loader
menu
© 2024 Eddyburg

Premessa

Di diritto alla città si è scritto e parlato spesso, su eddyburg , nella sua Scuola estiva e negli eventi internazionali che eddyburg e Zone onlus hanno contribuito a organizzare negli ultimi anni. Abbiamo ragionato e discusso sull’impostazione originaria di Henry Lefebvre e sui successivi approfondimenti ed estensioni del termine nonché sulla stretta connessione dell’espressione lefebvriana con la più recente tematica dei “beni comuni”. Su quest’ultimo argomento è in corso di pubblicazioneun numero monografico dei quaderni dell’università La Cambre di Bruxelles, curato da I Boniburini , J. Le Maire, L. Moretto e H. Smith, dal titolo The right to the City / The City as a common good.E’ un argomento, (certamente non nuovo ai frequentatori di eddyburg) del quale si è da tempo occupato David Harvey, tra i più autorevoli studiosi contemporanei della condizione urbana e certo il più rilevante analista di scuola marxista della città.

Il saggio di David Harvey, di cui pubblichiamo un ampio estratto ringraziando sia l’autore che l’editore, costituisce a nostro parere un’illustrazione chiara ed esauriente del percorso di riflessione che il geografo anglosassone (Harvey è britannico e insegna da tempo negli Usa) ha sviluppato negli ultimi anni, a partire da Social Justice and the City (1973) fino a Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution (2012). Quest’ultimo non è stato ancora tradotto in Italia, benchè ne siano comparse recensioni ospitate anche su eddyburg. L’editore Ombre corte ha invece dato alle stampe la raccolta di tre saggi di Harvey, intitolandola il capitalismo contro il diritto alla città (2012). E’ da essa che abbiamo tratto, nella traduzione di Carlo Varesch,i un ampio brano del saggio ” Il diritto alla città”, originariamente pubblicato inNew Left Review, 53. 2008. (i.b.)

David Harvey

Il diritto allo città

[…]Voglio qui esaminare un altro tipo di diritto collettivo, quello alla città, nel contesto di un rinato interesse per le idee di Lefebvre al riguardo e dell’emergere in giro per il mondo di svariati movimenti sociali che rivendcano questo diritto. Come definirlo, dunque?

Il noto sociologo urbano Robert Park scrisse tempo fa che «dei tentativi fatti dall’uomo per rimodellare il mondo in cio vive secondo i propri desideri [la città] è il più duraturo e nel complesso anche il più riuscito. E così, imdirettamente e senza una chiara consapevolezza della natura delle proprie azioni, l’uomo nel creare la città ha creato se stesso» . Se Park ha ragione la questione di quale tipo di città vogliamo non può essere separata da altre questioni: che tipo di persone vogliamo essere, che rapporti sociali cerchiamo, che relazione vogliamo intrecciare con la natura, che stile di vita vogliamo, che valori estetici riteniamo nostri.. Perciò il diritto alla città è molto più che un diritto d’accesso individuale o di gruppo alle risorse che la cittàincarna: è il diritto di cambiare e reinventare la città in modo più conforme ai nostri intimi desideri. E’ inoltre un diritto più collettivo che individuale, perché reinventare la città dipende inevitabilmente dall’esercizio di un diritto collettivo sui processi di urbanizzazione. Quello che intendo sostenere è che la libertà di creare e ricreare noi stessi e le nostre città è un diritto umano dei più preziosi, anche se il più trascurato. Come possiamo, dunque, esercitare al meglio questo nostro diritto?

Se, come sostiene Park, ci è finora mancata una chiara consapevolezzadella natura del nostro compito, sarà anzitutto utile riflettere sul modo in cui, nel corso della storia, siamo stati formati e riformati da un processo urbano messo in moto da forze possenti. L’incredibile velocità e ampiezzadell’urbanizzazione negli ultimi cent’anni, per esempio, significa che che siamo stati ricreati diverse volte senza sapere come, perché e a che scopo. Questa urbanizzazione impressionante ha contribuito al benessere dell’umanità?Ci ha reso persone migliori o ci ha lasciato brancolare in un mondo di anomia e alienazione, di rabbia e frustrazione? Siamo diventati delle semplici monadi scagliate a caso nel mare urbano? Questo tipo di domande ha impegnato , nel XIX secolo, pensatori diversi come Friedrich Engels e Georg Simmel, che hanno offerto analisi acute dei soggetti che stavano allora emergendo a seguito della rapida urbanizzazione . Ai nostri giorni non è difficile enumerare tutti i tipi di ansia e di malcontento, ma anche di entusiasmo , che si realizzano nel corso di trasformazioni urbane ancora più rapide. Eppure sembra che, per qualche motivo, ci manchi il coraggio per una critica sistematica. Il codice del cambiamento ci travolge, anche se ovviamente le domande rimangono. Che fare, ad esempio, dell’immensa concentrazione di ricchezza, privilegi e consumismo in quasi tutte e città del mondo, nel mezzo di quello che le Nazioni unite dipingono come “un pianeta degli slum”? .

Rivendicare il diritto alla città nel senso che qui intendiamo significa rivendicare una forma di potere decisionale sui processi di urbanizzazione e sul modo in cui le nostre città sono costruite e ricostruit, agendo in modo diretto e radicale. […]

premessa: Le parole di eddyburg,

Abbiamo sempre dato molta importanza alle parole, fin dall’inizio di questo sito. Più di una cartella tematica a proposito di questo argomento è contenuta nella sezione “Poesia e non poesia”: una dedicata proprio ad articoli dedicati alle parole e alla loro importanza, altre a questioni più specifiche: non manca un glossario a più voci, nel quale raccogliamo definizioni di parole di cui ci sembra utile precisare il significato, oppure di cui si è data una interpretazione che ci sembra interessante e condivisibile. Proprio in questa collochiamo questo testo di Bevilaqua su due termini del discorso politico che negli ultimi tempi sono stati pesantemente deformati nel gergo corrente per essere usati come flautati ingredienti per la propria tesi o come bastoni con cui colpire l’avversario. Altre cartelle analoghe sono in altre parti del sito. Segnaliamo fra tutte quella intitolata“testi per un glossario”, nella sezione “Urbanistica e pianificazione, dove raccogliamo (soprattutto a opera di Fabrizio Bottini), testi anche molto ampi attorno a parole decisive per gli argomenti che ci interessano. Sarebbe bello se uno degli attenti e disponibili frequentatori del sito costruisse una “visita guidata su questo tema, con l’elenco delle parole trattate.

Il lavoro sulle parole ha avuto poi un forte sviluppo quando ci siamo accorti del forte peso che esse avevano conquistato per affermare nel mondo l’egemonia del potere del capitalismo nella sua forma attuale, e della correlata ideologia neoliberista. Ormai, nelle guerre globali, il ruolo di devastazione del terreno avversario prima dell’assalto finale, una volta affidato alle artiglierie, è attribuito al “discorso”, del quale le parole costituiscono i plotoni. Così, nelle varie edizioni della Scuola di eddyburg abbiamo approfondito - grazie soprattutto a Ilaria Boniburini - l’analisi delle principali parole impiegate delle giornate della Scuola.Ne trovate i testi nelle cartelle dedicate alle varie sessioni della Scuola

Alla riflessione sulle parole, nella costante ricerca di rivelare le deformazioni e mistificazioni compiute per renderle strumentali a determinati interessi sono dedicati anche articoli raccolti in altre parti del sito, quali gli “eddytoriali” e numerose postille agli articoli ripresi altrove e presentati sul sito.

I - L'estremismo dei moderati

Habent sua fata verba. Anche le parole hanno il loro destino nel confuso universo del dibattito pubblico. Il termine moderato, ad esempio, è di quelli cui sembra arridere un imperituro favore, continuamente rinnovato, anche quando esso appare sostanzialmente falsificato dalla realtà dei fatti.

Anche quando esso serve a coprire e autorizzare realtà e dinamiche sociali che hanno ben poco di regolato, mite, corretto, misurato. Oggi i moderati, ad esempio, pur entro una variegata platea di atteggiamenti e culture , sono pienamente identificabili con i difensori dell'ordine esistente. Questa è la loro specchiata carta d'identità, la definizione che tutti li comprende. Certo, sono sempre agitati dal sacro furore di renderlo migliore, quest'ordine, attraverso la vecchia e consunta favola delle riforme da fare, e tuttavia pervicacemente impegnati a difenderne l'assetto, le gerarchie dominanti, la narrazione ideologica di sostegno. Dunque, essi sono diventati, di fatto, e in genere senza effettiva consapevolezza storica del loro nuovo ruolo, il contrario di ciò che immaginano di essere, vale a dire degli estremisti. E il paradosso risiede in una ragione elementare: il loro atteggiamento e la loro collocazione politica non solo non contrasta, ma anzi favorisce il dispiegarsi di fenomeni economici, sociali e ambientali che sono obiettivamente estremi. Il conservatorismo sostanziale della loro posizione e del loro agire, che nulla cambia nella condizione dei deboli e dei perdenti, si presenta con un volto sì mite, ma nei confronti delle potenze dominanti dell'epoca e delle loro sregolate scorrerie.

Com' è possibile ? Le metamorfosi sociali che la storia ci consegna vanno sempre tenuti nel conto. Il tempo, «assidua lima» , come diceva un dimenticato poeta, Giacomo Zanella, non lascia mai niente uguale a se stesso. Quante cose, nel corso storico, si sono rovesciate nel loro contrario! E infatti, da storico, debbo ammettere e ricordare che non sempre il moderatismo ha incarnato una politica subalterna e parassitaria come oggi accade, piegata ad accompagnare e blandire la smodatezza delle forze dominanti. I moderati che hanno realizzato l'Unità d'Italia, ad esempio, e che hanno sconfitto una ipotesi democratica e socialmente avanzata di unificazione, sono stati tuttavia uomini di ardimento e di sagacia politica, e hanno condotto a termine un gigantesco progetto. Hanno unificato, almeno istituzionalmente, gli italiani, fondando uno stato-nazione. Per avvicinarci al nostro tempo, e per passare dall'epica ottocentesca alla prosa del Novecento, ricordo che La Democrazia Cristiana, ad esempio, tra gli anni '50 e '70, ha realizzato una politica moderata, che ha assorbito e neutralizzato vasti settori reazionari ed eversivi, ancora così presenti e attivi nella società italiana, imponendo talora forme contenute ma efficaci di modernizzazione capitalistica. Dalla Riforma agraria alla Cassa per il Mezzogiorno, dalla scuola media unica al piano INA Casa.

Perché il moderatismo politico oggi non è una virtù, ma, al contrario, la conclamata perversione di una politica riformatrice? A renderla tale sono fenomeni vari e complessi riassumibili , tuttavia, in buona parte, nel vasto ma uniforme processo della trasformazione subita dai partiti politici negli ultimi decenni. Tutti, infatti – salvo quelli definiti radicali – hanno inseguito e inseguono oggi il “centro”, come un tempo i cavalieri medievali vagavano per il mondo in cerca del sacro Graal. Essi puntano, cioé, a disporsi in una posizione intermedia fra le classi sociali allo scopo di rappresentare gli interessi moderati che si immaginano dominanti nella società. E' una scelta che mira dritta al successo elettorale e che non ha nessuna ambizione di trasformazione della società, di modifica della ripartizione della ricchezza, di alterazione degli assetti di potere. I “moderati” assumono le gerarchie esistenti, i rapporti di forza dati non come un terreno di conflitto, ma come un principio di realtà da rispettare. Si parte dallo status quo e dal potere su cui si regge, per rappresentarlo con messaggi politici e per svolgere un 'opera di mediazione e di raccordo tra le più varie figure sociali, pensate come elettori, e non certo quali articolazioni di una gerarchia di classi. Gli esponenti del moderatismo sono, dunque, gli agenti di un nuovo «mercato della politica», impegnati a vendere messaggi in cambio di consenso per la propria riproduzione di ceto. Ma essi lasciano immutati gli squilibri drammatici che non solo sconquassano le nostre società, ma le vanno inclinando velocemente verso scenari sempre più ingovernabili. Sotto il profilo culturale, il moderatismo oggi rappresenta la perpetuazione di un conformismo ideologico che è fra i più vasti e totalitari che l'umanità abbia mai conosciuto. Esso si fonda interamente, malgrado i vari scongiuri di rito, sul “senso comune” neoliberista: un insieme di convinzioni dottrinarie fra le più estremiste, come vedremo, che siano state pensate e diffuse nell'età contemporanea.

Che cosa c'è , infatti, di moderato nell'assetto e nella ratio economica del capitalismo del nostro tempo, nelle dinamiche sociali che esso promuove, nell'ideologia che lo ispira ed alimenta ? E' forse moderata la pretesa delle imprese di avere prestazioni sempre più estreme dai lavoratori, sia in termini di intensità che di durata della giornata lavorativa? E' mite e sobria la spinta a un consumismo sfrenato che divora quotidianamente interi continenti di risorse, e che sta portando dissesti tendenzialmente irreversibili ai complessi equilibri della Terra? E tutto questo mentre ancora un miliardo di persone soffre la fame, milioni di bambini muoiono ogni anno per assenza di cibo, acqua potabile, medicine d'uso comune? E' sobria e discreta la pretesa del capitale finanziario di avere ritorni a due cifre, e in tempi sempre più brevi, dei propri investimenti, a prescindere dagli andamenti dell'economia reale? Sono sobrie e parsimoniose le gigantesche speculazioni finanziarie che attraversano quotidianamente il globo, mobilitano immense masse di denaro, sconvolgono economie, manomettono le sovranità degli Stati ? In realtà, mai come oggi il mondo era apparso così drammaticamente percorso da eventi estremi. Non casualmente un sociologo italiano, Tonino Perna, ha potuto dedicare un suo libro, Eventi estremi, al carattere violento e alle «fluttuazioni giganti» che oggi attraversano – e sembrano far ricadere in un medesima logica di funzionamento - tanto il clima che il mondo turbolento della finanza.

Eppure i politici moderati non hanno altra divinità da adorare che la crescita economica, il cosiddetto sviluppo. Promuovono, infatti, il sostegno incondizionato all'accumulazione del capitale, immaginata come il motore da cui discendono poi a cascata, per virtù del mercato, tutti i vantaggi distribuibili tra i vari ceti sociali. Ma è ancora così? Ed è andata così nell'epoca gloriosa del così detto “libero mercato”, il trentennio neoliberale ? Basta un rapido sguardo storico per accorgersene. Forse che non è cresciuta l'economia USA negli ultimi 30 anni? Eppure gli americani hanno visto aumentare l'intensità e la durata della loro giornata di lavoro. In tale ambito sono ritornati indietro di quasi un secolo. Mentre l'insieme delle relazioni umane tendono, per dirla con Zygmunt Bauman, a liquefarsi. E la middle class (la classe media e i ceti popolari) da sempre adorata dai moderati, per il suo essere collocata al centro, che fine ha fatto? Negli USA è stata spazzata via – come ha scritto Lou Dobbs, un giornalista americano, nel suo War on the middle class - da una vera e propria guerra di classe che l'ha ridotta in miseria. Non è cresciuta l'economia europea nello stesso periodo? Eppure la disoccupazione, già prima della crisi, è di fatto aumentata, solo in parte contenuta o camuffata dal dilagare del lavoro a tempo determinato. Una intera generazione di giovani, in diversa misura da Paese a Paese, è stata gettata nel limbo dell' incertezza e della precarietà. E i lavoratori occupati? In Italia, in molti settori, per reggere ai ritmi della fatica, alle lunghe giornate in fabbrica o in cantiere, i lavoratori fanno ricorso alla cocaina. In Francia, come in Giappone, si allunga la catena dei suicidi per l'insostenibilità dei ritmi di prestazione nelle aziende. Sono nati nuovi poveri, la disuguaglianza ha raggiunto picchi da antico regime, è dilagata l'infelicità sociale. Come hanno mostrato in una grande inchiesta, La misura dell'anima, Richard Wilkinson e Kate Picket , «la disuguaglianza è violenza “strutturale”», essa lacera il tessuto vivo della società, è all'origine di un moltitudine di disagi e patologie, avvelena la qualità del vivere. E che cosa ha di moderato una crescita economica che ha reso sempre meno vivibili le nostre città, che è venuta distruggendo le risorse naturali a un ritmo insostenibile, che sta modificando il clima, che minaccia la possibilità di vita di intere regioni e popoli della terra già nei prossimi decenni?

Le cose non cambiano, anzi si mostrano in una esemplarità da caso-studio, se mettiamo il naso nel laboratorio italiano. Se avviciniamo lo sguardo allo scenario politico nazionale, l'abuso dell'aura virtuosa di cui il termine moderato si ammanta appare nella sua luce più grottesca. Negli ultimi anni il nostro Paese è diventato, sotto questo profilo, teatro di un imbarazzante paradosso. Pensiamo al PDL , il maggiore partito del governo appena caduto, che ha sempre preteso di essere una formazione politica moderata. Ora, non solo esso è stato saldamente legato, nell'esecutivo, e ne ha condiviso le scelte, a un partito estremista, xenofobo e persecutorio, come la Lega. Una formazione che lucra consenso elettorale sulla paura e l'odio per il diverso e lo straniero, e si presenta con un volto così moderato da teorizzare la distruzione dell'unità nazionale. Ma è all'interno dello stesso PDL che il moderatismo appare come l'aglio in casa del vampiro. Esiste oggi, sulla scena pubblica italiana e potremmo dire mondiale, un personaggio più smodato, intemperante, eccessivo, disordinato di Berlusconi? Ma la sregolatezza, che solo sino a un certo punto pertiene alla sfera privata – anche per i modi in cui essa si è manifestata e si organizzata – non si limita appunto all'ambito delle prestazioni sessuali. Avremmo pure potuto sorridere della satiriasi di un vecchio, un vecchio potente e soprattutto dotato di uno straordinario potere d'acquisto. Certo, se questo non avesse anche comportato – come di fatto è avvenuto - una così spregevole pratica di mortificazione e mercificazione delle donne. Benché il nostro sorriso, comprensivo e “cattolico,” non avrebbe in questo caso risparmiato all'Italia gli effetti gravi di deturpamento della propria immagine a livello mondiale, presso l'opinione pubblica di Paesi nei quali la dignità del comportamento personale costituisce un tratto indispensabile dell'agire politico.

Ma il fatto è che la più dirompente smodatezza Berlusconi l'ha manifestata sul piano politico, subordinando, come mai era accaduto nella storia dell'Italia unita, il governo del Paese e parte del Parlamento ai suoi interessi personalissimi, mettendo in discussione la divisione dei poteri e l'indipendenza della magistratura, occupando i mezzi di comunicazione di massa, facendo violenza alla Costituzione, stracciando le procedure e le regole della vita democratica, trafficando segretamente con affaristi e criminali. E dunque ponendosi come modello ed esempio, per così dire, per la parte più sregolata ed abietta che opera nei bassifondi della vita italiana, quella opaca galassia che abusa del nostro territorio, evade le tasse, corrompe i magistrati, lucra affari col pubblico denaro. In questo nuovo estremismo immorale, diffuso nello spirito del Paese dal potere di governo, perfino quello che avrebbe dovuto essere il supremo custode dei valori universali della moderazione, la Chiesa di Roma, si è trasformato in una forza disposta sulla trincea dell'estremismo. Non solo essa ha di fatto e troppo a lungo tollerato la sregolatezza moralmente e civilmente dirompente di un capo di governo, in ragione della contropartita per nulla evangelica dei vantaggi economici che ha ricevuto per il suo silenzio. Ma ha praticato e pratica pervicacemente una forma di estremismo che ha la pretesa incontenibile di entrare nell'intimo delle nostre vite. Com'è noto, la Chiesa di Roma, questo papato, vuole toglierci il diritto alla morte. Noi, che come tutti i viventi sparsi sulla Terra, non abbiamo potuto scegliere la nostra nascita, non abbiamo potuto decidere se fare il nostro ingresso nel mondo, dovremmo oggi essere privati del supremo diritto di scelta che la nostra vita ci dona: decidere il modo e il quando del nostro morire.

A questo punto, dunque, è d'obbligo porsi la domanda: perché il termine moderato gode di tanto pubblico favore? Come sanno i linguisti, le parole, anche se soggette alla mutazione del tempo, posseggono una stoffa storica di lunga durata. Esse serbano a lungo la loro originaria semantica e dunque spesso anche l'aura nobile delle loro origini. E il termine moderato, infatti, incassa abusivamente i meriti indubbi della virtù morale che, in origine, esso definisce. La moderazione – che proviene dal latino modus, misura, medietà – è una encomiabile proprietà dell'uomo saggio e mite, che rifugge dagli eccessi. Un ideale di umanità che la civiltà romana mise in cima alla sua gerarchia di valori. E che nel corso del tempo è stata tanto più apprezzato quanto più lontano e contrapposto a ciò che è estremo, violento, senza misura. Possiamo dire radicale?

Ma oggi, siamo ancora a questo ? O la moderazione dobbiamo cercarla esattamente nel suo opposto? Non dobbiamo, come fece Erasmo da Rotterdam nel XVI secolo, nell' Elogio della follia, cercare la saggezza nell 'insania ? « Se i mortali – fa dire Erasmo alla follia – troncassero nettamente ogni rapporto con la saggezza e passassero la loro intera esistenza in mia compagnia, non sarebbero mai vecchi, e anzi godrebbero felici di una eterna giovinezza .>> Occorre capovolgere il significato delle parole. Un ideale di generale “moderazione”, per quegli imprevedibili arcana che governano i nostri destini, per quei capovolgimenti che fanno talora irruzione nel corso storico, è diventato, nel giro di qualche decennio, la prospettiva di un progetto rivoluzionario. Può sembrare forzato e paradossale, ma è esattamente così. Qual'è infatti oggi la finalità suprema dei disegni più radicalmente eversivi dell'attuale assetto disordinato del mondo? A che cosa ambiscono i molteplici soggetti e movimenti che mirano a sovvertire l'ordine capitalistico? E' la prospettiva di una società sobria, che ponga fine al consumismo smisurato, alla bulimia distruttiva di territorio e risorse, all' affanno della crescita infinita, alla mortificazione dell'umana operosità ridotta a merce, alla competizione senza quartiere, alla dissipazione nel lavoro e nel consumo del nostro tempo di vita. Che altro chiedono le moltitudini di donne e uomini che oggi criticano dalle fondamenta il capitalismo violento del nostro tempo? A che cosa aspirano i sostenitori della decrescita, del buen vivir, di Slow Food, del Take back yor time e del Dawnshifting americani, dei movimenti che rivendicano i beni comuni? Essi chiedono l'avvento di una società conviviale, come la profetizzava Ivan Illich, una società in cui i rapporti umani siano improntati alla mitezza, virtù di cui oltre 20 anni fa Noberto Bobbio tesseva un appassionato l'elogio. Il pensiero radicale, dunque, considerato estremo e violento dalla vulgata storica, è in lotta per aprire la via a un diverso rapporto degli uomini con la natura, un rapporto di cura e protezione che metta fine all'età del saccheggio, a nuove relazioni solidali fra gli uomini, a una più equa ripartizione del benessere, a forme egalitarie di partecipazione al governo della cosa pubblica, che siano regolate da un diritto mite, come quello auspicato e descritto da Gustavo Zagrebelsky in un suo fortunato saggio del 1992.

II- Lo sguardo radicale

Ben diversa fortuna ha conosciuto il termine moderno radicale. E da quanto si è detto sin qui si comprende agevolmente il perché. Sin nel linguaggio corrente esso è sinonimo di estremista, supremo insulto politico, oltre che intellettuale, in un epoca nella quale sono rimasti sotto il cielo solo integerrimi moderati, osservanti buone pratiche di indifferenza, che non turbano l'ordine iniquo del mondo. Nel nostro Paese, per la verità, il termine ha anche una sua specifica storia politica, com'è largamente noto. Il Partito radicale – già presente nel Parlamento italiano nell'Italia liberale - ha conosciuto una discreta fortuna tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Allorché immise nella dibattito pubblico dominante, quello, per intenderci, sovrastato dai grandi partiti di massa della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, il tema eversivo dei diritti civili, delle libertà individuali, della sessualità, del diritto di famiglia. Incursione fortunata, coronata da successo, come il referendum sul divorzio e sull'aborto: eventi che hanno contribuito a cambiare in profondità vecchi e talora arcaici rapporti personali e familiari, forme insostenibili di subordinazione delle persone al potere, sia ecclesiastico che laico. Dunque, una pagina importante della storia civile dell'Italia contemporanea, che tuttavia ha lasciato al termine radicale non solo il suo originario alone di eterodossia, ma anche quello di formazione minoritaria. Una condizione da cui quel partito non è più uscito, malgrado la scelta poco nobile degli ultimi anni di accostarsi al centro-destra di Berlusconi. E nonostante l'apertura di credito di molti suoi dirigenti – persino di una donna di valore come Emma Bonino - al dottrinarismo neoliberista che ha trionfato negli ultimi decenni e che oggi è in frantumi.

L'alone di marginalità e minorità politica si è poi esteso e rafforzato negli ultimi anni con le vicende che hanno investito i partiti a sinistra delle varie formazioni eredi del Partito comunista italiano. Com'è noto, Rifondazione comunista è stata tagliata in due da una scissione che l'ha portata fuori dal Parlamento , condizione che ha condiviso anche con la formazione politica dei Verdi. Qualcuno si rammenta del drammatico tracollo di consenso della formazione Arcobaleno alle elezioni del 14 aprile 2008? Si capisce, dunque, come negli ultimi anni il termine radicale, con cui viene normalmente denominata la sinistra non moderata, abbia avuto in sorte – anche per evidente demerito e scarso senso di responsabilità di molti dei protagonisti di queste vicende – il marchio svalutativo della marginalità istituzionale, della minorità ribelle e inconcludente, della insignificanza numerica e politica.

Eppure il termine radicale, per gran parte delle formazioni di sinistra italiane di cui discutiamo, non è apparentabile con l'estremismo. Almeno sotto il profilo teorico, la sinistra di orientamento marxista è stata per tempo vaccinata contro quella che è stata una « malattia infantile«del movimento operaio internazionale. Lenin aveva lungamente dileggiato, nel suo famoso saggio del 1920 sull ‘Estremismo, «La puerilità della “negazione” della partecipazione al parlamento» da parte di innumerevoli “sinistri” prima e dopo la Rivoluzione d'Ottobre. Compreso il nostro Amadeo Bordiga e i suoi compagni dell'ala comunista del PSI. E messo sotto accusa anche non pochi tratti di semplicismo parolaio circolante in quegli anni, e che tuttavia non è mai scomparso né dal lessico, né dalla pratica politica corrente. Ovviamente, in quei tempi di ferro e di fuoco, Lenin aveva in mente una prospettiva apertamente rivoluzionaria, che oggi non ci appartiene nelle soluzioni immaginate, nei metodi e nelle forme della realizzazione. Così come non ci appartiene l'aspro linguaggio di critica, di accusa di tradimento, ai dirigenti della Seconda internazionale, spesso personaggi grandi e lungimiranti, come Kaustky e Berstein. Ma, nella presente fase storica in cui Lenin, per la vulgata corrente, è diventato poco più di un criminale comune, giova ricordare per un momento che cosa è stato il pensiero rivoluzionario, il grado di intelligenza della storia cui esso è pervenuto. E' un antidoto culturale contro il conformismo dominante rammentare i grandi passaggi d'epoca in cui il pensiero politico è stato capace d'immaginare e di perseguire un nuovo mondo possibile. Proprio nell' Estremismo Lenin, il teorico del Partito avanguardia del proletariato, il capo bolscevico svolgeva queste sorprendenti considerazioni :

«La storia in generale, la storia delle rivoluzioni in particolare, è sempre più ricca di contenuto, più varia, più multilaterale, più viva, più “astuta”, di quanto immaginino i migliori partiti, le più coscienti avanguardie delle classi più avanzate. E ciò si comprende, giacché le migliori avanguardie rappresentano la coscienza, la volontà, le passioni, la fantasia di decine di migliaia di uomini; ma la rivoluzione viene attuata in un momento di slancio eccezionale e di eccezionale tensione di tutte le facoltà umane, dalla coscienza, dalla volontà, dalle passioni, dalla fantasia di molte decine di milioni di uomini».

Occorrerebbe ricordarsene più spesso. Naturalmente la critica di Lenin all'estremismo viene qui richiamata per ragioni meramente filologiche, di ripristino della corretta storia delle parole e dei concetti. Essa non serve certo a mettere al riparo le formazioni della sinistra dall'accusa di estremismo, in una fase nella quale esso viene individuato e bollato in tutto ciò che non rientra nelle regole del conformismo e del perbenismo dominanti. A Rifondazione comunista, ad esempio, non è stata sufficiente la teorizzazione della “non-violenza” come scelta strategica di lotta politica, per farle guadagnare un'oncia di aura rispettabile nel panorama politico italiano.

Ma il termine radicale ha un'altra storia e oggi un nuovo significato. E' stato Marx a dare alla parola radicale il significato che ora ci si presenta in tutta la sua potente attualità. Nella Critica della Filosofia del diritto di Hegel. Introduzione , uno scritto del 1843, il venticinquenne Marx scrive:«Essere radicale significa cogliere le cose dalla radice .»: più precisamente, nella sua lingua, Radikal sein ist die Sache an der Wurzel fassen. E aggiunge :«Ma la radice dell'uomo è l'uomo stesso.». Ecco, dunque, uno sguardo di cui abbiamo oggi davvero bisogno. Per incredibile che possa apparire, viviamo una fase storica nella quale, nonostante l'immenso patrimonio di conoscenze di cui disponiamo, stiamo soffocando sotto la coltre di un occultamento totalitario della nostra umana radice. Qual'è il nostro fine, la nostra possibile felicità sulla terra, la nostra responsabilità verso le altre creature che la popolano, l'intera natura, le generazioni che verranno? Ci troviamo nella necessità di disseppellire l'intera umanità da uno strato gigantesco di conformismo che l'ha ormai trasformato in mezzo, strumento di un progetto ormai incalzante e distruttivo di crescita economica infinita. Tutti gli ideali di umano progresso e incivilimento che dall'Illuminismo in poi si sono susseguiti come orizzonti del nostro avvenire sono oggi ridotti a questa vacua teleologia dell'”andare avanti” e sempre sullo stesso sentiero.

Potremmo dunque dire, riprendendo il termine del pensatore di Treviri, che radicale significa affondare lo sguardo in profondità, nei meccanismi costituitivi dei processi materiali. E quindi compiere un disvelamento dei fatti sociali occultati dalle idee ricevute, dal conformismo, dal belletto ideologico dell'industria culturale. Giacché mai come oggi è stata tanto vera l'affermazione, dello stesso Marx, secondo cui «le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti.»

L'attualità di questa vecchia e controversa verità è confermata del resto da un fenomeno degli anni recenti che tutti abbiamo potuto osservare con stupore e costernazione: l'affermarsi di quello che è stato definito il pensiero unico.

Ma occorre essere più analitici. Uno sguardo può essere radicale se esso è capace di una prospettiva storica, se è in grado di scorgere il percorso temporale dei fenomeni, il processo della loro formazione nel tempo. Comprendere che i rapporti dominanti e le istituzioni in cui viviamo immersi sono l'esito di un modo di produzione che si è formato storicamente, è indispensabile per capire la loro origine e il loro significato generale, ma anche per afferrare la loro transitorietà. Costruiti dagli uomini essi sono destinati a trasformarsi e a perire. Sotto il profilo della storia del pensiero è perfino banale ricordarlo. Ma oggi questa elementare verità, questo senso comune dell'uomo moderno, riacquista una nuova freschezza, viene di nuovo a rompere la scorza dell'uniformità che ci sovrasta. Tutto questo perché il capitalismo tende oggi di nuovo, ma con una totalità planetaria sconosciuta al passato, a presentarsi come natura, mondo fisico immutabile, la realtà unica al di la della quale c'è il nulla. Ricordate il « There is no alternative>> non c'è alternativa, di Barbara Thatcher ? Lo scrittore e giornalista canadese Mark Fisher, in un suo recente Pamphlet, Capitalist realism, ha utilizzato l'espressione di “business ontology” ontologia degli affari, per definire la trasformazione totalitaria di ogni frammento di realtà in merce, la penetrazione del capitale nel tessuto vivente della realtà, il suo stesso farsi realtà unica e immodificabile della nostra esperienza. Essa ha trovato alimento – lo aveva colto con anticipo Pierre Bourdieu - nelle « politica di spoliticizzazione, che pesca senza vergogna nel lessico della libertà, liberalismo, liberalizzazione, deregolamentazione, tende ad assegnare un potere fatale ai determinismi economici, liberandoli da ogni controllo, e a sottomettere governi e cittadini alle forze economiche e sociali così' “liberate”».

Ma occorre smontare, togliere i vari mattoni dell'edificio, per cogliere l'artificialità fasulla di questa costruzione umana che ha la pretesa di presentarsi come l'unica possibile ed è solo un tratto della storia mondiale recente del capitalismo, il calco ideologico del suo dominio. Io credo che l'aura di immodificabilità con cui il capitale, penetrato in ogni angolo della vita, si presenta oggi ai nostri occhi - tema su cui tornerò - dipenda almeno in parte dal dominio totalitario assunto dalla scienza economica e dalla sua degradazione in tecnica. E' accaduto, infatti, al pensiero economico dominante quello che sembra essere il destino di tante scienze giunte al loro grado estremo di maturità. Da scienza sociale qual'e' stata sin dal XVIII secolo e per buona parte del Novecento, essa si è ormai trasformata in una tecnologia della crescita economica. E la tecnica – non la scienza, come voleva Heidegger – la tecnica «

. Tutta l' “intelligenza “ della tecnica, infatti, la sua incontenibile potenza, il suo successo, risiedono nella capacità di replicare i propri meccanismi costitutivi, di rimanere identica a se stessa nella sua operatività. La sua essenza, la sua anima operosa si esprime nel perseguimento dell'identico, nella replicazione senza scarti, sempre uguale e potenzialmente infinita, di un dispositivo.

LA SCIENZA ECONOMICA

1

La scienza economica studia, da un particolare punto di vista, le attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni. L’inciso «da un particolare punto di vista» é essenziale in questa definizione, giacché le attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni possono essere studiate non da un solo, ma da più punti di vista. Per esempio, si può studiare in qual modo, utilizzando certe leggi naturali (fisiche, chimiche o biologiche), sia possibile trasformare certi oggetti, non immediatamente utilizzabili per soddisfare bisogni umani, in altri oggetti che sono invece immediatamente utilizzabili a tale scopo. Cosi si può studiare attraverso quali procedimenti é possibile utilizzare un certo appezzamento di terra, certe sementi, certi concimi, ecc., nonché naturalmente una certa quantità di lavoro umano qualificato in un certo modo, per ottenere grano, e attraverso quali altri procedimenti sia possibile, dal grano, arrivare al pane, che e un oggetto capace di soddisfare immediatamente un certo bisogno umano. Oppure si può esaminare in qual modo dall’acciaio, dall’alluminio e da altre materie prime, utilizzando certi macchinari, il lavoro umano possa, alla line, ottenere un’automobile. Si possono fare, com’e chiaro, numerosissimi altri esempi, che il lettore certamente non farà fatica a immaginare. Ora studi di questo tipo hanno certo a che fare con l’attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni; ma il punto di vista che questi studi rappresentano non appartiene alla scienza economica, non é quello da cui la scienza economica risulta caratterizzata: questo punto di vista, come il lettore avrà probabilmente riconosciuto, é quello della tecnologia.

Altro esempio. Gli uomini, svolgendo le loro attività dirette alla produzione di oggetti che servono alla soddisfazione dei loro bisogni, entrano in certi rapporti reciproci, che, in ogni convivenza civile, sono regolati da leggi. Cosi, quando una persona prende in affitto un appartamento per soddisfare il proprio bisogno di abitazione, sa che deve sottoscrivere un contratto – il contratto d’affitto, appunto – il quale deve essere rispondente a certe norme che sono indicate nella legislazione del paese in cui tale contratto viene stilato. Analogamente, se più persone, ciascuna apportando un certo capitale, decidono di costituire una società, il cui scopo sia quello di esercitare una certa attività produttiva, esse sanno che la società deve essere costituita secondo certe regole e che la sua attività deve svolgersi secondo certe norme; regole e norme, che sono anch’esse indicate in una determinata legislazione. Esiste – com’e chiaro - lo studio di tale legislazione, e quindi di tutte le regole e norme da cui essa risulta costituita, e dei principii ai quali esse unitariamente si ispirano. Ora, anche uno studio siffatto ha a che fare con l’attività che gli uomini svolgono per soddisfare i loro bisogni; ma questo studio rappresenta un punto di vista che non è quello della scienza economica: esso rappresenta il punto di vista di un’altra disciplina, che, come il lettore avrà riconosciuto, é il diritto.

Un terzo esempio. I fini che gli uomini si propongono di raggiungere per soddisfare i loro bisogni, e i mezzi che essi impiegano per il conseguimento di tali fini, possono essere buoni o cattivi. C’e una considerazione dell’attività umana che ha lo scopo di valutare se essa sia, o non sia, buona. Neppure questa considerazione rappresenta, com’e chiaro, il punto di vista della scienza economica: si tratta, infatti, della considerazione propria della moralità.

Questi diversi punti di vista, questi vari modi di considerate l’attività umana, non sono dunque quelli propri della scienza economica, anche se, come risulterà chiaro nel corso di questa trattazione, nessuno di essi può considerarsi irrilevante per la scienza economica stessa: Per ora comunque il nostro compito consiste nel cercar di definire in che cosa consiste quel modo particolare di considerazione dell’attività umana, che é proprio della scienza economica.

A tal fine occorre tener presenti le due seguenti - e fondamentali - circostanze.

1) I bisogni umani sono molteplici, e sono suscettibili di indefinito sviluppo. Che i bisogni siano molteplici é una circostanza che risulta immediatamente evidente a una considerazione, anche superficiale, della realtà umana, cos1ì come essa si presenta in ogni momento dato. Gli uomini hanno bisogno di nutrirsi, di vestirsi, di abitare in una casa, di costituire una famiglia, di istruirsi, di riposarsi, di divertirsi, ecc. Inoltre, nell’ambito di ciascuna di queste categorie di bisogni, è sempre possibile individuare bisogni più particolari e specifici. Cosi, non basta agli uomini di nutrirsi in un modo qualunque, ma, nel nutrimento, devono essere osservati certi requisiti, per quanto riguarda, ad esempio, la disponibilità di determinate quantità minime dei vari elementi nutritivi (calorie, vitamine ecc.). Ma dovrebbe pure risultare chiaro che i bisogni non solo si presentano come molteplici in ogni momento dato, ma si sviluppano anche lungo il tempo. I bisogni dell’uomo di oggi non sono certo gli stessi dell’uomo di duemila anni fa; e quella disponibilità di beni che nei tempi antichi poteva essere giudicata degna di un ricco, o magari d’un sovrano, potrebbe essere giudicata oggi intollerabile anche dal più umile lavoratore.

Un grande economista inglese che scrisse verso la fine del ’700, Adam Smith, dette questi esempi per mostrare l’evoluzione subita dai bisogni lungo il corso della storia: «Quello che una volta era un castello della famiglia di Seymour e ora una locanda nella strada di Bath. Il letto di nozze di Giacomo I, re di Gran Bretagna, che la regina sua moglie portò seco dalla Danimarca come dono degno d’esser fatto da un sovrano a un altro, era pochi anni fa l’ornamento d’una mescita di birra a Dunfermline» E ancora: in quale paese del mondo ci si accontenterebbe oggi di provvedere all’istruzione dei cittadini mediante libri scritti a mano, con tutte le limitazioni gravissime che ciò comporterebbe? La stampa é dunque diventata un bisogno, e, per giunta, un bisogno essenziale. E, nelle società più progredite, chi oggi penserebbe di poter viaggiare con mezzi la cui velocita dipenda dalla velocita di animali da tiro? La locomozione con mezzi meccanici è anch’essa diventata un bisogno. Ecco un altro argomento sul quale il lettore può sbizzarrirsi a trovare tutti gli esempi che vuole. Ma c’è un fatto che va tenuto ben presente: questo sviluppo dei bisogni si presenta come illimitato, giacché é il fatto stesso che certi bisogni siano stati soddisfatti ciò che fa nascere nuovi bisogni; l’uomo, insomma, non si ferma mai; se é riuscito a costruire delle case che, bene o male, lo difendono dal freddo e dal caldo, dal vento e dalla pioggia, non si accontenta più di questa protezione pura e semplice, e desidera che le sue case abbiano certe comodità, le quali, col trascorrere del tempo, Vengono poi ritenute sempre più importanti; se, più in generale, é riuscito a soddisfare in qualche modo i bisogni più immediati, più elementari, quelli che dipendono dalla sua vita animale, vorrà poi soddisfare bisogni più propriamente umani, come quelli della cultura e della vita spirituale. I bisogni da soddisfare sono imposti o suggeriti all’uomo dalla sua vita fisica, dai suoi affetti, dalla necessità di vivere in una comunità, dal suo intelletto, dalla sua fantasia, e, magari, dalle sue fantasticherie e dai suoi capricci. E tutte queste fonti da cui i bisogni si formano e si manifestano sono stimolate a produrre bisogni nuovi ogni volta che i bisogni vecchi siano stati, in qualche misura, soddisfatti. Non c’è limite a questo processo, né si può immaginare l’eventualità che, nella storia, si arrivi a uno stadio nel quale tutti i bisogni possibili siano completamente soddisfatti, e nel quale quindi l’uomo si possa fermare, cioè, in sostanza, non vivere più.

2) I mezzi con cui gli uomini soddisfano i propri bisogni possono essere resi via via disponibili soltanto in quantità limitate, cioè in quantità minori di quelle che occorrerebbero per conseguire la piena soddisfazione dei bisogni stessi. Ci possono essere dei mezzi, rispetto ai quali non si pone il problema di renderli disponibili, perché essi già lo sono immediatamente, e può darsi che, in tal caso, essi lo siano in quantità illimitata rispetto al bisogno che gli uomini ne hanno. L’aria atmosferica è uno di questi casi: essa è certo un mezzo per soddisfare un bisogno precisamente quello di respirare, che é, per di più, un bisogno assolutamente essenziale, ed essa, almeno in condizioni normali, e immediatamente disponibile in quantità illimitata rispetto al bisogno medesimo.

Ma, di regola, i mezzi occorrenti ai bisogni umani non sono disponibili immediatamente, e devono esser resi disponibili mediante un lavoro a ciò specificamente diretto. Ora, il lavoro che gli uomini possono svolgere per procurarsi la disponibilità di quei mezzi trova un limite nel fatto che l’uomo stesso e limitato: limitate sono le sue forze, fisiche e mentali, limitata e la sua volontà, limitato e il tempo a sua disposizione, limitato è lo spazio che egli può rendere teatro delle sue operazioni, limitate, infine, sono quelle risorse naturali che egli può porre sotto il proprio controllo. Lo stesso lavoro umano, dunque, in quanto incontra tutti questi limiti (che, è bene ripetere, non sono che altrettante manifestazioni di un unico limite di fondo, che e la limitatezza, la finitezza propria della natura umana), non può mai arrivare a procurarsi tutti i mezzi che occorrerebbero per una completa soddisfazione di tutti i bisogni possibili in un dato momento e di tutti quelli che si possono svlluppare in conseguenza dell’aver soddisfatti i primi.

Ora, la compresenza delle due circostanze testé menzionate – e cioè, da un lato, il carattere illimitato dei bisogni, e, dall’altro lato, il carattere limitato dei mezzi che, mediante il lavoro, si possono rendere disponibili per la soddisfazione di quei bisogni - fa si che le azioni degli uomini comportino necessariamente delle scelte. Non essendo possibile, data la limitatezza dei mezzi, soddisfare compiutamente tutti i bisogni, l'uomo deve continuamente scegliere tra molte possibili linee di azione; scegliere l’una piuttosto che l’altra significa scegliere di conseguire certi fini piuttosto che certi altri, e di conseguirli in una certa misura, piuttosto che in una cert’altra, nonché di usare certi mezzi piuttosto che certi altri, e di usarli in una certa proporzione piuttosto che in un’altra.

2.

Per semplicità, é opportuno illustrare questa particolare caratteristica dell’azione umana - quella caratteristica cioè per cui essa é necessariamente una scelta - distinguendo due casi: nel primo caso, data una certa disponibilità di mezzi, si tratta di scegliere quali fini si intende conseguire con quei dati mezzi; nel secondo caso, dato un fine da raggiungere, si tratta di decidere con quali mezzi debba essere raggiunto.

Immaginiamo un uomo che viva isolato, un Robinson Crusoe, per esempio. Egli dispone di una certa quantità di lavoro, ovviamente limitata, con la quale si trova a dover soddisfare varie specie di bisogni: quello di nutrirsi, di vestirsi, di avere un riparo, di costruirsi degli attrezzi che rendano più efficace il suo lavoro, e cosi via: dovrà perciò decidere come suddividere la propria limitata disponibilità di lavoro tra le diverse operazioni adatte a procurargli i mezzi per il soddisfacimento di quei vari bisogni, e -quindi in tanto può agire in quanto effettui una scelta tra varie possibili alternative di azione.

In una società evoluta, nella quale, come diremo meglio in seguito, esiste la divisione del lavoro, e nella quale, quindi, ognuno si procura i mezzi di cui ha bisogno mediante lo scambio, possiamo immaginare un individuo, che, a compenso del proprio lavoro, abbia ricevuto un salario; questo salario gli dà una disponibilità, evidentemente limitata, sulle merci che si trovano in vendita nel mercato, ed egli dovrà decidere quali merci comprare, e in quali quantità, dovrà cioè esercitare un atto di scelta.

Quando si redige il bilancio pubblico preventivo di una nazione, il governo di questa nazione deve scegliere in qual modo debbano essere utilizzati i mezzi raccolti attraverso le imposte: le alternative sono molte; lavori pubblici, scuola, difesa, amministrazione della giustizia, sicurezza sociale, ecc., e per ciascuna di queste alternative si tratta di decidere se e in quale misura essa va perseguita.

In tutti questi casi, e in altri analoghi che si possono immaginare, ci troviamo in presenza di un soggetto, di un centro di decisioni, che può essere una singola persona o un organo collettivo, il quale, a partire da una certa disponibilità di mezzi, e di fronte a certi bisogni da lui sentiti, deve scegliere in qual modo quei mezzi vanno utilizzati per soddisfare quei bisogni nel miglior modo possibile. Si usa dire che, in tutte le situazioni del tipo or ora illustrato, gli uomini agiscono secondo il principio del massimo risultato.

Adesso consideriamo un soggetto che desideri conseguire un certo fine, ossia soddisfare un certo bisogno, e desideri soddisfarlo in una certa misura. Supponiamo poi che egli possa far uso di vari mezzi per pervenire a quella soddisfazione. Per esempio, possiamo pensare a un individuo che, per nutrirsi, possa rendersi disponibili vari generi alimentari, ognuno dei quali può essere ottenuto con un certo dispendio di lavoro, oppure con la spesa di una certa parte del suo reddito. Ovvero possiamo pensare a un individuo che debba spostarsi da una località a un’altra, e possa farlo mediante mezzi di trasporto diversi (treno, automobile, aereo), l’uso di ciascuno dei quali comporti una certa spesa; o ancora, a un individuo, che, avendo deciso di trascorrere un pomeriggio di svago, possa farlo in vari modi (recandosi al cinema, o al teatro, ol a una partita di calcio, e cosi via), ognuno dei quali implichi un certo costo.

Se, in tutti questi casi, le varie alternative soddisfano il bisogno nella medesima misura, la scelta verrà effettuata in modo che l’impiego dei mezzi - rappresentato dal dispendio di lavoro o dalla spesa del reddito a disposizione - sia il più piccolo possibile. Si usa dire, allora, che, in tutte le situazioni del tipo esaminato, gli uomini agiscono secondo il principio del minima mezzo.

Noti bene il lettore come tanto il principio del massimo risultato quanto ll principio del minimo mezzo costituiscono regole di comportamento, regole di azione, soltanto, e proprio perché, i mezzi sono limitati. Infatti: 1) non avrebbe senso proporsi di render massimo il risultato della propria azione, se i mezzi fossero illimitati rispetto ai bisogni e quindi consentissero di soddisfare i bisogni stessi in modo pieno e totale; 2) non avrebbe senso proporsi di render minimo l’impiego dei mezzi richiesti per il compimento di una certa azione, se la limitatezza dei mezzi rispetto ai bisogni non ponesse il problema di risparmiare i mezzi stessi per poterli dedicare, nella massima misura possibile, ad usi alternativi, cioè ad altre azioni dirette a soddisfare altri bisogni.

I due principi menzionati, dunque, quello cioè del massimo risultato e quello del minimo mezzo, non sono che due modi di esprimere la medesima realtà, ossia che, nelle azioni che gli uomini intraprendono per soddisfare i loro bisogni, essi devono scegliere tra varie possibili alternative affinché la limitata disponibilità di mezzi sia utilizzata per rendere la soddisfazione dei bisogni la migliore possibile.

Ciò detto, possiamo tornare al problema che ci aveva mossi a svolgere tutte queste considerazioni, il problema cioè della definizione della scienza economica, ossia, come già sappiamo, il problema della determinazione del punto di vista dal quale la scienza economica considera il processo di soddisfazione dei bisogni. Diremo allora che la scienza economica studia le azioni che gli uomini compiono per soddisfare i loro bisogni in quanto tali azioni comportino delle scelte in conseguenza della limitatezza dei mezzi che possono rendersi disponibili per la soddisfazione dei bisogni stessi.

É questa la definizione data dall’economista inglese Lionel Robbins nel 1932.

Come si vede, il punto di vista proprio della scienza economica e diverso dai punti di vista che abbiamo menzionati all’inizio di questo capitolo: é diverso da quello della tecnologia, da quello del diritto, da quello della moralità. Che tra questi vari punti di vista debbano esistere dei rapporti, risulta chiaro dalla semplice considerazione che, per diversi che possano essere, tuttavia essi si riferiscono alla medesima realtà, che è l’agire umano. Quali questi rapporti siano, o debbano essere, e un problema assai difficile, al quale potremo fare solo qualche accenno, e soltanto nel seguito di questa trattazione.

Qui vogliamo solo aggiungere che l’aspetto economico dell’agire umano viene generalmente esaminato, dalla scienza economica, prendendo in considerazione gli uomini in quanto membri di una società: di qui il nome di economia politica, con il quale assai spesso la scienza economica è pure designata.

Da Claudio Napoleoni, Elementi di economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1981, IV ed.; p. 3-9.

La società civile esiste: è l’insieme delle persone, delle associazioni, dei gruppi di coloro che dedicano o sarebbero disposti, se solo ne intravedessero l’utilità e la possibilità, se i canali di partecipazione politica non fossero secchi o inospitali, a dedicare spontaneamente e gratuitamente passione, competenze e risorse a ciò che chiamiamo il bene comune. Quante sono le persone, singole e insieme ad altre, che a partire dalle tante e diverse esperienze, in tutti gli ambiti della vita sociale, a iniziare dai più umili e a diretto contatto con i suoi drammi e le sue tragedie, sarebbero disposte a dare qualcosa di sé, non per un proprio utile immediato, ma per opere di più ampio impegno che riguardano la qualità, per l’appunto civile, della società in cui noi, i nostri figli e nipoti si trovano e troveranno a vivere? Da quel che mi par di vedere, tantissime. Quando si parla di politica e di sua crisi, perché l’attenzione non si rivolge a questo potenziale serbatoio di energie? Non per colonizzarle, ma per trarne, rispettandone la libertà, gli impulsi vitali. In fin dei conti, sono questi "servitori civili", quelli che più di altri conoscono i problemi e le difficoltà reali della vita nella nostra società. C’è più sapienza pratica lì che in tanti studi accademici, libri, dossier che spesso si pagano fior di quattrini per rimanere a giacere impilati. Perché c’è così poca attenzione e apertura, anzi spesso disprezzo, verso questo mondo?

La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti, contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato, dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un Paese.

Il testo originale del paragrafo 3, che contiene la definizione del termine “sviluppo sostenibile”, in due pagine del rapporto From One Earth to One World (Rapporto Brundtland) della World “Commission on Environment and Development”, pubblicato nel 1997 con il titolo Our Common Future, approvato dall’Assemblea generale dell’ONU nel 1989. Trad italiana da Il futuro di noi tutti, Bompiani, Milano 1988

L umanita ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere ailoro. Il concetto di sviluppo sostenibile comporta limiti, ma non assoluti, bensl imposti dall'attuale stato delta tecnologia e dell'organizzazione sociale alle risorse economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle attivita umane. La tecnologia e l'organizzazione sociale possono pero essere gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era di crescita economica

La Commissione e del parere che la diffusa povertà non sia piu inevitabile. La povertà non e soltanto un male in sè, ma lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilitè di attuare le proprie aspirazioni a una vita migliore. Un mondo in cui la povertà sia endemica sarà sempre esposto a catastrofi ecologiche e d'altro genere. Il soddisfacimento di bisogni essenziali esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri, ma anche la garanzia che tali poveri abbiano la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l'effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali.

Lo sviluppo globale sostenibile esige che i piu ricchi facciano `ropri stili di vita in sintonia con i mezzi ecologici del pianeta, per rsempio per quanto riguarda 1'uso dell'energia. Inoltre, gli incrementi demografici possono aumentare la pressione sulle risorse e rallentare il miglioramento dei livelli di vita; sicchè, uno.sviluppo sostenibile puo essere perseguito solo se I'entita della popolazione e 1'incremento demografico sono in armonia pm il mutevole potenziale produttivo dell'ecosistema.

In ultima analisi, però, lo sviluppo sostenibile, lungi dall'essere una definita condizione di armonia, è piuttosto un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento di risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con quelli attuali. Noi non affermiamo certo che il processo sia facile o rettilineo. Bisogna compiere difficili scelte. Sicchè, a conti fatti, lo sviluppo sostenibile non puo che fondarsi sulla volonta politica.

Postilla

Qualcuno ne ha parlato come di una "definizione di compromesso". In effetti, sebbene sia certamente un compromesso molto avanzato e una definizione molto severa, non esprime ancora pienamente una critica di quella ideologia della crescita indefinita che è congeniale al modo caputalistico di produzione. Ma è difficile che una critica siffatta potesse trovare consenso unanime all'interno dell'Assemblea generale dell'ONU.

Quanto quel compromesso sia avanzato è testimoniato dal fatto che oggi, nel linguaggio corrente, "sostenibile" è divenuto un sinonimo di "sopportabile", arretrando un bel po' dalla severità della definizione elaborata dai saggi coordinati da Gro H. Brundtland.

Qui sotto è scaricabile il paragrafo sopra tradotto, nel testo integrale in lingua inglese del rapporto. E' tratto da questo sito web.

A ben vedere, tutta la ormai annosa disputa sull'efficacia "elettorale" e, più in generale "politica", del potere mediatico si basa su di un equivoco. Si finge di credere che la prevalenza politico-elettorale venga posta (dagli sconfitti) in relazione con il possesso e il controllo dell'informazione politica. Ma questa costituisce un aspetto minimo della questione: è al più la dose di potere me diatico che concerne l'élite politicizzata. Tutto il resto dell'immensa produzione - senza più differenze tra emittenti private e pubbliche, perché queste ultime per sopravvivere sono mera copia delle prime - è ormai un colossale veicolo dell'ideologia, o per meglio dire del culto, della ricchezza. Non importa più chi controlli: è stato plasmato il gusto ed esso esige comunque un adeguamento totale. Il dominio della merce è diventato culto della merce ed è tale culto che quotidianamente crea, e alla lunga consolida, il culto della ricchezza. La colossale massa di emissioni consacrate alla promozione delle merci è, a ben considerare, il principale contenuto della gigantesca "macchina" televisiva. Non importa di quale prodotto, meglio se di tutti. Quello che ad una minoranza di fruitori appare come un disturbo (di cui attendere la conclusione per "riprendere il filo") è invece il testo principale: ore e ore quotidiane di inno alla ricchezza presentata, con mirabile efficacia, come status a portata di mano (p. 328).

Il culto della ricchezza (nel quale rientrano anche i miti sportivi) ha creato - ed è questo forse il maggior suo successo - la società demagogica perfetta. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma della "parola demagogica". Proprio mentre sembra favorire, attraverso lo strumento mediatico, l'alfabetizzazione di massa, essa produce - e il paradosso è solo apparente - un basso livello culturale oltre che un generale ottundimentó della capacità critica […]contrario l'attuale "democrazia oligarchica", o sistema misto, o come altro si preferisca chiamarlo, orienta, ispira e perciò dirige una folla molecolarizzata e, insieme, omogeneizzata dalla capillare onnipresenza del "piccolo schermo"; nutre, illude e proietta verso una felicità merceologica a portata di mano una miriade di singoli, inconsapevoli della parificazione mentale e sentimentale di cui sono oggetto, paghi della apparente verità e universalità che quella fonte, in permanenza attiva, fornisce quotidianamente loro, soffusa di sogni (p. 331).

Un estratto più ambio del libro di Canfora è in eddyburg, qui

Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere.

K arl Marx, Capitale , libro Primo, sezione III, 1867

In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita.

Karl Marx, Capitale , libro Primo, sezione IV, 1867

La pianificazione territoriale è lo strumento principale per sottrarre l’ambiente al saccheggio prodotto dal “libero gioco” delle forze di mercato. Alla logica quantitativa della accumulazione di cose, essa oppone la logica qualitativa della loro “disposizione”, che consiste nel dare alle cose una forma ordinata (in-formarle) e armoniosa. Non si tratta, soltanto, di porre limiti e vincoli. Ma di inventare nuovi modelli spazio-temporali, che producano spazio (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo distrugge), che producano tempo (là dove la civiltà quantitativa della congestione lo dissipa) e che producano valore aggiunto estetico.

Da : Il carro degli indios, in “Micromega”, n. 3/1986.

Che cosa sono i valori? Li si confronti con i principi. Principi e valori si usano, per lo più, indifferentemente, mentre sono cose profondamente diverse. Possono riguardare gli stessi beni: la pace, la vita, la salute, la sicurezza, la libertà, il benessere, eccetera, ma cambia il modo di porsi di fronte a questi beni. Mettendoli a confronto, possiamo cercare di comprendere i rispettivi concetti e, da questo confronto, possiamo renderci conto che essi corrispondono a due atteggiamenti morali diversi, addirittura, sotto certi aspetti, opposti.

Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè un bene finale che chiede di essere realizzato attraverso attività a ciò orientate. E un fine, che contiene l’autorizzazione a qualunque azione, in quanto funzionale al suo raggiungimento. In breve, vale il motto: il fine giustifica i mezzi. Tra l’inizio e la conclusione dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché il valore copre di sé, legittimandola, qualsiasi azione che sia motivata dal fine di farlo valere. Il più nobile dei valori può giustificare la più ignobile delle azioni: la pace può giustificare la guerra; la libertà, gli stermini di massa; la vita, la morte, eccetera. Perciò, chi molto sbandiera i valori, spesso è un imbroglione. La massima dell’etica dei valori, infatti, è: agisci come ti pare, in vista del valore che affermi. Che poi il fine sia raggiunto, e quale prezzo, è un’altra questione e, comunque, la si potrà esaminare solo a cose fatte.

Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono “tirannici”, cioè contengono una propensione totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di “tirannia dei valori” e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all’etica del valore è spesso un intollerante, un dogmatico.

Il principio, invece, è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all’azione. La massima dell’etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio. Per usare un’immagine: il principio è come un blocco di ghiaccio che, a contatto con le circostanze della vita, si spezza in molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario. Tra il principio e l’azione c’è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore) che rende la seconda prevedibile. Infine, i principi non contengono una necessaria propensione totalitaria perché, quando occorre, quando cioè una stessa questione ne coinvolge più d’uno, essi possono combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si dice, possono bilanciarsi. Chi agisce “per principi” si trova nella condizione di colui che è sospinto da forze morali che gli stanno alle spalle e queste forze, spesso, sono più d’una. Ciascuno di noi aderisce, in quanto principi, alla libertà ma anche alla giustizia, alla democrazia ma anche all’autorità, alla clemenza e alla pietà ma anche alla fermezza nei confronti dei delinquenti: principi in sé opposti, ma che si prestano a combinazioni e devono combinarsi. Chi si ispira all’etica dei principi sa di dover essere tollerante e aperto alla ricerca non della giustizia assoluta, ma della giustizia possibile, quella giustizia che spesso è solo la minimizzazione delle ingiustizie.

[...] E’ nel quadro della “democrazia politica” che si afferma necessariamente il principio della “urbanistica democratica”. Ed allora possiamo affermare che l’urbanistica democratica o è urbanistica partecipata o non è.

Ritornando alle nostre iniziali riflessioni etimologiche, ritroviamo dunque la pienezza del principio di democrazia espressa dalla polis greca come comunità autonoma di cittadini liberi e sovrani, dalla cui assemblea promana l’organizzazione della città.

Il riferimento simbolico alla polis non deve però cedere alla tentazione della semplificazione. La società e la città del terzo millennio ha una complessità che non ammette romanticherie o scorciatoie.

Il principio della partecipazione va concretamente declinato qui ed ora attraverso pratiche adeguate alla complessità del moderno e coerenti con le peculiarità del luogo. Va costruita pazientemente una cultura della partecipazione. Va aumentata simmetricamente la capacità di espressione del cittadino e la capacità di ascolto dell’amministratore. Va rotto il meccanismo perverso che riduce lo spazio della partecipazione alla pura protesta. Vanno create procedure capaci di stimolare la partecipazione. [...]

Si veda il testo integrale della relazione di Silvano Bassetti L’urbanistica partecipata: Ossimoro o tautologia? (2001)

Non c’è nulla che non possa essere cambiato da una consapevole e informata azione sociale, provvista di scopo e dotata di legittimità. Se la gente è informata e attiva e può comunicare da una parte all’altra del mondo; se l’impresa si assume le sue responsabilità sociali; se i media diventano i messaggeri piuttosto che il messaggio; se gli attori politici reagiscono al cinismo e ripristinano la fiducia nella democrazia; se la cultura viene ricostruita a partire dall’esperienza; se l’umanità avverte la solidarietà intergenerazionale vivendo in armonia con la natura; se ci avventuriamo nell’esplorazione del nostro io profondo, avendo fatto pace fra di noi; ebbene, se tutto ciò si verificherà, finché c’è ancora il tempo, grazie alle nostre decisioni informate, consapevoli e condivise, allora forse riusciremo finalmente a vivere e a lasciar vivere, ad amare ed essere amati.

Non c'è esempio migliore del significato che assume negli Stati Uniti l'espressione «sviluppare un'area» (to develop an area). Per «svilupparla» si distrugge radicalmente ogni forma di vegetazione naturale; si ricopre il terreno così liberato con uno strato di cemento (o, nel migliore dei casi, si semina un'erbetta rada che riveste i parchi pubblici delle città); se esiste anche una fascia dl litorale, la si rinforza con un bell'argine di cemento; i corsi d'acqua vengono sistemati a terrazze (o meglio ancora, se possibile, in apposite tubazioni); si avvelena a fondo tutto quanto con potentissimi anticrittogamici e infine si vende il terreno al miglior offerente, cioè a un consumatore istupidito e addomesticato dall'assuefazione alla vita cittadina.

Nessun uomo è un’Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata dall’onda del Mare, l’Europa ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica, o la tua stessa Casa. Ogni morte di uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità e così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te

Il contributo di Antonio Gramsci alla definizione del concetto di egemonia è ritenuto fondamentale.

Secondo Gramsci, il potere è basato sulla presenza contemporanea di forza e di consenso. Se prevale l’elemento della forza, si ha dominio, se prevale il consenso si ha l’egemonia.

Potremmo concludere quindi che l’egemonia è la forma di potere basata essenzialmente sul consenso cioè sulla capacità di conquistare con la forza delle convinzione l’adesione a un determinato progetto politico o culturale.

Il concetto fu elaborato da Gramsci riferendolo essenzialmente agli stati. La sua tesi è che gli stati moderni tendono a basare il loro potere sempre più sul consenso. In tal senso il ragionamento sull’egemonia tende a intrecciarsi con quello sulla democrazia.

L’accademia trova il suo senso compiuto e la sua piena legittimazione non in quanto dia risposta a delle domande, ma in quanto fornisca i saperi che mettono in grado di formularle.

Si chiama rendita il reddito che il proprietario di certi beni percepisce in conseguenza del fatto che tali beni sono, o vengono resi, disponibili in quantità scarsa; dove la scarsità va intesa in uno dei seguenti sensi:

1) i beni in questione appartengono alla categoria degli agenti naturali, disponibili in quantità limitata e inferiore al fabbisogno;

2) i beni in questione vengono resi disponibili da chi li possiede in quantità inferiore alla domanda che di essi si avrebbe in corrispondenza di prezzi uguali ai loro costi. (Claudio Napoleoni)

Giuseppe De Finetti, da "La ricostruzione delle città. Per la città del 2000", serie di articoli inediti per Il Sole , 17 aprile 1943; ora in

Milano. Costruzione di una città , Hoepli, Mílano 2002, pp. 322-23.

Gli spiriti inquieti che tendono al nuovo per il nuovo, allo strano e al mirabolante non servono all'architettura e, quando per caso si dedicano a questo mestiere che è tutto reale e concreto, raramente giovano. E danno non piccolo fanno anche gli ingegni copiatori, quelli che per mancanza di forza inventiva e di spirito critico si attaccano alla moda e seguono solo questa, accettandola tal quale anche se allogena ed estranea affatto al loro tema, al loro clima, ai loro mezzi economici e tecnici.

[...] Guai a lasciar prendere la mano ai praticoni od ai cosiddetti uomini d'azione, che credono di fare la civiltà d'oggi perché costruiscono case o producono beni industriali o commerciano le merci od il denaro e lo fanno sempre con furia gloriandosi della velocità della loro azione e del loro successo, ma sciupando la civiltà del domani, l'industria del domani, la ricchezza del domani. E questi realizzatori noi sappiamo sin d'ora che balzeranno alla ribalta alla prima occasione a bandire programmi mirabolanti e semplicistici, a chiedere libero campo per le loro imprese, a battersi per il sistema del fare pur di fare perché il tempo stringe e la necessità è grande.

Conviene dunque precederli e cercar di fissare qualche concetto fondamentale per lo sviluppo della città, che valga anche a difenderla dagli improvvisatori.

Occorre, quindi, chiedersi se oggi, nell'attuale fase di incontrollata trasformazione che le città sta subendo, quegli ammonimenti non abbiano di nuovo quanto mai valore.

Si veda anche Ingegnere, secondo Musil

Il riformismo ha sempre voluto la luna […] nel senso che ha sempre voluto tenere insieme tre cose: lo sviluppo, e quindi l’accumulazione e l’incremento dell’occupazione ottenuto in questo modo, i servizi dello Stato del benessere, e i consumi privati. Il fato che tra queste cose il riformismo sia sempre stato incapace di stabilire un ordine di priorità secondo me non è casuale.[…] Perché il riformismo accetta i valori che la società in cui opera gli trasmette. Accetta gli stessi valori e cerca di abbassare il più possibile i livelli del disagio

Claudio Napoleoni, “La libertà del finito nel ‘Discorso sull’economia’ di Claudio Napoleoni”, in Palomar, n. 3, 1987, pp. 22-23

Nel collasso della prima Repubblica corrosa dal malcostume consortile, appare B., finto homo novus: affarista d´origini buie; s´è ingrossato nel privilegio concessogli dalla vecchia consorteria; accumula soldi col monopolio delle televisioni commerciali, istupidisce il pubblico, falsifica bilanci, evade il fisco, allunga le mani dappertutto; gl´italiani sapranno poi in qual modo vincesse le cause, comprando i giudici attraverso un´agenzia barattiera. In vista dei sessant´anni scende in campo perché teme la resa dei conti. Tale l´unico programma, sotto la falsa bandiera d´una rivolta contro i politicanti professionisti: qualificandosi campione dello spirito d´impresa, truffa gli elettori; è un enorme parassita, fabbricato dalla malavita politica, abilissimo nella frode, mago delle lobotomie televisive; spaccia menzogne come i bachi secernono bava.

Da la Repubblica del 27 gennaio 2006

[…] Al contrario il «Grand Dictionnaire» di Pierre Larousse affronta il termine ed il concetto in modo storico-analitico e con notevole approfondimento. Il volume VI, in cui figura la voce, esce nel 1870; con ogni probabilità è stato scritto prima del crollo (settembre) di Napoleone III: peraltro l'orientamento dell'articolista, fervente giacobino, in riferimento agli anni della «grande Révelution» non collide con il corredo ideologico-propagandistico bonapartista; ma l'animus antibonapartista che in questa voce non traspare (è latente nei cenni al 1848) diventa chiarissimo nell'amplissima voce dedicata a Napoleone III nel volume XI (1874), dove tutta l'ascesa e presa del potere da parte di Luigi Bonaparte è descritta (e stigmatizzata) come un capolavoro da grande demagogo.

La voce Démagogie si apre dunque con una polemica osservazione sull'uso strumentale del termine: «ecco un'espressione tipica del linguaggio polemico, che si adopera senza attribuirvi un significato preciso». Vi è poi una sorta di apologia del ruolo del «demagogo»: « il termine vuol dire semplicemente guida del popolo; orbene poiché i popoli non sono tuttora capaci di guidarsi da sé, non vediamo cosa ci sia di criminale nell'impegnarsi a dirigerli». Peraltro vi è una tragedia individuale del demagogo: egli «crede di guidare le folle, ma in realtà subisce il movimento piuttosto che imprimerlo: il che è così vero che, generalmente, con demagogia s'intende una situazione in cui il popolo, piuttosto che essere governato, governa». E’ il caso, vien fatto osservare nell'ultima parte della lunga voce, delle grandi figure della Rivoluzione: «Sono trattati come demagoghi, e tuttora denunciati ogni giorno come tali al giudizio dei posteri, tutti gli uomini di cuore che hanno preso parte alla Rivoluzione: Robespierre, Danton, Vergniaud, Mirabeau e persino Lafayette. Lo furono? Sicuramente. Non si conduce - seguita l'articolista - il popolo all'assalto della Bastiglia, non lo si lancia alle frontiere contro tutta l'Europa coalizzata senza sovreccitare sino al parossismo le sue passioni, le buone come le cattive. Ma una volta dato l'impulso, chi guiderà il movimento, chi lo frenerà, chi lo conterrà nei limiti della giustizia? Nessuno. I più forti vi si infrangeranno. A seguire con lo sguardo la breve carriera dei grandi cittadini che si posero alla testa della Rivoluzione, sembra di vedere dei fanciulli appesi a una locomotiva. Tutti vi si sono stritolati. Ma loro se lo aspettavano né si ripromettevano dai propri figli ingrati una tardiva riabilitazione. Perciò dobbiamo ammirarne la grandezza del sacrificio e l'immensità della dedizione». Peraltro viene, nello stesso contesto, rifiutata la nozione di una demagogia unicamente ‘di sinistra’: «Prima di mettere sotto accusa i demagoghi di un'epoca a noi più vicina [rispetto al mondo romano di cui ha prima parlato] gli storici monarchici e clericali dovrebbero rileggersi i loro Annali. Ci furono mai demagoghi più focosi che i nobili e i preti della Vandea o del Midi? ».

[…]

C'è però da osservare, conclusivamente, che il processo sin qui descritto riguarda un'epoca ormai conclusa. Lo scenario attuale è profondamente mutato. Il mondo dominato dal mercato è approdato alla forma integrale di demagogia, quella della mercificazione. Qui si è compiuto il grande salto dalla demagogia rozza, primitiva, demiurgicamente e arcaicamente affidata al superuomo di tipo mussoliniano formato sulle pagine di Le Bon e fiducioso nelle proprie sperimentate capacità di fascinatore di masse, alla demagogia anonima e capillare, totalizzante proprio perché anonima: la mercificazione dei valori e la penetrante imposizione di pseudo-valori di facile assunzione, simboleggiati e potenziati dai media a diffusione capillare e a basso costo (il teleschermo di Orwell rimane una grande intuizione precorritrice), nonché dalle forme spettacolari-popolari a mobilitazione deviante (universo sportivo).

Andiamo dunque verso società sempre più demagogiche anche perché è entrato da tempo in grave crisi (e ha perso attrattiva anche verso i mondi dipendenti o ex-coloniali) il modello di società a base ideologica. La manipolazione involgarente delle masse è la nuova forma di discorso demagogico. Proprio mentre sembra favorire, attraverso i media, l'alfabetizzazione di massa, esso produce (il paradosso è solo apparente) un basso e torvo livello culturale e un generale ottundimento della capacità critica (« dove tutti sanno poco e' si sa poco » era l'allarme del Leopardi nel Dialogo di Tristano e di un amico). Si tratta dunque di una forma di demagogia altamente perfezionata, per ora non bisognosa della coercizione violenta di tipo paleo-fascista. (Un fascismo americano sarebbe democratico, scrisse Bertolt Brecht nel suo Diario, p. 368, in singolare sintonia con Thomas Mann, discorso al « Peace Group » di Hollywood, giugno 1948). Seduce i soggetti dando loro l'illusione dell'autonomia. Ma non trascura nemmeno la latente spinta alla violenza che ogni società necessariamente accumula («quello stato di vaga ostilità atmosferica di cui l'aria è satura nell'èra nostra», dice Musil, L'uomo senza qualità [193I], I, cap. 7), la canalizza (per ora) verso l'ambito sterminato dello sportspettacolo, unica occasione di mobilitazione spontanea delle masse nel tempo nostro. La politica ‘alta’ fa mostra di ignorare tale ambito, ma è a tutti ben chiaro che esso è terreno di vera e propria manipolazione politica: sia per la sua efficacia come valvola di sfogo (deviante) dell'inquietudine sociale semiproletaria e sottoproletaria, sia in quanto strumento di conquista del consenso (clientela elettorale, uso elettorale del mondo sportivo ecc.). Esso è anche, infine, terreno di coltura del neo-razzismo e ne rappresenta l'anima militante e squadristica.

Se infatti le odierne società demagogiche paiono aver raggiunto un equilibrio interno fondato sulla rimozione o canalizzazione del conflitto grazie agli strumenti massificanti della nuova demagogia, esse presentano tuttavia un fianco debole, anzi sono in pratica indifese, di fronte allo straripamento «terzomondiale» in direzione delle metropoli. Qui, per ora, la reazione politica ‘alta’ appare incerta o inconsistente; ma la reazione ‘bassa’ (tollerata, quando non addirittura incoraggiata) è quella del neo-razzismo, tanto più virulento quanto più sorgente dai ceti semi-proletari e sottoproletari delle metropoli («è la concorrenza fra gli strati più bassi della popolazione, per dividersi risorse scarse», dice Basil Davidson). Il neo-razzismo aggressivo è dunque il terzo e più feroce ingrediente delle attuali società demagogiche. Resta da chiedersi se il successivo sviluppo sarà in direzione dell'assorbimento nell'universo degli pseudo-valori anche dei nuovi arrivati (un lavoro in questo senso è stato avviato da tempo, sin nelle società d'origine, dove però - chiusa l'ascetica parentesi leninista - esplode il fondamentalismo), o se invece questa dilatazione di una ricetta già sperimentata nelle società dominanti stia per rivelarsi insufficiente, per esempio a causa della scarsità delle risorse e del sempre più accentuato squilibrio. La prospettiva sarebbe in tal caso quella di una esplosione di inusitata violenza fratricida, per la quale n

La società non è, come comunemente si crede, lo sviluppo della natura, ma la sua decomposizione e la sua intera rifusione. È un secondo edificio, costruito con le macerie del primo.

Chamfort (1741-1794)

La société n'est pas, comme on le croit d'ordinaire, le développement de la nature, mais bien sa décomposition et sa refonte entière. C'est un second édifice, bâti avec les décombres du premier.

Society is not, as is commonly thought, the development of nature, but indeed its decay and total overhaul. It is a second building, built with the rubble of the first.

Chi è Chamfort

La vera democrazia scaturisce da molte impercettibili battaglie umane individuali combattute per decenni e alla fine per secoli, battaglie che riescono a costruire tradizioni. L’unica difesa della democrazia, in fin dei conti, sono le tradizioni di democrazia. Se si inizia ad ignorare questi valori, si mette in gioco una nobile e delicata struttura. Non esiste nulla di più bello della democrazia. Ma non è una cosa con cui giocare. Non si può avere la presunzione di andare a far vedere agli altri che magnifico sistema possediamo. Questa è mostruosa arroganza.

Poiché la democrazia è nobile, è sempre messa a rischio. La nobiltà in effetti è sempre in pericolo. La democrazia è effimera. Personalmente sono dell’opinione che la forma di governo naturale per gran parte delle persone, dati gli abissi di abiezione della natura umana, sia il fascismo. Il fascismo è una condizione più naturale della democrazia. Dare allegramente per scontato che possiamo esportare la democrazia in qualunque paese vogliamo può servire paradossalmente ad incoraggiare un maggior fascismo in patria e all’estero. La democrazia è uno stato di grazia ottenuto solo da quei paesi che dispongono di un gran numero di individui pronti non solo a godere della libertà ma a sottoporsi al pesante onere di mantenerla.

Natura di cose altro non è che nascimento di esse, in certi tempi e con certe guise, le quali, sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose

© 2024 Eddyburg