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Dopo 12 anni di lavoro, la Regione Lazio approva il Piano Territoriale Paesaggistico Regionale. Ma con un colpo di scena: il PD (con l'appoggio del centrodestra) azzera il lavoro fatto d'intesa con il Mibac e decide favorevolmente anche sulle 455 osservazioni bocciate dalle Soprintendenze. Tutti i dettagli su carteinregola.

Difendere la bellezza di un sito archeologico dalla pressione edilizia che vorrebbe costruire a pochi metri di distanza. Salvare l’identità di una piazza del centro dall’abbattimento di una palazzina storica, o anche solo dalle finestre anodizzate. Proteggere la vista di un lungomare, il panorama di colline coltivate. E molto altro.
Il Piano Territoriale Paesaggistico Regionale è uno strumento che dovrebbe tutelare uno dei nostri beni più preziosi, il Paesaggio, che l’art. 9 della nostra Costituzione riconosce come patrimonio della Nazione.
Dopo anni di rivii, a pochi giorni dal suo approdo al voto del Consiglio regionale, con un colpo di scena, una settimana fa, il Partito Democratico ha ribaltato tutto, approvando in Commissione, insieme al centrodestra, degli emendamenti che riportano il PTPR a quello adottato nel 2007, azzerando tutto il lavoro di copianificazione con il Mibac, e decidendo che 455 osservazioni bocciate dalle Soprintendenze e approvate dagli uffici regionali, avranno l’esito positivo stabilito dalla Regione. E il centro storico di Roma resterà ancora a lungo escluso dalle tutele paesaggistiche, ma a questo punto forse non è la peggiore notizia…

In questa pagina del sito di carteinregola tutti i dettagli della vicenda, i riferimenti ai documenti, e gli aggiornamenti dell'ultima ora.

Altreconomia, . Associazioni, cittadini ed enti locali chiedono l’istituzione formale della riserva per difendere il sito naturale ricco di storia e bellezza. L’obiettivo è fermare il progetto di un resort di lusso (c.m.c)

Dal promontorio antico della Pillirina, a sud di Siracusa, si scorge il profilo bianco dell’isola di Ortigia. Nei giorni festivi, così come è avvenuto durante tutta la stagione estiva, il suo mare azzurro, che fa parte della zona C dell’Area Marina Protetta del Plemmirio, e le spiagge dorate sormontate dalle imponenti falesie si riempiono ancora di bagnanti. Un luogo di cui la città si è riappropriata e che è ormai entrato negli itinerari turistici. Un sito naturale ricco di storia e bellezza per il quale, da anni, associazioni ambientaliste e cittadini, riuniti sotto la sigla di Sos Siracusa, insieme a Comune e Provincia, chiedono l’istituzione della riserva, con l’obiettivo di fermare il progetto di un resort di lusso proposto dalla società Elemata Maddalena Srl, proprietaria dei terreni compresi nell’area.

La nascita della riserva, a metà luglio scorso, sembrava ormai a un passo, dopo che l’assessore regionale al Territorio e Ambiente, Maurizio Croce, aveva assicurato la firma, entro novembre, del decreto per l’istituzione della riserva della Penisola Maddalena, che va dalla Pillirina fino a Capo Murro di Porco. Era stata perfino già ipotizzata l’assegnazione della gestione al Consorzio Plemmirio, oggi presieduto da Patrizia Maiorca, in modo da creare un blocco unico tra riserva terrestre e area marina protetta.

Un annuncio che aveva entusiasmato associazioni, cittadini, enti locali, finalmente convinti di aver concluso positivamente questa lunghissima battaglia. Un entusiasmo spezzato, però, dieci giorni dopo, dalla pronuncia del Tar di Catania, che, decidendo su una serie di ricorsi che coinvolgevano Comune di Siracusa, Regione Sicilia ed Elemata, il 28 luglio scorso ha riportato la situazione indietro di sei anni, rimettendo tutto in discussione.

I giudici amministrativi, infatti, hanno innanzitutto respinto il ricorso del Comune di Siracusa contro la decisione assunta nel 2015 dal dirigente generale pro tempore dell’assessorato regionale Territorio e Ambiente, Salvatore Giglione, di annullare la cosiddetta “variante della bellezza” perché viziata da profili di illegittimità. Si tratta della variante al PRG che il Comune, nel 2011, aveva approvato per modificare la destinazione della zona da area T1-T2 (“a costruzione turistica”) ad area destinata a parco naturale o a verde agricolo, che vietava qualsiasi edificazione.

Nello specifico, il dirigente contestava al Comune l’assenza di alcuni pareri, in primis quello del Genio Civile, e la mancanza della procedura di VAS (Valutazione Ambientale Strategica). L’ente comunale aveva allora impugnato la decisione sostenendo invece che, in base a quanto stabilito dalla legge e ribadito da una nota dello stesso assessorato nel 2011, sia il parere sia la procedura mancanti non fossero necessarie, poiché la variante non prevedeva alcuna forma di costruzione e, dunque, alcun aumento del carico urbanistico.

La sentenza del 28 luglio scorso, dunque, cancella la variante e riporta l’area alla precedente destinazione T1-T2. E non è tutto. Il tribunale amministrativo ha anche annullato sia il Piano Paesaggistico della provincia di Siracusa, adottato nel 2012, che includeva i vincoli di salvaguardia della zona, sia la modifica al piano parchi e riserve che l’assessorato Territorio e Ambiente aveva adottato per inserirvi l’area della Penisola Maddalena. In particolare, su quest’ultimo atto è stato ravvisato un vizio di procedura riguardante la cosiddetta “attività di concertazione”, prevista dall’articolo 22 della legge quadro sulle aree protette (la 394 del 1991).

«A Mantova ci si è spesso concentrati sulle letterature provenienti da zone decentrate. È uno dei vanti della rassegna che ancora la distingue dalle tante iniziative che si moltiplicano in Italia.». la Repubblica, 7 settembre 2017 (c.m.c)

Via dall’autismo corale, invoca il poeta e paesologo Franco Arminio. E chissà se l’invito a fare comunità come in una piazza di paese, seduti intorno alla statua del santo patrono o in un bar con i tavolini in formica può proporsi anche a Mantova, dove ieri si è aperta la ventunesima edizione del Festivaletteratura. Festival internazionale, che quest’anno insieme a tante stelle del firmamento globale dedica uno spazio corposo al locale, con un percorso sugli sguardi che vengono dai margini, dalle aree interne, dai borghi a rischio di abbandono. Quelli che Arminio racconta dalla sua Bisaccia, nell’Irpinia orientale, e che raduna a fine agosto ad Aliano, in Basilicata, dove organizza “La luna e i calanchi”.A Mantova ci si è spesso concentrati sulle letterature provenienti da zone decentrate. È uno dei vanti della rassegna che ancora la distingue dalle tante iniziative che si moltiplicano in Italia. Stavolta non sono le periferie il punto d’osservazione, quanto il non-urbano, i luoghi dove, nonostante lo spopolamento, è molto anche Quel che resta, come recita il titolo dell’ultimo saggio di Vito Teti (Donzelli), l’antropologo che da un decennio studia il fenomeno, strappandolo alle letture estetizzanti o di sfruttamento turistico.

Sono borghi come Tresigallo in provincia di Ferrara, dove Diego Marani è nato e ambienta diversi suoi romanzi, compreso l’ultimo, Vita di Nullo (La nave di Teseo). O come Tavanasa, nello svizzero cantone dei Grigioni, narrato nei libri di Arno Camenisch, frizzanti pastiche che mescolano il tedesco e il romancio, nella sua variante sursilvana, una delle cinque con le quali l’antica lingua neolatina sopravvive nei Grigioni ( Dietro la stazione, Ultima sera e La cura sono i titoli pubblicati da Keller, Sez Ner da Casagrande, tutti affidati alla meticolosa e gioiosa traduzione di Roberta Gado).

Percorsi diversi, ma assimilati non solo dalla marginalità dei luoghi, anche dal tessuto umano che quei luoghi anima. Il più estroverso è Arminio. La sua raccolta di poesie, Cedi la strada agli alberi (Chiarelettere), è uscita a febbraio, ha collezionato 6 edizioni e 15 mila copie, un successo travolgente per un libro in versi. Arminio ha partecipato a duecento incontri, dalla Puglia al Veneto. In piazza raduna cento, anche trecento persone. Non sono presentazioni, li chiama «riti collettivi».

Ad Agugliaro, provincia di Vicenza, sotto il portico di una villa veneta ha letto i suoi versi, poi, insofferente delle formalità, ha chiamato quattro persone del pubblico a tradurre le poesie ognuno nel proprio dialetto. Quindi ha proposto di cantare Azzurro di Adriano Celentano e ha chiuso con Bella ciao. «Raccolgo il bisogno di stare insieme, di stare bene, di stringersi la mano», dice facendo squillare le parole. «Da noi la politica non viene più nelle piazze, ci pensano i poeti a soddisfare la fame di esporre i drammi e le speranze. La poesia non funziona da sola, altrimenti è iperletteratura, né funziona da sola la politica. Fanno la spola l’una e l’altra». E l’abbandono? «C’è. Ma chi rimane manifesta un naturale senso di comunità che nelle città si è consumato, sostituito da un autismo corale».

A Mantova Arminio dialoga domani con il critico Antonio Prete e sabato terrà un monologo sui territori resilienti. Di luoghi marginali parla in fondo Paolo Cognetti, vincitore dello Strega con Le otto montagne e anche lui presente a Mantova (sabato). Come Donatella di Pietrantonio, che con L’Arminuta è finalista al Campiello e che è nata e vive a Penne, in provincia di Teramo (stasera è a confronto con Michela Murgia). A Mantova anche Claudio Morandini (stasera è insieme ad Arno Camenisch e Marco Malvaldi) e Davide Longo, che dialoga sabato con Marani. Marani è un funzionario europeo, vive a Bruxelles, ma i suoi materiali narrativi li recupera dai seimila abitanti di Tresigallo. «Erano seimila anche quando ero ragazzino, molti sono andati via e ne sono subentrati altrettanti che così si sono avvicinati al capoluogo. Per il resto tutto si va spegnendo», spiega. I suoi accenti sono più rassegnati: «Avevamo le fabbriche e i negozi. Ora si compra al centro commerciale, anche se il fine settimana in molti vanno al bar a vedere le partite ». Il bar, con la boiserie scheggiata e le muffe che tinteggiano le pareti, è anche il fulcro di Vita di Nullo, scritto in un italiano denso e colto, assai distante dal parlato che rimbalza fra quei tavolini. Marani è un cultore di lingue. Tempo fa allestì l’europanto, un idioma immaginario che ne metteva insieme tanti reali e ora si sente orgoglioso di «conservare nella sua purezza il dialetto di Tresigallo, ora parlato solo dai vecchi». Di un’altra cosa va fiero: della capacità di adattarsi che vigeva in paese, «di capire anche le persone più lontane da sé, con le quali, nel piccolo spazio dove le compagnie non si potevano scegliere, s’imparava a mediare ». Che cosa resta? «Poco, quel tessuto sociale si è sfaldato».

Non resta molto neanche a Tavanasa, in mezzo alle montagne dei Grigioni, dove, stando al computo dei ragazzini protagonisti di Dietro la stazione, gli abitanti sono quarantadue o quarantatré. L’Ultima sera raccontata da Camenisch è quella dell’Helvezia, il bar della zia, di nuovo un bar. Dal giorno dopo avrebbe chiuso per sempre. Ed è l’occasione per vedersi tutti e per Camenisch, classe 1978, di sfoggiare una scrittura diversa da quella di Marani, fluida, smagliante, niente virgolette, solo discorso indiretto libero. Tanta, vitale oralità. «È il sound del romancio », dice, una miscela che scompone e ricompone elementi. «Ora abito poco distante da Berna. Ho sempre vissuto sui bordi linguistici di francese e tedesco. E a Tavanasa c’è chi parla il romancio e chi l’italiano. È un microcosmo in cui la polifonia risalta ». Guai dunque, il piccolo luogo, a darlo per perso. Basta un ridente incrocio di lingue e non sarà ridotto a un reperto.

«La luna e i calanchi. Il festival della paesologia appena terminato ha il dono di fare uscire la gente dal web. È l’incontro dei «difensori dei luoghi persi» per un nuovo umanesimo». il manifesto, 30 agosto 2017 (c.m.c.)

Chi viene ad Aliano ha bisogno di festa, di cerimonia, di canto, vuole sentire il rumore dei propri passi riecheggiare nelle strade di polvere, scalare i calanchi, camminare in lungo in largo il piccolo paese, condividere un’alba, un tramonto, tirar tardi e vivere in una dimensione d’intimità rurale e comunitaria in una terra che è soprattutto paesaggio.

Ma ad Aliano si viene anche per ritrovare amici vecchi e nuovi, come Andrea Semplici, un reporter navigato e grande viaggiatore kapucinskiano, il quale mi ha detto nel corso di una delle nostre passeggiate del direttore artistico de «La luna e i calanchi» (il festival della paesologia si è tenuto nel paese lucano dal 22 al 25 agosto) Franco Arminio: «Ha il dono di fare uscire la gente dal web».

Che questo piccolo festival paesologico voglia mettere insieme poesia e politica, infatti, è solo un esperimento riuscito, una risposta necessaria a quella che ormai da qualche tempo mi diverto a definire «la poetica del social solo», cioè il rito autoreferenziale che allontana dalla vita comunitaria e avvicina solo al proprio egotismo, o una risposta orizzontale ai tanti festival seriali della Società dello Spettacolo, dove lo scrittore è ormai un innocuo entertainer arrivato solo per pubblicizzare il prodotto.

La cosa incredibile di Arminio è di esser riuscito a crearlo dal basso e da una zona dell’Italia periferica, Bisaccia, da un sud del sud, con fierezza e determinazione, e aver opposto il corporale all’artificiale come aveva capito uno scrittore che il capitalismo selvaggio, economico e digitale, l’aveva visto con molto anticipo, Paolo Volponi, anche lui un selvatico dell’Appennino, poeta e politico come Rocco Scotellaro, e come Osvaldo Licini, comunista lirico e pittore ribelle delle Amalassunte.

Crearlo e moltiplicarlo, perché ormai questo ritrovo collettivo è la punta dell’iceberg di una costellazione di iniziative che si chiamano «Rocciamorgia» nel Molise di mezzo, «Giardini delle Esperidi» a Zagarise in Calabria, e che si fa persino a Piero, frazione di Curiglia con Monteviasco, 16 abitanti e l’assenza di strade per arrivarci, in provincia di Varese, ma che continua tutto l’anno alla «Casa della paesologia» di Trevico.

Il festival è come una navigazione su internet dal vero, una specie di mappa interattiva, vasi comunicanti e parlatori, concerti, letture ad alta voce all’alba di poeti che resistono al sonno e sono acclamati dal pubblico caloroso che li ascolta con rapimento nel palcoscenico vivente di Piazza Panevino, cuore del paese (quest’anno Adelelmo Ruggieri, Maria Grazia Calandrone, tra gli altri).

Mi rendo conto di non essere un buon spettatore, mi agito di continuo e scappo, onnivoro vorrei vedere tutto, andare dove le cose accadono, e qui sono tante e in contemporanea per un disordine prestabilito, ma soprattutto fare quello al quale molti di noi viaggiatori tendiamo, perdere tempo.

Quando arrivo, stanno già succedendo tantissime cose, venendo quassù ho visto all’entrata del paese le molte tende dei ragazzi giunti da ogni parte d’Italia, perché Aliano va espugnato, e per arrivarci da Foggia devi perderti su strade deserte e fantasmatiche, lunghi rettilinei d’asfalto, prima di salire.

Già raggiungerlo è una forma d’insubordinazione geografica. Alloggio sotto il borgo storico originario, dove visse il confino Carlo Levi in una casetta da dove vedeva «il burrone; davanti, senza che nulla si frapponesse allo sguardo, l’infinita distesa delle argille aride, senza un segno di vita umana, ondulanti nel sole a perdita d’occhio, fin dove, lontanissime, parevano sciogliersi nel cielo bianco», come scriveva in Cristo si è fermato ad Eboli (Aliano nel libro è chiamato Gagliano).

Non è un caso che il festival della paesologia si svolga qui in questo luogo fortemente simbolico. La casa dove lo scrittore torinese soggiornò tra il 1935 e il 1936 adesso è vuota, non ci sono oggetti, suppellettili, arredi, ricordi e, forse anche per questo, la sua presenza qui si sente ancora più forte.

Lungo la strada che porta al paese alto, nel punto dove c’è una statua monumentale di padre Pio, il cantastorie sta seduto su una sedia sopra il muretto bianco, sotto un albero di ulivo dove ha appoggiato il mandolino, canta di emigrazione e di miseria quando passo, accompagnandosi con la chitarra.

Nei tre baretti ragazzi seduti ai tavoli insieme ai vecchi del paese, ma di questo incontro non è dato di sapere, forse gli abitanti di Aliano, quelli che qui sfidano i tenebrosi autunni e gli inverni infiniti, gli eroi dell’Italia interna, i difensori dei luoghi persi, comprese le 40 famiglie di marocchini invisibili, che sembrano addirittura essersi nascosti in questi giorni, guardano tutto come un bizzarro spettacolo vivente di cui non riescono mai a diventare protagonisti, comparse, e forse neanche spettatori.

Ma Aliano non è solo rappresentazione en plein air, performance di rara intensità espressiva come quelle di Amalia Franco, attrice con una grande capacità metamorfica in «Lasciare andare con grazia», un corpo a corpo con il doppio, tante cose accadono «Verso le dieci», o «verso le undici», tanto per dare un’idea della provvisorietà del tempo e dei luoghi, che possono cambiare, altre succedono all’improvviso fuori programma dove meno te lo aspetti, conversazioni filosofiche, o piccoli convegni sul futuro del Mezzogiorno, quello dell’Italia interna, le politiche di integrazione e il tema dei migranti.

Carmine Nardone che parla di Manlio Rossi Doria, l’economista e politico di cui fu collaboratore, diventa racconto concreto del rapporto sadomasochistico tra Nord e Sud, l’originalità territoriale contro quella che chiama «l’imitazione delle aree forti», che crea dipendenza, la non separazione tra l’agire tecnico e quello politico.

Forte l'intervento dello storico Sandro Triulzi, «la migrazione è come il mondo sta cambiando» esordisce, fa collegamenti di date tra il 3 ottobre 2013, quella del naufragio di Lampedusa dove morirono soprattutto eritrei, e il 3 ottobre 1935 quando l’esercito italiano sotto la guida del generale Emilio De Bono invase l’Eritrea, che salda due storie lontane, lo stessa data simbolica della giornata mondiale della memoria e dell’accoglienza.

Ma il momento politico più intenso si svolge il penultimo giorno all’Auditorium dei calanchi, i «Parlamenti comunitari», un flusso ininterrotto di esperienze di conservazione di umanità e paesaggio, civiltà e cultura dell’accoglienza, cercando di praticare un nuovo umanesimo, tra memoria del passato e innovazioni del presente.

Un’altra cosa bizzarra mi è capitata qui ad Aliano. In Piazza Panevino, verso il fondo, appoggiato sopra un piccolo tavolino coperto da un foulard colorato, c’era un contenitore di acciaio con scritto «Pesca la risposta». Prima bisognava mettere una monetina in un vaso, poi domandarsi qualcosa, di se stessi o del mondo, qualcosa che avesse avuto a che fare con un destino, ho immaginato, il gioco consisteva in questo.

Devo aver chiesto che ne sarà di questo mondo precario, se le nostre azioni, come quelle di questi giorni, produrranno o meno senso, perché questa crisi è un’occasione, o se, invece, servono solo il nostro bisogno di consolazione a portarci qui in questo cerimoniale. Quando ho estratto il foglietto, e l’ho aperto, spiegandolo, c’era scritta questa frase sibillina : «Puoi restare nel non sapere? La fiducia nell’originario NON SO. Lì la risposta». Mi è sembrato un incitamento.

«Ci sono luoghi che hanno resistito alla generale evanescenza, luoghi dove si capisce che il romanzo lo scrive la natura, noi mettiamo solo qualche virgola» Franco Arminio

L’ultima alba è ancora sui calanchi, li raggiungiamo che è ancora notte ai piedi del paese in questo paesaggio lucano un po’ desertico, sabbioso, che ricorda quello mediorientale. Un groviglio di montagne scavate si stende all’orizzonte, preceduto da un oliveto molto esteso, una macchia folta di alberi. Arriviamo camminando a piccoli gruppi sulla strada sterrata, ai lati queste montagnette chiare che sembrano di sabbia, con in cima piccoli alberi esili. Si ascolta in silenzio mentre albeggia e il sole spunta lentamente emergendo dalle vette sfrangiate e argillose dei calanchi, illuminando il nostro teatro all’aperto.

È proprio vero, come ha scritto sul pieghevole francescano con il programma Franco Arminio che «ci sono luoghi che hanno resistito alla generale evanescenza, luoghi dove si capisce che il romanzo lo scrive la natura, noi mettiamo solo qualche virgola».

Il Faro di Patresi, santuario della natura e della cultura, è uno dei simboli dell’isola dell'Elba, ma non tutti ne hanno consapevolezza. Articolo di Riccardo Chiari e intervista a Umberto Mazzantini. il manifesto, 13 agosto 2017 (c.m.c)

ECOINCUBO ALL'ELBA:
IL PIANO DELLA DIFESA

PER IL FARO DI PRATESI
di Riccardo Chiari

«Parco nazionale dell'arcipelago toscano. Il progetto di trasformazione in albergo di lusso dell’ex struttura militare che sorge nell’area protetta di Punta della Polveraia. Legambiente e Italia Nostra denunciano: "Opera in contrasto con gli strumenti urbanistici del comune di Marciana e con i vincoli paesaggistici regionali e del Parco. Come è stato possibile ignorarli?"»

Nel mare sottostante, all’estremità nord-occidentale dell’Isola d’Elba, ci passano anche le balene. Siamo nel cuore del Santuario dei mammiferi marini Pelagos, area naturale protetta di interesse internazionale, e anche la terraferma che circonda Punta della Polveraia fa parte del Parco dell’Arcipelago toscano. Un piccolo angolo di paradiso, dominato da quello che per gli elbani è un simbolo, il Faro di Patresi. Diventato ora un casus belli fra associazioni ambientaliste e comunità locale da lato, e una società privata che vuole trasformare la struttura ex militare in un albergo di lusso, con piscina, ristorante e lounge bar. Un «eco-mostriciattolo», così come Legambiente e Italia Nostra hanno ribattezzato il progetto di trasformazione del faro.

Principale responsabile dello stato delle cose è Difesa Servizi spa, la società in house del ministero della Difesa, che nel giugno dello scorso anno ha avviato le procedure per l’affidamento in concessione di alcuni fari della Marina Militare. Tra questi c’è appunto anche quello di Punta Polveraia, a Patresi, nel territorio comunale di Marciana.

Il disciplinare di gara prescriveva che le offerte dovevano prevedere «un intervento di elevato valore culturale legato, ad esempio, alla ricerca scientifica e/o ambientale e/o alla didattica, soprattutto in relazione al contesto storico, militare e paesaggistico, nonché una gestione privatistica che garantisca la fruibilità e l’accessibilità del faro e delle aree esterne di pertinenza: permanente o temporanea, in determinati periodi o fasce orarie, in occasione di eventi o attività culturali, ricreative, sportive, sociali e di scoperta del territorio che tengano conto del contesto e dei fabbisogni locali».

A conti fatti invece, denunciano le combattive sezioni di Legambiente e Italia Nostra dell’Arcipelago toscano, è stato premiato un intervento a forte impatto ambientale e paesaggistico: «Si è preferito un progetto che prevede nel Faro un esercizio ricettivo/ristorativo e una sostanziale privatizzazione della struttura. Per un pugno di euro in più le tematiche ambientali, sociali, paesaggistiche e storiche di un luogo unico sono passate in secondo piano».

Di fronte alle puntuali osservazioni ambientaliste, la reazione della società vincitrice del bando, la Alfa Promoter srl, non si è fatta attendere: «La gara per il faro di Punta Polveraia è stata vinta da un’associazione di imprese elbane e livornesi, il cui obiettivo dichiarato è quello di far sì che anche il faro di Patresi diventi un posto magico, suscettibile di creare valore indotto all’intero territorio elbano». A seguire una puntualizzazione urbanistica. «Il progetto della associazione vincitrice del bando di gara ha dichiaratamente ricalcato quello del Faro di Capo Spartivento, considerato un’eccellenza a livello mondiale e premiato dai vertici della Marina Militare». Infine un’osservazione velenosa, con un’allusione a un possibile contatto tra le associazioni ambientaliste e la società arrivata seconda alla gara.

Va da sè che Legambiente e Italia Nostra hanno rinviato le accuse al mittente: «Abbiamo solo dato un giudizio dal punto di vista ambientale e paesaggistico dell’insostenibile progetto presentato, che ora ci si dice copiato da uno presentato in Sardegna. Come se questo consentisse di trasformare il Faro di Patresi in un eco mostriciattolo». Poi, nello specifico: «Quello di cui siamo sicuri è che quanto proposto per trasformare il Faro di Punta Polveraia in qualcos’altro è in contrasto con gli strumenti urbanistici del Comune di Marciana, col piano del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano, con i vincoli paesaggistici ricadenti sull’area, con il piano paesaggistico della Regione Toscana, e non si capisce come sia stato possibile che tutto questo sia stato ignorato».

A dar man forte agli ambientalisti è arrivata infine la comunità locale: «L’insieme sistematico di opere e interventi edilizi proposte – ha denunciato l’associazione Amici di Patresi e Colle d’Orano – sono univocamente preordinate alla formazione di una struttura solo evocativamente riconducibile alla struttura esistente, e sono manifestamente distanti rispetto ad una soluzione di minore impatto. Si tratta viceversa di una soluzione fortemente impattante, concepita per massimizzare le potenzialità di fruizione unicamente in chiave turistica». La partita resta aperta, ma il territorio ha già dato il suo giudizio. Negativo.

ECOMOSTRI ALL'ISOLA D'ELBA:
«È L'ABBAGLIO
ECONOMICO DEL PD .
MA GLI ELBANI ORA HANNO CAPITO»
intervista a Umberto Mazzantini


«Questa storia del Faro di Patresi mi fa pensare che il nostro Stato continua a non aver coscienza della storia, oltre che della natura. Se poi si pensa che lì sotto passano le balene, questo mi fa arrabbiare ancora di più»

Padre nobile dell’ambientalismo elbano, Umberto Mazzantini va subito al cuore del problema: «Questa storia del Faro di Patresi mi fa pensare che il nostro Stato continua a non aver coscienza della storia, oltre che della natura. Non ho preclusioni, ricchezze del genere possono essere gestite anche insieme ai privati, come sta facendo il governo di sinistra in Portogallo. Ma con paletti ben precisi, ad esempio senza toccarne la struttura, riportandola alle sue origini, al suo splendore. Se poi si pensa che lì sotto passano le balene, questo mi fa arrabbiare ancora di più».

Legambiente e Italia Nostra hanno definito il progetto come un eco-mostriciattolo. Concorda?

Mi torna come definizione. Prima di tutto perché prevede lo sbancamento del terreno, con una piscina che va a finire direttamente nel territorio del parco. In aggiunta il progetto, almeno nei rendering presentati al ministero della Difesa, contempla una completa trasformazione del profilo del faro. Mi sembra il minimo definirlo eco-mostriciattolo.

Contro il progetto hanno preso posizione anche le comunità locali; è un bel passo avanti rispetto a un passato anche recente, non le sembra?

Non succede sempre, ma almeno all’Elba sta accadendo sempre più spesso. L’associazione Amici di Patresi e Colle d’Orano è poi molto trasversale, ne fanno parte residenti dell’isola e vacanzieri, commercianti e albergatori. Dunque è un bene che si siano fatti sentire, con forza, verso l’amministrazione comunale. Del resto è successa la stessa cosa a Marciana Marina con la questione del nuovo porto: noi l’abbiamo definito senza mezzi termini un ecomostro, e poi è nato un comitato autonomo di cittadini che ha sfidato il vecchio sindaco alle elezioni. Vincendole, con una lista chiamata da tutti «anti-porto».

C’è una morale?
Sì, in questi ultimi trent’anni gli albani hanno capito, poco a poco, che la coscienza ambientale è importante. Inoltre, in questa specifica vicenda, c’è da considerare un aspetto altrettanto importante: il Faro di Patresi è uno dei simboli dell’isola e in particolare di tutti i residenti nel comprensorio di Marciana. Qui scattano altre dinamiche, di difesa di un patrimonio comune, anche storico oltre che ambientale.

E il ruolo delle amministrazioni pubbliche locali?
Purtroppo abbiamo spesso a che fare con una imprenditoria abbastanza spregiudicata, che cerca di forzare la mano. Però oggi all’Elba si discute di ambiente, nei bar, al mercato, nelle piazze. E le amministrazioni locali, pure di centrodestra in sette casi su otto, se ne sono accorte e cercano il confronto. Si tratta di una svolta che solo pochi anni fa sembrava impensabile.

Una vittoria di civiltà anche per le associazioni ambientaliste?
Certo, aiutata anche dal fatto che verso di noi, che eravamo piuttosto aggressivi, prima le amministrazioni andavano allo scontro diretto. E si facevano male. Alla fine l’hanno capita. Aiutate anche dai loro concittadini, che non li votavano più di fronte a progetti urbanistici davvero discutibili. Ora poi c’è stata anche la rinascita di Italia Nostra sull’isola, e questo è un aiuto ulteriore.

A proposito di progetti invasivi, nella vicina Val di Cornia, al di là del braccio di mare che separa l’Elba dalla terraferma, continuano ad essere molto gettonati. Le ultime notizie raccontano un rinnovato “dinamismo” del cemento, come se il turismo potesse sostituire l’industria…
Se pensano ai modelli degli anni ’60, ’70, e ’80, sbagliano di grosso. Un abbaglio economico, prima ancora che ambientale. Purtroppo all’interno del Pd c’è una deriva che va in questo senso, avvertibile anche nelle politiche ambientali regionali. La Toscana una volta era al vertice, ora non lo è più. Anzi sta finendo in coda.

«È una fatica quella di accudire il restare che però dà frutti insperati, una sosta fertile dentro il continuo dileguare. Restare è un verbo inscritto nel futuro». doppiozero, 14 luglio 2017 (c.m.c)


Vito Teti, Quel che resta. L’Italia dei paesi fra abbandoni e ritorni, editore Donzelli.

Partire dalla fine, è il punto di avvio del libro fortemente empatico di Vito Teti, Quel che resta. L’Italia dei paesi fra abbandoni e ritorni, con l’introduzione di Claudio Magris, editore Donzelli. Partire, non semplicemente fermarsi a “quel che resta”, perché l’abbandono mette in questione la struttura stessa del mondo che si lascia (aggiungerei anche quello che si va a cercare) mette in tensione le relazioni, cambia la morfologia dell’abitare, il senso stesso dei luoghi (come recita il suo libro precedente, divenuto ormai un classico).

Mentre ciò che appartiene al tempo trascorso può essere invece riscattato, oltre le cesure, e le discontinuità del tempo come un mondo carsico di potenzialità sì sommerse ma, al tempo stesso, capaci di esprimere potenzialità diverse, incompiute eppure “suscettibili di future realizzazioni”.

Ecco, allora, filtrare, al di sotto della trama dolente del libro, fatta di vuoti, schegge e ombre di un abitare divenuto buio (riecheggiano, nelle pagine accorate, voci, suoni ormai inerti di tanti paesi, un Sud apparentemente perduto) gli interrogativi, i dubbi di quella sorta di alter-ego che per l’autore è Corrado Alvaro: se sia possibile cioè pensare tracce, scarti, frammenti, rovine, paesaggi come una geografia a tutti gli effetti del presente. Come se quelle ombre, gravate dall’utopia disincantata che si portano dentro, non fossero in fondo – come afferma Claudio Magris nella densa introduzione – una forma malinconica ma insieme agguerrita della speranza.

Dove la nostalgia ha dimora proprio in quanto non è necessariamente desiderio di un’eternità immobile ma, e qui Teti si richiama alle parole di Jean-Bernard Pontalis, “di nascite sempre nuove” perché desiderare un futuro dipinto con i colori della nostalgia vuol dire immaginare in sé un futuro diverso da quello che si è realizzato.

Nostalgia che rimanda a una rinominazione del tempo. A una concezione antica, con cui le comunità tradizionali hanno convissuto a lungo, fatta di un futuro che talvolta può diventare peggiore del presente. La stessa indecifrabilità oggi che investe il tempo: l’orizzonte opaco di ciò che ci riserva il domani e di cui forse non si sa nemmeno bene, quel che di noi “resterà”. Riflettendo su questo snodo – a mio parere cruciale – mi è tornato in mente un passaggio di Zygmund Bauman: quando osserva che il futuro non è più il luogo sicuro e promettente verso cui rivolgere le nostre speranze e al contrario viviamo con l’impressione crescente di perdere il controllo sulle nostre vite, ridotti come siamo a pedine mosse avanti e indietro sullo scacchiere “da giocatori sconosciuti, indifferenti ai nostri bisogni, se non apertamente ostili e crudeli, pronti a sacrificarci nel perseguimento dei loro obiettivi (in La grande regressione a c. di H. Geiselberger, Feltrinelli).

Quel che resta insomma, è l’invito sommesso e tenace del pensiero antropologico più avvertito – tra cui la voce stessa di Pietro Clemente – «è ancora moltissimo». È una fatica quella di accudire il restare che però dà frutti insperati, una sosta fertile dentro il continuo dileguare, un suggerimento al bisogno che si avverte in tanti (e qui penso a Gilles Clément) di cambiare leggendo, attingendo all’indietro e in avanti nel tempo. A partire da ciò che resta appunto. Perché i rimasti, e con loro le cose che restano, (dietro ai luoghi ci sono gli uomini e le donne) appartengono al più vasto mondo quanto quelli che sono in viaggio: alla stregua dei ruderi e delle reliquie che testimoniano di un mondo esploso, “di un corpo frantumato”, quello dei paesi vuoti, – ci mostra Teti – fragili come le sparute comunità che ancora li abitano, le cui schegge, però, si sono spostate in mille luoghi.

Ecco, allora, presi per mano dall’autore, si capisce in fondo, che è importante rovesciare il punto di osservazione, svelare il gioco ingannevole di un movimento solo apparentemente fermo. Così che spetta ai rimasti oggi, in fondo, “assumere la missione” di essere i nuovi viaggiatori, i nuovi esploratori. Dove i missionari non arrivano più da fuori. Da fuori arrivano non quelli che viaggiano ma quelli che scappano, portando con sé tutto “quel che resta” del loro mondo andato in fiamme: come ci insegna la lezione di Riace e del suo sindaco Domenico Lucano che, in uno scambio ininterrotto con lo stesso Vito Teti, ha pensato di accogliere nei vuoti del suo paese in abbandono i profughi dal Mediterraneo in guerra e che un regista come Wim Wenders ha rappresentato nel filmato Il volo.

L’ombra allora che “quel che resta” porta con sé è il lato antico e nuovo che bisogna conoscere, indagare, avverte l’autore. Perché un mondo che non sa fare i conti con ciò che rischia di sparire o che non c’è più, che poi è la morte stessa, forse si avvicina alla sua fine, o è già morto. Restare (o tornare, che è la stessa cosa) è un verbo inscritto nel futuro, come ci mostrano le ultime pagine, intensissime, del libro in cui si dà voce alle parole di una suora, Chiara, che ha scelto con le altre consorelle di riabitare un luogo abbandonato della Calabria, Scigliano.

«Restare – è il suo monito – fa paura perché guardando i paesi disabitati ci riscopriamo frammentati dentro. Ci guardiamo negli specchi delle case vuote, dalle finestre cadenti da cui nessuno si affaccerà più. Ma è proprio di lì che tutto può ricominciare. Perché nel frammento di ciò siamo si ricama l’orma di un tutto che passa attraverso le trame delle piccole cose dei piccoli e dimenticati segni di vita che ci circondano».

Dalle inadempienze regionali nella formazione di piani paesaggistici, alla mancanza di una seria legge sul consumo di suolo, alla commercializzazione dei Parchi Nazionali. il Fatto Quotidiano, 15 marzo 2017 (p.d.)

Ieri il ministero della Cultura ha celebrato la prima Festa del Paesaggio. Dario Franceschini doveva rivolgere qualche annuncio importante al Paese? Per esempio il completamento della serie di piani paesaggistici regionali? Nemmeno per sogno. Poteva al più comunicare la firma di quello recente del Piemonte e però avrebbe dovuto ammettere che in oltre tre anni di governo i piani paesaggistici approvati sono appena tre, Piemonte, Puglia, Toscana, più le coste della Sardegna...
Pensavamo: sta a vedere che questo ministro, frenetico nel festeggiare, annuncia finalmente l’emanazione di un decreto-legge, fra i tanti, per porre un freno immediato al consumo di suolo visto che il relativo disegno di legge dorme i sonni più grevi... Neanche per sbaglio. E allora? No, ha voluto “sensibilizzare gli italiani ai loro tanti bei paesaggi” con iniziative le più ovvie: visite a musei, magari a collezioni di quadri sui paesaggi (intatti) dei secoli scorsi, videoproiezioni (del Bello, non del Brutto, ovviamente), ecc. Tante in Campania, evitando con cura di parlare della parte ormai sfigurata per sempre. Va ricordato che, pur essendo l’edilizia nazionale in crisi almeno dal 2008, secondo i dati ufficiali dell’Ispra, il consumo di suoli liberi, per lo più agricoli o boschivi, è proseguito con pazza allegria. Sono stati “impermeabilizzati” in media 35 ettari al giorno, altre decine di migliaia di ettari quindi in regioni che hanno già un 10% di suolo compromesso stabilmente, e cioè Lombardia, Veneto e Campania, ma Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Puglia, Piemonte, Toscana e Marche sono appena dietro. Consumo di suolo significa consumo di paesaggi, erosione massiccia, potenziamento delle alluvioni per l’acqua piovana che non filtra più in falda, e altro. Un po’di rossore no? Napoli, per ragioni antiche, è “impermeabilizzata” o sigillata al 64%, per Stendhal “la città indiscutibilmente la più bella del mondo, con tanta campagna dentro”... In provincia di Napoli il Comune di Casavatore è coperto quasi al 90% dalla coltre di cemento+asfalto. Ministro Franceschini, perché non celebra qui la Festa del Paesaggio facendola diventare, come è più giusto, la Festa al Paesaggio?
Un altro vanto paesaggistico del governo Renzi e di quello Gentiloni che lo ricalca, avendo mantenuto i due ministri responsabili del paesaggio (il sullodato Franceschini e il latitante Gianluca Galletti all’Ambiente), è certamente la nuova legge sulle aree protette presentata dal senatore Massimo Caleo (Pd) e già approvata al Senato, con la quale si stravolge la bella e positiva legge Cederna-Ceruti, la n. 394 del 1991 che ha agevolato la creazione di tanti Parchi Nazionali, tanti coi governi Ciampi (ministro Valdo Spini) e Dini (ministro Paolo Baratta). Il partito erede, in teoria, di quella tradizione ora non vuole più presidenti che siano esperti o scienziati, né direttori di stacco nazionale (li vuole nominati dai cda locali), dà la possibilità di finanziarsi con royalties ricavate dai concessionari di trivellazioni petrolifere, cave, sciovie, ecc. Commercializzatevi e sarete felici! E la legge Caleo – che Ermete Realacci già presidente di Legambiente ora a capo della commissione Ambiente alla Camera aveva giurato di non far passare nel testo (obbrobrioso) del Senato – da oggi sostanzialmente integra veleggia già verso l’aula di Montecitorio dove approderà il 27 marzo. Una vergogna nazionale. E pensare che eravamo riusciti a far passare i Parchi Nazionali da 4 a 23 con un risultato considerato “rivoluzionario”. Difatti oggi viene barbaramente ridimensionato dalla reazione. Con lo Stelvio diviso in tre pezzi. Un “modello”, secondo il giocondo Galletti.
Ieri il premier Paolo Gentiloni, in gioventù direttore di Nuova Ecologia (che non risponde ad alcun appello ecologista come quello per i Parchi), ha riportato a galla “Casa Italia”, quel non ben identificato calderone nel quale Matteo Renzi, dopo il sisma di Amatrice, aveva mescolato sicurezza antisismica e idrogeologica, periferie, ricostruzione, ecc. “Ci vorranno decenni”, ha detto Gentiloni. Anche di più con le idee così confuse. Mentre per la sicurezza anti-sismica gli esperti le hanno chiare: concentrare le risorse sulla fascia rossovivo delle zone ad alta pericolosità, e cioè la punta messinese e trapanese della Sicilia, tutta la dorsale appenninica dalla Calabria fino alla Marca urbinate, più l’alto Friuli.
Ascoltando la voce non degli archi star ma di scienziati come Roberto De Marco, direttore per anni del Servizio Sismico Nazionale silurato insieme al Servizio stesso (inglobato nella Protezione civile da Berlusconi&Bertolaso). Il resto sono chiacchiere. E il Belpaese si sfascia, rovina, uccide, imbruttisce.

«Dal Trentino alla Sicilia, la lunghezza dei muri dei terrazzamenti delle colline è di 170mila chilometri, venti volte più della Muraglia cinese. Boom dei comitati per fermare il degrado: corsa per salvarli» Ma se non ci fossero i migranti.... La Repubblica, 9 ottobre 2016 (c.m.c.)

Sul versante montano del Canale di Brenta, nel Vicentino, sono una decina i richiedenti asilo che lavorano per fare manutenzione o ripristinare l’imponente serie di terrazzamenti che salgono su fino a 500 metri d’altezza. Vengono da Nigeria, Mali, Togo, Ghana, li ha coinvolti il comitato Adotta un terrazzamento, che da tempo si prende cura di un patrimonio costruito a partire dal Seicento. Troppa era la pendenza per coltivare il tabacco, per trattenere l’acqua e dunque, usando pietra a secco e niente calce, si sono realizzati nei secoli terrazzi che chiamano masiere e che svettano per sette, otto metri.

Dalla seconda metà del Novecento è iniziato l’abbandono, le colture sono sparite, il bosco ha preso il sopravvento, il paesaggio si è banalizzato, è venuta meno una preziosa fonte di reddito e anche la vita comunitaria che lì prosperava si è spenta. Dei 230 chilometri di pietra a secco, ne è sopravvissuto sì e no il 40 per cento. Finché, promosso dal comune di Valstagna, dal gruppo Terre alte del Club alpino italiano e dal dipartimento di Geografia dell’università di Padova, non è arrivato il comitato Adotta un terrazzamento.

Quella vicentina è una delle buone pratiche raccontate dal 6 al 15 ottobre a un convegno internazionale che si svolge fra Venezia, Padova e in dieci luoghi segnati dai terrazzamenti: dalla costiera amalfitana alle Cinque Terre, dal Trentino a Pantelleria, dalla Valpolicella all’alto Canavese, da Trieste alla Val d’Ossola. Partecipano circa 250 relatori provenienti da 20 diversi Paesi. È l’occasione per misurare lo stato di salute di questi paesaggi in Italia.

È una salute precaria fotografata dalla prima mappatura mai realizzata (il progetto si chiama Mapter, ed è curato dall’università di Padova). In totale sono 170mila gli ettari censiti attrezzati a terrazzi, un’estensione pari a quella del Veneto. E sono 170mila i chilometri di muri a secco che li reggono, pari a circa venti volte la muraglia cinese.

«È una misura per difetto, realizzata con un sistema, il Corine Land Cover, al quale sfuggono le piccole dimensioni», spiega Mauro Varotto, geografo dell’università di Padova e fra i coordinatori della decina di università coinvolte nella mappatura, autore insieme a Luca Bonardi di Paesaggi terrazzati d’Italia, uno studio in uscita in questi giorni (Franco Angeli editore).

«L’estensione è ben maggiore, ma difficilmente individuabile perché buona parte di questo patrimonio è abbandonato », aggiunge Varotto. Ed è questa la preoccupazione: si sta perdendo un paesaggio attrezzato nei secoli e deperisce un presidio contro i dissesti e le frane. Com’è dimostrato dalla tragica esperienza delle Cinque Terre. Fra le minacce viene indicata anche la meccanizzazione dell’agricoltura. Muretti e terrazzi sono di ostacolo ai trattori che hanno bisogno di salire e scendere lungo i pendii, rendendo prevalente il sistema del “rittochino” che spesso agevola il dilavamento.

Oltre il 30 per cento dei terrazzamenti censiti è diventato preda del bosco, di vegetazione spontanea, e dunque è sottratto alle coltivazioni. Il 6 per cento si è perduto a causa dell’urbanizzazione. Un altro 30, invece, è utilizzato a seminativo, il 19 a uliveto, il 3 a vigneto, un altro 3 a frutteto, limoneto o castagneto.

La regione più terrazzata in proporzione alla superficie complessiva è la Liguria, con il 7,8 per cento del suo territorio così attrezzato (oltre 42mila ettari). Seguono la Sicilia, con il 2,4% (63 mila ettari), e la Toscana con lo 0,99% (22 mila ettari). La Campania vanta 11mila ettari a terrazzi, il Lazio 5 mila. I primi quattro Comuni sono tutti siciliani: Pantelleria, Modica, Ragusa, Lipari. Al quinto posto c’è Genova.

Laddove fioriscono, i terrazzamenti sono rigogliosi di vigneti, come in Trentino, di limoneti, come in costiera amalfitana, o di ulivi e capperi, come a Pantelleria. «Svolgono una funzione sociale fondamentale, perché conservano un bene prezioso e irrinunciabile, la fertilità dei suoli», dice da Trieste Livio Poldini, professore emerito di Botanica. «I terrazzamenti sono l’esito di una conquista di terreni all’agricoltura che ha dell’eroico », insiste Varotto. «È un processo che viaggia in parallelo con l’incremento demografico avvenuto fra la metà del Settecento e la fine dell’Ottocento ». Le pietre conservano il calore quando fa freddo e il fresco quando fa caldo. E negli interstizi, che assomigliano a corridoi ecologici, ospitano una varietà infinita di flora e di fauna.

Esistono norme, anche europee, che preservano i paesaggi rurali storici. Ma il conflitto fra chi vuole tutelarli e chi predilige un’agricoltura meccanizzata permane. In Trentino, per esempio, o in Veneto. Dove però spicca l’esperienza del Canale di Brenta, con i militanti di Adotta un terrazzamento, i quali riescono a convincere i proprietari a concedere loro di liberare da rovi e sterpaglie i preziosi terrazzi abbandonati.

La lunghezza dei muri è di 170mila chilometri, venti volte più della Muraglia cinese Boom dei comitati per fermare il degrado

I barbari...«non occorre essere abili architetti paesaggisti per comprendere che queste operazioni sono proprio quelle che - se non controllate puntualmente - alterano in modo spesso irrimediabile l’aspetto dei nuclei urbani e rurali, come possono insegnare infiniti esempi». Patrimoniosos.it, 30 settembre 2016

Il 7 luglio scorso è stato presentato alla Conferenza Unificata Stato-Regioni-Autonomie Locali (dove è stata “sancita l’intesa”, come con apprezzamento è riferito da varie fonti legate all’industria edilizia) uno schema di Decreto Presidente della Repubblica “recante il regolamento relativo all’individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata” ecc.

In parole povere, a seguito di un articolo del cosiddetto Sblocca-Italia, si tratta di un lungo elenco, con norme di attuazione, di interventi edilizi nelle zone soggette a vincoli paesaggistici che non dovranno più essere autorizzati in base al Codice dei beni culturali o, perché ritenuti poco rilevanti, potranno godere di procedura semplificata - una misura in parte analoga già esisteva, ma il nuovo Decreto ne prevede il superamento.

Gli interventi che non dovrebbero più essere autorizzati sono 31, quelli con procedura semplificata 42. Non è qui il caso di ricordare che le lentezze nelle autorizzazioni paesaggistiche (a volte reali, a volte strumentalmente esagerate) derivano quasi sempre da carenze di mezzi e personale degli uffici, dalla mancata adozione dei piani paesistici e dalla farraginosità della normativa - senza volere ovviamente tacere casi di specifiche responsabilità di funzionari e dirigenti.

Il Decreto, per cui sono previsti pareri parlamentari e del Consiglio di Stato - quest’ultimo, formulato in modo ampiamente favorevole, è stato pubblicato da patrimoniosos il 22 settembre - che però raramente incidono in modo significativo sui testi, si inserisce di fatto nella logica di un progressivo svuotamento della tutela territoriale prevista dal Codice beni culturali.

In linea di principio non vi è nulla da obiettare a che interventi di minore rilevanza possano essere autorizzati sulla base di procedure più snelle, e ve ne sono senza dubbio di così modesta portata che ben si può ammettere vengano considerati irrilevanti (negli elenchi non mancano precisazioni abbastanza superflue, come l’esclusione dall’autorizzazione delle opere interne che non alterano l’aspetto esterno degli edifici - per le quali mai è stata necessaria), né il Decreto è privo di norme sensate, ad esempio la prescrizione che laddove gli interventi riguardino edifici sottoposti a vincoli sia paesaggistici sia monumentali la procedura venga unificata. Tuttavia esaminando gli elenchi degli interventi sorgono forti perplessità.

Per quanto riguarda quelli con procedura semplificata - e autorizzazione da rilasciarsi entro 60 giorni, perché “di lieve entità” - vi sono “alterazione dell’aspetto esteriore degli edifici mediante modifica delle caratteristiche architettoniche”, “ascensori esterni che alterino la sagoma dell’edificio”, “caldaie, parabole, antenne su prospetti prospicienti la pubblica via”, “interventi sistematici di arredo urbano”, “autorimesse comprese le eventuali rampe”, “taglio senza sostituzione di alberi”, “strutture e manufatti per spettacoli o per esposizione di merci per un periodo non superiore a 180 giorni”, “verande e dehors”, “cartelli pubblicitari di dimensioni inferiori a 18 mq”, “demolizione e ricostruzione di edifici con volumetria e sagoma corrispondenti alle preesistenti” ecc.

E’ vero che questi e altri interventi sono soggetti comunque ad autorizzazione, ma la ratio del provvedimento è di considerarli di scarso rilievo, tali insomma da meritare una quasi scontata approvazione (quanti funzionari vorrebbero correre il rischio di essere chiamati in giudizio per avere bloccato un “intervento di lieve entità”?). Ma non occorre essere abili architetti paesaggisti per comprendere che queste operazioni sono proprio quelle che - se non controllate puntualmente - alterano in modo spesso irrimediabile l’aspetto dei nuclei urbani e rurali, come possono insegnare infiniti esempi (tante volte purtroppo autorizzati). Nella sostanza, solo le nuove edificazioni e poco altro non viene fatto rientrare nell’autorizzazione semplificata - ma per le opere pubbliche e quelle ritenute importanti ci sono le procedure speciali previste da altre norme…

Quanto agli interventi neppure sottoposti ad autorizzazione, oltre a opere in effetti di scarso rilievo, ne troviamo altre che incidono in maniera significativa sull’aspetto del territorio e dei centri urbani - ancora una volta sembra mancare quell’attenzione alle singole operazioni edilizie che invece hanno una fondamentale importanza nella salvaguardia paesaggistica.

Vengono dichiarati irrilevanti gli interventi “sulla vegetazione arborea” lungo i corsi d’acqua (previsti per ragioni di sicurezza, ma ci sono molti casi tutt’altro che esemplari), l’installazione di tende parasole e insegne commerciali (sia pure con qualche cautela), anche qui strutture e manufatti per manifestazioni e attività commerciali (per non oltre 120 giorni). Soprattutto colpisce che non siano soggetti ad autorizzazione le tinteggiature e il rifacimento di intonaci e infissi: certo si fa rimando ai piani del colore comunali e al rispetto delle caratteristiche e dei materiali esistenti, ma non basterebbe molto spazio per elencare le tante alterazioni soprattutto nell’edilizia rurale e nei centri minori per capire quanto sia necessaria un’opera di controllo (questa sì, magari con procedura semplificata). Su quest’ultimo punto, per fortuna, le nome di attuazione del Decreto escludono in parte gli interventi laddove i piani paesistici o le previsioni dei vincoli non dettino norme specifiche, ma in ogni caso c’è da chiedersi quanto ci si dovrà affidare alla buona volontà dei proprietari o ai tecnici di piccoli Comuni per essere certi che le prescrizioni siano rispettate.

Ma non è finita. Gli elenchi sono preceduti da un testo normativo che contiene alcune disposizioni davvero pesanti. Si prevede che laddove siano vigenti accordi tra Regioni e Mibact, altri interventi - e non dei meno impattanti - siano esclusi dall’obbligo di autorizzazione. Si ammette la possibilità che i piani paesistici introducano disposizioni per facilitare “corrette metodologie” per le opere per le quali non si richiede autorizzazione - sarebbe invece necessario uno specifico obbligo! - ma nel contempo si stabilisce che eventuali disposizioni più rigorose, previste appunto nei (pochi) piani paesistici approvati debbano essere superate da quelle meno rigide del nuovo Decreto. Come dire: se volete fare qualche sforzo, fate pure, ma non cercate di stringere le maglie della rete.

Si può sperare che si riesca almeno di limitare gli aspetti più discutibili del provvedimento? forse se ci sarà pressione qualcosa si potrebbe ottenere

«A Baratti è costruita con sei blocchi in legno secondo una pianta stellare che ricorda un alveare». La Repubblica, 30 luglio 2016 (p.d.)

«Era una notte buia e tempestosa». L’incipit tanto caro a Snoopy (ma anche a Umberto Eco) è perfetto per raccontare come nacque la Casa Esagono: un monumento moderno che sembra il futuro e la gentilezza fatti geometria abitabile nel bosco, a pochi metri dal bagnasciuga di Baratti.

In una sera dei primi anni Cinquanta due ragazzi fiorentini (Alessandro Olsckhi e Vittorio Giorgini) escono in mare, salpando da Marina di Cecina: ma improvvisamente il tempo gira, e una vera e propria tempesta impedisce loro di rientrare. Così, cercando affannosamente un’insenatura per passare la notte in barca, gettano l’ancora nel Golfo di Baratti. All’alba del giorno dopo il sole non svela solo che il pericolo è passato, ma rivela anche la bellezza mozzafiato di quel tratto incantato di Toscana: la linea di costa gentile come quella di un lago di montagna, l’acropoli di Populonia che si staglia contro il cielo, la necropoli etrusca che degrada, in un verde dolcissimo, fino al mare.

Rientrato a Firenze, Vittorio racconta la storia al suo babbo: che è nientemeno che Giovambattista Giorgini, il grande regista del lancio mondiale della moda italiana. Questi si ricorda di aver comprato molto tempo prima - destino! - dei terreni proprio lì, a Baratti. Così Vittorio, nello stesso anno in cui si laurea in architettura, decide di usarli per costruire il suo primo edificio: la casa di vacanza che ogni bambino sognerebbe.

Ed è così che nasce Casa Esagono (1957). Essa è composta da sei esagoni di legno, disposti secondo una pianta stellare che ricorda molto da vicino la geometria di un alveare. Sei pilastri di legno, che poggiano su basi di cemento armato, sorreggono la struttura: che dunque si libra nell’aria, come una palafitta o un capanno da pescatore, mangiando meno suolo possibile e integrandosi perfettamente con il paesaggio. In origine, un perlinato chiaro rendeva la casa ancora più osmotica con i valori tonali del bosco: ma questo senso di comunione organica, di compenetrazione pacifica con la natura è comunque ancora fortissimo.

Sebbene non avesse né corrente elettrica né acqua potabile la casa era il teatro di appassionanti vacanze estive, durante le quali Giorgini e la sua famiglia accoglievano ospiti anche illustri, come Robert Sebastian Matta, Emilio Villa o Isamu Noguchi, Emilio Vedova o Corrado Cagli. Quell’architettura naturale era la cornice perfetta di una vita semplice: una vita che aveva come naturale compagna di strada un’arte intesa come conoscenza pacifica della realtà.

Pochi anni dopo un industriale tessile di Como, Salvatore Saldarini, acquistò il terreno confinante, e incaricò il suo geniale vicino di costruirgli una casa non meno originale. Grazie alla tollerante fiducia di quel committente (che ormai era anche un compagno di vacanze, interlocutore di interminabili serate e generose bevute), Giorgini inventò quella che chiamò una «membrana isoelastica», cioè una rete metallica plasmata con una forma vagamente organica, che veniva poi rivestita di cemento a presa lenta, diventando autoportante. Dopo averla provata in alcune sculture ancora visibili nel giardino di Casa Esagono, Giorgini la utilizzò per creare Casa Saldarini: una architettura-scultura che sembra un incrocio tra una creatura di Gaudì, le fantasie più sperticate di Le Corbusier e la casa dei Barbapapà, fantasia bioarchitettonica cara ai bambini di ogni generazione.

Questa coppia di singolarissimi edifici daranno in qualche modo l’imprinting a tutta la ricerca che l’architetto Giorgini portò poi avanti soprattutto negli Stati Uniti, dove visse e insegnò a lungo. Quella ricerca, infatti, si può interamente ricondurre al desiderio di costruire senza lacerare il perfetto equilibrio del paesaggio: a partire proprio dal paradiso naturale che aveva incantato il giovane architetto in quella famosa alba dopo la tempesta.

Oggi l’eredità culturale di Giorgini (scomparso nel 2010) è esemplarmente custodita dall’associazione B.A.CO (Baratti Architettura e Arte Contemporanea) - Archivio Vittorio Giorgini, nata per «contribuire all’affermazione di una cultura diffusa del nuovo paradigma dello Sviluppo Sostenibile. Progettare sostenibile è il partire e il condividere una logica di sistema, in cui gli elementi fondanti del progetto sono il pensiero scientifico, la cultura del rispetto del territorio, delle sue risorse, del valore delle relazioni sociali, della sua storia».

Grazie al suo vulcanico presidente (l’architetto Marco Del Francia, collaboratore ed erede morale e culturale di Giorgini), l’associazione B.A.CO ha stretto una sinergia con il Parco Archeologico di Baratti e Populonia e con la Società Parchi della Val di Cornia, riuscendo a riscattare Casa Esagono (che appartiene al Comune di Piombino) da un lungo degrado. Così, mentre Casa Saldarini è ancora privata (e abitata), Casa Esagono è dunque oggi finalmente visitabile.

Salire la scaletta che porta nel suo ventre geometrico serve a comprendere che l’architettura può essere ancora, e nonostante tutto, la continuazione della natura con altri mezzi. Una lezione antica, mai tanto urgente quanto oggi: l’inaspettata scoperta di una stagione di bagni in Toscana.

Le Apuane: un drammatico problema aperto, che richiede soluzioni non semplici, ma rapide. Una proposta operativa per ricucire le troppe lacerazioni, una proposta operativa per costruire nuove relazioni tra Ecologia, Persone, Società, Economie, Natura e Luoghi (m.p.g.)

Tutto sulle Apuane è lacerato: a partire dalle montagne attaccate in ogni loro parte, alle cave devastanti, all’abbandono dei pascoli e dei boschi e della fragilissima agro pastorizia, e similmente alla condizione dei paesi disabitati, e all’invecchiamento della popolazione. Ma all’origine di tutte queste lacerazioni sta l’industria del marmo, nelle sue varie finalità estrattive, tutte comunque multinazionali globalizzate. Il marmo è ormai solo una materia prima come l’oro o il rame o i diamanti, le montagne un luogo da distruggere, le persone una popolazione da sfruttare, anche fino alla morte. Ma a differenza dei paesi del terzo mondo dove la popolazione è umiliata e indifesa, qui la popolazione è in parte consenziente, pensando di avere le briciole (in nero) di questa rapina e si fa addirittura promotrice della svendita delle terre collettive e del loro ambiente, travisando una tradizione di lavoro che peraltro ormai non esiste più.

Questa lacerazione, economica, sociale, mentale, storica e pratica, è pericolosissima sia in sé che nei confronti di ogni alternativa possibile. Anche la realtà delle terre civiche estese a tutta la Montagna, che il Centro Cervati difende e propone come alternativa strategica, invece è misconosciuta e travisata sia dalle leggi vigenti, anche quelle paesistiche, che dagli utenti, provocando un’ulteriore lacerazione nella situazione generale già così tanto frammentata.

Anche per questo emerge un’altra lacerazione, quella tra le associazioni, su chi difende il Piano Paesistico, anche sulle Apuane, così come è stato approvato, modificato dai ‘cavatori’ e dalla Regione, e chi vorrebbe riportarlo al Piano originario e alla legislazione nazionale. In base alla posizione che si intende assumere le attività conseguenti sono diverse. E ciò perché la legge ora vigente legittima interventi distruttivi inaccettabili, fino al paradosso di rendere “paesaggio ufficiale” proprio la distruzione della montagna, resa addirittura struttura paesistica “sovra ordinata”!

Di fronte a tutte queste lacerazioni, che si estendono anche alle città pedemontane (per tutte Carrara) a loro volta straziate e devastate dalle lacerazioni, urbanistiche, ambientali, sociali, culturali,economiche, e ai loro territori di pianura (Versilia) o di fondovalle (valli del Serchio, o del Magra) sempre più intasati e “periferizzati”, o ancora le lacerazioni dei fiumi e quelle della desertificazione dei ravaneti e del carsismo, di fronte a questo mondo esposto a grandi pericoli e ferito in ogni sua parte, ma ancora vivente e ancora più drammaticamente coinvolgente, fantastico, ed appassionante l’opposizione non può essere che articolata, complessa, ma anche creativa

Una Prima opposizione in atto è puntuale, puntigliosa, cava per cava, fiume per fiume, paese per paese, città per città.U na seconda opposizione coglie ogni anche minimo segnale di vitalità che si manifesti tra le lacerazioni e che spinge a cercare di rilanciare una produzione di cibo, di accoglienza, di riscoperta dei luoghi, di continuazione della vitalità comunitaria, di economia giovanile, e di mettere questi fattori tra loro in comunicazione, tramite flussi di relazioni sempre più ampie.
La terza opposizione mette in atto un salto ecologico/ mentale complesso: I Laboratori socio-paesistici della “Città/Natura”. Non megapiani o cabine di regia, ma processi partecipati sperimentali viventi, organizzati sulla base di un pensiero evolutivo e concreto, quello di nuove relazioni tra Ecologia,Persone,Società, Economie, Natura e Luoghi

I Laboratori aprono la prospettiva di una nuova condizione per questo territorio e per i suoi abitanti: una nuova CITTA’/NATURA, una simbiosi tra insediamenti, ancora separati nella loro individualità di piccole città, borghi, paesi e frazioni, ma poi tutti ricollegati in un “effetto città” complessivo che entra in relazione con tutti i frammenti di Natura e di ambiente a loro volta riconnessi in un sistema ecologico unitario, progressivamente sempre più strutturato.

Così Natura e Città,oggi super/lacerati vengono posti di nuovo in relazione, e al loro interno ricomposti, ed aprono nuove correlazioni tra loro pervenendo ad un nuova configurazione interattiva, ad un Nuovo AMBIENTE DI VITA (una vita naturale, sociale, culturale, e anche virtuale) dove servizi urbani, teatri, scuole, mercati, ma anche orti, campi, prodotti biologici di qualità, boschi, ma più che altro fiumi e montagne, così come il mare, divengono componenti attive di un Luogo per Abitare e per produrre secondo natura e secondo creatività sociale.

La prima proposta operativa: dalla Montagna al Mare Il LABORATORIO PANIE- VERSILIA
Per operare e creare una tale configurazione e verificarne la fattibilità stiamo costruendo un contesto di esperienza e sperimentazione, di conoscenza e nuova elaborazione, di scambio paritario tra le diverse componenti che abbiamo chiamato Laboratorio Panie-Versilia.

La Versilia, le Panie e le Apuane meridionali sono ancora in grado di costruire questa alternativa, con le Panie che svolgono il ruolo di cattedrale della Città/Natura, con la Versilia, bassa e alta, una bonifica e un giardino territoriale/ paesistico che diviene Ambiente di Vita di tutta la popolazione, ospiti compresi, estensibile anche alle valli del versante del Serchio.
Si è verificato che un tale contesto crea le condizioni per fare incontrare le diverse esperienze spontanee già in atto, sia in termini di contrapposizione ai fenomeni dominanti, sia in termini di creazione e promozione di attività inedite.

L’assunzione dell’Ambiente di Vita Montagna-Mare che proponiamo trova riscontro anche nella definizione degli ambiti paesistici del Piano Paesistico Regionale con un ambito che si estende dal Crinale Apuano al Mare Tirreno, e che così fornisce un importante riferimento legislativo nella normativa vigente, sviluppandola peraltro con modalità innovative ed evolutive.
Ma proprio qui nasce la contraddizione con il Piano nelle sue parti modificate, perché esse risultano in aperto contrasto con l’evoluzione del Piano da noi praticata.

Vi invitiamo tutti a partecipare ai nostri Laboratori socio paesistici della “Città/Natura”, recentemente lanciati a Seravezza, e fondati su un lungo lavoro pluridecennale.
Personalmente oggi mi recherò a Firenze alla manifestazione contro l’Inceneritore e l’Aeroporto nella Piana della Città Metropolitana, l’altra grande contraddizione presente nel Piano Paesistico così come,approvato con conseguenze disastrose per la città, il suo ambiente e per tutta la Toscana.

L'autore è Presidente del “Centro Cervati per l’Uso Civico” - Seravezza

«Città&campagna. Si aprirà il 20, al Lingotto di Torino, il 53/mo Congresso mondiale dell’International Federation of Landscape Architects. Un'intervista con Anna Letizia Monti, alla guida dell'Associazione italiana di settore». Il manifesto, 16 aprile 2016 (c.m.c.)

Nella dichiarazione programmatica del 53/mo Congresso mondiale dell’International Federation of Landscape Architects, organizzato dall’Associazione italiana di architettura del paesaggio, la presidente Anna Letizia Monti si dice certa che «anche a livello nazionale i politici, gli amministratori, l’opinione pubblica stiano finalmente riconoscendo che il paesaggio è in ogni luogo un elemento importante per la qualità della vita delle popolazioni». Le abbiamo rivolto qualche domanda nei giorni che precedono l’arrivo a Torino di oltre mille specialisti del settore.

Il paesaggio è spesso considerato soltanto come qualcosa da ammirare e tutelare. L’incontro torinese pone l’accento su un progetto che lo collochi operativamente al centro delle attività di crescita e sviluppo del paese. Come si conciliano questi diversi punti di vista?

Non è più il tempo di pensare al paesaggio come elemento iconico e celebrativo. È una realtà dinamica, che si evolve, muta e si trasforma. È parte integrante della vita quotidiana dei paesi e delle popolazioni e partecipa con essi al mutare delle necessità, ai nuovi usi. Il paesaggio si fruisce in molteplici modi e funzioni, si può declinare come spazio urbano e periurbano per favorire rapporti e relazioni; area cittadina e rurale con impianti arborei finalizzati alle attività ricreative e al miglioramento della qualità dell’aria; sito denso di stratificazioni e destinazioni passate che si rinnovano per produzioni alimentari di contiguità o per poetiche partecipative. L’Italia è in ritardo su molti di questi temi, ma è giunto il tempo di (re)agire. Il Congresso ha anche questo obiettivo: evidenziare le necessità, risvegliare gli animi, suggerire soluzioni per poter avviare coscientemente e sistematicamente realizzazioni paesaggistiche che siano parte integrante delle politiche di questo paese che – purtroppo – è in ritardo di decenni sulla realizzazione di normali progetti di paesaggio, reali e possibili.

In questo tipo di consessi c’è spesso il rischio di parlare a se stessi invece di assumersi il rischio di dettare, quasi imporre al dibattito, alcuni temi forti. Quali sono le ragioni della scelta di un titolo come «Tasting the Landscape»?

Si è scelto di indagare gli ambiti del progetto di paesaggio a tutto tondo: la risignificazione sensibile dei luoghi, le criticità delle aree marginali, le coltivazioni di prossimità, i paesaggi stratificati, le poetiche del vivere quotidiano. A Torino si ragiona sui «paesaggi condivisi»: le aree fra città e campagna, residenza e coltivazione agricola, produzione industriale e abbandono. Sono paesaggi che possono e devono creare legami e riconsegnare valore a luoghi, persone, idee e produzioni; sono le aree per l’agricoltura urbana, sono i periurbani non più in attesa di essere urbanizzati ma che risorgono a vita nuova.

Ci confrontiamo sui «paesaggi connessi»: quelle infrastrutture verdi e blu, che servono per creare connessioni, unioni, continuità fra territori e persone contigue. Territori in cui coesistono produzioni e attività sportive, resilienza e turismi. Si affronta poi il tema dei «paesaggi stratificati»: il dialogo delle storie e le mutazioni dei siti. Quelli in cui passato e presente hanno codici di relazione precari e per i quali il paesaggista deve individuare semantiche per la complementarietà e la coesione. Si studiano infine i «paesaggi d’ispirazione»: aree dove si concretizza una risignificazione dell’esistente o si declinano nuove poetiche per il vivere.

Vista la pluralità degli interventi e dei progetti che verranno presentati, può descrivere alcuni casi concreti dai quali vi attendete suggestioni, soluzioni tendenze per il futuro?

I lavori vedranno l’intervento di figure di primo piano del dibattito internazionale come Raffaele Milani, docente di estetica e filosofia del paesaggio; Henri Bava, paesaggista francese che ha all’attivo numerosi piani di riqualificazione di paesaggi degradati; Saskia Sassen sociologa ed economista statunitense che indaga da anni il tema della città globale. La novità, se tale la vogliamo considerare, è che non sono ormai soltanto i paesi europei e gli Stati Uniti ad avere politiche e consuetudini attuative per il progetto di paesaggio. A Torino verrà presentato un «programma» di mille ettari di agricoltura urbana a Pechino, ci saranno contributi dell’università di Teheran, piani di valorizzazione dei paesaggi turchi nell’entroterra di Mersin, piuttosto che del sud ovest della Nigeria: è lampante la sensibilità e la determinazione di molti paesi a realizzare politiche paesaggistiche cogenti, con finalità strettamente economiche e/o turistiche o per fare proprie le suggestioni e gli stimoli che provengono dai cittadini.

Qual è in Italia lo stato dell’arte e il destino attuativo del progetto di paesaggio? Si può rilevare l’attenzione delle istituzioni e dei rappresentanti del potere politico?

Esempi virtuosi ci sono in tutto il territorio nazionale. Ma non fanno sistema. Non ci sono politiche stringenti e iter procedurali semplici per proporre e realizzare progetti di paesaggio. Si parla molto, ma sempre in maniera generica. Non si realizzano cose elementari, come la detraibilità fiscale per le opere a verde: un sistema adottato per caldaie, infissi, acquisto dei mobili e che non è riuscito a rientrare nella legge di stabilità di quest’anno, nonostante la mobilitazione coesa di tutta la filiera di settore: vivaisti, progettisti, aziende di opere a verde.

I politici di ogni schieramento discettano di paesaggio, ecologia, sostenibilità, promozione turistica del patrimonio paesaggistico, ma le azioni si limitano a pianificare e al «racconto», senza passare alla realizzazione. I progetti di paesaggio implicano investimenti di denaro esigui, a volta addirittura minimali rispetto alla maggior parte delle opere pubbliche. Occorre poco per fare molto: si investe in idee, alberi, arbusti, semi e terra e si ottengono ossigeno, benessere, turismo e presidio del territorio. È una situazione quantomeno paradossale che non si riescano a realizzare opere che hanno queste caratteristiche ma forse è proprio per i tempi lunghi che la natura richiede (che sono più lunghi di un mandato elettorale) e la minimalità economica di queste opere che a nessuno interessa sviluppare e promuovere un settore che – evidentemente – ha budget troppo esigui per essere interessanti, soprattutto per coloro che mirano a far girare molti denari. È un’affermazione grave la mia, ma Aiapp non ha paura a gridare che, in Italia, da troppi anni il re è nudo.

Si parla di un documento conclusivo di sintesi che va in direzione di una complessiva maggiore responsabilizzazione di tutti i soggetti protagonisti? Può anticipare i suoi termini?

Il manifesto focalizza in pochi punti le questioni salienti: qualità dei paesaggi e qualità progettuale, necessità di politiche di governo del paesaggio cogenti, formazione adeguata a tutti i livelli: dall’università, all’aggiornamento professionale a tutte le scale, dai tecnici delle amministrazioni pubbliche ai liberi professionisti, dall’operatore al dirigente.

Prosegue il tentativo del governo Renzi di rendere vano il referendum indetto da cinque regioni per dare un segnale forte nella direzione giusta sulla difesa dell'ambiente e del nostro futuro. Il Fatto quotidiano, 12 marzo 2016

Vietato parlare di referendum sulle trivellazioni in Consiglio comunale. Quando a Menfi cinque consiglieri hanno avanzato la proposta di ordine del giorno sono rimasti di sale: la prefettura di Agrigento, che riprende una circolare del ministerodell’Interno, dice no. E pensare che a Menfi, Sciacca, Porto Empedocle, insomma, in quella Sicilia che teme di vedere l’orizzonte costellato di trivelle, se ne parla eccome. Ma nelle aule della politica non si può. Tanto che i sindaci, lasciata magari per un attimo la fascia tricolore, hanno deciso di riunirsi. Di studiare forme di mobilitazione prima del 17 aprile.

“Non è una censura sulle trivelle. Succede così prima di tutte le consultazioni elettorali”, giurano dalla prefettura di Agrigento. E ti mostrano la circolare del ministero dell’Interno: “È fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento delle proprie funzioni”. Ma poche righe dopo ecco si apre lo spiraglio in cui vogliono infilarsi i sindaci siciliani: “Si precisa che l’espressione “pubbliche amministrazioni” deve essere intesa in senso istituzionale... e non con riferimento ai singoli soggetti titolari di cariche pubbliche, i quali possono compiere, da cittadini, attività di propaganda”.

Insomma, fatta la legge trovato l’inganno. Anzi, è lo stesso ministero che te lo indica. Anche perché in Sicilia quasi tutti i sindaci sono contrari alle trivellazioni. A cominciare da Vincenzo Lotà di Menfi: “Ci stiamo organizzando. Qui siamo tutti preoccupati, i comuni costieri e quelli dell’entroterra. Ci sono comuni come Sciacca che sorgono in zona vulcanica”. Gente combattiva, qui a Menfi. Come racconta Vito Clemente, il presidente del Consiglio Comunale: “Ho dovuto dire di no al consiglio dedicato alle trivelle, perché me lo imponeva la legge. Ma io sono per il “Sì”, cioè per l’abrogazione della legge che proroga le concessioni”. Tipico dell’Italia, bisogna dire “Sì” per dire “No” alle trivelle. Ma Clemente aggiunge: “Qui ci siamo già battuti contro chi voleva portarci via l’acqua; contro chi sperava di costruire una centrale a biomasse; per non dire delle pale eoliche e ora delle trivelle. Ma noi puntiamo su uno sviluppo che rispetta l’ambiente”.


I Comuni e sindaci non possono parlare di referendum. Nel Municipio, perché basta varcare la porta e tutto cambia. Vale per Menfi, ma anche per altri comuni no-trivelle. Per esempio Frisa (Chieti), in Abruzzo. Racconta il sindaco Rocco Di Battista: “La battaglia è partita anche da qui. Noi abbiamo votato contro le trivelle mesi fa. Ma anche adesso, come privato cittadino, continuerò a schierarmi per il “Sì”. Evidentemente si vuole impedire ai cittadini di esprimere la propria volontà”. Comune che vai, usanza che trovi. Racconta Andrea Quattrini (consigliere M5S ad Ancona): “Lunedì in consiglio comunale è in calendario una mozione per impegnare il Comune a ribadire la propria contrarietà alle trivelle e invitare i cittadini a votare “Sì”. Vorremmo che il Comune aderisse come sostenitore al coordinamento anti-trivelle”. Chissà se anche ad Ancona interverrà il prefetto.

Non è la so-la anomalia
un po’ italia
na: le Regioni,
infatti, non
sono sottopo
ste al divieto. “Non si poteva impedire alle Regioni di fare la campagna per il “Sì” – ha spiegato al Fatto Quotidiano Piero Lacorazza, presidente del consiglio regionale della Basilicata – visto che siamo gli unici comitati promotori”.

Ma il referendum sulle trivelle rischia di scavare una voragine anche nel sindacato, aprendo la questione ambientale. Due giorni fa Emilio Miceli, segretario Chimici Cgil, si era schierato apertamente contro il referendum e a fianco delle trivelle: siamo ancora lontani, aveva detto, da un “superamento dell’energia da fonte fossile”. Ma nella Cgil si stanno confrontando diverse anime. “Quattrocento dirigenti di diversi settori hanno firmato un appello a favore del ‘Sì’”, racconta Simona Fabiani della Cgil Ambiente.

Legge nel documento: “Come sindacalisti siamo convinti della necessità e dell’urgenza della transizione a un nuovo modello energetico, democratico e decentrato, con il 100 per cento di efficienza energetica e di rinnovabili, con grande opportunità di crescita economica e di nuova e qualificata occupazione per il nostro Paese” è scritto nell’appello. Che aggiunge: “Le trivellazioni, il petrolio, le fonti fossili rappresentano un passato fatto di inquinamento, dipendenza energetica, interessi e pressioni decisionali delle lobby, conflitti, devastazione ambientale e della salute, cambiamenti climatici”.

Truffa alla democrazia, onestà, buonsenso e patrimonio comune. «La legge di stabilità torna ad autorizzare le perforazioni, scavalcando i quesiti referendari con aggiunte e abrogazioni subdole». Il manifesto, 18 dicembre 2015

«Un autentico inganno. Gli emendamenti presentati dal governo alla legge di Stabilità 2016 ricalcano solo apparentemente i quesiti referendari. Essi, tra abrogazioni e aggiunte normative, mimetizzano e mascherano, in modo subdolo, il rilancio delle attività petrolifere in terraferma e in mare e persino entro le 12 miglia dalla costa». Il movimento No triv torna così all’attacco di Renzi, accusato di “barare”. E boccia le modifiche proposte dal suo esecutivo in materia di ricerca ed estrazione del petrolio. «I passaggi normativi del disegno governativo — scrivono in un documento i No triv — sono riassunti nell’abolizione del “Piano delle aree” (strumento di razionalizzazione delle attività oil & gas) e nella previsione di far salvi tutti i procedimenti collegati a “titoli abilitativi già rilasciati” — all’entrata in vigore della legge di Stabilità — “per la durata di vita utile del giacimento”».

Un mix esplosivo, che avrebbe effetti devastanti sul futuro dei mari italiani, dato che «l’obiettivo principale del governo è mantenere in vita e a tempo indeterminato tutti i procedimenti attualmente in corso entro le 12 miglia» dalle spiagge. «La soppressione del “Piano delle aree” — viene aggiunto — costituisce, poi, il vero “cavallo di Troia” del governo»: il coordinamento nazionale No triv lo aveva già evidenziato, formulando per l’occasione alcuni sub-emendamenti volti a correggere le proposte del premier e dei suoi fedelissimi.

Emendamenti che, però, sono stati bocciati alla Camera dei deputati, in commissione Bilancio. «Nulla è negoziabile rispetto all’obiettivo dei quesiti referendari – si fa ancora presente — non lo è il “Piano delle aree”, in quanto mezzo di controllo degli interventi di ricerca ed estrazione degli idrocarburi; non lo è lo sfruttamento a tempo illimitato dei giacimenti; non lo è la possibilità che i procedimenti entro le 12 miglia marine siano solo sospesi e non chiusi definitivamente; non lo è neppure l’istituzione di un doppio regime di titoli (permessi di ricerca e concessioni di coltivazione/titoli concessori unici) che consentono alle società del greggio di scegliere a proprio piacimento, a propria discrezione, in che modo muoversi nel nostro Paese».

«Da rilevare — dichiara il costituzionalista Enzo Di Salvatore, autore dei 6 quesiti del referendum avviato da dieci Regioni — l’assoluta incoerenza del governo. Prima l’ermetica chiusura verso queste problematiche e, dopo il via libera della Cassazione al referendum, il 28 novembre scorso, l’idea di aprire una trattativa sulle norme oggetto della consultazione popolare. Quindi la solita furbata… Ma il referendum non è nella disponibilità di alcuno».

Il coordinamento nazionale No triv evidenzia: «Delle due l’una: o con le modifiche si accolgono tutti i quesiti referendari senza tradirne lo spirito o si va alle urne. Nessuno è autorizzato a mediare rispetto a questa alternativa, cercando un punto di incontro e accontentando, con un compromesso al ribasso, le Regioni e i loro delegati, attraverso la facile promessa di un maggiore loro coinvolgimento nelle scelte che in materia lo Stato effettuerà d’ora in avanti. Una promessa del tutto evanescente, destinata ad essere tradita dopo le elezioni amministrative del prossimo anno e dopo il referendum sulla revisione costituzionale, che come noto, riconduce nelle mani esclusive dello Stato ogni scelta in materia di energia. Gli emendamenti del governo costituiscono, quindi, un autentico atto di sabotaggio e uno schiaffo alla democrazia. Per questo chiediamo agli amministratori pubblici e ai cittadini che hanno a cuore il proprio territorio di percorrere assieme a noi e fino in fondo la strada referendaria». Una sfida rilanciata con determinazione, per impedire che molte aree dello Stivale vengano ulteriormente inquinate e impoverite.

L’Italia, rinomata per la bellezza del proprio paesaggio, vive il paradosso di essere prima al mondo per biodiversità, con 7 mila differenti specie vegetali e 58 mila animali, con 140 diversi tipi di grano e 1.800 vigneti spontanei e di racchiudere, al contempo, attività impattanti che scaricano costi sui bilanci di imprese e famiglie per oltre 48 miliardi di euro l’anno (oltre il 3% del Pil).

«Investire sulla tutela dovrebbe essereuna priorità assoluta. Invece i controlli sono ridottiall’impotenza tra nuove regole e risorse decimate». L'Espresso, 22 ottobre, 2015

Dobbiamo augurarci che si abolisca la penosa simbiosi di cultura e turismo, che produce iniziative deplorevoli e rischiose per l’ambiente (...) perché in Italia il campo è invaso dal turismo di rapina»: scrivendo nel 1979, Elena Croce non poteva prevedere che nel 2013 il Turismo sarebbe confluito nel ministero dei Beni culturali. Eppure, continua, «questi danni immensi sono riparabili con una pianificazione appena razionale, svezzando i turisti dagli orrendi villaggi sulla spiaggia e da altri abusi e indecenze» (La lunga guerra per l’ambiente, che sarà ora riedito da Scuola di Pitagora).

Oggi imperversa sul paesaggio la retorica della bellezza, ma si moltiplicano pinete divelte, dune spianate, coste violate, valli e pianure invase da pretestuose autostrade e Tav. Dilaga l’urban sprawl, la distinzione tra città e campagna non vale più, i paesaggi urbani sono vittima di condoni, piani casa, sblocca-Italia. Il paesaggio dovrebbe essere per noi il massimo vanto. Perché in Italia, secondo Goethe, «le architetture sono una seconda natura, indirizzata a fini civili». Perché la nostra vera ricchezza non sono le grandi emergenze monumentali, ma la capillare trama di bellezza diffusa.
Ha scritto Iosif Brodskij a proposito di Venezia: «Abbondano frivole proposte sul rilancio della città, l’incremento di traffico in Laguna... Tali sciocchezze germogliano sulle stesse bocche che blaterano di ecologia, tutela, restauro, paesaggio. Lo scopo di tutto questo è uno solo: lo stupro. Ma nessuno stupratore confessa di esserlo, anzi si nasconde dietro alta retorica e fervore lirico». Per passare dalla retorica ai fatti, investire sulla tutela del paesaggio dovrebbe essere una priorità assoluta, e la convergenza di Turismo e Beni Culturali in un solo Ministero ne sarebbe la premessa. Ma con quali risorse? Oggi ci sono 240 storici dell’arte nei musei, solo 137 nelle Soprintendenze territoriali (634 gli architetti): la tutela del paesaggio, colpita dal silenzioassenso, da mancanza di personale e da bilanci ridicolmente inadeguati, è ridotta all’impotenza. E un paesaggio senza tutela è destinato a subire ogni stupro.

«Abbiamo più che raddoppiato le zone coperte dal cemento e dall’asfalto, sfregiando la ricchezza del nostro paesaggio con tanti piccoli ecomostri. E ora il silenzio-assenso introdotto dalla legge Madia apre la strada a nuovi possibili scempi». L'Espresso, 22 ottobre 2015

Italia lenta, Italia iperveloce


Stiamo divorando la Milano-Bologna sui binari del Frecciarossa, a 298 km all’ora. Campi, canali, tralicci appaiono e svaniscono in un soffio. In mano abbiamo una foto di quando, qui accanto, nel 1960, avanzava il cantiere dell’Autostrada del Sole. Operai sterratori siedono nella polvere in un mondo piatto coltivato a grano e frumento, hanno facce da poveri, fazzoletti in testa come contadini tagiki, bevono l’acqua dai secchi. Il tracciato sarà finito nel ’64, tra molti applausi per Aldo Moro e Amintore Fanfani. Ed eccola qui, la A1 del 2015, corre in parallelo alla linea Tav, a meno di cento

metri. Come dire in poche righe i 62 minuti tra le due città? Sfrecciano campi, filari, pioppeti, frammenti di bosco. Silos, cabine Enel, cascine, magazzini, campanili. L’Ikea a Piacenza, blu ed enorme. E poi Cucine Scic, Fiera di Parma, Barilla. Barriere acustiche a tratti. A Reggio il ponte bianco e la stazione Tav di Calatrava il futurista. Ancora cascine, qualcuna in abbandono. Fienili e rotoballe. Una ciminiera azzurra. Frutteti. Vigneti. Campi coperti di pannelli solari. Poi muri sporchi, scritte “Bologna Bombers” e “Vaffankulo”, ed ecco infine: la città.

Visto a trecento all’ora, il paesaggio italiano è nuovo e antico insieme. Trattiene la storia come carta assorbente. Vi si legge il successo economico, e l’insuccesso. Eccetto Piero della Francesca, dai finestrini si vede l’Italia che fu, e quella ch’è diventata. Dal 1955, quando nacque “l’Espresso”, il territorio è cambiato molto. E non solo perché la direttrice Tav Torino-Milano-Salerno, parte delle Reti Transeuropee, misura mille chilometri di nuove linee ferroviarie. Mentre la Torino-Lione, così contestata, in territorio italiano ha l’84 per cento del percorso, 68 km su 81, in galleria (e dunque invisibile) e neppure è “Alta velocità” perché le merci viaggeranno a 120 all’ora e i passeggeri a 220. Più in generale, che cos’è successo? Tre cose. I mutamenti sono molti e piccoli (e non: pochi e grandi). È cresciuto il consumo del suolo dovuto all’intervento umano. Ma è anche molto aumentato il territorio protetto. Con questa inchiesta l’Espresso prova a capirne di più.
Più consumo del suolo
L’Italia è lunga, bella, strana. Certo non siamo il Canada, natura pura e ripetitiva. Da noi è paesaggio antropizzato, lavorato dall’uomo in due millenni di storia. I tedeschi parlano di Kulturlandschaft; i nostri studiosi di paesaggi frantumati, prodotti da molti soggetti. È cambiata anche l’interpretazione del paesaggio, osserva Fabrizia Ippolito dell’Università di Napoli II, che sta per pubblicare un Atlante d’Italia in numeri (Skira): «Si sono susseguiti il paesaggio da contemplare, la cultura del Grand Tour che sopravvive nelle guide del Touring; il paesaggio patrimonio comune, sancito dall’articolo 9 della Costituzione; la somma di luoghi speciali da tutelare, secondo la legge Galasso; storia e natura da proteggere dal cemento, per Italia Nostra, Legambiente, il Fai...».
Dal dopoguerra il consumo del suolo è più che raddoppiato. Dal 2,7 nel 1956 al 7 per cento nel 2014. Secondo il rapporto Ispra “Il consumo di suolo in Italia” (2015) sono stati intaccati 21 mila dei 301 mila chilometri quadrati del territorio nazionale: più a Nord-Ovest (8,4 per cento), meno al Sud (6,2). In ben 15 regioni si supera il 5 per cento di suolo consumato; in Lombardia e Veneto oltre il 10. Le ragioni sono demografiche, industriali, turistiche. Come ci ricordano altri dati raccolti da Ippolito, fino al 2008, ante crisi, consumavamo 800 chili di cemento per abitante (oggi la metà); abbiamo 5 mila cave attive e 13 mila inattive (più le illegali); 120 aeroporti grandi e piccoli; 30 milioni di abitazioni (il 20 per cento vuote) in ottomila Comuni.
Il Registro delle grandi opere interrotte ne conta circa 600, un’enormità. Con tutto ciò, il paesaggio italico resta ricchissimo, per natura, orografia, diversità, tradizioni costruttive. In quale altro Paese d’Europa coesistono i trulli della Valle d’Itria e i masi del Sudtirolo, le grotte di Postumia e i graniti di Capo Testa in Gallura, i vigneti pettinati dell’Oltrepò e la necropoli di Pantalica in Sicilia? In nessuno.
La città dispersa
Ai tempi in cui Antonio Cederna denunciava i “Vandali dell’Appia”, l’Agro Romano era un’altra cosa. Alle porte dell’Urbe brucavano le greggi accudite dai pastori. Roma aveva (non verso sud, dove l’asse Mussolini-Piacentini aveva imposto la via del Mare) una cintura di prati e pascoli punteggiati di rovine, templi, acquedotti, echi di Arcadia. Il nuovo piano regolatore avrebbe dovuto sviluppare la capitale verso est, assecondando una tendenza storica, tra Tiburtina, Casilina, Tuscolana. Invece no: per scelte politiche pilotate dagli interessi di grandi costruttori, vedi la Società Generale Immobiliare, come denunciato da Manlio Cancogni e dalle inchieste de “l’Espresso”, Roma si espanse ovunque, a «macchia d’olio».
Oggi ne misuriamo le conseguenze. Un esempio plastico: Bufalotta. Dove l’agro cingeva la città a nord, allo sbocco dell’autostrada A1, oggi, lo ricorda anche Francesco Erbani in Roma. Il tramonto della città pubblica (Laterza), c’è una nuova «centralità». È Porta di Roma: una città-dormitorio semivuota su terreni privati da due milioni di metri cubi, residenze schierate intorno ai templi commerciali Auchan, Decathlon, Ikea, Leroy Merlin, 220 negozi, 7 mila posti auto. La domenica, anziché a messa, a MediaWorld. Porta di Roma è un emblema: la privatizzazione della campagna. Il piano delle centralità è decollato con le giunte Rutelli e Veltroni e costruttori d’area, poi Alemanno ha spostato il cemento verso la nuova edilizia abitativa.
Ma il fenomeno è nazionale: è lo “sprawl”, o dispersione urbana. Templi dell’iperconsumo sono sorti ovunque in aree libere. A Marcianise (Caserta), dove Il Campania copre 200 mila metri quadri con un chilometro di negozi; a Bergamo con l’Oriocenter (nel 2014, 14 milioni di persone), che con la futura Extension diverrà il più grande d’Italia, 275 negozi, 8 mila posti auto; in Piemonte il Serravalle Outlet, che da solo crea code sull’autostrada. Tra Fidenza Village, Castel Romano, Valmontone Outlet, l’era dello sprawl lascia monumenti che verranno studiati dagli etnologi del XXII secolo. Roma, però, dopo tot chilometri finisce. Milano e Napoli no.
Lo dicono gli urbanisti, e le foto satellitari: Milano e Napoli sono le uniche metropoli policentriche d’Italia. La prima sale a trapezio verso Brianza, Lario e confine svizzero. Sebastiano Brandolini, docente al Politecnico Eth di Zurigo, calcola che i confini amministrativi del Comune, se spostati e ricalcati pochi chilometri a nord, sull’hinterland, raddoppiano la popolazione (due volte 1,3 milioni): Milano non è che il quartiere Centro di una Milano-metropoli tra i 5 e gli 8 milioni, a seconda dei calcoli. Napoli si slabbra soprattutto a sud-est, da Afragola a Torre Annunziata. Terre difficili, camorra, discariche, abusi, nudi scheletri accanto a facciate barocche e viste stupende. Nella Zona rossa vesuviana risiedono 700 mila abitanti; il dopo-terremoto ha mangiato le campagne.
Ma lo sprawl metropolitano è diffuso anche altrove: la città lineare intorno a Genova, l’asse Cervia-Cattolica, il triangolo Vicenza-Treviso-Padova. Meno del 3% da 3% a 5% da 5% a 7% da 7% a 9% oltre 9% Suolo consumato Fonte: ISPRA Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale Consumo del territorio negli anni 1950 Consumo del territorio nel 2013 Con l’eccezione di Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige, in tutte le Regioni il consumo del suolo è fortemente cresciuto negli ultimi 60 anni. Le percentuali più alte in Lombardia e in Veneto, dove il territorio costruito eccede il 10 per cento La mappa del suolo consumato Il cosiddetto Mostro di Alimuri, a Meta di Sorrento, poco prima di essere abbattuto. A destra: la scogliera dopo la demolizione 22 ottobre 2015 19 PIÙ
Aree protette
In parallelo si registra un fenomeno virtuoso. Crescono le aree naturali protette. Il Parco nazionale d’Abruzzo fu fondato nel 1923. Ma dagli anni del Sacco di Roma il progresso impressiona, e non teme il confronto europeo. Oggi l’Italia conta 24 Parchi nazionali. Dal Golfo di Orosei al Pollino, dal Gran Paradiso alle Dolomiti Bellunesi. È peccato che allo Stelvio sia in atto uno smembramento amministrativo tra Regione Lombardia e Province di Bolzano e Trento; o che il Parco dell’Aspromonte, Calabria infelix, sia meno efficiente di altri. Malgrado ciò, la linea è di progresso. Abbiamo 27 Aree marine protette, 147 Riserve naturali statali e 134 Parchi regionali, 130 Oasi del Wwf, e le tutele del Fondo ambiente italiano si allargano al Mezzogiorno: ultima novità, la straordinaria Abbazia Santa Maria di Cerrate, fondata nel XII secolo, in mezzo alle campagne sopra Lecce.
Tra i giovani cresce la cultura del territorio. Come la tutela della biodiversità, tema che l’Expo 2015, col suo successo superiore agli anatemi, non ha ignorato. Su 51 località italiane classificate “Patrimonio dell’Umanità” dall’Unesco, dieci sono paesaggi: dalla Laguna Veneta (1987) fino all’Etna e a Langhe-Monferrato (2014). «E potrebbero essere 50», chiosa Brandolini: «L’Unesco si adegua sia alle ragioni culturali del paesaggio sia alle ragioni del turismo. Ma il turismo è strumento ambiguo, che insieme conserva e consuma».
Il ritorno del bosco
Tema trascurato, e invece centrale. L’Italia, dagli anni Trenta, ha perso 12 milioni di ettari di terre agricole; il bosco è cresciuto da 4 a 11 milioni di ettari. «E ha accelerato dagli anni Sessanta», spiega Mauro Agnoletti, cattedra di Pianificazione del territorio a Firenze: «In Toscana, dimezzati i terreni agricoli, oggi abbiamo 1,1 milioni di ettari di bosco. È stato un processo di semplificazione.
La Toscana era un puzzle di campi di grano, vigneti, boschi; oggi si è perso il 40 per cento di diversità del paesaggio. Gli stessi inglesi, che coniarono il termine Chiantishire, denunciano la perdita di autenticità». Nel Chianti, lasciati i terrazzamenti, la foresta cresce anno dopo anno.
Nel patinato Montalcino, dall’agricoltura promiscua, vite misto olivo, si è giunti alla monocoltura vinicola, «a rittochino», con i filari paralleli dal basso verso l’alto. Anche sulle Apuane, terra di marmi, il bosco ricopre campi e pascoli, ma castagneti secolari regrediscono. Il rischio incombe sui cosiddetti paesaggi storici. La Val d’Orcia, le colline di Fiesole, il Montalbano, la Montagnola Senese, i Castagneti dello Scesta, angoli di Garfagnana. È nato un Registro nazionale, che ne conteggia 120. La politica li terrà da conto?
Il bosco avanza forte anche in Liguria. Tipiche le Cinque Terre. Disboscate per le linee ferroviarie, rimboschite a pino marittimo, distrutte dagli incendi e dalla cocciniglia, ogni volta ripartite. «Oggi il castagneto storico è riconvertito in bosco ceduo», osserva Mauro Mariotti, botanico all’Università di Genova, «e il bosco si è espanso anche in zona-pascolo, a effetto mantello. Al posto di viti e oliveti, macchia e leccete». Con l’istituzione del Parco delle Cinque Terre (1999) è ripresa la cura dei terreni, ma i costi di manutenzione restano alti.
Diverso il Ponente, dove il paesaggio è marchiato dalla floricoltura intensiva. Oltre ai fiori di serra, alle piante aromatiche e alle succulente, una tendenza che emerge è la riconversione delle serre in pannelli fotovoltaici.
Montagne vicine e lontane
Un altro paradosso. Più la montagna si avvicina, la montagna si allontana. Turismo di massa e voli low cost hanno democratizzato, reso più accessibili le nostre Alpi. Sono sorti comprensori assai competitivi: la Via Lattea in Piemonte, Monterosa Ski, Cervinia-Zermatt, Dolomiti Superski sono hub turistici di rilievo europeo. Il nuovo impianto SkyWay rende più “comodo” il Monte Bianco (troppo, per i protezionisti). Crescono il trekking sulle Alte vie, l’alpinismo organizzato, il climbing, il running d’alta quota.
Ma se anche l’uomo innova, la natura segue il proprio corso. E il cambiamento climatico è arduo da governare. Il Nuovo catasto dei ghiacciai italiani ci rivela che dal 1962 a oggi la loro superficie totale è diminuita del 30 per cento, da 527 a 370 chilometri quadrati. Gli apparati glaciali si sono frammentati, oggi sono 903, oltre un terzo è in Val d’Aosta. Si sono ridotti tutti fortemente, anche i maggiori, l’Adamello, i Forni dell’Ortles-Cevedale e il Miage del Monte Bianco. La stessa Marmolada misurava 3,1 kmq nel 1962, oggi è scesa a 1,9. E dalle nevi in ritirata spuntano ogni anno, macabra sorpresa, i resti mummificati dei soldati della Grande Guerra.
Le molte buone ragioni per cui chi ha compiti di governo ponga la propria azione innanzi tutto sotto il sigillo della legalità: ciò non sta avvenendo per quanto riguarda il piano paesaggistico toscano.

Caro Governatore,sono anni che le scriviamo e la mettiamo a conoscenza della devastazione delle cave, dell’inquinamento delle sorgenti, dell’impoverimento della biodiversità. Decine e decine di foto allegate alle nostre lettere a comprova del disastro ambientale che nessuno può negare. Decine di concessioni, peraltro autorizzate dal Parco, in cui i reati ambientali commessi dai concessionari vengono derubricati a reati “permissibili”: una vera contraddizione in termini.

I tagli e le ferite sono visibili, sempre, a tutti. L’inquinamento delle acque, periodicamente bianche per la marmettola, è stato anche riconosciuto dagli organi competenti, se per i fiumi Carrione, Frigido e Versilia è stata chiesta e ottenuta una proroga al 2021(!!!) “per conseguire il buono stato dei corpi idrici”, evitando in questo modo sanzioni dall’Europa.Aspettiamo nei prossimi giorni di vedere approvato in aula il frutto della scelta di alcuni “trasgressivi” (per usare un eufemismo), i quali, nonostante teoriche casacche politiche di destra e di sinistra, si uniformano a votare profonde modifiche ad un piano già approvato il 7 luglio. Se ci sarà il rispetto della normativa questo piano dovrà nuovamente essere aperto alle osservazioni di rito, perché è completamente snaturato rispetto alla versione passata in aula.

Quello che voglio portare alla sua attenzione, come cittadina, e che spiega il termine edulcorato di trasgressivi, è che le modifiche introdotte da costoro violano le leggi dello Stato: a partire dal Codice dei Beni Culturali, e a seguire le ricordo il principio di precauzione, le leggi sulla tutela dei siti Rete Natura 2000 (per le quali già l’Europa ha aperto un eu-pilot nei confronti della Regione), le leggi sulla tutela delle acque superficiali e carsiche (la nostra riserva del futuro) e per le quali si è stati costretti a chiedere deroghe fino al 2021.È una semplificazione alla Renzi questa che vediamo messa in atto, oppure è la vistosa e macroscopica messa in mora della democrazia?

Si è chiesto perché i concessionari fanno la voce grossa?Difendono pochi posti di lavoro o i loro smisurati guadagni (al nero) favoriti dall’inerzia dei governi regionali e dalla passività e dalla collusione delle amministrazioni locali?

In questi ultimi due anni la tassa che il Comune di Massa richiede ai concessionari di cave per ogni tonnellata di marmo in blocchi è raddoppiata: oggi siamo a 9,90 euro a tonnellata per marmo che ha un prezzo medio di mercato tra i 200 euro e 4.000 euro a tonnellata. Anche un bambino sarebbe in grado di capire che si consente a poche persone di guadagnare cifre mostruose. D’altra parte i Bin Laden hanno pagato alcune concessioni di Carrara 46 milioni di euro, euro intascati da quattro-cinque famiglie.< /br>< /br>Non crede che la devastazione sia frutto di un folle regolamento varato dalla Regione che consente per ogni tonnellata di marmo estratto che il 20% (25% nel Parco) sia marmo in blocchi e l’80% detrito?
Ci contestano la frase ad effetto che il marmo delle Apuane vada nei dentifrici, ma è evidente che gli amministratori regionali, oggi incuranti delle leggi, hanno volutamente consentito la devastazione a favore dei pochi che fanno carbonato di calcio. C’è addirittura una ferrovia dedicata che da Pieve San Lorenzo va allo stabilimento Kerakoll di Sassuolo e si consentono 100 passaggi di camion al giorno a Orto di Donna, in Val Serenaia (cioè nel Parco delle Apuane!) per alimentare il frantoio di Betolleto.
E’ troppo chiederle di modificare quel rapporto 20/80 che aveva senso in una società “preindustriale”, quando il marmo veniva cavato con le mine?
E’ troppo chiederle di ricondurre alla ragione quei selvaggi trasgressivi che calpestano i diritti dei cittadini per il guadagno di pochi?
E’ troppo chiederle come cittadina una tutela ambientale resa possibile semplicemente dal rispetto delle leggi?

L'autrice è Consigliere nazionale di Italia Nostra< /i>

Età decisamente adulta e tutti i motivi per un bilancio complesso dell'area di tutela fra le più importanti d'Europa, specie per il contesto metropolitano in cui si colloca. Corriere della Sera Lombardia, 13 gennaio 2014, e link a un dossier documentato di Eddyburg (f.b.)

MILANO — Era nata da poco, appena quattro anni, anche la Regione, che aveva il suo primo presidente, Piero Bassetti: nel gennaio di quarant’anni fa — tempi di domenica a piedi causa crisi petrolifera e di campagna per il referendum sul divorzio — la giovanissima Lombardia votò la nascita del parco fluviale più grande d’Europa, che al suo inizio comprendeva 30 Comuni ed oggi è arrivato a 47, con oltre 4.000 mila abitanti complessivi. Alle 18.30 di oggi, al Teatro Lirico di Magenta, il via alle celebrazioni, con il presidente della Regione Roberto Maroni e l’assessore all’Ambiente Claudia Terzi ospiti del consiglio di gestione al gran completo e del presidente Gian Pietro Beltrami. Ricordi e propositi: come si conviene alla ricorrenza.

Ci sarà l’avvocato Achille Cutrera, primo firmatario, nel 1972, della raccolta di adesioni (ne servivano 5 mila, furono superate le 20 mila, con tanti notai «volontari» per autenticare le firme): con Giulia Maria Mozzoni Crespi e Pier Fausto Bagatti Valsecchi avevano guardato all’esempio dei grandi parchi fluviali statunitensi. Nel 2011, quando passò la nuova legge regionale sui parchi, si disse pronto a firmare di nuovo per difendere il Ticino: «E continuo a pensare che questa legge dia troppo potere alla Regione togliendone ai Comuni. Ora la dirigenza del Parco è espressione del Pirellone, non credo vada bene». Ma in atmosfera di festa vince lo spirito di collaborazione: e così sarà proprio l’avvocato Cutrera a scrivere pagine importante del libro celebrativo dedicato a questi quattro decenni.

Se oggi — esattamente come fu all’inizio — i propositi di salvaguardia del corridoio biologico che accoglie 5 mila specie viventi si scontrano con i progetti di ampliamento di Malpensa, il presidente del Parco non ha però dubbi: «Se riescono a farci capire — a me e ai sindaci — perché dovrebbe servire una terza pista quando le prime due sono usate al 40%, forse... Ma così possiamo solo chiedere la revisione del Masterplan». Anzi: «A quarant’anni si è nel pieno delle forze — dice Beltrami che a sua volta ricorda di essere stato tra i primi firmatari per l’istituzione dell’area protetta da 90 mila ettari —. Il Parco può anche essere battagliero». Intanto «oggi pensiamo al nostro Ticino, e a tutti quelli che si sono avvicendati alla guida del Parco. E ci prepariamo ad Expo 2015 e ad un futuro di turismo lento, senza chiedere un centesimo allo Stato e aprendo, con gli ostelli, ad un’ospitalità low cost che non rinuncia alla qualità».

Dal Parco Sud, dove fa il consigliere comunale a Buccinasco, parla anche Fiorello Cortiana, già senatore con il centrosinistra e prima, vent’anni fa, assessore regionale verde al Territorio. Nel ‘94, nel pieno del contrasto con la Lega che chiedeva di ridimensionare il Parco, caldeggiava la fusione con l’area protetta piemontese sull’altra sponda del fiume azzurro. Oggi ripete questo auspicio, ricorda che Ticino, Parco Sud e Adda Sud possono «fare sistema» anche sotto l’egida dell’Unesco, ampliando la riserva Mab e ripete l’invito: «Più coinvolgimento degli enti locali, meno Regione». Ma in atmosfera di compleanno, anche i toni del dibattito sono quasi festosi.

Link: elaborato circa quindici anni fa per il sito web Polis, quando Eddyburg era ancora di là da venire, un Dossier ricco di documenti originali ricostruisce la genesi del Parco Ticino e una serie di eventi e idee che lo hanno accompagnato fino ai primi anni 2000

«La storia della Sgc (Strada di grande comunicazione) E78 Grosseto- Fano fa impallidire quella della Salerno-Reggio Calabria. “Inventata” da Amintore Fanfani alla fine degli anni 60, è diventata un’eterna Incompiuta». La Repubblica, 19 ottobre 2013

URBANIA (PESARO URBINO) — Parlano sottovoce, come in un santuario. «Ecco, questo è il balcone di Piero». La valle del Metauro si stende sotto gli occhi e sembra un arazzo. «Questa è la valle e quelle sono le colline dipinte da Piero della Francesca nei Trionfi del dittico di Federico da Montefeltro e Battista Sforza. Fare passare qui una superstrada, anzi un’autostrada, è come sfregiare un quadro. È come cancellare un pezzo di Rinascimento». Non ci sono No Tav, fra le colline che partono da Fermignano, passano da Urbania e arrivano a Mercatello. Ci sono persone che amano la loro terra e la vogliono difendere da inutili offese. «Deve passare qui — racconta l’architetto Antonella Celeschi — la E78, superstrada che deve collegare il Tirreno all’Adriatico. Il progetto iniziale ci andava bene. Ecco, guardi quelle colline che si chiamano Farneto, San Pietro, monte del Pianto delle donne… La strada doveva passare in corte gallerie mentre i tratti all’aperto erano al margine della valle. Da qui, dal Balcone di Piero, non si sarebbe visto nulla. Invece nel nuovo progetto, per risparmiare, le gallerie sono scomparse, la superstrada è diventata un’autostrada a sei corsie e il tracciato taglia la valle proprio nel mezzo».

La storia della Sgc (Strada di grande comunicazione) E78 Grosseto- Fano fa impallidire quella della Salerno-Reggio Calabria. “Inventata” da Amintore Fanfani alla fine degli anni 60, è diventata un’eterna Incompiuta. Dopo cinquant’anni solo 127 dei 270 chilometri previsti, secondo l’Anas, sono «ultimati e in esercizio». Un appalto per 12 chilometri è stato consegnato ad aprile, ma ci sono da finanziare ancora due tratti per una spesa — ancora dati Anas — di 4 miliardi 365 milioni di euro. «Secondo le ultime notizie arrivate dal governo e dalle tre Regioni interessate — raccontano quelli del neo Comitato No allo scempio della Fano-Grosseto — al posto della superstrada ora vogliono costruire un’autostrada a pagamento: il progetto è stato presentato dalla ditta austriaca Strabag, in project financing, che in cambio incasserebbe i pedaggi per 45 anni. Così laspesa scenderebbe di 1 miliardo 300 milioni rispetto a quella prevista ».

Luogo di ritrovo del comitato è l’agriturismo Pieve del Colle, proprio sopra il Balcone di Piero. «Ecco, solo da qui — raccontano l’architetto Antonella Celeschi, lo scenografo Egidio Spugnini che ha lavorato per Monicelli, Montaldo e Scola, e l’informatico Claudio Cerioni — si possono spiegare i nostri no a questa arteria. Là a sinistra, appena fuori dalla visuale del Balcone, si vedono alcune fabbriche. Sono tutte chiuse o in grave crisi. C’era ad esempio l’Allegrezza, che produceva profilati in legno. Negli anni 70 e 80 questa che è chiamata anche la valle di Asdrubale — perché qui i romani sconfissero il fratello di Annibale — era diventata la“valle dei jeans”, con decine di piccole fabbriche e laboratori. La superstrada E78 è stata progettata prima di questo sviluppo ed arriva invece adesso, quando le fabbriche sono chiuse e i jeans sono un ricordo. Lo sappiamo bene, attraversare l’Italia fra i due mari è sempre stato un problema serio. Per questo il nostro non è un no assoluto. Chiediamo che la strada scorra soprattutto in galleria, come previsto nel progetto originale, e che non rovini il territorio. Anche a causa della crisi sta nascendo un nuovo sviluppo economico: dove c’erano le fabbriche adesso ci sono un centinaio di agriturismi. Il paesaggio è il nostro petrolio, il turismo è la nostra miniera».

Le colline ritratte da Piero della Francesca sono state «trovate» da Rosetta Borchia, fotografa e pittrice e Olivia Nesci, docente di geomorfologia a Urbino, diventate «cacciatrici di paesaggi». «Si è sempre pensato — racconta Rosetta Borchia — che i grandi pittori del Rinascimento avessero creato paesaggi immaginari. Ora alcuni di questi sono stati ritrovati. Eranonascosti tra le colline del Montefeltro ».

Si faranno incontri e assemblee, per difendere questi profili fragili e bellissimi. «Quelli che sono nati qui e non si sono mai mossi — dice Claudio Cerioni — quasi non si accorgono della bellezza della nostra terra. Certo, anche qui la voglia di novità e di modernità non è mancata: ci fu quasi una festa, quando a Urbania venne acceso il primo semaforo. Ma quando nel 2009 è stato proposto un impianto eolico, con pale di 120 metri su 20 chilometri di crinale, siamo riusciti a organizzare un referendum, il primo in Italia, e il progetto è stato bocciato. Proporremo un referendum anche per difendere la valle del Metauro». «La nostra valle è stretta — racconta Antonella Celeschi — e la cicatrice dell’autostrada non si risanerebbe più. Per costruirla servirebbero sbancamenti, opere di riporto, zone di stoccaggio dei materiali… Abbiamo purtroppo un esempio concreto. Dieci anni fa è stato costruito un altro pezzo della Fano-Grosseto, con la galleria della Guinza, 2,4 chilometri, che parte da Mercatello ed esce in Umbria. C’è una sola canna con appena due corsie, senza quella di fuga. Adesso non è più a norma. Questa opera ormai inutile insiste sul torrente Sant’Antonio: era una fonte di acqua purissima e adesso è un torrente morto. Vogliamo distruggere anche la valle del Metauro?».

«Valorizzare il paesaggio vuol dire favorire una buona agricoltura e selvicoltura, non un'inutile competizione con Alaska e Scandinavia su fauna o foreste». Un'idea generica e mal concepita di ritorno allo stato di natura è antistorica, soprattutto nel nostro paese per secoli giardino coltivato d'Europa. Corriere della Sera, 22 luglio 2013 (f.b.)

La firma dell'accordo fra Parco delle 5 Terre, ministero dell'Ambiente, Regione Liguria, Fai e comunità locali per il restauro dei terrazzamenti di Punta Mesco è un passaggio importante nei rapporti fra conservazione della natura e del paesaggio, avvenendo a seguito del dibattito iniziato con le frane del 25 ottobre 2011, per il 90% originatesi su terrazzamenti abbandonati. Capire l'importanza e il perché dell'intervento di tante istituzioni, richiede alcune riflessioni sul degrado del paesaggio italiano. Se molti conoscono l'avanzata del cemento, con circa 8.000 ettari l'anno negli ultimi 20 anni, è poco percepito l'abbandono dell'agricoltura e la successiva riforestazione, pari a 75.000 ettari all'anno. In 100 anni abbiamo perso quasi 9 milioni di ettari di aree agricole e i boschi sono passati da 4 a 10,5 milioni di ettari.

Ma se vi è consenso sul limitare l'urbanizzazione, diverso è l'atteggiamento circa l'abbandono, visto spesso come un positivo ritorno alla natura. Questa idea ha origine in nord Europa e in nord America alla fine dell'800, regioni con estese aree naturali ritenute superiori ai paesaggi culturali delle nostre latitudini, ma che in questo trovano la loro forza del punto di vista economico, ambientale e sociale. La reazione al degrado ambientale dell'ultimo secolo ha portato non solo a normative contro l'inquinamento, ma anche a un'idea di natura che ha trasformato i valori che dal XV secolo sono stati associati al nostro paesaggio, apprezzato perché finemente coltivato, arrivando a ricerche che considerano l'abbandono dell'agricoltura un fenomeno positivo. Il nostro sistema dei vincoli ambientali e paesaggistici si è adeguato a questa visione proposta da culture più forti, realizzando strumenti utili a conservare e favorire il ritorno della natura e frenare la speculazione edilizia, ma non a conservare il paesaggio storico. La rete «Natura 2000» vincola come habitat naturali più del 20% della superficie nazionale.

Qui e nelle altre aree protette, secondo la legge 394 che le ha istituite, si limita la possibilità di restaurare il paesaggio, favorendo la naturalità che però nel nostro paese non esiste più almeno dal periodo romano. Secondo la Fao solo l'1% dei nostri boschi è naturale essendo anch'essi un prodotto storico. La nostra biodiversità è infatti soprattutto bioculturale, risultato dei rapporti fra natura e cultura. Un eccesso di naturalità in cui l'uomo è assente non rappresenta né i valori del nostro paese, né un buon biglietto da visita per il futuro, considerando anche la nostra notevole importazione di cibo, fra cui il 50% dei cereali, che contribuisce alla nostra impronta ecologica, di quattro volte superiore alla terra disponibile. Per la Fao dovremo produrre il 50% di cibo in più di qui al 2050 ma ogni italiano ha a disposizione solo 5.000 mq di terra, di cui meno di un terzo coltivati.

Il ministero dell'Agricoltura ha preso in carico il paesaggio varando politiche per la sua conservazione e valorizzazione, istituendo un inventario nazionale dei paesaggi storici e delle buone pratiche agricole e autorizzando il recupero produttivo di paesaggi storici, anche se coperti dalla vegetazione.Ugualmente, fondazioni come Fai, Benetton, Florens, hanno capito che è urgente un'opera di restauro. Valorizzare il paesaggio vuol dire favorire una buona agricoltura e selvicoltura, non un'inutile competizione con Alaska e Scandinavia su fauna o foreste, come affermato in un incontro alla Camera sul turismo. Mettere insieme tutte le istituzioni interessate, come nelle Cinque Terre, significa tentare di fare sistema per valorizzare una risorsa notevole per la competitività del nostro paese e la nostra identità culturale.


Da noi si discute se tutelare o meno la Via Gluck di Celentano: che ne dite del paesaggio deturpato nella New Lanark culla del socialismo pre-marxista ottocentesco di Robert Owen? The Observer, 31 marzo 2013 (f.b.)

Titolo originale: Scottish town that changed the world fights for its rights – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Secondo tantissimi orgogliosi scozzesi il sogno di un nuovo ordine mondiale non è certo nato nella sala di lettura del British Museum, dove Karl Marx a metà '800 elaborava le sue teorie, ma mezzo secolo prima, in una cittadina industriale del Clydeside. Fu a New Lanark, nei primissimi anni del XIX secolo, che Robert Owen espose la sua visione di società industriale, nella quale il lavoro delle donne e degli uomini, per la prima volta in Gran Bretagna, doveva essere valorizzato e rispettato. Basta col lavoro infantile, fondo di assistenza malattia e istruzione per tutti. Un vero terremoto fra gli industriali contemporanei di Owen, ma la vicenda di New Lanark divenne una delle più gloriose pagine della storia economica scozzese. Oltre due secoli più tardi, oggi di terremoto se ne sta preparando un altro, che riguarda stavolta il rapporto fra l'industria, la storia, il paesaggio.

New Lanark è cambiata poco, dai tempi in cui le idee di Owen iniziavano a cambiare il mondo. C'è il lindo splendore degli antichi edifici industriali, sottolineato dal contesto in cui si collocano, fatto di bellissimi boschi e cascate d'acqua. Per fortuna, qui la maledetta tirannia di certe trasformazioni che quasi sempre paiono coincidere con il concetto di “archeologia industriale” on si è vista. Nel 2001 l'Unesco ha riconosciuto a New Lanark lo stato di patrimonio dell'umanità, uno dei quattro siti scozzesi assurti a questo onore mondiale. Ma negli ultimi mesi migliaia di abitanti hanno però firmato una petizione in cui si esprime il timore che quel riconoscimento possa presto essere ritirato.

La Cemex, multinazionale delle estrazioni, vuole aprire nei paraggi una cava a cielo aperto. Ma quanto esattamente nei paraggi? Di questo, stanno discutendo assai animatamente e clamorosamente il consiglio del South Lanarkshire, il governo scozzese e Historic Scotland, l'ente nazionale incaricato di tutelare l'integrità del luogo. La richiesta della Cemex ha diviso l'amministrazione locale, ma la contraddizione principale nella vicenda riguarda Historic Scotland. L'ente, per motivi che non sono ancora chiarissimi, non si è affatto opposto alla domanda della Cemex, dichiarando che: “Dal nostro punto di vista il progetto non solleva questioni di carattere nazionale che confliggano con la storicità del luogo, ergo non abbiamo nulla in contrario. New Lanark si trova a oltre due chilometri dal punto più vicino dell'intervento proposto. Appare evidente che non ci sarà alcuna interferenza visiva della cava su nessuna parte del villaggio”.

Gli ambientalisti locali – sostenuti dalla rappresentante eletta Joan McAlpine – sono di altro avviso. Se fosse concesso il via libera alla Cemex ci sarebbero 3,6 milioni di tonnellate di sabbia e ghiaia sottratte al territorio delle cascate della Clyde in sei anni. Una profonda ferita che, secondo gli ambientalisti, cambierebbe la topografia naturale con una enorme cicatrice visibile a chilometri di distanza, violando anche l'integrità della fascia di interposizione verde progettata ad hoc.

La McAlpine, dello Scottish National Party, è riuscita a coinvolgere anche tutto il suo gruppo a sostegno di una petizione che accusa Historic Scotland di non essersi opposta al progetto Cemex. Ieri ha dichiarato: “Spero sinceramente che il consiglio del South Lanarkshire respinga la proposta. Siamo molto fieri di New Lanark patrimonio dell'umanità, e non ho alcun dubbio che con sei anni di estrazione a cielo aperto quel riconoscimento sia a rischio”.

Non è difficile capire anche la posizione di Historic Scotland, chiusa tra l'incudine e il martello e a rischio di esserne schiacciata. Chiarisce di aver valutato diversi elementi, e che non è nei suoi poteri opporsi in assoluto a trasformazioni industriali. Insomma sono un organismo di tutela, e non un'associazione ambientalista alternativa.

New Lanark nasce nel 1785, 14 anni prima dell'arrivo di Owen, come villaggio industriale di fondazione che sfrutta l'energia naturale delle cascate della Clyde, da quella maggiore della Corra Linn di oltre 25 metri alle tre minori. I progettisti, Richard Arkwright e David Dale, capivano che imbrigliare l'energia di ben quattro cascate tanto vicine poteva alimentare non solo i soliti telai domestici, ma intere fabbriche. Quando Owen rileva gli impianti grazie al matrimonio con la figlia di Dale, nel villaggio già esiste un approccio avanzato alle relazioni industriali, che Owen svilupperà ulteriormente, codificandolo e facendone la base della propria filosofia. Sostenendo che esiste uno strettissimo rapporto fra economia e una classe operaia sana e consapevole, idee che impiegarono però almeno un secolo per affermarsi. Owen pose fine al lavoro infantile, introdusse l'assistenza sanitaria per gli operai, ottime scuole, un fondo malattie, illuminazione pubblica, e i profitti aumentavano.

Il valore dell'impresa crebbe dalle 60.000 sterline del 1799 alle 114.000 del 1813: oggi sarebbero circa otto milioni e mezzo di euro. Ma il vero valore era sociale. Certo la forte resistenza degli industriali a trattare i dipendenti come esseri umani avrebbe impiegato parecchi decenni a sparire, ma poi si sarebbero affermati un po' di buon senso e umanità. Oggi l'ampliamento della cava sarebbe visibile dall'area attorno alla cascata Corra Linn qualche chilometro a monte di New Lanark, un territorio dove il fiume Clyde è ancora magnifico e intatto, prima di essere così strattonato da Glasgow. Quando il poeta William Wordsworth venne qui nel 1802 insieme alla sorella Dorothy e a Samuel Coleridge, definì la cascata “maestosa figlia della Clyde”. Il solo pensare alla terra scavata lì vicino evoca un sacrilegio, ambientale e culturale, anche senza vederlo direttamente.

BREVE SCHEDA BIOGRAFICA DI ROBERT OWEN

Nato a Newtown, Galles, il 14 maggio 1771, Owen ha sei fratelli due dei quali morti bambini, il padre è fabbro e sellaio.

Da giovane va a Londra a cercar fortuna, impara l'arte della tessitura, delle stoffe, della contabilità da un imprenditore scozzese.

Si sposa con Caroline Dale nel 1799, avrà sette figli. Lo stesso anno del matrimonio rileva dal suocero David Dale gli impianti tessili di New Lanark.

Continuerà a pagare gli operai anche durante la guerra commerciale con l'America del 1807 che blocca per mesi la produzione. Convinto del ruolo essenziale dell'istruzione per una società più giusta e senza crimini. Nel gennaio del 1816 apre a New Lanark la sua New Institution for the Formation of Character.

Morirà nel 1858.

Sembra diventata egemonica la concezione del paesaggio come parte del territorio valutata e governata così come viene "percepita dalle popolazioni", lo testimonia questa intervista di Leonardo Petrocelli al rettore dell’Iuav. pubblicata sulla Gazzetta del Mezzogiorno il 10 gennaio 2013.,con postilla

Nel ciclo di affreschi «Allegorie ed effetti del buono e del cattivo governo» il pittore senese Ambrogio Lorenzetti illustrò, a metà del Trecento, come la città e i territori limitrofi possano essere valorizzati dall'applicazione di un corretto corpus di regole. Una banalità, in apparenza, che la miopia modernista ha però rischiato di trasformare in chimera o, quantomeno, in una non vicinissima frontiera della governance cui è necessario approssimarsi al più presto. «Non si tratta infatti di un semplice affresco, ma di un manifesto politico tradotto in un messaggio artistico» spiega Amerigo Restucci - storico dell'architettura e rettore, dal 2009, dell'Università Iuav di Venezia - individuando così nell'opera del Lorenzetti l'incipit più adatto per una riflessione sulla tutela del paesaggio e sul rapporto fra arte e territorio. «Un tema centrale - osserva - destinato a riaffacciarsi costantemente nel dibattito italiano e su cui, in questi ultimi tempi, molti hanno prodotto interessanti riflessioni».

Professor Restucci, iniziamo dai fondamentali. Cosa si deve intendere per tutela del paesaggio?
«In questo caso, tutela è sinonimo di governo. E governare un territorio vuol dire produrre, con giudizio, un insieme di regole concepite per mantenere una continuità storica fra segni del passato e segni del presente. Senza però imporre un vincolistica esagerata e nemica del bene. Solo così un territorio può assumere quel coefficiente di bellezza e qualità che chiamiamo paesaggio. In questo senso si sono spesi attivamente numerosi uomini d'arte e di cultura, richiamandosi tutti all'articolo 9 della Costituzione che impone la tutela del paesaggio e del patrimonio artistico nazionale».

Dalla teoria alla pratica: come ci si muove nel concreto?
«L'indicazione che giunge dal ministero dei Beni Culturali è quella di strutturare piani paesaggistici lavorando a stretto contatto con le regioni. Il termine che definisce questa sinergia è "co-pianificazione". L'input è positivo e le varie sopraintendenze regionali sono già al lavoro per costruire dei percorsi virtuosi. Naturalmente, è necessario procedere con opportune analisi storiche per declinare correttamente i messaggi del passato. In Francia lo hanno capito già da tempo, fin dalle redazione della Encyclopédie di Diderot e D'Alembert dove, alla voce Paysage, si poteva rintracciare questa linea di indirizzo. In Italia ci stiamo arrivando».

Da dove bisogna attingere per una corretta ricostruzione storica?
«Innanzitutto dall'iconografia cioè dall'osservazione del paesaggio attraverso le immagini che provengono dal mondo dell'arte. Penso agli affreschi del Cinquecento e del Seicento presenti nelle chiese di Puglia o alle varie Madonna con Bambino di Cima da Conegliano. Quest'ultimo non è un rimando casuale: proprio su ispirazione di quelle suggestioni visive si è evitato di costruire la zona industriale di Conegliano sulle colline affrescate dall'artista alle spalle delle figure. Spunti molto interessanti possono anche giungere dalle campagne fotografiche del secondo Ottocento, dai resoconti dei viaggiatori e dalle opere letterarie come, ad esempio, Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi e le poesie di Rocco Scotellaro».

Avventurarsi in questo percorso significa penetrare il territorio e ricostruirne la memoria anche al di là delle necessità di governo...
«Un esempio su tutti. Carlo III di Borbone, nel 1730, si adoperò per costruire la "Appia", cioè la strada statale 7 che taglia in due la Basilicata in direzione di Taranto e Brindisi. Quella strada portò cultura e Carlo III si qualificò come propositore di un messaggio di governo volto a premiare il territorio, smentendo la tesi del puro oscurantismo borbonico. È attraverso segni come questo che si può ricostruire una storia paesaggistica».

Ma esiste comunque il rischio di inseguire degli stereotipi?
«Il rischio c'è sempre. È imperativo superare 1'immaginetta stereotipata del paesaggio cui si fa sempre riferimento, ad esempio, quando si parla di Toscana. Il vialetto di cipressi che spesso compare nelle pubblicità delle automobili è davvero l'unico paesaggio da citare? Non è degno paesaggio anche uno jazzo sulla Murgia o una masseria nel Brindisino?».

Se, invece, parliamo di paesaggio urbano a quale linee guida bisognerebbe ispirarsi?
«Bisogna stare attenti a non riproporre la desueta filastrocca sui centri storici, ma puntare a governare tutto il costruito: le parti nuove della città, le sue periferie, i segni industriali dispersi sul territorio. Anche grazie a garbate operazioni di ristrutturazione, risulta possibile inserire tali episodi fuori contesto in un tema comune. Oltretutto, è sempre utile ricordare che un paesaggio ben governato, dalla campagna alla città, è capace di contenere i danni causati dalle calamità naturali».

Nel dibattito culturale si parla sempre più insistentemente di Italia come «bene comune»: il cittadino che ruolo potrebbe rivestire in questo percorso?
«I cittadini possono operare attivamente per la salvaguardia del territorio. È già accaduto in passato. Basta indirizzare il pensiero ai contadini che costruivano e curavano i muretti a secco, oggi oggetto di un associazionismo culturale spontaneo. Non bisogna favorire le divisioni, bensì la partecipazione. Da questo punto di vista la scuola assume un ruolo decisivo contribuendo a costruire nelle coscienze dei più giovani, persino dei bambini, una indispensabile cultura del paesaggio».

A febbraio si tornerà a votare. Quale invito rivolgerebbe al governo che verrà?
«Esorterei tutti a pensionare la politica delle urla, dei graffi, della spettacolarizzazione. A quell'articolo 9 della Costituzione hanno lavorato uomini, come Aldo Moro, che desideravano regalare al Paese ima pagina di alto profilo civico. Ecco, bisogna ricostruire il senso profondo del fare politica e servono partiti disposti a coinvolgere attivamente la società. Anche perché siamo reduci da una stagione "tecnica" in cui è mancato l'ascolto del pensiero comune. Qualche segnale di risveglio, in questo senso, mi sembra già di percepirlo».

Postilla

Le considerazioni di Restucci mi confermano nella convinzione che in Italia si parla spesso del paesaggio e della sua tutela senza rendersi conto del mondo in cui viviamo. Si direbbe che la definizione di “paesaggio” proclamata dalla Convenzione europea è diventata pensiero comune non solo nella sua seconda parte, del tutto condivisibile, ma anche là dove attribuisce alla «percezione delle popolazioni» il criterio sulla cui base decidere che cosa debba essere conservato e che cosa possa o debba essere trasformato e come. Mi sembra preoccupante che questa concezione sia oggi , sia condivisa anche da persone dotate di spirito critico e di capacità di lettura storiche dei contesti, come indubbiamente Restucci è. Come ha osservato giustamente Alberto Magnaghi (che certo non è un avversario del "locale e anzi ha contribuito a farne riconoscere la rilevanza) altro è assumere quella definizione come un obiettivo al quale tendere, altro è considerarla un dato di fatto. Nessun brandello pulito e bello d’Italia resterebbe ancora tale se ritenessimo di vivere oggi in una società che considera il territorio così come lo considerava e lo usava la società (la sua struttura, la sua cultura, e quindi le sue istituzioni sintetizzati nella sale del Palazzo pubblico di Siena. Finché il territorio sarà concepito, organizzato e utilizzato e "governato" come una risorsa da trasformare in ricchezza privata anziché come un patrimonio da arricchire nelle sua qualità per consegnarlo ai posteri, nell’ampia gamma delle azioni che la tutela comprende sono sempre più convinto che debba prevalere l’azione e l’arma del vincolo, più autoritativo possibile. Ma l’argomentazione di questa tesi, il suo significato e le sue conseguenze non possono certo concludersi nel breve spazio di una postilla.

Continua, da parte delle amministrazioni pubbliche, l'assalto al paesaggio veneto: parte integrante ed ineliminabile dei capolavori progettati dal Palladio. La Nuova Vicenza on-line, 11 gennaio 2013 (m.p.g.)

Quattromila capolavori palladiani circondati da capannoni. Le ville venete, volute dai ricchi veneziani che – come scriveva Girolamo Priuli nel 1509 – “volevano abbandonare la navigazione per darsi alle gioie e ai diletti della terraferma”. Un patrimonio straordinario, unico al mondo, di palazzi però aggrediti e soffocati da fabbricazioni di ogni genere che ne violano la bellezza architettonica e paesaggistica.
Una ricerca condotta da Tiziano Tempesta, docente del Dipartimento Territorio e Sistemi Agroforestali dell’Università di Padova, denuncia questo scempio. Lo studioso ha monitorato le 3.782 ville del Veneto, per l’86% private, per il 62% costruite fra Seicento e Settecento, censite dall’Istituto Regionale Ville Venete, andando a vedere cosa era stato costruito intorno e nelle immediate vicinanze, nel giro di 250 metri. Palladio concepiva le sue ville immerse nella natura della campagna veneta, arricchite dall’arte dell’agricoltura, un luogo – scrive il grande architetto – «dove finalmente l’animo stanco dalle agitazioni della città, possa prendere ristoro e consolazione e così potrà attendere quietamente ai suoi studi e alla contemplazione». E’ vero che tante ville sono state sottratte alla decadenza da centinaia di restauri, ma – come ha denunciato più volte Salvatore Settis – «la tutela d’un tesoro monumentale si è fermata un centrimetro oltre la recinzione, come se il valore di quel tesoro non fosse anche l’essere inserito in un determinato spazio».

Monumenti come villa Foscari, detta la Malcontenta, o Villa Pisani a Stra, assediati da condomini, ipermercati, capannoni e costruzioni di vario tipo. Così Tempesta denuncia che il prezzo pagato all’ubriacatura industriale del Veneto, negli anni in cui veniva esaltato lo spontaneismo anarchico e senza regole, è stato spaventoso. Nonostante il 48% delle ville sia tutelato da normative nazionali e regionali “solo in pochi casi la tutela del fabbricato si è estesa anche al contesto paesaggistico in cui esso si trova”. Si veda il caso di villa Trissino Giustiniani a Montecchio Maggiore, davanti alla quale si innalzano enormi silos, di villa Contarini Crescente alla periferia di Padova, che si staglia su giganteschi capannoni, di villa Franchini a Villorba, che confina direttamente con una delle 1.077 aree industriali della provincia di Treviso, che ospita un quinto delle ville venete.

«Tutte scelte sventurate – ha scritto Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera – di tanti decenni fa come gli stabilimenti chimici della Mira Lanza tirati su in faccia a Villa dei Leoni? Magari. L’occupazione delle aree rimaste miracolosamente integre intorno alle ville va avanti, sia pure in modo meno aggressivo di ieri, un po’ ovunque. E solo una durissima battaglia degli ambientalisti e degli abitanti ha bloccato ad esempio una nuova e massiccia cementificazione della campagna adiacente alla stupenda Villa Emo di Vedelago».

Tre anni fa un’inchiesta de Il giornale dell’arte, firmata da Edek Osser, intitolata “Così l’Italia ha massacrato Palladio” e rilanciata anche da The Art Newspaper, nel bel mezzo del cinquecentenario palladiano sollevò un putiferio, denunciando “una colata di cemento senza regole e senza controlli” e riprendendo le parole dello studioso Francesco Vallerani, addolorato nel vedere “da un lato un territorio costellato da straordinarie meraviglie architettoniche e paesaggistiche, dall’altro il disastro urbanistico che ha annullato il paesaggio”. Spiega oggi Tempesta che, a proposito di capannoni, in 111 ville più del 30% del territorio, posto nel raggio di 250 metri, è occupato da insediamenti produttivi, e per altre 159 tale percentule è compresa tra il 20 ed il 30%.

Ad un esame più approfondito si è potuto constatare che non sono poche le ville inserite in zone industriali. Se si considerano le aree urbanizzate nel loro complesso si può vedere che solo il 21% delle ville venete si può considerare a pieno titolo inserito in un contesto paesaggistico pienamente agricolo, presentando nelle vicinanze una percentuale di superficie edificata minore al 20%. In più della metà dei casi la percentuale è ormai superiore al 40%.
Conclusione di Stella: «ecco la sfida di domani: ripulire, risanare, risistemare, recuperare la bellezza. Riportando i capannoni il più possibile lontani da quei tesori che il mondo ci invidia».

Solo in un paese da operetta si può pensare di far governare un organismo complesso come un Parco Nazionale da persone prive di competenza in materia. Un appello da sostenere, 11 gennaio 2013 (m.p.g.)

NO alla nomina di un cacciatore, ex presidente di una associazione venatoria alla presidenza del bellissimo Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi.
SI’ invece alla nomina di una figura di alto profilo e di indiscussa competenza.
Dal giugno 2012 il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi è privo di Presidente. Anni di gestioni al di sotto della sufficienza, di commissariamenti, di inadeguatezze hanno fatto decadere questo straordinario Parco naturalistico, storico-artistico (gli eremi di Camaldoli e della Verna), agro-silvo-pastorale, provocando guasti allarmanti.

Il Parco Nazionale sorge fra le province di Arezzo e Forlì e i miopi localismi regionali hanno imposto finora presidenti spartiti cioè a metà fra Toscana ed Emilia-Romagna, con controproducenti “staffette”. C’è già stato un lungo periodo di commissariamento col direttore generale per le Aree protette, Aldo Cosentino, a mezzadria con altri Parchi pure commissariati. Dopo questo lungo commissariamento finalmente, nel 2007, è stato individuato un presidente toscano, Sacchini, duramente contestato però dagli emiliani che lo hanno sfiduciato.

Da qui gli ultimi otto mesi di braccio di ferro e di vuoto operativo. Le associazioni ambientaliste hanno inviato da tempo lettere al Ministero dell’Ambiente reclamando la nomina a presidente di una personalità dotata di un adeguato curriculum, competente e di alto profilo. Una soluzione che consenta di governare il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi già assediato dalla ristrettezza dei fondi, dalle mire dei cacciatori, dei costruttori, dei gestori di impianti di risalita, di quanti vogliono trasformare i nostri Parchi in luna-park.

Il governo Monti, e per esso il ministro dell’Ambiente, Corrado Clini, avrebbe potuto e dovuto procedere da mesi a tale nomina di alto profilo. Non l’ha fatto ed ora viene proposto quale presidente del Parco delle Foreste Casentinesi l’attuale sindaco di Stia (Arezzo), Luca Santini, presidente dell’Unione dei Comuni, cacciatore e già presidente dell’Unione Cacciatori dell’Appennino (URCA). Neppure con Altero Matteoli – che pure, da titolare dell’Ambiente, nominò maestri di sci, immobiliaristi, ecc. – era mai successo che si avanzasse per un Parco Nazionale la candidatura di un cacciatore, già presidente di associazione venatoria. Sarebbe davvero enorme una tale scelta.

Vi chiediamo pertanto di concorrere a sollevare il problema su tutti i mezzi di informazione e di indirizzare una mail di vibrata protesta agli indirizzi sotto indicati. Un Parco Nazionale straordinario come questo delle Foreste Casentinesi merita un presidente valido, competente, dedito alla tutela naturalistica e non alla caccia.
Per il Comitato per la Bellezza
Vittorio Emiliani, Desideria Pasolini dall’Onda, Vezio De Lucia

indirizzi a cui inviare le mail :clini.corrado@minambiente.it,
monticelli.lucreziocaro@minambiente.it,
grimaldi.renato@minambiente.it,
penna.fabrizio@minambiente.it
segreteria.capogab@minambiente.it

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