia di tutela ambientale e paesaggistica. Proprio perché ritengo di poter parlare di questi temi con cognizione di causa e proprio perché credo nella possibilità di difendere rigorosamente l'ambiente promuovendo contemporaneamente lo sviluppo economico, dico che non dobbiamo commettere l'errore di confondere la tutela col vincolismo astratto e cadere in eccessi prescrittivi come quelli per fortuna rimossi durante l'iter consiliare dell'atto in questione.

Dico inoltre che di ogni legge dovremmo sempre tracciare, cosa che spesso non si fa, una Vib, una valutazione di impatto burocratico. Cioè dovremmo continuamente domandarci se i sacrosanti obiettivi che perseguiamo li stiamo perseguendo col minimo costo burocratico indispensabile o col massimo costo burocratico immaginabile. Non so se questo punto di vista sia renziano o meno. Non mi interessa. Basta che sia di buonsenso. E a me sembra lo sia.

Commento

Le posizioni di Dario Parrini in materia di ambiente e paesaggio sono state di intelligente tutela, almeno fino a quando è stato Sindaco di Vinci. Proprio per questo, una volta diventato segretario del Pd toscano, da lui ci si sarebbero aspettate decise prese di posizione in difesa del Piano paesaggistico, in particolare sulla questione Apuane, dove non sono in gioco sviluppo e occupazione, bensì le rendite di posizione di imprese che intendono continuare a sfruttare un patrimonio di tutti senza regole e senza alcun rispetto di paesaggio e ambiente. Non mi sembra che ciò sia avvenuto, ma forse ancora non è troppo tardi.

PERCHÉ FARSI DEL MALE? UNA RISPOSTA AL VENENUM DI PAOLO BALDESCHI
di Anna Marson

L’articolo a firma di Paolo Baldeschi “La nuova legge toscana: in cauda venenum” va purtroppo ben oltre il legittimo diritto di critica, contenendo affermazioni infondate rispetto ai contenuti effettivi della nuova legge 65/2014.

La citazione dell’art.222 delle norme transitorie è infatti parziale, in quanto ne omette la parte più importante, che prevede che “Nei cinque anni successivi all’entrata in vigore della presente legge,i Comuni possono adottare e approvare varianti al piano strutturale e al regolamento urbanistico che contengono anche previsioni di impegno di suolo non edificato all’esterno del perimetro del territorio urbanizzato…previo parere favorevole della conferenza di copianificazione”.

La conferenza di copianificazione, composta da Regione, Provincia e Comune interessato, alla cui discussione sono invitati a partecipare anche gli altri Comuni eventualmente interessati dagli effetti della previsione, per il combinato disposto degli artt. 4 e 25 può approvare la previsione, escluse comunque le destinazioni d’uso residenziali, che non sono comunque ammesse fuori dal territorio urbanizzato, soltanto ad alcune condizioni. Le principali fra queste condizioni riguardano la conformità al Piano di Indirizzo Territoriale Regionale, la verifica che non sussistano alternative sostenibili di riutilizzazione e riorganizzazione degli insediamenti e infrastrutture esistenti, e l’assenza di parere negativo espresso dalla Regione.

Le uniche fattispecie per le quali questa disposizione si presenta alleggerita, in base al principio di non aggravio dei costi e dei procedimenti già in fase conclusiva, sono quelle degli artt.227 e 231.

Ai sensi dell’art. 231, ai comuni che risultano aver già adottato il regolamento urbanistico (la fattispecie riguarda in particolare i comuni che finora erano sprovvisti di questo strumento di pianificazione operativa) è consentito procedere con l’approvazione ai sensi della legge 1/2005. Rimane fermo che qualunque variante successiva che riguardi il territorio non urbanizzato dovrà essere assoggettata al combinato disposto sopra richiamato (no a nuove previsioni residenziali e parere obbligatorio e vincolante della conferenza di copianificazione.

Ai sensi dell’art.227 per le varianti già adottate, siano esse parziali o generali, le nuove previsioni che riguardano il territorio non urbanizzato sono comunque assoggettate al parere obbligatorio, anche se in questo caso specifico non vincolante, della conferenza di copianificazione.

In sintesi, le casistiche che costituiscono eccezione all’entrata in vigore delle nuove norme sono decisamente circoscritte agli strumenti già adottati e declinate con attenzione. Essendo quelli fin qui richiamati i contenuti effettivi dell’articolato approvato dal Consiglio regionale, non vedo come Paolo Baldeschi possa affermare che ciò costituisce “un incentivo a edificare sul territorio agricolo e a estendere il confine di quello urbanizzato, prima che - anche se non si sa quando - la cosa diventi più difficile”.

Dal 27 novembre, data di entrata in vigore della nuova legge, le eccezioni che ho richiamato potranno infatti riguardare soltanto le previsioni già approvate e alcune fra quelle già adottate. Si poteva fare meglio? Senza dubbio, ma il risultato raggiunto segna comunque una chiara svolta, riconosciuta come concreta alternativa alla proposta di legge nazionale del ministro Lupi.

L’ulteriore impegno annunciato nei giorni scorsi da Enrico Rossi, di promuovere anche con il sostegno finanziario della Regione la redazione anticipata (rispetto alle scadenze naturali dei piani già vigenti) di nuovi piani adeguati alla legge 65/2014, segna peraltro un nuovo punto di potenziale accelerazione operativa del processo già in corso di contrasto al nuovo consumo di suolo.

FELICE DI ESSERMI SBAGLIATO.
di Paolo Baldeschi

Mai avere commesso un errore ed essere smentito mi ha reso così felice. L'Assessore Anna Marson mi ha fatto giustamente notare che il parere della Conferenza di copianificazione non è vincolante soltanto nel caso che le varianti che prevedono edilizia residenziale esterna al territorio urbanizzato siano state già adottate alla data di promulgazione della legge. In tutti gli altri casi, quando i comuni adottino nuove varianti "esterne" al confine dell'urbanizzato, queste sono comunque soggette al vaglio della conferenza di copianificazione, in cui il parere della Regione è vincolante. Viene, perciò, disinnescato il meccanismo che (sbagliando) paventavo: una rincorsa a occupare aree agricole, prima dell'obbligo di dotarsi di nuovi strumenti urbanistici conformi al Pit. Prego la redazione di eddyburg, di eliminare il mio articolo; mi scuso con Anna Marson e con i lettori di eddyburg. Molto meglio così. E' doveroso, infine che io precisi che la responsabilità dell'articolo è mia e solo mia, perché, in quanto opinionista di eddyburg, non sono soggetto al vaglio redazionale.

Postilla
Non cancelleremo l'Opinione di Paolo Baldeschi. Mi sembra che il nostro piccolo evento possa essere d'insegnamento per tutti. Naturalmente, chi leggerà il pezzo di Baldeschi avrà il rinvio alla replica di Anna Marson.

Buongiorno, faccio parte della rete ECO, ebrei contro l'occupazione, ma ho scritto questa lettera personalmente e la firmo io. Il tombale silenzio delle Comunità Israelitiche in questi giorni e della stragrande maggioranza degli ebrei italiani mi pesa molto e ho risolto di provare a incrinarlo. Spero possiate aiutarmi, aiutarci. Ringrazio della eventuale ospitalità.
Stefania Sinigaglia, Ancona

Sono un’ebrea italiana della generazione post-1945, ebrea da generazioni da parte di entrambi i genitori. Sento il bisogno impellente in queste ore di angoscia e di guerra tra Gaza Palestina e Israele di rivolgermi ad altri ebrei italiani perché non riesco a credere che non provino lo stesso sgomento e la stessa repulsione per la carneficina che Israele sta compiendo a Gaza. Non si mira a distruggere un nemico armato, non sono due eserciti ad affrontarsi: si sta sterminando un’ intera popolazione civile, perché il nemico è ovunque, in un fazzoletto di terra che stipa in 365 kmq un milione e ottocentomila persone, il nemico è sotto la terra sopra la quale c’erano case e scuole e negozi e ospedali e strade, c’è la gente, e se vuoi colpire chi sta sotto la terra è giocoforza ammazzare chi ci sta sopra a quella terra, anche un bambino lo capisce:, ma fanno finta di non saperlo gli strateghi sottili di questo orrore infinito che si dipana

Come facciamo a tacere di fronte a questa ingiustizia suprema, noi che per millenni siamo stati costretti a nasconderci nei ghetti per vivere, che venivamo additati come responsabili di nefandezze mai sognate, obbligati a convertirci a volte per non essere bruciati sui roghi?

Israele ha fondato uno Stato nel 1948 su terra altrui, sappiamo come e perché, ciò è stato accettato dal consesso internazionale e nel 1988 è stato accettato dall’OLP. I Palestinesi hanno riconosciuto il diritto di Israele a esistere, ma Israele dal 1967 occupa terra non sua, e lo sa. Per anni e anni si è detto: quella terra occupata serve a fare la pace: territori in cambio di pace. Questo è stato il refrain che però è stato nel corso del tempo sepolto da guerre non più di difesa come nel 1967, ma di attacco, a partire dalla sciagurata invasione del Libano.

Come facciamo a non riconoscere che Israele ha scientemente, e per decenni ormai, rifiutato di addivenire a un compromesso sulle colonie, non ha mai smesso di costruirne e di avanzare annettendosi di fatto i territori su cui doveva negoziare, annichilendo la base pur ambigua ma reale che era l’accordo di Oslo. Ha contribuito a creare Hamas, che in arabo significa “collera giusta”, e poi ne ha tollerato la crescita in funzione anti-OLP, ha reso la vita dei palestinesi una lotta per sopravvivere anche in Cisgiordania, e ha violato tutte le risoluzioni dell’ONU che gli imponevano di tornare alla famosa “Linea verde”. Ha rubato altra terra palestinese costruendo la barriera di 700 km, dichiarata illegale dalla Corte dell’Aia ma tuttora in piedi. E ora con il pretesto dell’uccisione di tre ragazzi di cui Hamas non ha mai riconosciuto la responsabilità, un’ accusa che non è stata corroborata da prove, ha scatenato una guerra non a Hamas ma a tutto un popolo. Non si può uccidere, annientare un popolo per sconfiggere un nemico che ha il diritto di difendersi. E le richieste di Hamas non sono altro che le richieste della popolazione di Gaza: fine dell’assedio di sette anni, fine dello strangolamento. Israele ha diritto a esistere DENTRO dei confini riconosciuti internazionalmente, ma dal 1982 è aggressore e viola il diritto internazionale. Per avere la pace deve rinunciare alla folle idea di avere TUTTA la terra per sé e cacciarne chi ci abitava prima che arrivassero i primi coloni ebrei a fine ottocento .La guerra di Israele è non solo omicida ma è suicida: guardiamo al Libano che sta insieme ancora per miracolo, alla Siria distrutta, all’Irak che va a pezzi, ai palestinesi che sono la maggioranza in Giordania, all’avanzare dell’islamismo salafita e jihadista in Africa settentrionale e occidentale, in Kenya, in Nigeria. Quale avvenire promette la guerra infinita di uno stato di apartheid? Quali possibilità invece apre il riconoscimento di diritti eguali ai palestinesi e alle migliaia di rifugiati e immigrati che anche in Israele spiaggiano cercando una vita e un avvenire migliori? Quali prospettive aprirebbe uno Stato multiculturale, bi-nazionale e veramente democratico in Medioriente? Quale salutare rimescolamento di carte? Apriamo gli occhi, abbiamo il coraggio di guardare in faccia la realtà, e gridiamo il nostro rifiuto di questo orrore e di questa politica di distruzione e morte che si ritorce contro chi la persegue.

Stefania Sinigaglia, 31 luglio 2014

postilla

In questi giorni così drammaticamente difficili per la politica veneta non si arresta il flusso di notizie che confermano ciò che molti di noi già da tempo pensavano e denunciavano. In questo traboccare di evidenze fanno sorridere (di un sorriso amaro, si intende) gli strenui tentativi di autodifesa messi in campo da alcuni esponenti della classe dirigente locale e nazionale basati sulla consumata e poco efficace strategia dell’ additare alcune mele marce, per definizione sempre molto poche, considerandole un’eccezione rispetto ad una realtà sociale che si vuole e si professa diversa perché onesta, operosa, legata alla propria terra e alle proprie tradizioni, sensibile alla cultura e all’arte ...... Che dire? Agli occhi di coloro che le distinzioni le vogliono fare sul serio e che credono nell’utilità di cogliere questo momento per fare una profonda, magari anche dolorosa, autocritica emerge, al contrario, l’immagine di una società e di una politica profondamente malate, in mano a portatori di interessi esclusivi e autoreferenziali che per lungo tempo hanno imposto a tutti e su tutti le loro regole.

E voglio soffermarmi su un aspetto solo apparentemente laterale, che però interroga prepotentemente le responsabilità intellettuali e gli statuti dell’attività culturale e di ricerca, spesso piegate a interessi speculativi e di potere alle quali garantiscono copertura senza poi farsi alcun carico delle pesanti conseguenze che questa complice sudditanza comporta.

La scena di questo connubio è Vicenza crocevia di tante storie che andrebbero meglio approfondite per comprendere i riflessi che una città di provincia, placidamente autocompiaciuta, è in grado di produrre sulla scena nazionale e internazionale. Tra le notizie di contorno che meritano, a mio parere, di essere portate in maggiore evidenza ci sono le dimissioni del presidente del Centro Internazionale di Studi Andrea Palladio, l’eurodeputata di Forza Italia Amalia Sartori, sulla quale pende una richiesta di arresto della magistratura veneziana. Dimissioni irrevocabili, come recita il comunicato stampa diffuso il 5 giugno dai suoi avvocati, e per questo tempestivamente accolte come si evince dalla pagina del sito dell’istituzione culturale nella quale spicca il vuoto lasciato dalla brusca cancellazione del suo nome (http://www.palladiomuseum.org/it/cisa/). Ma se il presidente del CISA si dissolve perché, come leggiamo dalle cronache dei giornali, la sua immagine è macchiata da pesanti accuse, nulla accade al Consiglio di amministrazione, in cui campeggiano figure di notabili locali che occupano posizioni di massimo rilievo anche in altre istituzioni culturali vicentine (si pensi ad esempio a Flavio Albanese oppure Franco Luigi Bottio). Tace un organismo che per anni ha lavorato a fianco di quello stesso presidente gestendo le risorse prodotte in prima istanza dai soci fondatori (enti pubblici), ma anche e sempre di più da soci sostenitori, aziende private tra i quali spiccano l’Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro e Palladio Finanziaria, coinvolte nelle inchieste giudiziarie di Expo e Mose e altre.

Nessun segnale neppure dal suo direttore, Guido Beltramini, né tanto meno dal suo blasonato consiglio scientifico presieduto dallo storico britannico Howard Burns (professore emerito della Scuola Normale di Pisa) dove siedono alcuni dei più importanti studiosi di storia dell’architettura in rappresentanza di prestigiosissime istituzioni accademiche internazionali (http://www.palladiomuseum.org/it/cisa/consiglio).

Ho riflettuto più di una volta su questa strana, addirittura incestuosa, composizione di interessi: da un lato lo studio e la ricerca nel campo dell’architettura palladiana e rinascimentale perseguito con eburneo distacco dai nostri illustrissimi accademici e dall’altro il pragmatico, diciamo pure cinico, agire degli interessi politici ed economici che, come ci mostrano le cronache giornalistiche, ruotano in prevalenza attorno all’industria delle costruzioni. Mi sono chiesta quali conseguenze implicite hanno possono aver avuto causato in passato, e sono in grado di provocare ancora oggi, gli imbarazzanti silenzi di persone che per ruolo pubblico e statura culturale, magari richiamandosi ad un’etica d’altri tempi ora frettolosamente rottamata, avrebbero avuto il dovere di manifestare in tutti i modi e con tutti i mezzi la massima indignazione nei confronti dell’aggressione al territorio e al paesaggio a cui la nostra città è stata sottoposta nell’ultimo ventennio e che si sta consumando in vari modi tra progetti edilizi e visionarie opere infrastrutturali. Una vocazione allo sfregio stolto e miope che trova sintesi in quell’enorme mostro edilizio precariamente aggrappato alla penisola di Borgo Berga. Per molti cittadini, ma anche per i conoscitori di Vicenza, dell’unicità della sua storia e della sua arte, si tratta senza dubbio dell’atto più assurdo, del danno più volgare perpetrato al nostro contesto paesaggistico, quello stesso paesaggio che ha ispirato l’architettura palladiana e che costituisce un tutt’uno – come egregiamente continuano a spiegare gli esperti nei loro saggi e nei loro libri – con il valore monumentale delle singole opere.

Un sacco voluto e organizzato da pochi, espressione di una sete speculativa senza pari. Pochi e ben conosciuti esponenti dell’imprenditoria locale, che hanno agito senza indugi con l’assenso politico e tecnico di chi quel progetto lo ha più volte avallato ma soprattutto – ed è ciò che io guardo con maggiore incredulità – senza trovare lungo il loro percorso neppure lo straccio di un commento critico da parte del consiglio scientifico del CISA che, è bene ricordare, era stato fondato nel 1958 con l’intento di dare spazio e voce alla cultura palladiana per difenderla dall’incuria e soprattutto dalle aggressioni della folle corsa all’oro del boom economico ed edilizio di quei meravigliosi anni ‘60.

E allora, alla luce di tutto questo, mi chiedo, chi ci aiuta a quantificare i danni di una cultura totalmente asservita ai poteri economici prevalenti, azzittita da un po’ di soldi offerti per divulgare un sapere inutile, perché totalmente autoreferenziale? A porre rimedio ai danni causati da amministratori pubblici e dai loro tecnici lasciati colpevolmente soli a decidere sul futuro delle nostre città e dei nostri territori, pericolosamente subordinati a quei poteri mossi dall’ossessiva ragione del valorizzare i propri beni a danno di quello che appartiene invece a tutti, alla comunità, ma che ancora troppo pochi si fanno carico di difendere?

Mi dico e vi dico: cominciamo ad indignarci, cominciamo a far sentire in modo corale che ci siamo e che non lasceremo che passi in fretta, come nei temporali estivi, il frastuono delle notizie più eclatanti. Riprendiamoci le nostre città, difendiamole dai nuovi vandali sempre pronti a cambiare d’abito per dissimulare la loro presenza nell’indifferenza complice di una cultura senza etica e senza dignità. Imponiamoci di agire per non lasciare intentato nulla come la nostra coscienza di studiosi e di trasmettitori di sapere, di cittadini impegnati e di genitori davvero preoccupati per l’arido futuro che spetta ai nostri figli. Una coscienza che deve essere collettiva e che ci chiede di smettere di nasconderci dietro i silenzi e le complici attese.

postilla
Questo intervento segnala qualcosa che non è «un episodio di contorno», come afferma l’autrice. Esso segnala un problema che è rilevantissimo – almeno per chi ritiene che la questione del “potere” sia centrale. Sempre più, nella nostra società, il potere è esercitato dai gestori dell’economia: di un’economia capitalistica giunta alla sua fase più oppressiva e devastatrice: quella del “finanzcapitalismo” come lo ha analizzato e definito Luciano Gallino. Per esercitare, consolidare ed estendere il suo potere quella economia ha colonizzato la politica, come le recenti vicende hanno svelato a chi ancora non lo avesse compreso. Ma per impadronirsi dei partiti e delle istituzioni non bastava la forza del danaro, occorreva anche conquistare, il consenso dei più. Come è noto il primo strumento per ottenerlo è guadagnare il placet del mondo del sapere e spegnere lo spirito critico là dove esso dovrebbe soprattutto manifestarsi. E’ un mondo del quale si può ottenere il consenso, o la neutralità, adoperando strumenti più soffici di quelli della corruzione diretta, che esulano in larga misura dalle competenze della magistratura. E’ agli intellettuali che spetterebbe il compito di vigilare e denunciare, ma ormai, almeno in Italia, succede di rado.

segretario Nazionale Fillea-Cgil. sindacato dei lavoratori dell'edilizia. Il suo intervento è pervenuto il 19 maggio 2014. Con postilla
Nel corso dell’ultimo congresso nazionale della Fillea-Cgil, tenutosi il 2 e 3 aprile u.s., abbiamo approvato un documento programmatico dove si sostiene la necessità di procedere ad una “moratoria degli interventi pubblici delle opere di impermeabilizzazione sulle aree limitrofe a coste, fiumi, laghi, sistemi franosi, infrastrutture finalizzate alla mobilità. Questo intervento, che il Governo deve assumere prioritariamente e con valenza decennale, deve essere accompagnato da azioni di bonifica delle aree di cui sopra, di quelle di interesse nazionale e di tutte quelle compromesse dalle attività umane”.Questa nostra proposta si accompagna, almeno per gli stessi luoghi, ad una moratoria o revoca dei diritti di edificazione concessi ai privati. E’ opportuno ricordare che i primi a sostenere la necessità di avere una moratoria delle costruzioni sono stati il Prof. Salvatore Settis e il Capo della Protezione Civile Franco Gabrielli.

Il dibattito attuale tende ad assegnare ai diritti di edificazione, maturati dalle scelte effettuate dagli amministratori locali attraverso gli strumenti urbanistici approvati da un organo elettivo, un’intoccabilità e, per alcuni versi, una sorta di eternità.

I soggetti che sostengono tale diritto, non revocabile e non modificabile su aree urbane definite edificabili e su concessioni rilasciate dagli uffici comunali, sono proprietari delle aree, costruttori, avvocati, notai, ingegneri, architetti, geometri, amministratori pubblici. Ovviamente ci sono anche soggetti che operano nell’ombra o alla luce del sole per la realizzazione di affari, come i sensali o mediatori di aree da edificare, i tangentisti e i mafiosi.

Non faccio di tutta l’erba un fascio. So benissimo che tra queste categorie professionali e di cittadini ci sono tante persone per bene e anche amministratori e associazioni di rappresentanza che sono sostenitrici di un diverso modello di sviluppo, ma ogni giorno diventa sempre più ingombrante e a tratti arrogante il rumore che i difensori dei diritti di edificazione acquisiti fanno, sostenendo che bisogna essere moderati nel discutere di consumo di suolo e che addirittura sarebbero catastrofiche le conseguenze occupazionali.

Il conflitto d’interesse è evidente. Ed è altrettanto evidente che l’Italia deve imboccare con chiarezza la strada di rivalutare e valorizzare al massimo i suoli impermeabilizzati e non i suoli ancora non impermeabilizzati. Non è un problema semantico. E nemmeno si può attendere che qualche istituto ci dia una immagine magari 1:1 per convincerci che le case, i capannoni, l’impermeabilizzato, il costruito è così sovradimensionato in proporzione ai cittadini e alle loro attività sociali ed economiche che è solo per INTERESSE che si può sostenere la necessità di dover impermeabilizzare ancora di più. Se carenze ci sono, esse sono sul fronte delle infrastrutture utili alla mobilità lenta o veloce dei cittadini e delle merci, capaci di fornire pari opportunità di servizi a tutto il paese.

L’Italia vive uno dei momenti più drammatici della sua storia. .

I governi, di fronte ad uno scenario economicamente disastroso, hanno adottato provvedimenti (per la CGIL sbagliati e controproducenti) che hanno colpito con durezza diritti acquisiti come quello alla contrattazione nel pubblico impiego (i contratti pubblici sono bloccati da 6 anni e si parla di bloccarli fino al 2020), il diritto alla pensione è stato fortemente modificato da provvedimenti parlamentari che hanno allungato i tempi e modificato il corrispettivo economico, con il risultato che si va in pensione non prima di 67 anni e con meno soldi, le modalità di assunzione sono continuamente modificati nella direzione di diminuire i diritti dei lavoratori, il potere d’acquisto dei salari e delle pensioni è giornalmente falcidiato, i tassi di disoccupazione reali sono superiori al 20% e gli investimenti pubblici si sono fortemente assottigliati.

Sono in tanti coloro che, di fronte ad una crisi economica, finanziaria, produttiva e di modello di sviluppo, hanno sostenuto e hanno lavorato perché in Italia si affermasse una notevole riduzione dei diritti, dei salari, dello stato sociale nel mondo del lavoro. Tra questi ci sono anche quelli che sostengono che i loro diritti per impermeabilizzare il suolo sono intoccabili. Essi minacciano il ricorso alle vie legali, proteste, disastri economici e incremento della disoccupazione, accampando che la “valorizzazione” (maggior valore fondiario) del proprio suolo sia intoccabile. Capita che gli stessi siano idealmente per la riduzione del consumo di suolo, ovviamente quello degli altri.

Anche i diritti dei lavoratori e dei pensionati sembravano intangibili, eppure sono stati toccati. Se è successo ciò per affrontare la crisi in maniera sbagliata, si possono toccare anche i diritti di edificazione per una causa nobile, quale il consumo di suolo zero.

Moratoria mirata e ritiro dei diritti di edificazione in quelle aree che giornalmente sono coinvolte dagli effetti non delle calamità naturali ma della cementificazione del territorio, possono essere adottati anche senza la necessità di avere nuovi provvedimenti legislativi. I soggetti pubblici che hanno il potere di governare il territorio possono operare in tale direzione; basta fare le adeguate scelte politiche ed amministrative. Come si dice in Italia da un po’ di secoli: errare humanum est, perseverare autem diabolicum,

postilla

Lo Balbo scrive che «Il dibattito attuale tende ad assegnare ai diritti di edificazione, maturati dalle scelte effettuate dagli amministratori locali attraverso gli strumenti urbanistici approvati da un organo elettivo, un’intoccabilità e, per alcuni versi, una sorta di eternità». Quanti sostengono l tesi dell’intoccabilità dei “diritti di edificabilità” derivanti da strumenti urbanistici approvati da un organo elettivo mentono, per ignoranza o per interesse. L’edificabilità concessa dagli strumenti urbanistici approvati è tranquillamente annullabile da un successivo piano urbanistico, a condizione di essere adeguatamente motivato (si vedano in proposito la mia nota eil parere del prof. Vincenzo Cerulli Irelli, entrambi del 2004 e la sentenza del Consiglio di Stato del 2012. ). Credo che occorra invece un intervento legislativo nazionale se si voglia, comne sarebbe del tutto ragionevole, ottenere l’annullamento dell’edificabilità in un’area per la quale l’amministrazione pubblica abbia già rilasciato il permesso di costruire. In tal caso ritengo che si dovrebbe indennizzare il proprietario oppure consentirgli di realizzare il suo intervento su una diversa area.


Non è mai accaduto, io credo, che si sia andati in piazza per rivendicare il restauro. Lo abbiamo fatto oggi, convocando questa assemblea, possiamo dire di popolo?, convinti che per il patrimonio storico e artistico colpito in Emilia dal sisma del maggio 2012 il restauro sia l’unica cura possibile, perciò doverosa. Doverosa perché prescritta dalla vincolante disciplina del codice dei beni culturali e del paesaggio. E perché convinti che il modello di intervento del dove era ma non come era, coltivato e annunciato anche in sede responsabile (o comunque prospettato come una ipotesi da considerare), non sia il restauro prescritto dal codice. E paradossalmente quel modello, ove fosse adottato, escluderebbe la competenza istituzionale delle soprintendenze che sono addette alle sole misure conservative analiticamente descritte nell’art. 29 del codice.

Per gli interventi innovativi cessa, vien meno, la competenza istituzionale di tutela e anzi il libero intervento postula, a rigore, la revoca del vincolo conservativo. Cercherò di spiegarmi. Anche, anzi Innanzitutto, dalla culturetta accademica del restauro innovativo e attualizzante, non è stata ancora registrata la principale novità del codice del 2004 – 2008. Il codice non solo ha enunciato esplicitamente le finalità della tutela essenzialmente conservativa, che erano rimaste implicite nella asciutta e gloriosa legge 1089 del 1939, ma ha dettato le prescrizioni vincolanti sui modi attraverso i quali quelle finalità sono perseguite.

Non credo che sia una constatazione originale: la legge del 1939 (rimasta in vigore fino al testo unico del 1999, quindi sessant’anni) non pronuncia in alcuna delle sue disposizioni la parola “restauro” e si affida alla discrezione tecnica e alla cultura del soprintendente per il controllo, l’approvazione, dice così, delle “opere” che incidono sul bene di riconosciuto interesse storico e artistico. Lo fa nella presupposizione che sia compito riservato alla cultura elaborare principi e criteri della tutela e che i funzionari addetti, i soprintendenti, si alimentino di quella cultura. Con risultati di ampia discrezionalità in pratica incontrollabile, il cui esercizio sfugge a verifiche di legittimità, rimanendo esposto al solo giudizio e alla eventuale sanzione di riprovazione della opinione pubblica colta. Ricordiamo le preoccupazioni manifestate da Cesare Brandi per la arbitrarietà della prassi dei restauri da lui diffusamente constatata.
Il codice ha invece intenzionalmente ristretto quell’ambito di discrezionalità e ha dettato stringenti prescrizioni di conservazione del patrimonio culturale, che vuole assicurata da coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e infine restauro. E intende il restauro come l’intervento sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate alla integrità materiale e al recupero del bene, alla protezione e alla trasmissione dei suoi valori culturali. E nelle zone a rischio sismico il restauro comprende l’intervento di miglioramento strutturale. La tutela non può esprimersi dunque che attraverso prevenzione, manutenzione e restauro. Il restauro è diretto ad assicurare la integrità materiale e il recupero del bene così come è stato riconosciuto di interesse culturale.

Recupero, secondo il significato proprio della parola (che è il primo criterio di interpretazione delle norme), presuppone la perdita della integrità materiale del bene, che appunto deve essere ricostituita nell’assetto preesistente in considerazione e ragione del quale il bene è stato riconosciuto di interesse culturale, perché i suoi propri valori possano essere trasmessi. Le competenze della tutela, e dei suoi operatori addetti, sono oggi rigorosamente circoscritte, si esercitano, torniamo a dire, nei soli modi di prevenzione, manutenzione e restauro e non è data alternativa al recupero della integrità materiale perduta. Il modello dell’intervento non può non essere il bene come era nel momento della subita perdita della sua integrità. Non è concettualmente dato un diverso modello dell’intervento, perché la competenza di tutela è meramente conservativa e non dispone di alcun criterio obbiettivo e verificabile per opere innovative. Come sono gli innesti modernizzanti sulle strutture del bene sopravvissute all’evento traumatico, voluti e concepiti nella ambizione sbagliata di conferire diversi e arbitrari significati al bene danneggiato e perfino dettati dalla considerazione cinica dell’evento drammatico come la opportunità data a manipolazioni dirette alla pretesa attualizzazione del bene culturale, contro la sua identità storica. Una attitudine che riflette a ben vedere la insofferenza dei confini concettuali posti alla funzione del restauro, subìti come costrittivi della libera progettualità. Ma la libera progettualità si esprime in un altro mestiere che non sia quello del restauratore.

Insomma la formula accreditata impropriamente dalle stesse istituzioni territoriali della tutela (pur come ipotesi da considerare e la incertezza della determinazione definitiva al riguardo non è l’ultima ragione dei ritardati interventi fino ad ora limitati, a due anni dal sisma, alla messa in sicurezza, neppur completata), quella formula contrasta con il vincolante modello normativo di restauro – recupero per la ragione che l’intervento che rifiuti il modello del bene nella sua preesistente integrità (che non sia motivato dalla esigenza del miglioramento strutturale) è espressione di quella discrezione libera e incontrollabile che il codice ha inteso sottrarre agli operatori della tutela perché contrasta con la finalità conservativa dei valori culturali propri del bene. Neppure è dunque concettualmente ammissibile condizionare la praticabilità del restauro alla entità dei danni, alla misura della struttura superstite (la metà, un terzo, un quarto?), per escludere in ogni caso il ripristino quando i danni, si dice, siano stati totalmente distruttivi, che tali non sono (come è stato constatato) neppure nel caso estremo della Torre dei Modenesi a Finale Emilia che ha conservato non solo la struttura di impostazione – radicamento nel suolo ma ha rivelato ai più recenti sondaggi la preservata e fino ad oggi non conosciuta cella ipogea.

Mentre la esigenza della rigorosa ricostruzione (secondo l’unico obbiettivo modello disponibile che sta nel bene prima del sisma) trova una ulteriore insuperabile ragione se l’edificio è elemento compositivo, parte integrante di un complesso insediamento storico: la continuità del tessuto edilizio non tollera lacune o inserti incoerenti e il risarcimento nei modi del restauro - ripristino di ogni suo autentico elemento compositivo è dovuto in funzione della integrità del centro storico come unitario monumento urbano. Lo dispone la vigente legge urbanistica della regione Emilia Romagna e lo dispongono i vigenti strumenti urbanistici dei Comuni, adeguati alla legge regionale, attraverso una matura disciplina di tutela degli insediamenti storici idonea a far fronte anche a eventi come il sisma straordinari, che incidono diffusamente sulla integrità del patrimonio urbano.La ipotesi, chiamiamola così, del dove era ma non come era (dunque una ricostruzione senza principi anzi eversiva dell’ordine costituito della tutela come definito nel codice dei beni culturali) non avrebbe trovato alcun sostegno, anzi un esplicito divieto nella più matura e vigente disciplina urbanistica.

Ma contro la vantata tradizione di tutela dei suoi centri storici la Regione Emilia Romagna si è data nel dicembre 2012 una apposita legge speciale di ricostruzione che cancella nei comuni colpiti dal sisma la virtuosa normativa di piano regolatore e libera dalla regola del ripristino filologico gli edifici crollati o gravemente danneggiati dal terremoto (la regola che invece varrebbe per ogni altro evento distruttivo!). Italia Nostra già lo ha con preoccupazione segnalato: la legge di ricostruzione pianifica l’abbandono della vigente ordinaria buona urbanistica e sul cattivo modello della legge speciale dell’immediato ultimo dopoguerra affida ai piani di ricostruzione la facoltà di riprogettare radicalmente anche nel disegno degli isolati e della trama viaria gli insediamenti storici che rischiano così di smarrire la loro secolare identità, anche attraverso la delocalizzazione di funzioni essenziali e vitali dai nuclei urbani originari.

Di fronte alla Regione Emilia Romagna che sembra rinnegare la tradizionale politica di salvaguardia dei tessuti urbani storici non rimane allora che fare affidamento sulla responsabilità degli amministratori comunali, altrimenti gelosi degli originali caratteri che attribuiscono ai luoghi di vita delle loro comunità una insopprimibile identità; e dunque consapevoli che dell’eversivo strumento del piano di ricostruzione si impone un impiego del tutto eccezionale e in ogni caso circoscritto a quelle porzioni dell’insediamento che in tempi recenti fossero state gravemente alterate da interventi di trasformazione incompatibili con i principi di tutela della morfologia urbana storica.
Certo è che nei piani di ricostruzione, in questi mesi messi in cantiere, il modello del dove era ma non come era per il patrimonio culturale offeso dal sisma non potrà trovare la legittimazione che a quel modello crediamo sia fermissimamente negata dal codice dei beni culturali e del paesaggio.

Il pensiero unico dell'ex sindaco di Firenze, oggi "Sindaco d'Italia": la cultura come gadget e moneta di scambio, il dissenso come male da estirpare. E tutti gli vanno dietro.

Con il rituale della fiducia, si è compiuto l'atto finale della presa di potere da parte del sindaco di Firenze, ma già prima alcuni segnali inequivocabili ci hanno restituito senza ombra di dubbio i connotati di ferocia politica che caratterizzano questa operazione.

Come risulta dalle cronache, il neo presidente del Consiglio, nel predisporsi al nuovo incarico e quindi traslocare da Palazzo Vecchio ha voluto, per dir così, "dare una sistemata" alle cose di casa, per permettere al suo delfino Dario Nardella di subentrargli alle prossime elezioni fiorentine. Questo domino di poltrone ha coinvolto anche la giunta regionale: Enrico Rossi ha quindi dovuto procedere ad un rimpasto per consentire a rappresentanti fiduciari di Renzi di occupare posizioni di rilievo, a partire dalla vicepresidenza nella figura di Chiara Saccardi. Nel rimpasto il presidente della Regione, forse nel tentativo di "riequilibrare" a sinistra la sua giunta, ha proposto l'Assessorato alla Cultura ad un intellettuale di sicuro prestigio, Tomaso Montanari, salvo poi ritirare in tutta fretta l'offerta di fronte al veto dello stesso Renzi.

Notorie sono le battaglie che Montanari, fiorentino, ha condotto in questi anni- sulla stampa e spendendosi in appoggio ai comitati civici - contro le politiche culturali di Renzi.

"Le pietre e il popolo" riassume gran parte di quelle critiche che convergono sostanzialmente in quella, complessiva, di un uso distorto ed opportunistico del patrimonio culturale cittadino, fra i più straordinari al mondo, a fini mercantilistici o di visibilità personale. Uso e abuso non solo potenzialmente pericoloso per la tutela degli stessi beni culturali, ma, soprattutto contrario allo spirito costituzionale secondo il quale il nostro patrimonio è innanzi tutto strumento di crescita civile e di integrazione sociale.
Non quindi merce da cedere, per poche lire, a pochi privilegiati, come è accaduto, ad esempio, con l'affetto del Ponte Vecchio per una kermesse della Ferrari, ma strumento di educazione e godimento per tutti i cittadini.

Il veto, greve e feroce, posto dal nuovo padrone del PD non è quindi da leggere solo come tentativo - comunque gravissimo - di censura del dissenso, ma anche come repressione di una diversa idea, non solo del nostro patrimonio, ma della nostra idea di democrazia.

Come sanno bene anche i lettori di eddyburg che ospita molto spesso gli interventi di Montanari, quest'ultimo, lungi dall'essere un intellettuale da salotto (accusa dei renziani quando è scoppiato il caso toscano), partendo da una prospettiva specifica, quella dei beni culturali, è uno dei pochi intellettuali ad aver saputo riconnettere il tema della tutela a quello più ampio, ma politicamente congruente, della giustizia sociale, dell'inclusione, dell'educazione civile come primo strumento di costruzione di una democrazia consapevole ed allargata.

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, scritto, fotografato, recitato. Cosa ci sono andate a fare, allora, ieri notte ad Erto e Casso un centinaio di persone provenienti da mezza Italia per una notte bianca organizzata dal gruppo “Cittadini per la memoria del Vajont”?

L’oltraggiosa ricostruzione negazionista operata l’indomani della tragedia dall’Enel, dai governi, dal Quirinale, dall’intero apparato mediatico di stampa e televisione (l’Unità di Tina Merlin eccezione unica e isolata), è stata lentamente demolita nel corso di un iter processuale estenuante che hanno voluto si svolgesse distante dal Piave (all’Aquila) e, soprattutto, grazie alla tenacia di pochi sopravvissuti e testimoni, che a costo di rifiutare ricchi risarcimenti, hanno voluto andare fino in fondo nella ricerca delle responsabilità. La “svolta”, forse, nella coscienza collettiva nazionale, è avvenuta molti anni dopo grazie all’opera di Marco Paolini. Se volete davvero commemorare quei 1910 morti scaricatevi dal computer e rivedetevi Il racconto del Vajont, registrazione dell’“orazione funebre” andata in scena sulla frana ai piedi della diga nell’anniversario del 1997. Altro che “disgrazia”, “montagna crudele”, evento naturale imprevedibile, tragica fatalità e via mentendo! All’opera c’erano criminali professionisti dell’industrializzazione forzata. Assassini integrati nell’ordinario sistema economico. Mercenari reclutati nelle pubbliche amministrazioni, nelle università, nei giornali dalle società energetiche (Sade e poi Enel).

E’ solo storia passata? Un errore sfuggito al controllo del sistema? Oppure c’è una logica persistente alla origine dei disastri industriali che va ancora individuata e smascherata?

Di questa seconda opinione sono le persone che si sono date appuntamento attorno ad un falò sotto il pauroso sbrego del monte Toc, la scorsa notte, per iniziativa dell’infaticabile giornalista Lucia Vastano, autrice di Vajont, l’onda lunga (Ponte delle grazie, 2008). La lunga catena dei crimini industriali incominciata col Vajont è proseguita a Seveso (10 luglio 1976), alla Stava (19 luglio 1985), con la Moby Prince (10 luglio 1991), con i morti dell’amianto, del Cloruro di Vinile Monomero, con la Thyssen Krupp, con l’Ilva a Taranto… solo per citare i casi più “famosi”. Ma se una frana, un incendio, o un angiosarcoma epatico e una asbestosi hanno la particolarità di essere facilmente riconducibili alla loro causa (perizie dei tribunali permettendo), quante sono le sostanze tossiche nocive, i materiali cancerogeni, gli inquinanti che minano silenziosamente e anonimamente, ma inesorabilmente, la salute delle persone, lavoratori di fabbrica, o abitanti di territori sfortunati o consumatori tenuti all’oscuro dei micidiali cocktail chimici presenti nei cibi industriali e negli oggetti d’uso comune?

Associazioni come Medicina democratica, Medici per l’ambiente e pochi altri singoli, coraggiosi e disinteressati epidemiologi, ecologi, geologi si mettono a disposizione dei comitati e tentano di colmare i paurosi vuoti delle Agenzie per l’ambiente, del Cnr, delle Università che, quando non sono distrutte dai “tagli”, sono finanziate, direttamente o indirettamente, dalle stesse industrie. Coloro che si scandalizzano per le troppe numerose contestazioni dei cittadini contro la presunta pericolosità delle opere infrastrutturali e tecnologiche, fingono di non sapere che nel nostro Paese le commissioni di Valutazione di impatto ambientale sono una barzelletta, tanto sono lottizzate e asservite agli interessi dei “promotori”. Solo qualche bravo e raro magistrato inquirente riesce ad avere le risorse necessarie per svolgere analisi scientifiche serie e neutrali. Ed è per questo che per tanti cittadini l’ultima speranza di fermare le mani assassine della “ragione economica” industriale è riposta nella magistratura. Non più certo nelle istituzioni della politica. Nessun Presidente della Repubblica si è ancora scomodato nel proclamare formali scuse alle vittime del Vajont a nome dello Stato italiano.

Attorno al falò, in quel luogo sacro della memoria, ascoltando la storia di Pierina Casanova Stua, sfuggita a due guerre mondiali, ma non alla piena del Vajont, ricostruita da Giampiero Palmeri e raccontata da una compagnia teatrale ladina (www.ilmiolibro.it), e molte altre tragedie contemporanee, la nostra attenzione non va ai morti, ma al dolore non rimarginabile dei nostri amici sopravvissuti, dei parenti, dei figli delle vittime. Nella certezza che l’elaborazione del loro lutto potrà avvenire solo se l’intera società saprà capire che non vi è sviluppo, crescita, benessere se il loro costo comprende la vita anche di un solo essere umano. Solo così diventeremo sufficientemente forti da poter respingere il “ricatto occupazionale”, l’accettazione del rischio, la mercificazione dei nostri stessi corpi.
Casso 6 ottobre 2013

paolo.cacciari_49@libero.it

Sul Corriere della Sera di oggi, 5 ottobre 2013, Antonio Pascale racconta le meraviglie, riprese probabilmente paro paro da un articolo del Wall Street Journal, della cosiddetta città ideale che starebbe per nascere su iniziativa di Facebook. E attenzione alla premessa generale: non su iniziativa del social network inteso come rete di amici o sedicenti tali, ma inteso in senso stretto come progetto della compagnia Facebook, che “sta comprando superfici immobiliari, in una zona, quella della Silicon Valley dove i prezzi sono così alti che, diciamo così, in pochi possono condividere”. Alla fine delle descrizioni, naturalmente abbastanza mirabolanti ma senza entrare in particolari (non sappiamo se si tratti di alta o bassa densità, per esempio, anche se si accenna a un orientamento pedonale), l'articolo esplicita la sua tesi: è un ritorno al modello otto-novecentesco dell'azienda che per favorire al massimo un rapporto diretto e di prossimità coi dipendenti, costruisce un sistema insediativo integrato fabbrica-abitazioni-servizi.

Dato che i toni del pezzo non paiono per nulla apocalittici, si intuisce un giudizio sostanzialmente positivo, o quantomeno sospeso, sull'iniziativa. E sorge spontanea la considerazione: vuoi vedere che a furia di guardarsi indietro, di trasformare qualunque giusta reazione alle fratture della modernità in nostalgia per un passato da cartolina, anche la nostra cultura di base su cosa sia una città, e in che modo si distingua da un grosso castello, o monastero, o fabbrica, è totalmente evaporata? Cosa ci sarebbe mai di ideale, all'alba del XXI secolo, nel ritorno a quelle forme di paternalismo industriale che lo stesso movimento delle Città Giardino cent'anni fa aveva usato solo come vago riferimento architettonico, per il suo “peaceful path to real reform”? Possibile che, a colpi di sensibilità artistica retro del principe Carlo, tutta la carica innovativa di un Raymond Unwin, di un Clarence Stein, si possa risolvere nella caricatura di certe relazioni di vicinato, o meccanico rapporto casa-lavoro?

La città è ben altro che una sommatoria di edifici e attività economiche, riconducibile a certe formulette da catechismo new urbanism, magari lodevoli nelle intenzioni dei progettisti, ma appunto prive di senso se non si accompagnano a una forte idea di cittadinanza, libera scelta, democrazia anche nei rapporti fra capitale e lavoro. Neppure l'autoritario progetto di Steve Jobs e Norman Foster per il campus della Apple a Cupertino, in linea col modello suburbano del parco uffici, immerso nello sprawl di villette sparse, superstrade e centri commerciali, arrivava all'assurdo di incorporare gli alloggi. Riconoscendo quindi, implicitamente, una delle innegabili conquiste sociali dell'anticittà novecentesca: l'allontanarsi, per quanto part-time, dell'individuo e della famiglia dall'oppressione dello spazio-tempo di lavoro.

E non a caso i più radicali critici delle idee ambientaliste di ritorno alla città densa e di relazioni dirette di prossimità, spesso fanno riferimento proprio alla libera scelta del cittadino, auspicando per i problemi energetici, di consumo di suolo, di inquinamento, improbabili soluzioni high-tech anziché la via maestra di una correzione di rotta del modello socioeconomico dello sprawl. Possibile che, cent'anni dopo le riflessioni sul quartiere integrato ma decentrato, e cinquant'anni di critiche all'autoritarismo consumista del suburbio, qualcuno possa ancora considerare positivo un ritorno al modello del villaggio industriale ottocentesco? Quanto lavoro c'è da fare, in termini di divulgazione, linguaggi comprensibili, e magari un po' oltre i soli interessi professionali di parte, per quanto benintenzionati.

Qui scaricabile l'articolo citato dal Corriere della Sera. Qui anche alcune considerazioni sulle correnti diatribe fra opposte fazioni pro e contro lo sprawl e i suoi aspetti diciamo così di libera scelta di mercato. Per finire, e capire che magari ci sono serie alternative pubbliche e democratiche alle company town regressive privatistiche, qui il Piano Regionale per le Città Sostenibili approvato dal consorzio intercomunale californiano per la medesima area un paio di mesi fa.

Vocabolario della lingua italiana che da lui prende nome, tradiscono il buon senso e la cultura per accodarsi al senso comune. Il tarlo della falsa "modernità ha davvero scavato a fondo

Il vocabolario Zingarelli 2013 è sicuramente un’opera di gran pregio. Oltre 143.000 voci, 72.000 etimologie, 5.400 parole dell’italiano fondamentale, 9.000 sinonimi. Più di 1.000 schede illustrano le sfumature di significato che esaminano gruppi di parole analoghe definendone l’uso e il contesto più appropriati. Poi ci sono 3.000 parole da salvare, per esempio intrepido, ineffabile, rigoglio, sfarzo, pavido, nitido, che tendono a essere dimenticate perché televisione e giornali privilegiano coraggioso, indescrivibile, grande sviluppo, lusso, pauroso, chiaro, sinonimi più comuni ma meno espressivi. Queste e altre qualità dell’opera si leggono nella quarta di copertina dello Zingarelli 2013.

Benissimo. Invece no. No perché la prima pagina di copertina e il dorso del vocabolario sono occupati da una foto a colori del Colosseo di notte illuminato, e l’immagine è attraversata dalle scie fosforescenti di veicoli in movimento sulla via dei Fori Imperiali. Mi pare evidente che si tratta di un insulso tentativo di rappresentare l’incontro fra il nuovo e l’antico, la dinamica modernità delle automobili con la solenne fermezza del più celebre monumento dell’antica Roma. Ma dalle parti dello Zingarelli lo sanno che da più di trent’anni, e non solo a Roma, si discute dell’eliminazione della via dei Fori Imperiali? La sottrazione del Colosseo dall’indecorosa funzione di spartitraffico è una delle battaglie sostenute da Antonio Cederna per tutta la vita. Com’è possibile che tutto ciò sia ignorato da uno strumento fondamentale e tradizionale della cultura italiana come il vocabolario Zingarelli?

C’è un parco urbano in riva al lago di Varese. E’ un luogo molto frequentato da diverse categorie di cittadini che vi giungono per godere degli ampi spazi a prato, dell’ombra degli alberi, della vista del lago con il Monte Rosa sullo sfondo. Si trova di fianco al vecchio lido con la piscina scoperta affollata in estate ed è attraversato dalla pista ciclabile che corre tutto attorno al perimetro lacustre. Sotto la chioma degli alberi sono sistemati una seria di tavoli e panchine e sono numerosi coloro che vi arrivano attrezzati per il pic nic. Un tempo vi erano anche le strutture per cuocere i cibi alla brace, rito di socializzazione oggi relegato ai giardini delle case unifamiliari che deve per forza essere chiamato barbecue, anche se è presente nella cultura di molti popoli. I fuochi nel parco, si rese conto l’amministrazione comunale nel 2010, con tutte quelle piante potevano essere pericolosi e poi c’era il problema dei residui della cottura. Quindi via i bracieri ma, soprattutto, via gli stranieri, forse le maggiori presenze nei momenti in cui nel parco aleggiavano le basse ed olezzanti nuvole di fumo di carbonella.

In città vi è un’altra area verde ad alta frequentazione multietnica e si trova nel mezzo di un quartiere popolare, nascosto alla vista da chi passa sul viale che divide in due settori quell’insediamento di edilizia economico-popolare. Vi giocano a calcio molti ragazzi stranieri, a volte mischiati agli italiani, in squadre improvvisate o in tornei auto-organizzati. Sulle altalene un po’ arrugginite si divertono i bambini del quartiere e molti di loro sono stranieri. Secondo il piano regolatore l’area non è un parco pubblico, anche se di proprietà comunale, ed è edificabile. Vi erano le difficoltà finanziarie del comune, come ha sostenuto l’amministrazione della città nel 2010, alla base della scelta d’inserire l’area nel piano delle alienazioni, ma, secondo l’opinione dei molti residenti che, grazie ad una raccolta di firme hanno bloccato la vendita, è più probabile che ci fosse la volontà di disfarsi della manutenzione di un luogo prevalentemente frequentato dagli immigrati.

Altri settori della città molto frequentati dagli stranieri, che sono il 12% della popolazione residente, sono stati trasformati o sono in procinto di esserlo. Le panchine di due viali vicini ad un quartiere con il 40% di popolazione straniera sono state tolte o sostituite con sedute individuali ben distanti le une dalle altre, e tutto ciò a seguito della cosiddetta ordinanza anti-bivacco. Il grande piazzale posto tra le due stazioni ferroviarie, che ospita il terminal delle linee del trasporto extraurbano ed il mercato tre volte a settimana, diventerà il fulcro del progetto di unificazione delle stazioni ed ospiterà un edificio multifunzionale con posteggio interrato. Dove verrà spostato il mercato o se sarà semplicemente eliminato non è dato saperlo ma nel frattempo si moltiplicano le dichiarazioni contro l’eccessiva presenza di ambulanti stranieri da parte di esponenti della Lega Nord, partito che governa la città da 20 anni.

Alla fine degli anni ’80 il mercato cittadino era stato trasferito dalla piazza che l’aveva ospitato per secoli al grande piazzale tra le stazioni per far posto ad un centro commerciale con annesso posteggio interrato multipiano. La piazza già del mercato oggi è di fatto null’altro che la copertura del sottostante posteggio, separata dal livello della strada da una serie di fioriere ed elementi di arredo che definiscono una sorta di percorso verde per raggiungerne l’ingresso. Questo luogo un po’ appartato si è nel tempo tramutato in punto d’incontro per gruppi di stranieri, in prevalenza maschi ed africani, ed ora viene costantemente stigmatizzato come il luogo più degradato del centro cittadino. Anche in questo caso si attende l’attuazione del progetto di riqualificazione della piazza che prevede la sostituzione dell’adiacente caserma, dismessa da decenni, con il teatro realizzato al posto del vecchio mercato coperto, il cui spostamento genererà la valorizzazione immobiliare dell’area su cui sorge.

Nelle strategie di governo di questa città, dove ancora sono evidenti gli effetti di un importante passato industriale, la presenza degli stranieri è affrontata come un problema, un elemento di disturbo e di degrado. La Lega Nord, che esprime da 20 anni il sindaco ha imposto al governo della regione modifiche alla legge urbanistica per contrastare il sorgere di luoghi di culto e di esercizi commerciali gestiti dagli immigrati e, contemporaneamente, le condizioni di accesso all’edilizia residenziale pubblica si sono orientate a misure di maggiore difficoltà per chi non è italiano.

Il frequente riferimento alla qualità dell’ambiente costruito della città, da parte dei suoi amministratori, ha come risvolto la chiusura a qualsiasi trasformazione che ne snaturi il suo essere “a misura d’uomo”, con il centro curato come se fosse il salotto di casa, l’area pedonale per lo shopping di lusso ed i quartieri residenziali “immersi nel verde”. Tutto molto diverso e culturalmente distante dalla metropoli che si trova solo a poche decine di chilometri, evocata quando il fatto di cronaca nera sbatte lo straniero in prima pagina, per poi aggiungere che “da noi” queste cose non succedono.

Il fenomeno, tuttavia, non è nuovo. Era iniziato con il boom economico, più di mezzo secolo fa, quando la città aveva preso ad essere luogo di elezione per decine di migliaia emigrati dal Sud d’Italia in cerca di lavoro nelle fabbriche del Nord. La conseguenza fu una grande trasformazione sociale e demografica mal sopportata da coloro che volevano preservare la città dalle turbolenze dello sviluppo economico. I suoi amministratori puntarono tutto sul marchio “città giardino” per attirare chi scappava dalla vicina metropoli sovraffollata, inquinata e violenta. Il modello residenziale proposto, in alternativa alla densità volumetrica e demografica della grande città, era la casa unifamiliare ed una buona dotazione di servizi, tutti facilmente accessibili in pochi minuti di tragitto in auto. E soprattutto c’era una limitata commistione con chi veniva “da fuori”, al massimo concentrati nei quartieri di edilizia popolare o nei nuclei storici abbandonati da coloro che, nel frattempo, si erano costruiti la casetta con giardino.

Su questo terreno culturale, dove ciò che è locale, autoctono, è oggetto di culto ed i valori da difendere sono quelli della ”nostra gente” , si è propagato il consenso al partito che ha preso il posto della vecchia classe politica, cancellata dalle inchieste sulla corruzione di inizio anni ’90. Senza mai evocarla, in questi decenni si è radicata l’idea che esista una “razza” che abita da sempre questa terra e discende direttamente dalle tribù che nel neolitico s’insediarono sulle sponde dei numerosi laghi di questa regione subalpina, lasciando tracce oggi conservate nel museo civico. Agli abitanti della città è bene ricordare che il ceppo insubrico-padano è l’origine della loro comunità e, a questo scopo, l’amministrazione pensò di allestire una capanna palafitticola nel parco sul lago, poi data alle fiamme. Sembra che gli autori del gesto vandalico fossero italiani, secondo la testimonianza resa ai carabinieri da alcuni ragazzi stranieri presenti sul luogo.

Quella del rapporto difficile, nella gestione delle trasformazioni urbane, tra diverse "etnie" e popolazione autoctona, non è notoriamente questione che riguardi solo Varese o le amministrazioni a cui partecipa la Lega. Solo per fare un esempio, il caso del muro di via Anelli a Padova (sindaco Zanonato, oggi ministro) dimostra come il problema sia più diffuso e come la matrice comune, al di là dell’orientamento politico delle amministrazioni, sia la nota questione della sicurezza, reale o percepita. La relazione diretta tra Varese e il razzismo però si manifesta patologicamente, anche sulle cronache dei quotidianii1 E’ facile sottolineare il razzismo delle recenti dichiarazioni di esponenti della Lega a proposito della ministra Kyenge, ma forse è più interessante analizzare come la città roccaforte di questo partito – e delle mitologie che lo sostengono - abbia affrontato la questione di una ragguardevole presenza di cittadini stranieri e la relazione tra politiche della Lega e scelte precedenti, delle amministrazioni democristiano-socialiste poi spazzate via da tangentopoli, riguardo alle trasformazioni della città.

Che sia la fondazione del mito autoreferenziale della “città giardino” (così si autodefinisce la città nella tradizione locale, nulla a che vedere con utopie urbane internazionali), in opposizione alla vicina metropoli ed alle commistioni della sua popolazione, il terreno sul quale ha attecchito quel mix di esaltazione delle radici e di oscurazione degli elementi alloctoni di cui è fatto il localismo identitario della Lega? La risposta alla domanda necessita un’indagine approfondita e per il momento mi limito a ricordare quante analogie io abbia trovato tra le descrizioni dei territori dell’America bianca fatte da Rich Benjamin nel suo Searching for Whitopia (qui la recensione per Carta) e questo pezzo di Lombardia nord-occidentale. Qui si è formata, a metà anni ’90, l’idea che la regione dei laghi prealpini definisca un preciso ambito geografico transregionale e transnazionale denominato Insubria, cioè terra di quel popolo celtico cui s’ispira l’associazione, nata in quegli stessi anni, molto attiva nel promuovere iniziative culturali di tipo identitario.

Questa Utopia alpino-padana è stata troppo spesso scambiata con il folklore di un movimento politico dal vasto radicamento popolare, mentre è il frutto di un vero progetto territoriale, fondamentalmente antiurbano e ruralista, che mette al centro il ritorno alle radici, alla terra nel senso di luogo fondativo dell’identità di un popolo. Che al centro di questo territorio ci sia una città e la sua area urbana, che conta quasi 250.000 abitanti, è del tutto ignorato e guai se a ricordarlo sono gli stranieri che della città usano gli spazi pubblici ed i servizi, ovvero tutto ciò che differenzia la condizione urbana dal mito ancestrale della vita rurale che si vorrebbe far diventare realtà.

1 Almeno dal 1979, quando i tifosi della locale squadra di basket ospitarono la squadra di Tel Aviv Maccabi con cori inneggianti lo sterminio nazista.

«La questione della rendita urbana, i modi della proprietà e dell’uso del suolo, il rapporto tra la proprietà privata e il governo pubblico del territorio restano attuali e temi cardine per ragionare se c’è un futuro». A cinquant'anni della proposta di riforma di Fiorentino Sullo”, un convegno ad Alghero, 19-20 Settembre 2013.

Scivolano senza gran trambusto, tra lo scorso e quest’anno, i tondi anniversari di due crocevia dell’urbanistica italiana: settant’anni dellalegge urbanistica e cinquanta della proposta di riforma di Fiorentino Sullo. Duecrocevia: la legge urbanistica – tuttora sostanzialmente in vigore sullo sfondodelle leggi regionali – per aver gettato le fondamenta della pianificazione inItalia; la riforma Sullo – fallita – per aver proposto un radicale ribaltamentodei rapporti di forza tra la proprietà privata dei suoli e il governo del territorio,attraverso uno schema di appropriazione pubblica della rendita urbana.

Da allora di tempo e di ‘regimi politici’ assai diversi nesono passati. E le prassi di pianificazione, i mutati contesti economici e un incalzantefederalismo urbanistico hanno offerto occasioni e pretesti per cospicue e avolte divergenti innovazioni di norme, tecniche e pratiche di governo delterritorio. Si potrebbe dunque pensare che si tratta di due ricorrenzeda antiquariato, che molti dei temi che animarono il dibattito in quei due momentistorici non siano più sul tappeto, che molte questioni allora di fondo siano statecol tempo superate o risolutivamente sistemate.
A noi invece non pare così. La questione della renditaurbana, i modi della proprietà e dell’uso del suolo, il rapporto tra laproprietà privata e il governo pubblico del territorio restano attuali e temicardine per ragionare se c’è un futuro per una nuova legge urbanistica e suquale potrebbe essere un ragionevole quadro di competenze nel governo del territorio. Anche se assieme adessi occorre fare i conti con le competenze degli enti locali, con ladisciplina del paesaggio e con questioni ambientali, di gestione dei benicomuni, di riqualificazione urbana e di fiscalità locale.

Per ricordare le due ricorrenze, ma soprattutto per ragionareinsieme delle prospettive, vogliamo invitare i lettori di eddyburg.it ad Alghero,i giorni 19 e 20 Settembre per il convegno “A cinquant'anni della proposta diriforma Sullo. Politiche del territorio e regimi di pianificazione”,co-organizzato dal Centro Interuniversitario di Ricerca per L'analisi delTerritorio di Bari e dal Dipartimento di Architettura Design e Urbanisticadell'Università di Sassari.
Il programma e l’invito a presentare proposte di interventi,aperto sino al 15 Agosto, sono disponibili sulla pagina web del convegno.

La recente inaugurazione del QuartiereLe Albere a Trento, progettato da Renzo Piano, riportainevitabilmente a riflettere su di un tema antico quanto attuale:l'intimo, imprescindibile e contrastato rapporto tra urbanistica earchitettura. Il nuovo quartiere, come del resto molti altri suoicugini europei, sembra affermare con forza il fallimentodell'urbanista, almeno nell'accezione canonica invalsa nell'ultimosecolo, e consolidare invece la figura dell'architetto quale soggettoefficace ed unico della trasformazione e progettazione urbana, lavittoria della disciplina architettonica su quella urbanistica.
Gli edifici sono belli,contestualizzati, funzionali, tecnologicamente all'avanguardia, inlinea con i più avanzati standard di sostenibilità dei consumi masono molto più interessanti, e qui l'oggetto della riflessione, lesoluzioni prospettate a scala urbanistica ed urbana: divisione deiflussi carrabili e pedonali, elevata dotazione di standard (nel casodei parcheggi opportunamente integrati e collocati negli interrati,diversamente peraltro da quanto fatto dallo stesso Renzo Piano nelcentro commerciale di Nola), un qualificato e progettato spaziourbano, mixitè di funzioni dove il centro commerciale della grandee media distribuzione trova il modo di coesistere con residenze eduffici, senza dover essere esiliato in un macro-lotto di periferiacircondato da un deserto di parcheggi, insomma la creazione di unpezzo di città e non di una addizione periferica.
Alla base di tutto questo unacostruzione architettata, prima che architettonica, del progetto dicittà, dove le diverse discipline – dall'arredamentoall'urbanistica passando per la composizione, la tecnologia e laprogettazione ambientale – sono attraversate e sorrette daun'ossatura indispensabile: l'idea di città, ciò che Aldo Rossidefiniva il “fatto urbano” (Rossi 1978),
Il quartiere trentino non è certo ilprimo esempio di un tale atteggiamento, lo stesso Renzo Piano avevagià dimostrato simili capacità nella reinvenzione dellaPotzdammerplatz a Berlino o nella Cité Internationale di Lione enumerosi potrebbero essere gli analoghi interventi di altri autorisparsi un po' per tutta l'Europa. Esempi iper pubblicati, apprezzatidalla critica come dal grande pubblico, visitati, partecipati,divenuti cartoline dalla città contemporanea, mete turistiche,monumenti creati grazie anche all'accelerazione storica dellasub-modernità (Augè). Linguaggi criticabili, perfino in certicasi patologici ma sicuramente compresi.
Dall'altra parte l'urbanistica: avvoltanel groviglio normativo, nei regolamenti perequativi, nella codificadi procedure, nelle zonizzazioni. Un'urbanistica arroccata in unlinguaggio di settore, tecnicista, parametrizzata, della quale èdifficile capire il fine; talmente lontana dalla comunità che ècostretta a inventare strumenti normativi per indurre fenomeni dipartecipazione che in passato sarebbero stati, al contrario, dacontenere in intensità. Un' urbanistica strangolata da una politicamatrigna incapace di realizzare una città attraverso una propriaidea di città (Rossi). Un'urbanistica difficile da comprendere eancora più difficile da comunicare.
Viene allora da chiedersi cosa nonabbia funzionato, quali siano le motivazioni di una simile alternanzadi fortune. Se esse siano di natura ontologica, legate alla categoriefondamentali dei fenomeni, oppure se al contrario debbano essereimputate ad una contingenza, ad un aggrovigliamento evolutivo, ad unaerrata declinazione della disciplina in rapporto alle esigenze edalle aspettative della società contemporanea.
La fortuna degli architetti tenderebbein prima analisi a confermare la natura individuale dei fatti urbani(Rossi), la necessità di operare una scelta demiurgica seguendopercorsi e metodi di natura prettamente artistica. Sarebbe peròdifficile da giustificare in questa visione - se non come fortunataeccezione - la grande produzione dell'urbanistica che, a partire dadalla metà del 700 fino al movimento moderno, è stata il luogodelle grandi speranze sociali (Benevolo), delle tecniche e dellescienze che incontrandosi hanno dato vita alle grandi vette delladisciplina.
E' forse più probabile allora chequalcosa non abbia funzionato nel percorso evolutivo, che la stradaimboccata ci stia portando agli esiti evolutivi del pavone chesviluppando la sua bellissima coda si è reso facile vittima deisuoi predatori. I problemi di linguaggio, o meglio di comunicazione,che affliggono l'urbanistica e la rendono distante dall'interessedelle masse, potrebbero essere allora ricondotti ad una nuovaspeciazione che sta interessando la pianificazione, unarisuddivisione dei saperi e delle discipline che tendono aspecializzarsi ed evolversi secondo metodi, approcci e linguaggidifferenti.
Apporti disciplinari parziali, semprepiù perfetti quanto più distanti dall'obiettivo ultimo chedovrebbe essere l'uomo e lo spazio entro il quale vive, distantidall'esperienza sensibile dei non addetti ai lavori. “E' importantesoltanto ciò che può essere visto: dunque la singola strada, lasingola piazza” affermava più di un secolo fa Camillo Sitte(Sitte).
Il superamento dell'illusione moderna eil successivo riconoscimento della complessità dei fenomeni urbanie territoriali ci ha invece spinti ad una nuova separazione perparti, che possano essere sondate attraverso gli strumenti dellescienze pure e poi ricomposte, per addizione, in un corpo unico,mediante procedure codificate divenute esse stesse più importantidi ciò che legano; la ricerca di una “unità facile”, daottenersi attraverso un processo esclusivo e non di una “unitàdifficile” frutto di un processo inclusivo (Venturi).
Ciò che prima era legato da rapportiarmonici ed integrati appare oggi come una sovrapposizione divirtuosismi di singoli strumenti in una sinfonia cacofonica didifficile comprensione. Gli strumenti dell'urbanista, affinati esviluppati scientificamente, divengono in questo quadro il fine e nonil mezzo, assumono lo status di discipline autonome e vengono spessoscambiati dal grande pubblico per l'urbanistica “vera”.
Se la figura dell'architetto è bennota, apprezzata e popolare tanto da essere spesso caricaturizzata(si pensi all'archistar Fuffas di Maurizio Crozza), l'urbanista èqualcuno che stenta a trovare una sua precisa collocazionenell'immaginario collettivo, a cavallo tra fumose visioni di tipopolitico-burocratico o scientifico- accademiche.
Da una partel'urbanista-professionista, incaricato dalla Pubblica Amministrazionedi redigere i piani, visto come un legislatore, un produttore dinorme edilizie, un politico (o un politicizzato) più che come ilprogettista della città e del territorio; dall'altra l'accademico,lo scrittore, lo scienziato impegnato nello studio e nelladefinizione di evoluti sistemi di analisi e di sintesi. Entrambi conlinguaggi comunque distanti dai cittadini, dagli abitanti: il primoadoperante il difficile lessico della norma, della giurisprudenza,delle sentenze e delle leggi sovraordinate che sembrano sempretogliergli lo spazio di manovra e il secondo concentrato, spesso,nell'esercizio di quei virtuosismi strumentali e settoriali che nonsempre conducono all'armonia; comunicatore di parti di un tutto,apprezzabili solo da esperti. Una bipartizione che del resto siriscontra effettivamente nell'urbanistica contemporanea, dove lapratica ordinaria sembra non comunicare abbastanza con il mondoaccademico e viceversa.
Gli urbanisti si comportano insommacome un negoziante che nel vendere un televisore, invece di elogiarela qualità dell'immagine trasmessa, si lanciasse in una dottadisquisizione sulle caratteristiche del silicio con cui sono fatti imicro-chip interni: gli esiti commerciali e l'interessedell'acquirente non sarebbero troppo diversi da quelli che siriscontrano oggi di fronte alle tematiche urbanistiche.
E forse opportuno allora ricondurre ladiscussione urbanistica su temi concreti, sul modello di sviluppodella città del futuro e sulle sue sfide - come di recente ha fattoCino Zucchi intervistato sulle pagine di Repubblica - magarianche sull'utopia (vedi la postilla di Fabrizio Bottini al citatoarticolo), sulle “singole strade e singole piazze” di Sitte,sullo spettro sensibile entro il quale si muovono - sempre enaturalmente “in variante” - gli architetti. Dimostrare come ilrigore e la ricchezza scientifica dei nuovi strumenti di analisipossa incidere, grazie alla sintesi dell'urbanista, sulle persone,sul loro spazio di vita, sulle uguaglianze e differenze di cui parlanel suo ultimo libro Bernardo Secchi (Gregotti, 2013); come l'urbanistica sia il terreno fertile dove fargermogliare le diverse discipline, scientifiche, sociali, ambientalie di qualsiasi altra natura, che ne costituiscono le componenti.
Esiste infine una terza spiegazioneall'incomunicabilità tra abitanti e urbanisti (ma non ci piace) ecioè che gli spazi pubblici, la città, non sia più cosìcentrale nella formazione civica e politica degli abitanti, che nesia solo una componente (Amin 2008); che la sfera pubblica possasvilupparsi in luoghi virtuali (Crang, 2000) e che la nostraesperienza collettiva possa evolvere senza luoghi e senza spaziopubblico, senza urbanisti e, forse, senza architetti.
Riferimenti bibliografici
Amin A. (2008), "Collective Culture andUrban Pubblic Space", in Cities, vol. 12, I.
Augè M. (2004), Rovine e Macerie, ilsenso del tempo, Bollati Boringhieri.
Benevolo L. (1963), Le originidell'Urbanistica moderna, Laterza.
Crang. M. (2000), "Pubblic Space, UrbanSpace and Elettronic Space: Would the Real City please Stand Up?" in Urban Studies, vol. 37.
Gregotti V. (2010), Tre forme diarchitettura mancata, Einaudi.
Gregotti V. (2013) "Città più grandie più ingiuste", Corriere della Sera 03/08/2013

Moroni S. (2013), La città responsabile, Rinnovamento istituzionale e rinascita civica, Carocci editore.
Piccoli C. (2013) "La città ristretta", intervista a Cino Zucchi, la Repubblica 30/06/2013
Rossi A. (1978), L'architettura della città, Città Studi edizioni.

Secchi B. (2000), Prima lezione di urbanistica, Laterza.
Secchi B. (2013), La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza.
Sitte C. (1889), Der Stadtebau nach seinen kunsterlischen Grundsatzen, ed. ital. a cura di Luigi Dodi (1953) L'arte di Costruire la città, Vallardi editore.
Venturi R. (1966), Complessità e contraddizione in architettura, Edizioni Dedalo.
A proposito di ideologie ampiamente divulgate fino a diventare luogo comune: per immergersinel verde non è indispensabile costruirci sopra, lasciando del verdesolo il nome sui cartelli della lottizzazione Le Querce o simili. Da un articolo di giornale, un mondo immaginario

Tutte le volte che si prova a discutere pacatamente di contenimento del consumo di suolo, diciamo in senso laico, realistico, non ideologico o peggio di pura bottega (esiste pure quello) ci si scontra con una montagna di ostacoli. Ce ne sono così tanti e vari che al momento me ne vengono in mente pochissimi, e forse neppure dei principali: dai militantissimi difensori soprattutto del suolo proprio, che di solito grata gratta si rivelano né più né meno che nimbies, in pieno diritto per carità, ma rischiano di ridicolizzare la seria causa ambientale; ai complementari, a volte pure sovrapponibili, interessati al mantenimento di uno status quo naturale, di una sociologia del territorio improvvisata quanto assai legittimata, che dice più o meno: la ricerca del buen retiro in campagna c'è sempre stata, da che mondo è mondo. Naturalmente e rigorosamente senza distinguere fra chi in campagna ci va a fare il campagnolo (come i ricchi veneziani che dopo aver accumulato coi commerci marittimi investivano sì nelle ville, ma anche nella produzione agricola: è quello il modello palladiano integrato), e chi invece ci va solo a stare, come dice il refrain pubblicitario immobiliare, immerso nel verde a tot minuti da dove lavora, studia, ecc. ecc.

Si tratta della nota tesi dei cosiddetti teorici pro-sprawl, in alcuni paesi schierati e armati di argomentazioni parascientifiche come gli americani Joel Kotkin, o lo storico Bruegmann autore del best seller assai apprezzato anche in Europa da palazzinari e clientela di riferimento. In particolare Bruegmann, con argomentazioni piuttosto articolate da professore, quanto basate sul nulla, si lanciava in dissertazioni antropologiche sull'analogia fra la villetta isolata e il masso in mezzo alla savana su cui i nostri antenati dominavano il territorio, aiutandosi così a sfuggire ai predatori e a individuare le prede. Pagato così pegno a certa ideologia sempliciona discendente perversa dalla cosiddetta prairie school, lo storico si avventurava in quello che evidentemente considerava un terreno più sicuro, ovvero la ricerca di un piccolo rifugio lontano dai clamori e dai miasmi della città tradizionale, buttando lì in forma di battuta ma mica tanto, l'immagine di distinti senatori romani (quelli con la toga e la biga, mica quelli di oggi, grillini dissidenti e no) incolonnati il lunedì mattina mentre tornano in città, magari su svincoli lastricati di opus qualcosa.

Ora, è pur vero che sul serio da sempre esiste quella fascia intermedia fra città murata e campagna aperta, dove non necessariamente si svolgono attività agricole a tempo pieno ma capita anche di vedere l'antenato del villino o cottage ottocentesco e contemporaneo. Ma è altrettanto vero che un po' di senso delle proporzioni, se non si vuole straparlare e spararle troppo grosse, è d'obbligo. Cosa diavolo sarebbe, questo suburbio, questa villettopoli originaria, naturale, più o meno inscritta nel Dna umano, da cui lo sprawl americano o la dispersione all'europea o alla padana discendono darwinianamente e fatalmente? A ben vedere poco o nulla, qualche mattone sparpagliato, più o meno un fabbricato o due tirati su a poche centinaia di metri al massimo dai bastioni, senza troppa convinzione, e naturalmente tenendo ben in mente che non si sfugge dalla città, ma solo dal rumore e dalla puzza, coi metodi tecnici a disposizione. In assenza di depuratori, di giovani schiamazzanti della movida e di Suv, i fattori dell'equazione sono un pochino di distanza e i propri piedi. Più che la frontiera individualista di massa sognata da F.L.Wright quando ancora non se ne conoscevano gli effetti sociali e ambientali, sembra il testo della famosa canzoncina Mille Lire al Mese, quando l'onesto borghesuccio sogna di comprarsi “una casettina in periferia”.

Dispersione? Nuove frontiere sul modello tecnoburbio losangelino o trevigiano? Macché, solo la versione originaria di uno di quei quartieri londinesi che già Howard pensava di “raddrizzare” nei difetti già apparenti, spostandoli e integrandoli a un nuovo insediamento sostenibile. Ecco cosa cerca davvero il futuro cliente obbligato dei palazzinari dello sprawl: un quartiere meno scassato e chiassoso della media. Se ne sono costruiti a migliaia di aggeggi così, per tutto il '900, e la gente salvo eccezioni (lì la colpa è di qualche progettista inadeguato, non delle tendenze naturali) ci sta benone: il suo bisogno eventuale di spazi aperti lo sfoga nel modo ovvio, al parco o in una gita fuori porta.

Così non solo inventarsi una specie di diritto costituzionale a sprecare suolo e pompare scarichi nell'aria per arrivarci appare stupido e prevaricante, ma si illuminano della luce del falso storico anche tutte le ricostruzioni di presunti improbabili antenati nobili di serenità suburbana. Buon ultimo, un articolo comparso oggi sul Corriere edizione locale di Milano, in cui il sommo poeta Petrarca nei suoi soggiorni estivi milanesi cercherebbe sollievo dall'afa a Garegnano. Basta dare un'occhiata a dove sta, quel posto, oggi avviticchiato fra gli svincoli delle tangenziali, per capire che abitare lì anziché, diciamo, dentro la cerchia dei navigli, magari non faceva neppure differenza sul versante dell'afa o delle zanzare. Anche oggi passeggiare o pedalare dal centro fin lì non è certo un'impresa sportiva, e il fatto che la città sia arrivata a incrostare di cemento mica tanto bello tutta la zona magari può piacere poco, ma di sicuro è del tutto normale, nella media.

Francesco Petrarca, insomma, proprio come noi, preferiva stare in un posto piuttosto che in un altro, ma tenendosi ben stretta la versione sua contemporanea della Milano efficiente, densa, ricca di relazioni. Solo si scostava un pochino dalle puzze, magari dal fracasso: chiare fresche et dolci acque, certo, ma dal pozzo sotto casa, mica perse a trenta chilometri a dorso di mulo, sognando un'automobile. Insomma, attenzione alla pubblicità immobiliare subliminale, che arriva dalle direzioni più impensate e fa male all'ambiente, al territorio, e all'intelligenza dei lettori.

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