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In queste pagine l'autore racconta di quando suo padre, Silvio Saraceni, divenne commissario di governo di Castrovillari nel 1944. Come condizione all'accettazione della sua carica Silvio stilò un decalogo in cui chiedeva poteri straordinari (perquisizioni, requisizioni), la possibilità di nominare su base volontaria e gratuita «ausiliari del Comune», da affiancare alla esigua (e non tutta affidabile) pattuglia dei vigili urbani e di usare il titolo di sindaco o commissario del popolo anziché quello di commissario di governo. Gli fu concesso pressoché tutto, ma non il titolo di sindaco. Poté usare quello di commissario straordinario. (a.b.)

Il seguente testo è tratto da «Un secolo e poco più» Sellerio Editore, 2019

Mio padre sceglie di insediarsi il 1° maggio, «festa del Lavoro e del Socialismo». La situazione logistica del Municipio è disastrosa. Tra l’altro manca anche una macchina da scrivere e, naturalmente, il dattilografo. Silvio possiede una Olivetti Lettera 22, su cui aveva imparato a scrivere la sua primogenita, allora quattordicenne. Macchina e figlia vengono trasferite in pianta stabile al Comune, ovviamente senza retribuzione. Il che era, se non proprio giusto, certamente opportuno. E condiviso in famiglia.

Ricordo che però mia madre non fu d’accordo quando, ad una delle mie sorelle che si era ammalata, negò il supplemento di latte e la razione di riso che spettava agli ammalati. E non era d’accordo, mia madre, neppure quando, per non incorrere nei fulmini di Silvio, era costretta a rispedire al mittente qualche modesto, ma all’epoca prezioso, regalo alimentare, un cesto di verdure, un chilo di pane, un litro d’olio. C’era, in questi atteggiamenti, un connotato estremista, un eccesso di «piacere dell’onestà» (l’opera di Pirandello di cui apprezzava soprattutto il titolo).
Un mese dopo l’insediamento in Municipio, il 3 giugno, Fausto Gullo, ministro dell’Agricoltura, gli chiede di assumere l’incarico della «Direzione Generale della Alimentazione», struttura del Governo di Salerno in prima linea nell’affrontare il principale problema del momento. Lui ringrazia e declina, gli sembra un tradimento del suo popolo, che lo ha voluto alla guida del Comune. In questa occasione confida all’amico ministro – forse anche in cerca di «protezione» – il recente scontro che ha avuto con il capitano dei carabinieri: lo aveva ha messo alla porta dopo che, durante una visita di cortesia, aveva detto che sull’approvvigionamento «personale» avrebbero senz’altro trovato un accordo (in seguito sulla stampa apparve la notizia che questo capitano, nel frattempo trasferitosi altrove, era stato arrestato in una delle rare indagini del tempo per corruzione).
Per esporre il suo programma e fare un appello ai cittadini, Silvio vorrebbe affiggere dei manifesti. La tipografia macchiatasi di colpa antifascista è ancora chiusa, così si dà da fare e riesce a farla riavere al tipografo. Dopo la ripulitura delle tracce della falsificazione delle Am Lire, la tipografia può entrare in funzione anche grazie ad alcuni vecchi rotoli di carta rimasti intatti. La prima stampa è il manifesto del «Sindaco», un appello ai cittadini: l’urgenza è assicurare alla popolazione intera il necessario per sopravvivere; tutti hanno il dovere di collaborare; chi dispone di scorte alimentari o di vestiario ha l’obbligo di dichiararlo al Comune, pena la requisizione; contadini e commercianti hanno l’obbligo di portare le loro mercanzie al mercato comunale, dove saranno vendute a prezzi calmierati; il commissario pro tempore intende impiegare i suoi poteri straordinari per snidare accaparratori e mercanti neri, contro i quali sarà usato il massimo rigore; i volontari disponibili al ruolo (gratuito) di «ausiliari» devono presentarsi al Comune che ne vaglierà i requisiti.
Nell’immediato l’appello e la minaccia producono qualche effetto. Al mercato per qualche settimana compaiono prodotti della terra, scarpe e vestiario. Si formano lunghe file, ma quasi tutti riescono a tornare a casa con qualcosa. Il commissario si reca spesso di persona al mercato per controllare che siano rispettati i prezzi e l’ordine nelle file, non sono ammessi favoritismi per censo o ceto sociale, solo donne incinte o con bambini piccoli, anziani e invalidi, hanno la precedenza. (Ricorda mia sorella Fiorenza che una volta, mentre era in attesa, il mercante la riconobbe e la chiamò per farle scavalcare la fila; ma «don Silvio» piombò come una furia e retrocesse mia sorella all’ultimo posto minacciando il mercante di revocargli la licenza).
Intanto arriva la chiusura dell’anno scolastico, che per le scuole elementari si è ridotto a pochi mesi. L’edificio scolastico era stato danneggiato dal bombardamento dell’agosto ’43 ed era tornato agibile solo nel febbraio ’44. Il commissario fa un accorato appello ai maestri, teniamo aperte le scuole almeno fino a ferragosto, poi vi resterà ancora un mese e mezzo di vacanze (allora l’anno scolastico si apriva formalmente il primo ottobre e la scuola cominciava a funzionare a regime addirittura a novembre, dopo i primi quattro giorni festivi).
All’appello rispondono in pochi, cinque o sei; ma sotto la loro guida si improvvisano maestri una decina di volontari, in maggioranza donne. Del resto – spiega il commissario in una riunione plenaria estesa ai genitori – si tratta soprattutto di tenere i bambini lontano dalla strada e dalle precarie condizioni delle famiglie, in cui gli adulti sono impegnati l’intera giornata per sbarcare il lunario. Silvio rimaneva al Comune tutto il giorno e spesso anche la notte, si era fatto portare una brandina («Mi basta un giaciglio», diceva). E altrettanto spesso mia madre gli preparava qualcosa da mangiare che lei stessa o un commesso gli portava sul posto di lavoro.
Era riuscito a procurarsi una vecchia Balilla, usata rigorosamente solo per gli affari del Comune (noi in campagna – sei chilometri di strada – andavamo a piedi). La usava di notte per pattugliare, insieme ai pochi vigili e agli ausiliari, le strade di uscita dal paese, da dove passavano le «esportazioni» della borsa nera. Intanto mercanti e contadini si organizzavano per prendere le contromisure e non sottostare alla «dittatura» (così la chiamavano) del commissario. I mercanti si procurarono muniti nascondigli e trovarono nuovi canali per lo smercio clandestino.
I proprietari terrieri proibirono portava sul posto di lavoro. Era riuscito a procurarsi una vecchia Balilla, usata rigorosamente solo per gli affari del Comune (noi in campagna – sei chilometri di strada – andavamo a piedi). La usava di notte per pattugliare, insieme ai pochi vigili e agli ausiliari, le strade di uscita dal paese, da dove passavano le «esportazioni» della borsa nera. Intanto mercanti e contadini si organizzavano per prendere le contromisure e non sottostare alla «dittatura» (così la chiamavano) del commissario. I mercanti si procurarono muniti nascondigli e trovarono nuovi canali per lo smercio clandestino. I proprietari terrieri proibirono ai loro contadini di raccogliere i prodotti da portare al mercato comunale: preferivano farli marcire, quando non riuscivano a venderli clandestinamente e di fronte alle ispezioni e alle minacce del commissario simulavano furti, danneggiamenti, allagamenti.
Giorno dopo giorno, gli approvvigionamenti si assottigliavano, finché il mercato comunale non rimase deserto. Il commissario tenne un discorso dal balcone del Comune e affisse un bando: dava tempo una settimana a contadini e commercianti per portare al mercato prodotti della terra e mercanzie. Scaduta inutilmente la settimana, requisì due camion di un «pescecane» locale, convocò il popolo e guidò una «spedizione» nei terreni agricoli. Per due giorni consecutivi furono raccolti quintali di prodotti, annotati alla bell’e meglio in un registro con il nome dei proprietari. I prodotti furono portati al mercato e venduti ai prezzi di calmiere. Il ricavato fu distribuito ai proprietari terrieri. L’impresa fu approvata dalla stragrande maggioranza della popolazione, ma incontrò la disapprovazione dei benpensanti e delle autorità costituite.
I carabinieri trasmisero un rapporto alla magistratura, il prefetto chiese giustificazioni scritte. La sezione locale del Comitato di Liberazione Nazionale affisse un manifesto in cui si dissociava. Il commissario rispose con un suo manifesto in cui ricordava al «sedicente» CLN che i partiti politici di cui si dicevano espressione avevano il dovere di stare dalla parte del popolo e non dei suoi affamatori. Il manifesto si concludeva annunciando un comizio del commissario per la domenica successiva. Al comizio partecipò praticamente l’intera comunità. Il popolo in piazza, mentre i dissenzienti se ne stavano ai margini o ascoltavano il discorso da dietro le finestre socchiuse delle case patrizie che si affacciavano sulla piazza.
L’essenza del discorso stava nella sua conclusione: visto che le autorità costituite in nome del re osteggiano l’opera del commissario che agisce in nome e nell’interesse del popolo, di cui riscuote il pieno consenso, non ci resta che proclamarci Repubblica. Il popolo applaudì, più per adesione all’operato del commissario che per fede repubblicana.
In un manifesto affisso qualche giorno dopo (ricordo la minuta, scritta a matita sul retro di una tessera annonaria scaduta), Silvio ribadì che «la Repubblica indipendente di Castrovillari» avrebbe fatto il suo corso nel rispetto della legge, che certamente consentiva al commissario di espropriare, anche con la forza, i beni imboscati dai nemici del popolo. La «Repubblica di Castrovillari» – che lo storico Vittorio Cappelli cita a p. 555 del volume della Storia d’Italia della Einaudi dedicato alla Calabria – è praticamente coeva alla ben più eroica Repubblica della Val d’Ossola, nata nel settembre 1944 in territorio ancora occupato dai nazifascisti e cessata dopo poche settimane di intensa vita democratica. Nel «Regno del Sud» la Repubblica di Castrovillari precede invece la più nota (e più cruenta) Repubblica di Caulonia, che nasce nel marzo 1945.
Alla pubblicazione del manifesto – firmato, in violazione dell’originario accordo, «il commissario del Popolo» – seguirono i fatti. Qualche giorno dopo, convocata ancora la comunità popolare, mio padre organizzò un’altra spedizione nei magazzini di due commercianti di calzature e vestiario. Anche questa mercanzia fu venduta al mercato e il ricavato messo a disposizione dei due, che però lo rifiutarono (il denaro fu depositato in banca con «offerta reale»). A questo punto gli interessi, leciti e illeciti, di contadini, mercanti, trafficanti vari si saldarono al composito fronte degli oppositori politici («sinceri democratici», democratici», neo-liberisti, ex fascisti riciclati, emergenti esponenti dei rinati partiti), in una alleanza che si mise al lavoro per destituire il commissario. Il primo tentativo fallì. Un gruppo di «personalità» si radunò sotto il Comune spalleggiato da una piccola folla. L’intento, probabilmente approvato in alto loco, era di occupare la sede municipale e imporre le dimissioni al commissario. Era il 27 gennaio, giorno della festa del patrono di Castrovillari (San Giuliano), considerato propizio dai «congiurati»: la gente era distratta dalla festa, lo spirito religioso che pervadeva in quel giorno la cittadinanza relegava il commissario, noto miscredente, nella solitudine del suo ufficio, da cui anche i vigili e gli ausiliari si erano allontanati per partecipare alla processione che seguiva il santo. Ma avevano sbagliato i conti. Qualcuno arrivò nel bel mezzo della processione gridando «vogliono cacciare il sindaco, vogliono cacciare don Silvio». D’incanto, tra lo sconcerto di sacrestani e sacerdoti officianti, la processione virò, tutta intera (salvo qualche irriducibile «bizzoca») verso il Comune. Quando il drappello delle «personalità» e la piccola folla che lo spalleggiava videro arrivare quel fiume di gente che inneggiava al sindaco, si diedero a precipitosa fuga, trovando scampo nei già ricordati palazzi patrizi o nei vicoli adiacenti la piazza. Invocato dal suo popolo, il commissario si affacciò al balcone e disse: «Oggi il vostro Santo, che io rispetto anche se non ci credo, così come rispetto tutti voi che ci credete, ha fatto il miracolo: ha ricacciato nelle loro tane i nemici del popolo, i vostri nemici. Viva la Repubblica di Castrovillari». In un tripudio di sacro e profano, il sindaco – ormai lo chiamavano tutti così – fu strappato alla casa comunale, dove rimase un presidio di volontari, e portato in trionfo per le strade principali del paese, fino alla sua abitazione. Qui si affacciò per un nuovo e caloroso discorso al balcone che dava sulla strada, la quale non riusciva a contenere tutta la folla, sicché in molti salirono sui tetti delle case di fronte, rischiando di sfondarli. Io ho un nitido ricordo dell’arrivo del corteo sotto casa nostra, annunciato da una «staffetta» con queste parole: «Stanno portando don Silvio». Mia madre inizialmente si allarmò, perché dalle nostre parti si «porta» qualcuno quando è morto o ferito. Ma mio padre arrivò «portato» sulle braccia dei dimostranti fin sotto casa, anzi fin dentro casa. Noi abitavamo al primo piano e le case di fronte erano tutte a piano terra; anch’io, come gli altri, mi affacciai al balcone e vidi la gente camminare sui tetti. Ecco cosa scrive su questo episodio l’atto giudiziario conclusivo della vicenda: «La maggior parte della popolazione, escluse la classe dei contadini arricchiti e dei commercianti accaparratori e di persone interessate, avea per lui la massima stima ed ammirazione, tanto vero che un tentativo di dimostrazione a lui contraria di qualche risentito si tramutò immediatamente in una dimostrazione a lui favorevole, di gratitudine e di trionfo». Dopo questa manifestazione di popolo si andò avanti tra alti e bassi nella guerra quotidiana contro speculatori e mercanti neri, sulla quale pesava ormai l’aperta ostilità delle autorità costituite e degli oppositori politici. Ovviamente alla fine l’ebbero vinta e il «commissario del Popolo» fu destituito. Accolse l’atto di destituzione – per «insubordinazione» e «lese prerogative delle Autorità costituite» – come un complimento. «È la prova che ho fatto il mio dovere verso il popolo» fu il suo primo commento. Non sapeva che il peggio doveva ancora venire.

la Stampa,

Non è sintomo di grande intelligenza politica non aver compreso fino a oggi che Matteo Renzi non è mai stato un uomo di Sinistra, (seppure si voglia continuare a dare il nome di "sinistra" a quel bizzarro coacervo che fu costruita dai sedicenti eredi del Pci dopo la svolta di Occhetto). Se non hanno ancora compreso che con il renzismo ciò che rimaneva della vecchia sinistra si è sdraiato sul letto morbido del pensiero e della prassi neoliberista c'è da temere che non andranno lontano, se non nella compartecipazione a una qualche residuo di potere istituzionale (e.s.)

Il Pd si interroga per progettare una riscossa
di Andrea Carugati
iUn pomeriggio intero alla ricerca della «fiammella» della sinistra, travolta dalle urne del 4 marzo. Molti big di quelli che furono i Ds si ritrovano in un teatro di Roma nelle ore in cui prende forma il governo Lega-M5S. Invitati da Goffredo Bettini, arrivano Anna Finocchiaro, Antonio Bassolino, Livia Turco, Massimo Brutti, Mario Tronti. Ci sono i giovani Andrea Orlando e Nicola Zingaretti, che prende appunti diligentemente. Si fa l’analisi del voto, «quella che nel Pd ancora non siamo riusciti a fare», ma soprattutto si progetta la riscossa. Dentro o fuori il Pd, questo si vedrà.

«Accenderemo un forte conflitto politico», mette in guardia Finocchiaro. «Questo non è odio o spirito di divisione, ma un parto doloroso per essere legittimati a giustificare la nostra pretesa di esserci come forza politica». Secondo l’ex ministra, infatti, chiudendo a ogni dialogo col M5S, il Pd «si è condannato all’irrilevanza, dimostrando una incapacità politica che va valutata con serietà».

La decisione imposta da Renzi al Pd, quella di fare gli «osservatori» e non gli «attori» della scena politica, viene bombardata in ogni modo. Bettini è sarcastico: «Moro parlava di come Dc e Pci si fossero positivamente influenzati, Togliatti addirittura si rivolgeva ai ragazzi di Salò. E con quelli non ci si era insultati, si sparava…il Pd invece guarda con malcelata soddisfazione alla nascita del peggiore governo della storia repubblicana…».

«Tra i dirigenti si nota la mancanza di sofferenza per la sconfitta», fa notare Bassolino. «Abbiamo dato alla destra la più larga base di massa dal Dopoguerra, i milioni di elettori del M5S», attacca Orlando. «Come fai ad annunciare opposizione durissima se hai fatto il tifo perché questo governo nascesse?».

In oltre tre ore di discussione tornano parole come «lotta di classe», «critica al capitalismo», «subalternità al dominio del mercato». Si fa autocritica per non aver capito le conseguenze della globalizzazione, l’aumento della forbice tra ricchi e poveri, per aver trascurato la «questione sociale».
Bassolino squaderna un concetto caro a molti: non è solo il renzismo a essere stato travolto nelle urne. «In discussione c’è un’intera storia a partire dall’Ulivo, ora dobbiamo ridare al Paese una sinistra». Massimo Brutti è ancora più lapidario: «Oggi non c’è in Italia una forza politica erede del movimento operaio e capace di stare vicino ai più deboli». E’ questo l’assillo per i mesi che verranno.

I dubbi circolano insistenti. «La spinta propulsiva del Pd si è esaurita», dice Roberto Morassut. Andrea Orlando, che tiene le conclusioni, mette un punto interrogativo: «Il Pd è ancora uno strumento utile?». Massimo Brutti lo accusa: «Come puoi pensare di costruire nuovo consenso se non riuscite neppure a dare battaglia in direzione e votate all’unanimità?». Orlando non si scompone: «Abbiamo votato la relazione di Martina, che ha garantito un percorso ordinato alla discussione verso il congresso». Una discussione, dice Orlando, che «può portare anche a conseguenze radicali». E quando dal palco Ugo Papi racconta le difficoltà a spiegare agli amici della Corea del Sud le vicende del Pd, il ministro uscente della Giustizia dalla platea suggerisce: «Devi dire che il Pd è un partito della Corea del Nord…».

La convivenza tra Renzi e il gruppo degli ex Pci sembra sempre più appesa a un filo. Tornano i Ds? «Magari», sorride Livia Turco. Zingaretti se ne sta in fondo e non interviene. Ma gli viene tributato un lungo applauso. E’ lui, il governatore del Lazio, ex giovane diessino, con la sua candidatura alle primarie, l’ultima possibile scommessa per tenere questo popolo dentro il Pd. «La sua presenza ci fa pensare a una possibile ripartenza dentro il Pd», conclude Bettini. «Non siamo ancora al de profundis…».

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Comune-info, 7 aprile 2018.

«Di fronte a enormi scandali come quello di Facebook e Cambridge Analytica non ci stiamo ponendo le domande giuste, quelle che veramente ci riguardano. Non dovremmo vedere soltanto ciò che la tecnologia fa o può fare, sia che la utilizziamo noi, sia che la utilizzi un’impresa o un governo. La società in cui viviamo è fondata su un sistema che non è in grado di impedire lo spionaggio sui nostri dati. Meno ancora che essi vengano commercializzati e usati per fini estranei al nostro controllo o interesse. Eppure non è quella la minaccia più grave del caso emerso con Cambridge Analytica. La domanda importante riguarda quello che la tecnologia fa a noi: perché e come ci facciamo modellare da dispositivi sempre più astratti i quali, attraverso l’applicazione di certi algoritmi, possono indurre pensieri o orientamenti che non abbiamo scelto»

Di fronte a scandali come quello di Facebook e Cambridge Analytica non ci stiamo ponendo le domande giuste, quelle che veramente ci riguardano. L’attenzione è concentrata su quello che la tecnologia può fare: come vengono raccolti e processati i dati personali, come vengono utilizzati per influenzare la gente, come certi gruppi possono utilizzare questo a fini propri, quali che essi siano.

Si ricerca la trasparenza nel contratto dell’Istituto Nazionale Elettorale con Facebook. Sembra una cosa sensata. Si fa pressione su Facebook affinché controlli l’informazione. Tuttavia, come lo stesso Zuckerberg si è chiesto in pubblico, la scorsa settimana, ci si deve chiedere se deve essere suo il compito di filtrare quello che passa nella rete, se deve svolgere un’azione di censura. Rispondere di no, non risolve il problema. Se non è lui, chi allora? I governi? I parlamenti? Commissioni di cittadini? Le Nazioni Unite? Il problema consiste forse nello stabilire chi deve censurare?

La discussione prosegue incentrata su quello che la tecnologia fa. L’enfasi oggi sembra consistere nella contraddizione fra utenti e clienti di Facebook. Facebook presta un servizio a circa 2 miliardi e 200 milioni di persone. Questi utenti non sono i suoi clienti. I suoi clienti sono quelli che comprano l’informazione sui suoi utenti, per i propri fini; sono loro che creano i guadagni che hanno reso Zuckerberg uno dei cinque uomini più ricchi del mondo.

Un processo analogo avviene con coloro che usano carte di credito o i servizi di un ospedale o di un supermercato. L’informazione elettronica su ciò che le persone fanno o cessano di fare nella loro vita quotidiana è una merce. La comprano coloro che la usano per i propri interessi politici, economici o di qualsiasi altro tipo. La comprano per modellare pensieri e comportamenti in funzione di ciò che loro conviene. La società nella quale viviamo non può impedire che questo spionaggio avvenga e ancor meno che venga commercializzato e utilizzato per finalità che non sono quelle degli utenti.

Forse però non è questo che dobbiamo chiederci, anche dopo aver saputo che non c’è una risposta accettabile. Non dovremmo vedere soltanto ciò che la tecnologia fa o può fare, sia che la utilizziamo noi, un’impresa o un governo. La domanda importante è quello che la tecnologia fa a noi: in qual maniera ci facciamo modellare da dispositivi sempre più astratti i quali, attraverso l’applicazione di certi algoritmi, possono indurre pensieri o orientamenti.

Non sembra esserci un grave danno nel fatto che un’impresa acquisisca informazioni sull’acquisto di medicine che una persona ha fatto per farle arrivare un messaggio pubblicitario di ciò che l’impresa vende. La persona potrà farci caso o meno, e comunque i vantaggi e le libertà associati alle nuove tecnologie sembrerebbero compensare il prezzo di essere esposti a tale pubblicità. Però questo è già superato. Il problema è molto più profondo, molto più grave. E’ di altra natura. Che qualcosa come ciò che ha fatto l’impresa con cui Trump ha fatto l’accordo sia possibile, che una certa tecnica possa determinare ciò che facciamo o decidiamo di non fare, ossia votare per un candidato o comprare una determinata marca di sapone, che siamo arrivati a questo punto, questo è ciò che deve preoccuparci.

50 anni or sono, nel 1968, Erich Fromm osservò che un fantasma si stava aggirando furtivamente fra noi e solo pochi lo avevano visto chiaramente: il fantasma di una società meccanizzata diretta da computer. In questa società, scrisse Fromm, l’uomo stesso, ben nutrito e soddisfatto, sebbene passivo, appagato e poco sentimentale, si sta trasformando in un ingranaggio della macchina globale. [Nella nuova società] i sentimenti verso gli altri saranno diretti dal condizionamento psicologico e da altri espedienti dello stesso genere, o da droghe, che a loro volta forniranno un nuovo tipo di esperienza introspettiva. La cosa più grave, pensava Fromm, è che perdiamo il controllo del nostro stesso sistema. «Eseguiamo le decisioni che i calcoli del computer elaborano per noi. (…) Non vogliamo nulla né rinunciamo a volere qualcosa. Le armi nucleari minacciano di estinguerci e la passività (…) di ucciderci internamente» (La revolución de la esperanza, FCE, 1970, p.13).

Lo stesso Fromm citava Zbigniew Brzezinski, di infausta memoria: «Nella società ‘tecno-elettronica’, la tendenza sembra andare nel senso dell’aggregazione dell’appoggio individuale di milioni di cittadini fra loro scoordinati, che cadranno facilmente dentro il raggio d’azione di personalità magnetiche e attrattive, le quali sfrutteranno in modo efficace le tecniche più recenti di comunicazione per manipolare le emozioni e controllare il pensiero» (p. 13).

A questo siamo arrivati. Come si può vedere nel mercato elettorale messicano, non è necessario che siano personalità magnetiche e attrattive… Ma la domanda non deve concentrarsi su coloro che quotidianamente commettono l’atrocità della manipolazione, su quelli che vivono di questo affare, su Facebook, per esempio, o su partiti e candidati messicani. La domanda deve vertere sugli utilizzatori, quelli che si sono lasciati trasformare in un profilo; quelli che credono di star parlando con altri quando stanno solo scambiando informazioni con loro; quelli che contano soddisfatti il numero di amici o amiche che in quel momento stanno guardando la loro fotografia, il selfie, che hanno appena caricato sulla loro pagina; quelli che, in realtà, sono già diventati ciò che l’algoritmo capta e usa, quelli e quelle che si sono trasformati in ciò che la loro traccia elettronica fa vedere… Il trucco funziona solo per questo. Questo è il vero problema.

Fonte: La Jornada
Traduzione a cura di Camminardomandando

il manifesto,

Secondo Pier Carlo Padoan non avrebbero inciso sui conti pubblici. Ieri invece abbiamo scoperto che i miliardi di soldi pubblici utilizzati per il salvataggio delle banche venete non solo hanno aumentato il debito pubblico ma il deficit annuale. Mettendo a rischio i criteri fissati dalla commissione europea con il rischio di un intervento correttivo. Il 26 giugno scorso il governo Gentiloni dava il via libera al decreto che regalava Veneto Banca e Popolare di Vicenza ad Intesa San Paolo. Il giorno seguente le banche avrebbero riaperto con un altro padrone.

Per evitare il fallimento dei due istituti e il tracollo del territorio veneto depauperato dalla gestione criminale dei manager (Veneto Banca) e da Gianni Zonin (Popolare di Vicenza), il governo - dopo aver per mesi assicurato che sarebbe intervenuto il Fondo Atlante alimentato dalle altre banche - decise a sorpresa di intervenire d’urgenza. Lo Stato sborsò 4,8 miliardi sotto forma di iniezione vera e propria di liquidità e concesse 12,4 miliardi di ipotetiche garanzie per permettere ad Intesa San Paolo di salvare il salvabile e di prelevare gli asset ancora buoni delle due banche. Eurostat, appositamente sollecitato in proposito, ieri ha chiarito, a distanza di 9 mesi, che l’impatto complessivo sui conti è di 4,7 miliardi per quanto riguarda il deficit e di 11,2 miliardi per il debito. «Ben 662 euro a famiglia italiana», calcola il Condacons.
I 4,7 miliardi di impatto sul deficit calcolati da Eurostat, in modo probabilmente inaspettato per il Mef che aveva sempre negato l’effetto banche venete sull’indebitamento, valgono tra lo 0,2 e lo 0,3 per cento. Dall’1,9 stimato dall’Istat si potrebbe così salire al 2,1-2,2 per cento. I tecnici del Mef tendono invece a sdrammatizzare l’effetto. Considerando il salvataggio come operazione una tantum, l’effetto non si sentirebbe invece sul deficit strutturale, quello considerato valido per il rispetto delle regole europee sul pareggio di bilancio. Anche il debito, stimato in calo al 131,5 per cento, potrebbe subire qualche revisione, ma in questo caso fonti del Tesoro ricordano che parte dell’impatto è già stato contabilizzato nel fabbisogno. Sugli oltre 11 miliardi misurati da Eurostat, il peso effettivo da incorporare nei nuovi dati dovrebbe quindi essere limitato a circa 6 miliardi.
L’Istat ufficializzerà le nuove stime oggi, ma oggi il ministero dell’Economia ha intanto già diffuso il dato sul fabbisogno dei primi tre mesi del 2018, in miglioramento di 2,6 miliardi rispetto al 2017.
Certo i conti potrebbero ulteriormente risentirne se mai si concretizzasse nei prossimi mesi l’intenzione manifestata da Lega e M5S di risarcire in toto o in parte anche gli azionisti dei due istituti o di adottare una trattamento preferenziale per gli obbligazionisti. Il dato ufficializzato da Eurostat provoca la reazione indignata del sindaco di Napoli Luigi De Magistris. «Il salvataggio da parte del Governo delle banche venete vale oltre 10 miliardi di debito pubblico, il debito storico dei commissariamenti di Stato su Napoli (1980-2008) per 100 milioni lo scaricano tutto su di noi, sulla città e sui napoletani. Che vergogna!», ha scritto su twitter.

Comune.info-net

«La mappa dell’Italia che ha votato ritrae soprattutto due fenomeni: paura e povertà. Paura e povertà, in questo strano intreccio, sono diventate le forze che disegnano la politica italiana. La paura che si afferma come ideologia della Lega; la povertà come condizione del successo dei Cinque stelle. Al posto di destra e sinistra»

La mappa dell’Italia che ha votato ritrae soprattutto due fenomeni: paura e povertà. Il centro-nord (Lazio compreso) si è affidato a un nuovo Centrodestra a egemonia leghista: nel nord della Lombardia e del Veneto è oltre il 50%, con la Lega che arriva a punte tra il 33 e il 38% nelle sue zone di insediamento tradizionale; nel Piemonte lontano da Torino il Centrodestra è vicino al 50%, con la Lega meno forte; nel resto del Nord è quasi ovunque oltre il 40%; in Emilia, Toscana e Umbria la percentuale è oltre il 35%; nel Lazio che esclude Roma è al 40%.

Il centro-sud (Marche comprese) vede dilagare i Cinque stelle: sfiorano il 50% in Sicilia e nel nord della Campania, sono oltre il 40% in Calabria, Basilicata, Puglia, Molise e Sardegna.

Più articolata è solo la fotografia dei collegi uninominali delle grandi città. Il Centrodestra ha vittorie in collegi a Torino, Milano, Venezia, Palermo. I Cinque stelle conquistano alcuni collegi a Torino, Genova, Palermo, Roma e hanno Napoli. Torino, Milano, Bologna, Firenze, Roma lasciano qualche circoscrizione al Pd.

Il 37-38% (rispettivamente alla Camera e al Senato) ottenuto dal Centrodestra viene dal successo della Lega, passata dal 4% delle elezioni politiche del 2013, al 6% delle elezioni europee del 2014, al 18% di oggi, mentre Forza Italia scende dal 22% del 2013 al 17% del 2014 e al 14% attuale. Il 32-33% (rispettivamente al Senato e alla Camera, con un elettorato più giovane) dei Cinque stelle va misurato con il 26% delle politiche del 2013 e con il 21% delle europee del 2014. La partecipazione al voto è stata analoga a cinque anni fa, intorno al 75%, mentre alle europee era scesa molto, al 57%.

Quelli di Centrodestra e Cinque stelle sono successi paralleli, alimentati da ingredienti comuni: il voto di protesta, la retorica populista, la critica all’Europa, l’astio contro gli immigrati. Nel Centrodestra queste spinte coesistono con interessi molto distanti – quelli del potere economico intorno a Berlusconi – e la definizione dei rapporti di forza interni alla coalizione sarà complicata, in termini di egemonia politica prima ancora che nella formazione del governo.

Nei Cinque stelle quegli ingredienti convivono con il tentativo di passare da movimento di protesta a partito di governo, anche qui con un’evoluzione dell’identità e dell’agenda politica ancora tutta da definire.

Spinte analoghe, tuttavia, prendono strade diverse al Nord e al Sud. Il radicamento leghista al Nord ha interpretato la difesa di un benessere a rischio, la richiesta di meno tasse, l’egoismo locale e nazionale. Il Sud ‘lasciato indietro’ dalla politica e dall’economia, abbandonato dalla nuova emigrazione, segnato dal degrado sociale e dai poteri criminali, prende la strada di una protesta che reclama un nuovo potere. L’operazione di Matteo Salvini per costruire un ‘Fronte nazionale’ alla Le Pen ha trovato in queste divaricazioni regionali il suo limite principale.

Dietro a tutto questo ci sono i dieci anni di crisi economica e sociale del paese. Il reddito pro capite in Italia è sceso ai livelli di vent’anni fa; dietro questa media c’è un vero e proprio crollo – del 30% circa – dei redditi del 25% più povero degli Italiani, quelli che abitano al Sud o nelle periferie in declino del Centro-Nord. Vent’anni di ristagno e declino vuol dire una generazione con aspettative di reddito, di lavoro e di vita sempre peggiori. L’impoverimento è diventato una realtà per una parte molto ampia degli italiani. Il voto ai Cinque stelle riflette la povertà del Sud – e si comprende bene il richiamo della loro richiesta di reddito minimo. Il voto alla Lega esprime la paura di impoverirsi del Nord. Solo nei centri delle città maggiori, dove vivono i più ricchi, i più istruiti, e l’economia va meglio, il voto prende direzioni diverse, verso Forza Italia e il Pd.

La povertà si accoppia alla paura: di stare peggio, di avere accanto immigrati e altri poveri con cui ci si trova in concorrenza per i lavori meno qualificati e per servizi pubblici più scarsi. In queste elezioni la paura più agitata è stata quella degli immigrati – gli sbarchi a Lampedusa, l’accoglienza impossibile, le tragedie di Macerata. Salvini ne ha fatto la sua bandiera più pericolosa, i Cinque stelle esprimono la stessa ostilità – i salvataggi delle Ong viste come ‘taxi del mare’, il rifiuto di riconoscere la cittadinanza alle seconde generazioni.

Paura e povertà, in questo strano intreccio, sono diventate le forze che disegnano la politica italiana. La paura che si afferma come ideologia della Lega; la povertà come condizione del successo dei Cinque stelle. Al posto di destra e sinistra, la politica della paura (anche quella di stare peggio) e il lamento degli impoveriti, degli esclusi dalla ‘casta’.

La tragedia della sinistra è che uguaglianza, sicurezza sociale e solidarietà sono state per duecento anni le sue insegne. Via via smarrite nella perdita di identità collettive, in pratiche politiche sempre meno coinvolgenti, in politiche di governo sempre più in contrasto con quei valori. In questo degrado politico va sottolineato che pulsioni pericolose come paura e povertà si siano espresse con gli strumenti della democrazia: il 75% di votanti e le file ai seggi sono l’unica buona notizia del 4 marzo 2018.

il manifesto

Lidia Brisca Menapace, 94 anni – «Ma per favore non compatitemi» ripete divertita con capriccio – partigiana sempre, dalla lotta di Liberazione fino alla manifestazione di Macerata di sabato 10. Sull’esperienza partigiana ha scritto due libri molto belli, Io partigiana. La mia Resistenza e Canta il merlo sul frumento (ed Manni). È stata impegnata nei movimenti cattolici progressisti e ha vissuto il fermento del Sessantotto; è stata docente all’Università Cattolica di Milano, dove per un documento «per una scelta marxista» non le fu rinnovato l’incarico universitario. Ha collaborato alla rivista Il Manifesto, partecipando alla nascita del gruppo politico e poi del quotidiano , sul quale ha scritto a lungo; nel 2006 è stata eletta senatrice con Rifondazione Comunista (fu indicata come presidente della Commissione Difesa, ma non fu eletta per le sue posizioni pacifiste: definì le Frecce tricolori «uno spreco, fanno baccano, inquinano e vanno abolite. Meglio il vino Tocai»). Sui contenuti di scuola, femminismo, non violenza, pacifismo, autonomia dei movimenti è considerata politicamente una «anticipatrice». A Lei che ha deciso di candidarsi nelle liste di Potere al popolo abbiamo voluto rivolgere alcune domande.

Perché, tu che pure hai già avuto una lunga esperienza politica e anche un po’ parlamentare, hai deciso di candidarti di nuovo e, immagino, con il tuo tradizionale appassionato impegno personale?
In Parlamento veramente ho fatto solo meno di mezza legislatura, poi è stata interrotta, ma non importa molto la mia vicenda elettorale, in genere, cui ho sempre dato solo una utilità strumentale, cioè come a un luogo dal quale si può fare politica più efficacemente, mi è stata chiesta una opinione su Potere al popolo: mi sono espressa con entusiasmo favorevolmente, e mi è stata offerta la candidatura che ho volentieri accettato, mi riprometto di fare il possibile: può ripresentarsi un altro 4 dicembre (la vittoria del No al referendum costituzionale del 2016), dato che ironia e autoironia che considero essenziali sono coltivate pure dalla «capa» di Potere al popolo, Viola Carofalo.

Perché con Potere al popolo (Pap)? Che cosa rappresenta questa esperienza, mentre la sinistra che abbiamo conosciuto è scomparsa e quella nuova è già divisa? Che cosa la distingue da LeU?
Pap mi si è presentata come una forma politica (unica in questa tornata) che cerca di sperimentare pratiche di democrazia diretta, fuori dalle strettoie e confusioni che ormai pervadono le varie forze politiche, anche se chiamarle forze e per di più politiche sembra uno scherzo di cattivo gusto: chi vi potrebbe riconoscere la straordinaria invenzione che il partito politico di massa fu? LeU, pur con tutto il rispetto che i suoi rappresentanti meritano, non è attrattivo, personalmente poi ero favorevole a un altro candidato, quando fu messo a capo dell’antimafia, ero per Caselli. Può darsi che un risultato inatteso, come fu quello del 4 dicembre 2016 sia possibile e sarebbe segno che chi legge la realtà dei grandi e piccoli strumenti di informazione non sappia più leggere o – peggio – sappia il potere che ha per non far leggere la realtà complessa in cui viviamo.

Che Italia ci lascia l’esperienza di governo del Pd, e in particolare il premierato di Matteo Renzi?
Mi sembra che la risposta migliore sia stata data dallo slogan gridato a Macerata: «E se ci sono così tanti disoccupati, la colpa è del governo, e non degli immigrati».

Torna la destra estrema fascista sull’onda della xenofobia e di un razzismo che si alimenta della campagna contro l’«invasione» dei migranti. Perché non si parla mai delle responsabilità delle guerre e della nostra economia di rapina, all’origine della fuga epocale di milioni di esseri umani?
Le migrazioni di popoli (così si dovrebbero chiamare) non sono un fenomeno emergenziale, ma una costante della storia umana fin dai Longobardi, da Attila e non aver saputo dare una risposta è segno di una assoluta incapacità di individuare la responsabilità degli imperialismi (dei vari imperialismi da Roma in qua) per ideologizzare e conquistare i popoli sottomessi. Non esistono razze umane, ma solo razze animali e persino in quelle le razze pure non sono le migliori: una quota di bastardaggine giova, Hitler aveva torto persino a proposito di razze pure.

L’estrema destra fascista in Italia era già forte negli anni Settanta e Ottanta, dalla violenza squadrista ai moti di Reggio Calabria, alle stragi, fino ad influenzare i governi Dc. Che cosa la fa ora più pericolosa? Forse la svolta di Salvini: dal leghismo secessionista alla guida del risentimento xenofobo etnico-nazionale?
Oggi è più pericolosa perché la crisi strutturale globale e – spero – finale del capitalismo offre politicamente un enorme e pericoloso spazio di azione. Torna ad essere vera l’alternativa detta da Rosa Luxemburg: la crisi capitalistica lasciata alla sua spontaneità, non produce il superamento del capitalismo, bensì barbarie. Per questo è stupido litigare sul riformismo, esso non è più possibile, arriva la barbarie, se non si incomincia a pensare ad agire l’alternativa, detta socialismo o come altro si deciderà. La crisi consiste soprattutto nell’incapacità del capitalismo di costruire una sua classe dirigente decente, basta passare in rassegna da Trump, Hollande, Sarkozy, il re di Spagna (aggiungerei quanto a impresentabilità perfino il nemico necessario, il nordcoreano Kim). Lascio i nostri per carità di patria. Agli estremi questo capitalismo incapace potrebbe ricorrere alla sua arma assoluta che è la guerra, ma oggi la guerra atomica è certo la fine del capitalismo, ma insieme la fine del mondo civile.

Che cosa pensi del Movimento 5 Stelle?
Che sono una riedizione aggiornata del qualunquismo. Sono qualunquisti.

Quanto fa paura il ritorno di Berlusconi, che pure non riesce a mettere insieme la compagine di governo della Destra, se non nelle liste elettorali e forse nemmeno in quelle?
Berlusconi non è meno o più ridicolo di altri, come non vederne la levatura e l’incapacità di dire qualcosa di razionale, a parte che è un personaggio colpito dalla giustizia per cause affatto eroiche.

Molti, a sinistra, sono tentati dall’astensione…
Astenersi significa semplicemente far sì che Renzi abbia una facilità in più, essere il 45% del 30% è ben diverso che essere il 40% dell’80%.

E in tanti non vedono l’ora che le elezioni finiscano. Non credi che il giorno dopo le elezioni, oltre coalizioni e schieramenti in campo e dopo la rottura dell’esperienza positiva del Brancaccio, a sinistra bisognerà pure tornare a lavorare, tutti, alla nascita di una nuova forza di sinistra alternativa? C’è spazio ancora per l’unità a sinistra?
Sì, bisognerà continuare a parlare ed agire in tante e tanti, ad agire nello spazio e nel tempo perché il popolo trovi coscienza e usi il suo potere: la democrazia significa Potere al popolo, che ne ha esercizio diretto.

il manifesto,

«Sono venuto a Napoli a imparare, qui fate la lotta per la rivoluzione in Europa»: Jean-Luc Mélenchon, leader di France Insoumise, esordisce così dal palco del teatro popolare dell’Ex Opg Je so’ pazzo. Mélenchon a gennaio ha ospitato a Parigi Potere al Popolo, ieri è arrivato con una delegazione di medici di Marsiglia per far coincidere il racconto con la prassi, per verificare cioè come a Napoli si coniuga politica e impegno sociale. Un’esperienza che La France Insoumise vorrebbe replicare proprio a Marsiglia.

La prima tappa è stata dal sindaco Luigi de Magistris per discutere di acqua pubblica, beni comuni e di debito odioso. Il comune è gravato da circa 90 milioni lasciati dal commissariato per il terremoto del 1980 e circa 27 dal commissariato per l’emergenza rifiuti, il governo aveva promesso di intervenire ma il dossier è rimasto sul tavolo così il sindaco manifesterà a Roma il 21 febbraio.

Il pomeriggio è però dedicato all’Opg. Ieri era di turno lo sportello legale e Mélenchon si è fermato ad ascoltare le storie dei migranti e la loro condizione in Italia, è stata poi la volta dei ragazzi al doposcuola, infine spazio ai medici: in due anni l’ambulatorio ha assicurato più di 1.500 visite gratuite in una città dove la Sanità sta scivolando fuori dall’universalismo e le prestazioni pubbliche sono gravate dai ticket più alti d’Italia. In platea ad ascoltare il leader di France Insoumise, Sabina Guzzanti e Alberto Lucarelli, il docente di diritto ex assessore comunale che curò la trasformazione della Spa che si occupava della distribuzione dell’acqua in azienda speciale. «Abbiamo bisogno di voi, abbiamo bisogno dell’Italia per cambiare l’Europa verso una società più uguale – attacca Mélenchon -. Le forme tradizionali della socialdemocrazia, del comunismo e del neoliberismo non sanno più dare risposte. Negli ultimi 20 anni abbiamo subito la distruzione di ogni struttura solidaristica. I governi hanno messo lavoratori contro lavoratori, autoctoni contro migranti, hanno alimentato la violenza tra i popoli lasciando spazio alla destra, che si è inserita nei conflitti. Dobbiamo mandare a casa i governi europei che difendono il capitale contro il popolo».

La France Insoumise alle presidenziali francesi ha sfiorato il 20%, contro il 6% del partito socialista. Mélenchon invita la sinistra ad aver coraggio: «In Spagna ci hanno messo circa sette mesi per fare un governo, sei mesi in Germania per fare le larghe intese quando la Spd aveva giurato che non le avrebbe più fatte. Anche in Italia si rischia di andare in quella direzione. Basta scegliere ’il male minore’. La nostra storia è racchiusa in ’potere al popolo’, riempiamo questa frase di significato. L’Europa ci vuole imporre i pesticidi, il governo francese vuole sviluppare il nucleare, sono politiche contro l’ecosistema. L’Europa si fa guidare dagli Stati uniti e decide che il nemico è la Russia, allineandosi alle politiche Nato che preparano le prossime guerre. Diciamo no alla Nato, difendiamo la pace».

Viola Carofalo, capo politico di Pap, riassume il terreno comune con France Insoumise: «Equità sociale, diritto a un lavoro degno, accesso ai servizi per tutti: la nostra lotta nasce sui territori, vogliamo portarla a un livello nazionale ma molti attacchi arrivano da Bruxelles, è necessario un piano di lotta comune in Europa». A Mélenchon le conclusioni: «In Francia esiste il mito della coppia franco tedesca, ma la Germania sta portando avanti una politica per una popolazione vecchia, ricca e capitalista. La ricetta è aumentare la rendita e abbassare i salari. Il modello tedesco non è stato capace di abolire la povertà: è fatto per quelli che hanno ricchezze». E sui migranti: «Stiamo producendo immigrati perché produciamo guerre. C’è anche un’emigrazione europea più silenziosa che parte dalla Grecia, dalla Spagna per ragioni molto simili, la ricerca di una vita migliore. Con Potere al Popolo, Podemos, Unità popolare in Grecia e Die Linke potremo cambiare l’Europa».

il manifesto, il Fatto Quotidiano,

il

DESTRA IN PIAZZA

SINISTRA A CASA
di Norma Rangeri

Ad essere sinceri, la campagna elettorale non è entusiasmante né coinvolgente. Semmai, il contrario. Tuttavia qualcosa viene a galla in questi giorni, e risalta più che nel recente passato: è quella parte di Italia razzista, fascista e abusivista. Che viene sostenuta, esaltata, alimentata dal peggiore centrodestra degli ultimi anni. I suoi leader cercano di strappare voti, ma non agli avversari quanto agli alleati di coalizione, per guidare le danze dopo il 4 marzo.

L’appello all’abusivismo del pregiudicato (perché condannato fino in Cassazione per frode fiscale), Silvio Berlusconi, dà il tocco da maestro allo schieramento di un centrodestra che combatte la sua battaglia elettorale purtroppo dettando l’agenda. Questi campioni di un Italia nefasta, violenta, corrotta sono i portabandiera dei peggiori umori e «sentimenti» del belpaese.

I fascisti, o fascistelli, hanno ben rialzato la testa. Da qualche tempo a Ostia e in altri territori dove criminalità, violenza e degrado sociale sono dominanti. Ma i fatti di Macerata dimostrano che anche in situazioni meno marginalizzate, gli xenofobi di Salvini hanno tolto i freni e grufolano dentro la caccia all’immigrato.

Questa destra è la stessa che nei social, nella pancia della società incivile, ispira la persecuzione di una donna di sinistra – Laura Boldrini – diventata il bersaglio di uno stupro mediatico ormai quotidiano. La violenza è totalmente sdoganata sul piano del linguaggio, oltreché, purtroppo su quello della cronaca.

In questa deriva fascistotide è netta l’impressione che manchi una risposta di forte contrasto. Perché se di Macerata il leader a 5 Stelle preferisce «non strumentalizzare», sugli immigrati il governo – e quindi il Pd – non è stato capace di una risposta alta, non difensiva. Certo è che se Renzi dice «aiutiamoli a casa loro » e con il ministro Minniti che mette in pratica la linea del Nazareno, il leader del Pd non sa come distinguersi da Di Maio, Salvini e Berlusconi. E non lo fa nemmeno sulle vicende di Macerata, dove il «fronte democratico» si sfila dalla manifestazione in programma e, a cominciare dal sindaco piddino, obbedisce a Renzi che invita a starsene a casa. (Del resto nulla di nuovo. Ricordiamo quel che accadde con Veltroni ancora sindaco nel 207 prima della campagna elettorale che approderà nel 2008 con l’elezione della destra di Alemanno. Una donna fu uccisa da un rumeno e il governò varò un decreto ad hoc, incostituzionale, contro gli immigrati rumeni).

In questa situazione i 5Stelle stanno alla finestra, convinti di essere i vincitori morali della campagna elettorale se si confermeranno il primo partito. E se riusciranno a prendere una parte dei voti in libera uscita che, stando ai sondaggi, potrebbero essere proprio quelli del Pd. Sono diventati europeisti (una giravolta sorprendente), sull’immigrazione dicono le stesse cose di Minniti, e martellano sul reddito garantito.

Come risulta evidente, lo spazio per una campagna elettorale di sinistra, capace di battere un colpo e farsi sentire su temi che non siano la sicurezza, è ridotto. Se non era per i braccialetti di Amazon, il tema del lavoro non avrebbe bucato lo schermo negli ultimi giorni. Noi non siano la Germania, ma non sempre questo significa che sappiamo fare meglio. Il contratto dei metalmeccanici potrebbe essere un ottimo spunto per parlare di salario e orario di lavoro, della condizione sociale drammatica della disoccupazione, delle nuove povertà che hanno la brutta faccia della diseguaglianza.

Ma intanto l’Italia canta. Mancano nemmeno quattro settimane al voto e va in onda Sanremo che raccoglie il 52% dell’audience. In buona parte merito del ciclonico Fiorello che ha messo in scena il giochino del voto. Per chi votate?, ha chiesto alla platea il recordman di ascolti. Poi ha nominato il Pd, il centrodestra, i 5Stelle e «liberi e belli», ha detto scherzando con il pubblico. Una battuta per dire che nella cabina elettorale c’è un po’ di tutto. Grasso, il cui faccione di bell’uomo tranquillo spicca sui manifesti per strada, questa volta ha azzeccato la risposta: «Grazie Fiorello, vuol dire che oltre che liberi e uguali siamo anche belli». E speriamo che, prima e dopo il 4 marzo, siano anche forti.


il Fatto Quotidiano
MACERATA

PD E ANPI MOLLANO
E OGGI ARRIVA FORZA NUOVA
di Pierfrancesco Curzi
La manifestazione - Sinistra divisa, anche Cgil e Libera rinunciano a sfilare contro l’estrema destra. Ieri CasaPound in piazza con la scorta

Il magico mondo della sinistra italiana si è diviso sui fatti traumatici di Macerata. Il Pd, da Roma, ha spinto i suoi all’annullamento della grande manifestazione del popolo della sinistra, organizzata per sabato pomeriggio in citàà. A segno l’appello del sindaco di Macerata, Romano Carancini: “Ero fiducioso che le forze democratiche ed antifasciste – ha detto il primo cittadino Pd – avrebbero saputo ascoltare la voce della città. La sospensione dimostra la sensibilità verso una comunità che intende rialzarsi e tornare ad essere se stessa dopo le ferite subite. Fermarsi a respirare non significa rinunciare a combattere per i valori”.

Resta da capire di quale voce stia parlando Carancini, dietro al cui messaggio sembra esserci la regia di Matteo Renzi. Al sindaco l’ordinaria amministrazione, ai vertici, specie in una fase pre-elettorale, la strategia sul “caso Macerata”: il tiro al bersaglio con la pistola contro gli immigrati (sei feriti, uno più grave ma fuori pericolo) scatenato da un ex candidato leghista con tatuaggi neonazisti che voleva “vendicare” la 18enne Pamela Mastropietro, la cui morte è ancora un mistero mentre un pusher nigeriano resta in carcere per l’atroce vilipendio del suo cadavere, in mancanza di indizi precisi sull’omicidio.

La presa di posizione del Pd ha diviso il fronte della sinistra. Senza scalfire la controparte di destra, piuttosto estrema. Nessun divieto da parte della polizia. Ieri CasaPound, stasera Forza Nuova e la sua iniziativa: “Di immigrazione si muore”. Il Partito democratico si è portato dietro sigle, organizzazioni e movimenti, lasciando da sola la sinistra radicale e antagonista. Una spaccatura inattesa. La manifestazione di sabato resta in cartellone ma senza i vessilli di Pd, Cgil, Arci, Libera e soprattutto dell’Anpi, che martedì sera ospitava l’assemblea generale in vista di sabato. Liberi e uguali, dopo l’iniziale adesione, ne sta discutendo ma gli esponenti locali sono per rinunciare. Gli ambienti più a sinistra, tra anarchici, formazioni studentesche, autonomi e così via, la vedono così: “Eravamo stati chiari – dicono gli antagonisti –, niente vessilli di partito o di tendenza politica. Questa la spaccatura. Sembra che senza Pd, Cgil e associazioni collegate non si possa fare nulla, è l’esatto contrario. Loro non ci comandano, per questo abbiamo deciso di confermare la manifestazione, fissata per il primo pomeriggio a Macerata. Ci sono decine di pullman in arrivo dalle Marche e dal resto del Paese”.

All’assemblea dell’altra sera erano presenti i responsabili locali del Pd, tra cui il coordinatore regionale, Francesco Comi. Nella sede dell’Anpi anche i rappresentanti di Potere al Popolo: “Noi ci saremo sabato – precisa Maurizio Acerbo, leader di Rifondazione comunista e candidato del neonato movimento politico –. Dispiace apprendere che diverse sigle abbiamo deciso di non partecipare. Rinunciare significa darla vinta a chi vuole un clima di paura”.

Ieri, intanto, CasaPound ha svolto la sua iniziativa politica a Macerata, con tanto di corteo di un centinaio di persone blindato dalla polizia in assetto antisommossa, alla presenza del segretario nazionale, Simone Di Stefano: “Non sono a favore, ma di fronte a certi crimini efferati, come la morte di Pamela Mastropietro, la pena di morte potrebbe essere una liberazione”.

I fatti di Macerata suscitano reazioni diverse. Il vescovo della città, Nazzareno Marconi ha invitato tutti ad una preghiera, insieme alle comunità protestanti, ortodosse, islamiche ed ebraiche. A Roma invece, vicino al Colosseo, gli antagonisti hanno piazzato un manichino a testa in giù con una croce celtica e una scritta: “Minniti e fascisti la vostra strategia della tensione non passerà”. Ieri, forse anche per distinguersi dal Pd, il guardasigilli, Andrea Orlando, ha fatto visita ad alcuni degli africani feriti, uno dei quali, un ghanese ferito ad una gamba, è scappato dall’ospedale.

MACERATA
LA MANIFESTAZIONE NAZIONALE NON SI FARÀ
LO CHIEDE IL SINDACO
di Mario Di Vito
Retromarcia. Anpi, Arci, Cgil e Libera revocano la convocazione antifascista indetta per sabato. Il centro sociale Sisma: noi andremo in piazza. L’appello di Carancini per fermare i cortei in una città blindata tra comizi di Casapound e Forza Nuova. Il ministro Orlando in ospedale dalle vittime della sparatoria
Alla fine la Macerata antifascista scenderà in piazza comunque, sabato pomeriggio. La decisione è stata presa nel tardo pomeriggio di ieri, ai margini di una giornata segnata dalla clamorosa retromarcia di Cgil, Anpi, Arci e Libera, che invece hanno scelto di non aderire alla manifestazione nazionale contro il fascismo e i razzismo, convocata dal centro sociale Sisma in seguito alla sparatoria del 28enne militante della Lega Luca Traini, la settimana scorsa.

Il fronte si è spaccato nella serata di martedì, dopo l’ennesima assemblea. Le posizioni dei centri sociali e quelli delle associazioni e dei partiti, divisi soprattutto da questioni organizzative e di ‘paternità’ della piazza. La frattura sembrava tuttavia ancora sanabile, ma poi, ieri mattina, il sindaco Romano Carancini (Pd) ha sferrato quello che è da leggere come il colpo di grazia all’unità dei movimenti antifascisti. Da un post pubblicato sul proprio profilo di Facebook, il primo cittadino di Macerata ha infatti chiesto uno stop per tutte le manifestazioni, brandendo la retorica del «rischio di ritrovarsi dentro divisioni e possibili violenze che non vogliamo». Parole al vento se si considera che appena poche ore dopo il leader di Casapound Simone Di Stefano ha camminato in tutta tranquillità tra le vie del centro, chiedendo la pena di morte per chi ha fatto a pezzi la giovane Pamela Mastropietro. Lo scenario è stato piuttosto surreale, con una decina di ragazzi a fare da codazzo al proprio capo tribù, tra un turbinio di telecamere e di cronisti con il taccuino aperto. Nessun incidente, ma nemmeno particolare trasporto da parte della cittadinanza: va sempre ricordato, in fondo, che a Macerata non esistono sedi né di Casapound né di Forza Nuova.

Nemmeno un’ora e mezza dopo, Di Stefano era già ad Ancona, altra tappa marchigiana del suo tour elettorale. Il comizio è andato in scena nell’aula consiliare, con i rappresentanti di Casapound che, per accaparrarsela, hanno anche messo la firma in calce al regolamento comunale per quello spazio, che impone una dichiarazione di adesione ai dettami antifascisti della Costituzione. Almeno formalemente, si può dire che Casapound ha rinnegato il Ventennio, in nome della campagna elettorale. Qualche minuto prima gli antifascisti del centro sociale Asilo Politico avevano fatto un breve blitz nella sala, esponendo striscioni contro il fascismo.

Carancini, moderato per abito e vocazione, alfiere di Matteo Renzi che se l’è pure portato dietro a Roma alla presentazione dei candidati, si sforza ancora di descrivere la sua città come una tranquilla oasi di felicità – e la foto a margine del post, con una piazza della Libertà affollata per un grande aperitivo vorrebbe confermare queste intenzioni -, probabilmente nel tentativo di non sporcare troppo il buon nome di una Macerata candidata a diventare la capitale europea della cultura nel 2020, con la decisione che verrà presa nei prossimi giorni. La sparatoria di sabato scorso viene vista come cattiva pubblicità, con buona pace dei sei ragazzi feriti dalla follia fascista di Traini.

È così che i vertici nazionali di Cgil, Arci, Anpi e Libera si sono sfilati dal corteo in programma per sabato, con una presa d’atto dell’appello, «seppur tardivo», di Carancini. Per le quattro sigle firmatarie del comunicato di dissociazione dal corteo, comunque, l’appuntamento con la piazza è solo rimandato.

Il Sisma ha deciso di andare avanti lo stesso: appuntamento confermato per sabato. Le parole più dure sono riservate al sindaco Carancini, la cui presa di posizione viene bollata come «irricevibile» perché «pone sullo stesso piano le iniziative lanciate da quanti rivendicano l’attacco terroristico di sabato scorso e la grande manifestazione di condanna di quanto accaduto. Così facendo, cede e alimenta il clima di paura che vorrebbe tenere in ostaggio la città». Hanno confermato la loro presenza in città anche tante altre realtà, come Potere al Popolo e il Baobab di Roma, oltre a vari centri sociali da tutta l’Europa.

A Macerata, ieri mentre la partita politica si intrecciava, il ministro della Giustizia Andrea Orlando si è recato all’ospedale, dove sono ancora ricoverati due dei sei feriti di sabato scorso: il 20enne ghanese Wilson Kofi e la nigeriana Jennifer Otiotio, che però al momento del suo arrivo era in sala operatoria. «Credo sia giusto manifestare la nostra solidarietà a questi ragazzi colpiti solo per il colore della loro pelle – ha detto il ministro -. Un fascista ha infangato il tricolore, io come ministro devo difendere la nostra bandiera». A seguire, Orlando si è recato anche in tribunale, dove ha incontrato il procuratore Giovanni Giorgio e il presidente Gianfranco Coccioli.

Domani la sortita istituzionale proseguirà con una visita alla madre di Pamela Mastropietro.

lavoce.infoltraeconomia e la Repubblica

Altraeconomia, 1 febbraio 2018
UN BUON MOTIVO

PER ANDARE A VOTARE CI SARÀ

MA QUANTA FATICA
di Pietro Raitano

Seppure alcuni volti, linguaggi, poteri siano ancora gli stessi, l’Italia del 2018 non è quella del 1994. Si è mossa. All’indietro. Buona parte dei programmi elettorali, però, non sembra proprio essersene accorta».

Ci sarà pure un buon motivo per andare a votare, il 4 marzo. Lo dovremo pur trovare, per evitare di cedere alla forte tentazione di disertare le urne, di fronte non all’imbarazzo della scelta, ma alle scelte imbarazzanti che potremmo essere costretti a fare. Ci sarà pure un modo per non far parte della schiera -milioni di elettori- di chi ha perso fiducia, controllo e speranza e che non cede al ricatto del “voto utile”. Utile a chi, poi.

Che sia per il Parlamento o per la propria Regione non fa molta differenza: come siamo arrivati a vivere con sofferenza un rito sociale -ovvero un sistema politico- che è l’essenza stessa della convivenza? Non aiuta il modo in cui si è chiusa l’ultima legislatura, con la legge per il cosiddetto “ius soli” -che avrebbe riconosciuto (non “concesso”: riconosciuto, perché esiste già) il diritto di cittadinanza ai nati in Italia da genitori stranieri- affossata al Senato per mancanza del numero legale e da migliaia di emendamenti. Una autentica vergogna, nel senso di aver provato vergogna di fronte a un’ingiustizia inflitta a bambini e adolescenti. Ottocentomila. Che idea si sono fatti degli adulti, della politica, di tutti noi? Come cresceranno in questo clima che antepone quattro stracci di voti per tenersi una poltrona al loro presente, al loro futuro?

Non aiuta nemmeno la spiacevole sensazione di un déjà-vu lungo ormai un quarto di secolo per volti, linguaggio, poteri. Tuttavia l’Italia non è ferma al 1994. Perché l’Italia si muove, si è mossa, eccome. Ma all’indietro: ritornano spettri di un passato che sembrava, se non lontano, quantomeno stigmatizzato, demonizzato. Spettri che entrano nelle coscienze. A 80 anni dalle leggi razziali, si riaffaccia la cultura che le ha rese possibili. Non c’è crisi economica che giustifichi tutto questo. Che giustifichi l’incendio appiccato a una palazzina che avrebbe dovuto ospitare 35 profughi minorenni (ad Ascoli Piceno, a gennaio, in Italia). Eppure basta dare un’occhiata alla comunicazione elettorale. Più post, magari, e meno cartelloni per strada, forse. Ma la sostanza rimane sempre la stessa: fare leva sulla paura, sul risentimento, o peggio, sul senso di colpa. Ma il motore del cambiamento non può essere questo. Il cambiamento avviene quando lo si desidera. Chi, tra i candidati alle elezioni del 4 marzo, sarà capace di tratteggiare l’Italia che desideriamo? Quella capace di una strategia energetica nazionale diversa da quella intrapresa finora, ad esempio, che torni a puntare seriamente sulle fonti rinnovabili e la smetta di pensare alla Penisola come un hub del mercato europeo del gas.

Un’Italia che non promette improbabili flat tax o ancor più improbabili tagli miracolosi delle tasse, ma punta al valore, costituzionale, della progressività fiscale. Ci sono candidati che riconoscono che, se c’è un nemico, questi non sono i migranti ma la disuguaglianza? In un Paese dove la povertà assoluta cresce fra le famiglie numerose con figli minorenni, la disuguaglianza è un attentato alla democrazia. Ma non solo: oggi la disuguaglianza è anche uno degli ostacoli alla tutela dell’ambiente, perché è alimentata dal sistema consumistico, l’unico in grado di far sì che i 500 uomini più ricchi del Pianeta abbiano un patrimonio di 5.300 miliardi di dollari, mille in più rispetto all’anno passato. C’è qualcuno tra i candidati che ricordi che l’istruzione universitaria è un bene, che non esiste “meno studi più lavori”, in un Paese in cui solo un diplomato su due si iscrive a una Facoltà? E che il diritto allo studio si garantisce anche con sostegni alle abitazioni, ai trasporti, all’acquisto di libri? E infine: qualcuno che parli chiaramente, senza giochi di parole, sottointesi o fraintendimenti intenzionali, di disarmo? Di ritiro delle nostre truppe da scenari di guerra? Di conversione dell’industria bellica? Un buon motivo per andare a votare ci sarà e continuiamo a cercarlo. Se è difficile, forse ce lo siamo meritati, delegando ad altri responsabilità che sono nostre. Ma quanta fatica.

Tratto da Altreconomia 201 - Febbraio 2018 raggiungibile qui

, 30 gennaio 2018
IL VECCHIO VIZIO

DI GARANTIRSI IL SEGGIO IN PARLAMENTO
di Paolo Balduzzi

«Anche la nuova legge elettorale permette di candidarsi in più collegi diversi. Rispetto al passato, ci sono più vincoli alla discrezionalità, ma resta il fatto che un candidato bocciato all’uninominale dagli elettori può essere ripescato nel proporzionale».

Come funziona la candidatura plurima

I partiti hanno definitivamente presentato i simboli, i programmi e le liste elettorali che si sfideranno il 4 marzo. Può finalmente cominciare ufficialmente la campagna elettorale, che vedrà sfidarsi i candidati in 232 collegi uninominali alla Camera e in 116 al Senato. Tolti i seggi spettanti alla circoscrizione estero (12 alla Camera e 6 al Senato), i posti restanti - 386 alla Camera e 193 al Senato - saranno assegnati con metodo proporzionale a candidati raccolti in liste circoscrizionali brevi, bloccate, che rispettano le quote di genere e caratterizzate dalla possibilità di candidature plurime.

La candidatura plurima è un istituto che permette a un candidato di correre contemporaneamente in più collegi elettorali. Si tratta di una caratteristica tipica dei sistemi proporzionali o perlomeno misti. Nei collegi uninominali e con metodo di voto maggioritario, la rinuncia di un candidato eletto non porterebbe alla sua sostituzione con il secondo arrivato (significherebbe annullare la volontà della maggioranza relativa di quel collegio) bensì all’indizione di elezioni suppletive (come avviene nei casi di dimissioni o decesso di un eletto). È un metodo di sostituzione costoso (ci vogliono soldi e tempo per indire nuove elezioni in un seggio che altrimenti rimarrebbe vacante), ma senza alternative. Nel sistema proporzionale, invece, i seggi della circoscrizione sono assegnati a liste di partito, di fatto indipendentemente dall’identità di chi ne fa parte. È quindi del tutto possibile che un eletto venga sostituito da chi lo segue nella posizione in lista (o nel numero di preferenze, se fossero possibili). Quando però un candidato si presenta in più collegi plurinominali, la possibilità che sia effettivamente eletto in più luoghi non è affatto remota. La nuova legge elettorale (legge 165/2017) dà la possibilità a ogni candidato di essere incluso fino a un massimo di cinque volte in liste plurinominali, anche se risulta candidato all’uninominale.

Non si tratta certo di una novità: in Italia – e non solo – le pluricandidature sono sempre esistite (e sono possibili, per esempio, per le elezioni europee). L’intento è almeno triplice. Innanzitutto, offre al candidato maggiori possibilità di elezione: è quindi una norma che mette al riparo i leader – o talune personalità rilevanti – da eventuali bocciature ed è naturalmente molto apprezzata dai partiti più piccoli. Permette poi a eventuali leader acchiappavoti di aumentare i consensi per la propria lista in tutti i collegi in cui è presente (celebre il caso di Silvio Berlusconi capolista in tutte le circoscrizioni per le elezioni europee del 2009). Infine, permette allo stesso leader di decidere strategicamente chi far entrare in parlamento, imponendo la scelta del collegio di elezione al candidato e determinando quindi quali “secondi” far passare al suo posto e quale no.

Tutto come prima?

Di riforma in riforma, quindi, il vizio di permettere le pluricandidature non sembra abbandonare il legislatore italiano. Da un lato, la norma può avere aspetti positivi, perché consente appunto di tutelare alcune candidature, considerate meritorie (per ragioni più o meno legittime); dall’altro, tuttavia, interferisce con il meccanismo democratico perché rende ripescabile, cioè eleggibile, chi invece non è stato eletto in un determinato collegio.

A differenza del passato, però, la nuova legge elettorale contiene un elemento che vincola la discrezionalità dell’eletto: prevede infatti che il parlamentare eletto in più collegi plurinominali sia proclamato nel collegio nel quale la lista cui appartiene ha ottenuto la minore cifra percentuale di collegio plurinominale, così come determinata ai sensi della legge. Inoltre, il parlamentare eletto in un collegio uninominale e in uno o più collegi plurinominali si intende ovviamente eletto in quello uninominale.

Si tratta di un passo in avanti? Forse, ma solo se si accetta come naturale la presenza della candidatura plurima: diminuendo la discrezionalità dell’eletto, si rende la sua proclamazione “neutrale” rispetto alla composizione del parlamento. Tuttavia, resta il dubbio che la norma continui a essere usata per tutelare la longevità del ceto politico più che per promuovere l’elezione di outsider senza un bacino elettorale. È ancor più grave che la pluricandidatura permetta a un candidato non eletto all’uninominale di essere ripescato: se il voto proporzionale è più un voto di lista, quello maggioritario nel collegio uninominale è più personale. Il candidato bocciato nel collegio uninominale è un candidato rifiutato dal suo elettorato. Ritrovarselo comunque in parlamento, per gli elettori di quel territorio, non deve essere particolarmente gradito. Non è certo un buon metodo per aumentare il rapporto di fiducia tra elettore ed eletto.

Perché dunque non basare la propria preferenza elettorale anche su questo elemento? Come si comportano cioè i diversi partiti in questo caso? Una volta che le liste elettorali saranno ufficiali e disponibili, sarà interessante capire quale partito ha sfruttato di più la norma e per quale motivo.

articolo tratto da lavoce.info


, 1 febbraio 2018
CAMERA, NELLA BATTAGLIA DEI COLLEGI

COMANDA IL CENTRODESTRA
di Lavinia Rivara

«Le simulazioni verso le elezioni»

Roma. La partita per il governo il centrodestra se la gioca tutta in 87 maledettissimi collegi uninominali sui 232 totali, quelli dove la vittoria della coalizione di Berlusconi, Salvini e Meloni è possibile ma non certa. Al centrodestra, che parte da un bottino sicuro di 259 seggi (115 uninominali), basta conquistare 57 di quei collegi per avere la maggioranza di 316 deputati a Montecitorio. Al Pd, che conta su 133 seggi blindati (24 uninominali) non resta che sperare che la battaglia al Sud tra 5Stelle e centrodestra volga a favore dei primi, che partono da 112 possibili deputati (solo 4 nell’uninominale). Magari non troppo, perché Renzi punta al gruppo parlamentare più numeroso per restare in partita se il centrodestra fallisce la maggioranza assoluta.

A questo risultato approda la simulazione elaborata da Salvatore Vassallo, ordinario di Scienza Politica all’Università di Bologna, che pubblichiamo oggi fotografando i rapporti di forza tra i tre principali poli in tutti i collegi uninominali della Camera, (domani quelli del Senato). Lo studio si basa solo sui sondaggi delle ultime due settimane, ma anche sui flussi da un partito all’altro applicati ai risultati delle politiche 2013 in ogni collegio del Rosatellum. Naturalmente si tratta di stime approssimative e, al netto del normale margine di errore statistico, gli elettori possono riservare sorprese. I candidati segnalati in verde partono favoriti di almeno cinque punti; quelli in rosso invece sono i possibili sconfitti (cinque punti o più sotto al primo); quelli in giallo infine hanno una distanza tra loro inferiore ai cinque punti. E possono combattere.

Il Mezzogiorno

Il centrodestra parte da un vantaggio di 144 seggi sicuri nelle liste proporzionali e di 115 nell’uninominale (vedi la tabella in alto). Totale: 259 deputati. Per arrivare a quota 316 gliene servono almeno 57. Dove può prenderli? Il terreno per fare nuove conquiste è soprattutto il Mezzogiorno, visto che al Nord la coalizione sembra già molto forte. In particolare, come si vede dai dati delle singole regioni, è in Sicilia, Sardegna, Calabria, Puglia e Basilicata che la partita sembra apertissima, con quasi tutti i collegi, 31 per l’esattezza, ancora da assegnare (in giallo). Ma a contenderseli con il centrodestra sono solo i 5Stelle, mentre la coalizione di centrosinistra perderebbe ovunque (in rosso). Un destino che sembra toccare anche le contestate candidature di Viceconte e Mancini.
Il Centro

L’alleanza di destra è forte anche nel centro. Neanche i seggi di Gentiloni e Madia a Roma sono blindati. In Campania il centrodestra avrebbe 17 collegi sicuri su 22 e i 5 in bilico se li contende ancora con i grillini, con i quali la partita è apertissima anche in quattro collegi dell’Abruzzo. In Campania sembrano destinati alla sconfitta col centrosinistra anche il pediatra Paolo Siani, il maestro Rossi Doria, il figlio di De Luca(Piero), e il nipote di De Mita (Giuseppe). Blindato invece appare Sgarbi ad Acerra. Già espugnati dal centrodestra anche 10 collegi nel Lazio, cioè la metà. Ma qui in diversi casi l’avversario è il Pd. Anche se non ce la dovrebbero fare nè Fioroni, nè Fattorini e l’unica in pole per la vittoria è Prestipino.
Le roccaforti rosse

In Toscana e in Emilia la situazione si ribalta, ma non al punto da poter dire che il Pd fa cappotto. Nella terra renziana può contare su nove collegi blindati su 14, tra cui quelli di Padoan, Lotti, Giachetti, Romano, Di Giorgi, Della Vedova (+Europa). Ma è in bilico Donati nella Arezzo di Banca Etruria. A Massa doverebbe farcela invece Bergamini, fedelissima del Cavaliere e a Lucca Zucconi(Fdi). In Emilia il centrosinistra ne avebbe di sicuri 10 su 17, tra cui quelli di De Vincenti, Delrio e Lorenzin (Civica popolare).
Non così blindato invece il collegio di Ferrara dove corre il ministro Franceschini: è quotato al 35%,mentre la sua avversaria, la leghista Tomasi, al 31%. Del resto sono sempre i leghisti ad insidiare in altri 5 collegi il centrosinistra. In entrambe le regioni infatti i 5Stelle non toccano palla, ad eccezione di Rimini dove la grillina Sarti ha qualche chance. In Umbria e Marche la corsa è apertissima. A Pesaro il ministro Minniti viene dato al 33% e deve vedersela sia con il 5Stelle Cecconi che con la forzista Renzoni. Perchè mentre in Umbria i pentastellati sono fuori, nelle Marche spesso la contesa è ancora a tre.
Il Nord

Nei 37 collegi della Lombardia il centrodestra fa filotto al netto della decisione della Corte d’Appello di Milano sui 15 candidati di ‘Noi con l’Italia’al momento esclusi (tra loro Michela Vittoria Brambilla): solo due sono in bilico a Sesto San Giovanni e a Milano 2; qui la dem Quartapelle cerca di battere la leghista Molteni. Blindate le azzurre Brambilla, Gelmini e Ravetto. Situazione analoga in Veneto. Una sfilza di segni verdi, esattamene 17 su 19 e tra questi il seggio di Brunetta. Il Pd prova a combattere solo a Venezia e a Padova. Il quadro non cambia in Friuli: 4 seggi su 5 a Lega e FI; a Goriza l’unica speranza per i dem. In Piemonte la situazione è più fluida: il centrodestra può contare su nove collegi, quasi tutti leghisti, mentre altri otto se li litiga con gli altri due poli.
Quadro complicato anche in Liguria: il centrodestra si aggiudica due collegi, i dem se la giocano in quattro e i grillini in tre. Valle d’Aosta non considerata perché esclusa dai sondaggi. Infine il Trentino: il Pd grazie al patto con Svp prende tre seggi , tra cui quello dell’ex ministra Boschi, gli altri tre se litiga con la Lega.
La coalizione di Berlusconi avrebbe già 259 collegi sicuri Il centrosinistra sarebbe a 133 e il M5S a 112
articolo tratto da qui raggiungibile

Huffington posta Nuova Venezia, 19-20 novembre 2017. «Siamo alla vigilia delle celebrazioni della Giornata Mondiale dei Poveri. Non la giornata mondiale della povertà, non la giornata mondiale contro la povertà». Articoli dei sacerdoti Camillo Ripamonti e Marco Pozza.(m.p.r.)

Huffington post, 20 novembre 2017
ELIMINARE LA POVERTÀ

NON I POVERI
di Camillo Ripamonti

Secondo la filosofa spagnola Adela Cortina l'aporofobia (la paura dei poveri) esiste al pari della paura dello straniero. Addirittura arriva a sostenere che oggi non siamo tanto di fronte a un aumento della xenofobia, ma piuttosto al dilagare della paura nei confronti dei poveri. Aporofobia è certo anche la paura degli stranieri, ma non ha come target principale l'essere straniero, quanto la condizione di marginalità che lo straniero vive.

Uno studio recente dell'Università Bicocca di Milano sulle periferie di cinque grandi città sottolinea come la percezione di insicurezza che si ha oggi non è tanto data dall'aumento di delitti, ma dalla mancanza di riferimenti generata dalla velocità con cui cambiano questi spazi urbani sia strutturalmente che come persone che vi vivono transitandovi. Lo spazio esistenziale diventa distante e percepito come insicuro, e l'insicurezza la si combatte cercando di riappropriarsi del controllo, almeno apparente, degli spazi, allontanando o individuando come nemici chi transitandovi esistenzialmente sembra renderli insicuri: migranti, mendicanti etc.

Siamo alla vigilia delle celebrazioni della Giornata Mondiale dei Poveri. Non la giornata mondiale della povertà, non la giornata mondiale contro la povertà. Ma la giornata mondiale dei poveri. Sembra un aspetto meramente linguistico, ma credo non lo sia. Nel messaggio che papa Francesco invia per questa giornata si legge:

«Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze, pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa, dovrebbero introdurre ad un vero incontro con i poveri e dare luogo ad una condivisione che diventi stile di vita. [...] Siamo chiamati, pertanto, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, abbracciarli, per far sentire loro il calore dell'amore che spezza il cerchio della solitudine. La loro mano tesa verso di noi è anche un invito ad uscire dalle nostre certezze e comodità, e a riconoscere il valore che la povertà in sé stessa costituisce».

In un tempo in cui si ha paura dei poveri, si cerca in tutti modi di allontanare i poveri dalla nostra vista. Non vederli ci rassicura perché avere un povero davanti agli occhi, nei luoghi in cui viviamo, ci ricorda che quella condizione domani potrebbe essere la nostra; si può cadere, e questo spaventa.

Papa Francesco lancia la Giornata Mondiale dei Poveri, non per attirare l'attenzione su di loro ma per farli protagonisti, attraverso un incontro che cambia e fa abbracciare la povertà come stile di vita: questo già credo sia un cambio radicale di prospettiva.

«... L'invito è rivolto a tutti, indipendentemente dall'appartenenza religiosa, perché si aprano alla condivisione con i poveri in ogni forma di solidarietà, come segno concreto di fratellanza. Dio ha creato il cielo e la terra per tutti; sono gli uomini, purtroppo, che hanno innalzato confini, mura e recinti, tradendo il dono originario destinato all'umanità senza alcuna esclusione".

19 novembre 2017
PREGHIAMO PER I POVERI
SENZA SCORDARE I RICCHI
di Marco Pozza

I poveri mi hanno sempre infastidito: pur avendo conosciuto da bambino la stagione della povertà - fui spettatore impotente delle lacrime di papà quando ci annunciò la perdita del lavoro - mi è sempre stata d'inciampo. L'ho patita troppo nell'anima, più che nel cibo che era misuratissimo, per amarla senza sotterfugi: quando l'ho potuto fare, l'ho sempre scansata. Il povero mi era ostacolo più che incrocio nella mia personale ricerca della felicità. Lo ammetto: anche del volto di Cristo. Ciò che gli infettati di lebbra procuravano al cuore-matto di Francesco di Assisi, gli accattoni lo ridestavano in me: «Quando ero nei peccati mi pareva cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse da loro e usai con essi misericordia».

A casa nostra, in quegli anni, Dio era un lusso che non ci si poteva permettere: meglio i santi, la Madonna, gente più concreta, alla quale chiedere il sole, la pioggia, il pane e la giusta razione di grano d'estate. Il povero, quand'è povero, conosce un solo dogma: la carne. La teologia viene dopo. Quasi sempre alla fine dei discorsi: se c'è posto. Il povero, quello che m'infastidiva, un giorno mi ha pure provocato: "Perché mi dai sempre soldi e poi scappi? - mi rinfacciò tre anni fa Alessandro, uno dei miei amici clochard. Aveva ragione: gli riempivo la mano tesa e poi fuggivo: non conoscevo, di lui, nient'altro che il nome. Una sera li rifiutò: "Non voglio più soldi da te - mi disse restituendomi gli euro - voglio dieci minuti di tempo".
Scoprii lì, seduto malvolentieri sui gradini di una chiesa di città, la storia lurida e infangata di Ale: la rabbia, l'angoscia, l'insicurezza che la povertà ti cuce addosso. Era la rievocazione, fatta con voce dell'Est, della storia di casa mia: lo ascoltavo e a me pareva fosse lui che mi ascoltasse, la sua storia era un racconto già sentito nella mia pelle. Quando mi alzai, compresi appieno perché ero così generoso di soldi con lui e qualche altro: volevo che, sazi di qualche euro, se ne andassero al più presto da me. La mia carità era il più egoista dei gesti: "Spostatevi, che io devo andare avanti" . Quel clochard ancora oggi è il mio lebbroso-di-Francesco: «Allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo».
Quell'altro Francesco, oggi Papa, perfezionò la mia caduta ricordandomi che Cristo lo trovi nella carne sofferente dei poveri. O non lo trovi. Oggi è la loro giornata, la Giornata Mondiale del Povero. Ecco perché oggi io pregherò per i ricchi: perché la povertà, quando ti tocca, non è affatto bella, è il più spietato degli incubi. È lei a posizionarti sotto le scale, negli scantinati, nei nascondigli: a fare di te un subalterno, un uomo poco libero, uno schiavo. Non è per nulla poetica come amano presentarcela taluni: anche la terra - quella che a casa mia vedo zappare, coltivare, seminare - non è sempre bella. Lo diventa quando è una scelta, un'opzione voluta, un sogno ripreso in mano. Quand'è una costrizione, è la più subdola delle disperazioni. Quella che fa nascere una sorta di eresia da destinare ai ricchi: che la fede del povero sia superiore a quella del ricco. Nient'affatto. Me l'ha spiegato san Francesco di Paola, tramite il racconto geniale di Andrea di Consoli ne Il miracolo mancato: a volte, per fare il bene, è necessario mostrarsi forti, per mettere i forti nella condizione di aiutare i deboli.
Sono i ricchi i veri protagonisti del riscatto dei poveri: una Chiesa che li esclude è una Chiesa che non riesce ad incidere nelle loro anime, ad aprire brecce nelle loro certezze. Nel Vangelo ci sono i lebbrosi, gli sbandati, gli epilettici e i morti di fame. C'è anche Veronica, Nicodemo: una usava fazzoletti di lino, l'altro aveva una tomba nella roccia. Ricchi, si fecero poveri per amore, non per costrizione. Prego per i ricchi, oggi, perché iniziano a starmi a cuore i poveri: il merito è di Alessandro. E prego per i poveri, perché diventino ricchi sfondati e scelgano di rimanere poveri, come il santo di Assisi e infiniti altri. Perché la povertà senza la possibilità della ricchezza è sempre una necessità, mai una virtù. Non è bella.

il Fatto Quotidiano,

Non c’è un check-point come a Gaza ma è l’apartheid, se così si può dire – ed è il caso di dirlo – in Canada. È così disinvoltamente gentile da far sì che ciò che è stato non sia mai stato. C’è un tabù nella patria dei totem. Salvatore Peralta arriva a Montreal dalla Sardegna. Studia, lavora – è iscritto alla McGill University – segue il suo amico Oliver alle feste dei coetanei e si presenta – “ingegnere minerario” – e i ragazzi e le ragazze gli concedono un sorriso e una canzonatura: “Finirai col sposarti una Nativa”. L’ing. Peralta si trova nella terra delle libertà. Il Canada – lo Stato federale – è il luogo più compiutamente libero, pacifista, ambientalista. È migliore e ancora più democratico degli Stati Uniti e comunque, Salvatore, se la fa spiegare la battuta. Oliver, con un certo imbarazzo, lo mette a parte del tabù massimo nella pur patria dei totem: “Gli indiani d’America qui sono come gli zingari da voi; sono ladri, ubriaconi e drogati”. Un amico, si sa, mette in guardia il proprio amico. “Meglio evitare discussioni”, aggiunge Oliver, e la domanda dell’ing. Peralta – “Ma come si fa a considerare i Nativi, zingari, quando erano presenti in queste terre prima dei colonizzatori, dei pionieri, dei bianchi…” – resta appesa.

C’era una volta Tatanka Yotanka – e cioè Toro Seduto – e però è come se tutta questa terra non sia mai stata sua. Ci sono solo 33 km dal centro di Montreal alla riserva di Kahnawake, presidio dei Mohawk, sulla riva sud del fiume San Lorenzo. Lungo il percorso si costeggiano le rapide. È il luogo dei mercanti e degli avventurieri. Ci si avvicina e muta il paesaggio. La segnaletica diminuisce. Echeggiano gli spari del poligono di tiro. La riserva non è un accampamento per come lo immagina Pecos Bill. Sono case in legno. Nessuna manutenzione. Di tanto in tanto lussi tipo castelli di Super Mario Bros. Nel centro del cupo presepe un monumento: un carrarmato con le bandiere Usa e Canada perché i Mohawk hanno la doppia cittadinanza. Un cartello illude i visitatori: il parco. Tutto quello che dice la “casetta in Canadà” non c’è. Niente fiori di lillà, magari i pesciolini, ma rifiuti e rimanenze di fuochi. “Di Toro Seduto – dice l’ing. Peralta – hanno solo lo stare seduti.”
Come il Tibet per Pechino – una non identità – così la Nazione Indiana è per Ottawa. Col multiculturalismo cool molto più efficace del totalitarismo cinese. La cancellazione della memoria della popolazione aborigena – sussidiata, relegata nelle riserve americane – sta giungendo a compimento, mentre i tibetani, al netto della realpolitik comunista, una vetrina di mobilitazione riescono ancora ad averla. Uno dei più grossi imbrogli della storia è l’Indian Act, ovvero il patto sottoscritto nel 1876 tra lo stato federale canadese e le nazioni indiane (quelle che impropriamente sono chiamate tribù). Molti rappresentanti dei Nativi, la maggior parte dei quali non alfabetizzati secondo il canone occidentale, ma legati alla tradizione orale sciamanica, segnano le carte bollate della cessione delle terre – i Treaties, i trattati – con i totem. Siglato senza la piena consapevolezza delle parti soccombenti, l’Indian Act, risultato a suo tempo perfetto – per la popolazione non aborigena – per cambiare le carte in tavola, si perpetua ancora oggi con la burocrazia.
Quelle stesse distese di boschi, le immensità di laghi e i potenti inverni del Nord che ancora oggi, attraverso lo sfruttamento, portano alle casse dello stato federale 270 miliardi di dollari vanno a contraccambiare, a favore dei Nativi, un bilancio di soli 70 miliardi. Privi d’identità, i Nativi, vivono confinati all’interno delle riserve. Registrati in un’anagrafe separata attraverso una Status card, non pagano le tasse e sono sussidiati con 800 dollari mensili (300 per mangiare, il resto per l’affitto). Fino al 1996 – solo 21 anni fa – i loro bambini dovevano frequentare le Residential schools col preciso proposito di far dimenticare il loro stesso sangue se sir John Alexander McDonald, padre della patria coloniale e primo ministro nel 1873 e nel 1878 ne segnalava l’urgenza: “Non vogliamo il selvaggio alfabetizzato, ma un nuovo essere pronto al nuovo mondo”.
Una cosa sono i diritti umani, dunque, un’altra i diritti coloniali. L’indifferenza si adopera per la più inesorabile delle pulizie etniche. È di fatto proibito professarsi “nativo”. I Nativi delle varie Nazioni, non hanno accesso alla “civiltà”. Possono andare a caccia – e a pesca – quando vogliono ma l’idea di commercializzare tutto quello che prendono e catturano va a cozzare con un embargo neppure tacito, ma esibito dai Treaties rispetto ai doveri dei selvaggi verso la cosa pubblica degli altri, i civilizzati. Dire indiano è come dire negro. Sono sempre guai per i vinti e il genocidio spirituale cui è sottoposta l’identità aborigena s’invera in quella mistificazione del politicamente corretto sulla soglia della reciproca ignoranza: i bianchi non sanno nulla dei selvaggi, e viceversa. Guai ai vinti. Ognuno chiama se stesso americano, o canadese, l’altro è definito nativo. Anche nativo è offensivo, come pure eskimese che – letteralmente – significa “mangiatore di pesce”, la formula incantata è First Nation People, un palliativo autoassolutorio con cui la società benestante si evita il fastidio di confrontarsi con la realtà di tutti quegli aborigeni: un 10% tra loro – con la gestione del gioco d’azzardo, alcool e tabacchi, e lo spaccio di droghe – si conquista un agio, il resto vive nell’indigenza e nell’accattonaggio.
A Montreal se ne incontrano tanti di questi ultimi, dei primi invece – ed è stato un quadretto di assoluta tenerezza – si nota subito lo sforzo di cautela. Non potendo farsi bianchi s’adeguano all’idea cinematografica. C’è un papà (col codino lungo fino al fondoschiena), e ci sono una mamma e una figlia adolescente. Identiche, entrambe, a Pocahontas. Fanno shopping. L’ideologia coloniale tende a farne uno stereotipo della stirpe “indiana”, tuttavia, prima delle invasioni coloniali queste etnie parlavano 12 lingue differenti, esprimevano svariati stili urbanistici e diverse culture e tradizioni. Nell’ultimo censimento del 2001 risultano 1,3 milioni di canadesi che dichiarano un retaggio nativo: First Nations, Inuit e Metis tra loro.
L’università McGill di Montreal sorge sulla città fortificata di Hochelaga, un complesso abitativo di aborigeni scoperto nel 1535 da Jaques Cartier. Abbandonata poco prima del 1600, Hochelaga contava 50 edifici ospitanti numerosi nuclei familiari dediti ad agricoltura e pesca. Il fondatore dell’università – sir James McGill – era un mercante di pellami, ogni pietra ha cancellato un’altra pietra e sotto i palazzi del centro città, già a uno scavo di soli 10 metri, giacciono strade e costruzioni dei vecchi insediamenti aborigeni.
C’era dunque una volta Tatanka Yotanka – e cioè Toro Seduto – ma è come se tutta questa terra non sia mai stata sua. Pietra sopra pietra. Alla McGill c’è un residence per i nativi – è la First People House – dove però capitano giovani stranieri, un sardo come l’ing. Peralta che la domanda se la tiene sempre appesa. Vi lavora come precettore e alla manager, un’aborigena, la domanda – “ma questo mondo è il vostro mondo?” – la rivolge con più insistenza. “Leggi un libro, prova a cercare una risposta”. Alla prima domanda, Salvatore ne aggiunge un’altra: “Tu quale libro hai letto?”. La risposta è una rasoiata: “Non leggo nulla riguardo alla mia origine, storia e cultura”. Il guaio è tutto dei vinti.

Internazionale

La manifestazione nazionalista in occasione dell’anniversario dell’indipendenza polacca. Negli ultimi anni l’evento, che celebra la ricostituzione della repubblica di Polonia nel 1918, è diventato un punto di riferimento per i movimenti di estrema destra di tutta Europa. Quest’anno hanno partecipato almeno sessantamila persone, che hanno inneggiato all’Europa bianca e scandito slogan contro gli ebrei e i musulmani. “È stato un bellissimo spettacolo”, ha commentato il ministro dell’interno Mariusz Błaszczak, esponente del partito ultraconservatore Diritto e giustizia.

il Fatto Quotidiano,


ATENE, I "PRIGIONIERI"

DI PIAZZA SYNTAGMA
di Cosimo Caridi
Disegna perché non sa scrivere. Mohamed ha nove anni e non è mai stato scolarizzato. Nato a Homs, in Siria, ha imparato a camminare sotto le bombe. Subito dopo, con il fratello maggiore e i genitori, ha lasciato il paese. Dove è tua mamma? “In quella tenda. Dorme, è stanca”. E papà? “In Germania”. Fatima, la madre di Mohamed, sta facendo lo sciopero della fame. Sono 13 giorni oggi. Vuole raggiungere il marito a Stoccarda. Non si vedono da oltre due anni. “Eravamo in un campo in Turchia – racconta la donna, mentre rassetta due coperte, unico arredo della sua tenda – mio marito è andato avanti. Ha attraversato il mare e poi i Balcani. Quando è arrivato in Germania ci ha chiesto di raggiungerlo”. Il resto è cronaca. Nel marzo 2016 la cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha chiuso la rotta balcanica. Almeno 100 mila persone rimangono intrappolate tra i confini alle porte d’Europa. Di questi, oltre 62 mila sono tutt’ora in Grecia. Mohamed è uno di loro.
In piazza Syntagma, ad Atene, sul marmo antistante al parlamento ellenico, 15 famiglie siriane hanno piazzato le loro tende. Ci sono donne e bambini in quantità, ad accompagnarli uno sparuto gruppo di uomini. Il primo novembre hanno appeso uno striscione nero a caratteri bianchi: “Sciopero della fame. Ricongiungete le nostre famiglie ora!”. Su un cartellone, ogni mattina, annotano da quanti giorni va avanti la protesta. “I tedeschi ci hanno diviso dai nostri cari – spiega Ibrahim, trentenne designato portavoce della comunità – abbiamo aspettato e seguito le procedure, ma non abbiamo ottenuto nient’altro che un pasto e un materasso”. I richiedenti asilo sono stati sparpagliati in decine di centri in tutta la Grecia. I campi sono quanto di meglio lo Stato possa fornirgli.
Ma Atene non ha fondi per pagare le pensioni, quindi per chi fugge dalla guerra c’è poco, sovente nulla. Il programma dell’Unione Europa per ricollocare i profughi si è rivelato un buco nell’acqua. Gli stati membri, secondo quanto deciso da Bruxelles, avrebbero dovuto accogliere 160 mila profughi che si trovavano già in Grecia e in Italia. Prima il gruppo di Visegrad, e poi tanti altri, si sono sfilati e a oggi solo 13.622 sono le procedure registrate, di cui 9.960 sono andate a buon fine, meno del 7 per cento. Le isole vicine alla Turchia, trasformate in hotspot per volere dell’Europarlamento, sono diventate carceri per i profughi. La convivenza forzata tra locali e migranti risulta ogni giorno più difficile.
La disoccupazione ellenica rimane sopra il 22 per cento e quindici cittadini su 100 vivono sotto la soglia della povertà. Alba Dorata, il partito xenofobo greco, terza forza del parlamento, capitalizza il malcontento. Si moltiplicano le aggressioni degli attivisti di estrema destra a richiedenti asilo, e volontari che li supportano, l’ultima mercoledì scorso nella capitale. Le foto del viso insanguinato di Evgenia Kouniaki sono state diffuse su Facebook. Kouniaki è la legale di un pescatore egiziano testimone di un pestaggio, sempre a opera di Alba Dorata. Mentre andava dalla polizia è stata avvicinata da una decina di uomini che le hanno rotto naso e occhiali.
In piazza Vittoria, a pochi passi da dove è avvenuta l’aggressione, s’incrociano squallore ed eccellenza. Il piccolo parco è diventato negli anni della crisi il crocevia di spaccio e prostituzione, anche minorile. Qui i migranti che hanno perso la speranza toccano il punto più basso dell’Europa. C’è chi traffica l’eroina gialla e chi si vende per pochi euro. Soldi che, con ogni possibilità, pensa di reinvestire in un trafficante di uomini che lo aiuti ad attraversare i muri costruiti lungo la penisola balcanica.
Ed è proprio in piazza Vittoria che viene distribuito il miglior pasto gratuito per i rifugiati. I paesi baschi sono la regione del mondo con il maggior numero di ristoranti stellati. La cultura culinaria affonda nelle origini di Euskal Herria e ha creato eccellenze come le società gastronomiche. Club privati, a cui l’iscrizione passa di padre in figlio, dove gli uomini si tramandano le ricette della tradizione. “Zaporeak è l’associazione creata dai cuochi delle società gastronomiche – spiega Josi Etxeberria mentre controlla la cottura di quattro pentoloni – questa situazione è oramai incancrenita, non la possiamo risolvere noi, ma bisogna limitare il degrado”. Josi e i suoi hanno trasformato uno scantinato nella cucina di un ristorante. Una decina di volontari affettano, impiattano e imbustano. “Dobbiamo dare qualcosa di qualità a chi vive nella precarietà assoluta – continua Josi – c’è un legame tra cibo e dignità. Mangiare non è solo sfamarsi”.

SU LE MANICHE:
IL RISCATTO FAI-DA-TE
DEL POPOLO GRECO
di Michele Revelli
La Grecia ritorna sulla scena europea, questa volta non come vittima sacrificale ma come sopravvissuta. Già l’esito del negoziato coi creditori per la “seconda valutazione” aveva ispirato un certo ottimismo negli ambienti di governo. Poi a settembre la decisione di Macron di tenere il discorso “per svegliare l’Europa” proprio in Grecia, ad Atene, aveva lasciato intendere che si aprissero possibilità prima insperate e insperabili. Ora l’annuncio di Alexis Tsipras di aver raggiunto gli obiettivi di bilancio e di essere in grado di destinare il miliardo di euro di surplus ai “poveri che hanno sofferto questi sette anni di austerità” come “dividendo sociale” è un’ulteriore conferma. Questo momento parzialmente favorevole non è frutto del caso ma il risultato dello sforzo compiuto dalla comunità greca tutta intera, in primo luogo dai cittadini col loro impegno sociale, come ho potuto verificare per esperienza diretta sul territorio greco, parlando con rappresentanti politici e volontari delle organizzazioni di solidarietà.
La Grecia che ho visto si discosta molto dal tetro quadro di abbandono e degrado di qualche tempo fa, quando i negozi erano chiusi e i ristoranti vuoti, la gente asserragliata in casa mentre per le strade esplodeva la rivolta. Oggi i ristoranti sono frequentati e anche il turismo interno è ripreso (+0,7% i consumi, +9,5% l’export) mentre le proteste sono quasi cessate. Organizzazioni come La solidarietà del Pireo e i vari Ambulatori di quartiere hanno accompagnato la popolazione nel periodo più duro della crisi, innovando le tradizionali pratiche di volontariato e massimizzandone gli effetti che oggi sono ben visibili a voler guardare tra le pieghe della società greca.
Una delle componenti più innovative, per esempio, sono stati gli ambulatori sociali: strutture di volontariato dove vengono distribuiti medicinali e fornite cure a quanti non possano permettersi le spese mediche. La cosa che maggiormente mi ha colpito andando a visitarne uno, nel quartiere di Nea Smyrni, periferia sud di Atene, è stata la professionalità. Trattandosi di un’iniziativa partita dalla gente senza il supporto di grandi Ong o finanziatori esterni, mi aspettavo un ambiente meno rifornito di farmaci e specialisti. Invece ho scoperto che l’ambulatorio era frequentato con regolarità da 850 pazienti e contava più di 11 specialisti tra cui otorini ginecologi cardiologi pediatri e persino psicologi e dentisti con tanto di attrezzatura per ecografie ed elettrocardiogramma. Con altrettanto stupore mi è stato riferito che tra le cure più richieste vi sono quelle dentistiche e grazie alle donazioni di privati l’ambulatorio è riuscito anche a dotarsi di un’attrezzatura professionale adeguata. Sebbene l’iniziativa fosse nata nel 2013 da 8 membri di Syriza, oggi tra i 50 collaboratori volontari si trovano anche medici conservatori che sono stati attratti dalla purezza dei loro ideali e dal loro intento di tener fuori la politica di partito dall’impegno sociale che non si cura di differenze di bandiera ma mette al primo posto i problemi della gente (per quanto cercassi, non ho visto un solo volantino, o un’affiche o un simbolo di partito).

Ciò che è stato realizzato dagli ambulatori sociali per la sanità è stato fatto dalla Solidarietà del Pireo per il cibo e i beni primari. Dall’idea di 14 persone “di buona volontà” (di Syriza e non solo) nel 2012 si è avviato un progetto che unisse le tradizionali pratiche di aiuto come distribuzione di vestiti cibo assistenza scolastica e consulenze legali a un nuovo concetto di volontariato che è più descrivibile dalla coppia solidarietà-partecipazione. Infatti a chiunque voglia ricevere vestiti o alimentari si propone di prestare servizio come volontario (quasi come un atto di “buona volontà”), così che chiunque utilizzi il servizio non pensi di ricevere la carità ma si senta parte di qualcosa. I volontari di solito sostano nei pressi del grande supermercato di fronte alla sede con delle buste chiedendo ai clienti di riempirne una per la Solidarietà del Pireo. In questo modo l’organizzazione può ricevere i beni da distribuire mentre i volontari più bisognosi possono ottenerli tramite una valuta non ufficiale di loro invenzione chiamata “Pireo”. Lo scopo è quello di rimettere in piedi chi per colpa della crisi è stato affossato ma mostra una reale volontà di rialzarsi: per questo sono esclusi dal programma quanti dimostrano di volerne solo approfittare, mentre qualunque immigrato è ben accetto.

Tutto questo mi ha fatto capire che il motore della ripresa greca non sta tanto nelle decisioni politico-istituzionali, quanto nella mentalità politica del suo popolo, disposto a spendersi attivamente per risolvere i problemi delle persone più che per affermare individualismi di partito. Approccio incomprensibile se guardato dall’Italia, dove nulla di tutto ciò sembra far notizia.
il Fatto quotidiano

Il suicidio assistito del Pd ha fatto tappa in Sicilia. Ispirandosi al Dottor Morte (Jack Kevorkian), il primario Matteo Renzi ha sequestrato il corpo del malato e lo dissangua senza pietà. Lo circondano premurosi assistenti-complici pronti a tutto, ma anche parenti in gramaglie che oggi biasimano l’assassino e domani gli votano la fiducia. A star dietro a tali balletti si rischia di non cogliere la radicale metamorfosi del Pd: da gioiosa macchina da guerra del 40% dopo le elezioni europee del 2014 a ipotetico ago della bilancia nel 2018, vaso di coccio fra i vasi di ferro dei due partiti maggiori, M5S e le destre. E quanto al Dottor Morte nostrano: da premier a candidato premier, e infine a ipotetico ministro di Qualcosa in un governo con le destre.
Non si ripeterà mai abbastanza che l’errore di prospettiva di quel 40,81% alle Europee, che valeva la metà perché solo il 50,58 % dell’elettorato aveva votato, non fu solo di Renzi, ma di chiunque chiuse allora gli occhi per non vedere e la bocca per non parlare. Ma tutta la strategia del Pd da allora al referendum del 4 dicembre 2016 fu ispirata da quell’equivoco: il miraggio di un inesistente 40% e la verità taciuta di un elettorato ridotto alla metà, e dunque più facile da manipolare. Questa fu la ratio dei volgari trucchi della legge elettorale detta Italicum, bocciata dalla Consulta senza aver funzionato nemmeno un giorno; questa, con travestimenti furbeschi e traguardando su possibili coalizioni, la ratio della nuova legge elettorale, che puzza di incostituzionalità prima di esser messa alla prova delle urne. L’enorme massa degli italiani che non votano è di fatto il cuore nascosto della politica e di ogni scommessa sulla democrazia di questo Paese. In Sicilia non ha votato il 53% degli elettori: lo stesso astensionismo delle regionali in Basilicata nel 2013. Per non dire dell’Emilia-Romagna, dove alle regionali 2014 non andò alle urne il 63% degli elettori. Cifre come queste tolgono credibilità agli eletti e segnalano una radicale sfiducia nella politica, virus temibile che delegittima le istituzioni.
Eppure si parla poco di astensionismo, e intanto quasi tutti aspirano confusamente a farne un instrumentum regni. In due modi diversi, anzi opposti: secondo la ricetta Renzi (favorire l’astensionismo, concentrando gli sforzi propagandistici su chi si ostina a votare); o secondo la formula magica “del 4 dicembre” (recuperare al voto chi votò al referendum). Questo sortilegio, che accomuna il M5S e pezzi importanti di sinistra alternativa, in Sicilia è fallito: la percentuale degli astenuti è infatti identica a quella del 2012. Chiamare alle urne chi vi andò il 4 dicembre è un bello slogan, ma da solo non funziona. Non solo perché, come sanno tutti, vi fu sul referendum un’impropria alleanza tra forze politiche e idee assai disomogenee (da Brunetta a Zagrebelsky), ma per un motivo molto più importante.
Se il 4 dicembre l’astensionismo si fermò al 34%, è perché milioni di cittadini capirono che quella riscrittura della Costituzione metteva a rischio i loro diritti, limitava la democrazia, favoriva uno sgangherato autoritarismo. In vista delle Politiche che ci aspettano dietro l’angolo, se non vogliamo rassegnarci a un’Italia dove meno del 50% dei cittadini è disposto ad andare alle urne, la scelta è una sola. Approntare, dichiarare, sbandierare programmi di governo fondati sui diritti costituzionali dei cittadini: dimostrarne la fattibilità giuridica, politica, economica. Ricordare ai cittadini quali sono i diritti che rischiano di essere, anche se non cancellati da una riforma costituzionale, calpestati di fatto perché dimenticati o seppelliti sotto valanghe di leggi e leggine. Proporre un orizzonte, un traguardo: non un astratto storytelling dell’Italia-che-non c’è, ma il profilo dell’Italia che (secondo la Costituzione) deve esserci; e di come arrivarci.
Dalle profondità del coma indotto e governato dal Dottor Morte all’italiana, è improbabile che il Pd trovi il bandolo di questa matassa, anche perché intento ad auto-intrappolarsi nel gioco delle correnti interne. Ma le forze alla sua sinistra non saranno afflitte da una simile malattia senile, e non si condanneranno a un analogo, sterile correntismo? E saprà mai indicare credibili progetti di governo il M5S, se non ha saputo affrontare adeguatamente il tema della democrazia interna?
Pensiamo all’Italia che generò quella Costituzione che abbiamo saputo difendere col voto. Quella Carta non nacque da accordi di vertice fra i partiti ma da un vasto consenso nel Paese. Fuori dell’Assemblea Costituente vi furono, allora, i “Costituenti-ombra”: cittadini che contribuirono a delineare un orizzonte di diritti e un traguardo di assetti di governo, dettando di fatto gli indirizzi che oggi troviamo scolpiti nella Carta. Contro lo scandalo di un dibattito politico che si svolge sulle procedure, sulle modalità, sulle alleanze, sulle liste elettorali, sulla difesa dei privilegi, e non sulla sostanza dei problemi, non sulla vita degli italiani e sul futuro della Repubblica, chi saprà scagliare la prima pietra?

il Fatto Quotidiano,

“Le elezioni siciliane dimostrano che il centrosinistra è un luogo politico che non esiste più. E che ora serve coraggio”. Anna Falcone (con Tomaso Montanari) è l’anima della “sinistra civica” nata dall’assemblea del teatro Brancaccio di Roma, il 18 giugno. “Con il risultato di Fava – aggiunge – la sinistra torna nell’assemblea regionale siciliana dopo tanti anni di assenza. Ma abbiamo obiettivi più ambiziosi. Bisogna riportare la gente a votare. Dobbiamo lavorare sul coinvolgimento di una base larga e popolare”.
Hanno votato in pochissimi, ma la destra mobilita il suo elettorato (anche a Ostia), la sinistra no. Perché?
Veniamo da 25 anni di governo della destra. In prima persona o diversamente interpretata dalle politiche renziane, ispirate alla cosiddetta ‘Terza via’. La destra ha convinto i suoi elettori che esistono soluzioni semplici alla crisi, anche se le sue politiche non hanno fatto altro che aggravarla. L’elettore di destra si accontenta, quello di sinistra aspetta una proposta coraggiosa, e resta a casa.
La proposta più coraggiosa sarà la lista unica con Mdp e gli altri partiti di sinistra di cui si parla da mesi?
Il nostro appello, da giugno, è far nascere una lista unica a sinistra che tenga insieme le parti migliori della politica e della società civile. Non c’è alternativa al coraggio. Come quello che in Spagna ha portato alla partecipazione civica di Podemos o in Inghilterra, con Corbyn, ha permesso la rinascita di un partito che rappresenta il mondo del lavoro e un modello di sviluppo alternativo alle politiche mercantilistiche che hanno umiliato i diritti delle persone. Su questi temi – lavoro, scuola, sanità, ricerca, ambiente – le convergenze si trovano. Ma chiediamo l’applicazione di un metodo democratico, che vale anche per le candidature.
Vale anche per Pietro Grasso? Sul suo nome sembrano d’accordo tutti, da Bersani fino a Vendola.
È una figura che si è guadagnata, per la sua storia personale, assoluta stima e credibilità. Ha un sincero radicamento nei principi democratici e costituzionali di questo paese. Non conosco le sue determinazioni , ma sono convinta che anche lui chiederebbe a sua garanzia una legittimazione democratica di una sua eventuale leadership.
Ovvero le primarie?
Dobbiamo discutere anche del metodo. È evidente che le primarie aperte, o chiamare a votare chiunque passi per strada, non sarebbero il massimo della trasparenza. Ma chi partecipa a questo percorso deve poter esprimere il suo voto sul programma, le candidature e la leadership.
Si parla anche di un ticket Grasso-Falcone.
Non sono interessata. I leader vengono dopo e dovranno essere legittimati dal basso. Io e Montanari siamo garanti, non abbiamo intenzione di proporci. E poi mi creda: i tatticismi e le lotte per la leadership non appassionano nessuno. Alle persone interessa sapere dove si va e quanto si è credibili.
Ha ragione, ma il tempo stringe e dovrete pur scegliere una formula.
Stiamo lavorando a un testo condiviso, che uscirà a brevissimo, per iniziare un percorso comune e aperto a tutte le forze civiche e della sinistra. Qualsiasi documento, per quanto ci riguarda, sarà sottoposto alla nostra prossima assemblea, il 18 novembre.
Avete paura che la lista unitaria sia un’operazione di apparati politici, che finisca con un altro 5%.
Nessuna paura. La sinistra non deve avere paura dei cittadini, né di mettersi in gioco su un grande programma di superamento delle diseguaglianze e delle enormi ingiustizie di questo paese. Pensi alla forza politica che potrebbe avere, anche rispetto all’Europa, una sinistra che mette la Costituzione alla base del suo programma.

Pressenza, . «Siamo sempre in tempo a tornare al dialogo. Succeda quel che succeda, non smetteremo di chiederlo. Ma ora ci tocca difendere le istituzioni catalane, lottare per preservare la coesione sociale e il benessere di Barcellona e della Catalogna». (m.p.r.)

A furia di parlare di scontro tra treni al condizionale ci siamo arrivati, si fa fatica a pensare che sia successo oggi. Un decennio di negligenze del Partito Popolare nei confronti della Catalogna culmina oggi con l’approvazione in Senato dell’articolo 155. Rajoy lo ha presentato in mezzo agli applausi dei suoi, facendo vegognare tutti coloro, come noi, che rispettano la dignità e la democrazia. Applaudivano il loro fallimento? Coloro che sono stati incapaci di proporre qualunque soluzione, incapaci di ascoltare e di governare per tutti, consumano oggi il colpo di stato alla democrazia con l’annichilamento dell’autogoverno catalano.

Sulla stessa rotaia ma in direzione contraria c’è un treno più piccolo, quello dei partiti indipendentisti, a tutta velocità, con piglio kamikaze, dietro una lettura sbagliata delle elezioni del 27 Settembre. Una velocità imposta da interessi partitici, in una fuga in avanti che si consuma oggi con una Dichiarazione d’Indipendenza fatta in nome dell Catalogna, ma che non ha l’appoggio della maggioranza dei catalani.

Non ci stancheremo di ripeterlo: è un errore rinunciare all’80% a favore di un referendum concordato prendendosi un 48% a favore dell’indipendenza. Molti, moltissimi, sono anni che mettiamo in guardia sul pericolo e, nelle ultime settimane, che lavoriamo pubblicamente e privatamente per evitare questo scontro. Siamo la maggioranza, in Catalogna e in Spagna, noi che vogliamo che le macchine si fermino, che si imponga il dialogo, il buon senso e una soluzione concordata.

Siamo sempre in tempo a tornare al dialogo. Succeda quel che succeda, non smetteremo di chiederlo. Ma ora ci tocca difendere le istituzioni catalane, lottare per preservare la coesione sociale e il benessere di Barcellona e della Catalogna. Staremo con la gente, lottando affinché non si tocchino i loro diritti. Curando le ferite che tutto questo sta causando e chiedendo alla gente del resto dello stato di lottare uniti perché questa democrazia è anche la loro. Nemmeno smetteremo di chiedere al Partito Socialista che cessi di appoggiare coloro che oggi applaudono; se no sarà impossibile che siano parte di un’alternativa credibile e che dia speranza.

Ho chiaro dove starò: coinvolta nella costruzione di nuovi scenari di autogoverno che ci diano più democrazia, non certo meno. Questo comprende cacciare il Partito Popolare che oggi, con i suoi applausi crudeli, fa festa del dolore di tutto un popolo. Ma anche, e sopratutto, lavorare per rendere femminile la politica, per ottenere che l’empatia sia una pratica abituale che permetta di costruire grandi consensi in cui la nostra diversità sia il nostro maggior tesoro.

Non in mio nome: né 155 né dichiarazione d'Indipendenza.

il Fatto Quotidiano,

“Addio cara Fiorenza, cara amica ausiliaria della Rsi, sempre gentile, quando di passaggio a Verona ci si vedeva per un caffè alla Bauli, negli ultimi anni infaticabile guida a Villa Carpena dove mi aveva fatto incontrare Romano Mussolini… Abbruniamo i labari!”. E ancora: “Sono stato onorato di averti conosciuta. Adesso andrai la dove c’è il nostro Dux! A Noi sorella!”.
Repubblica sociale e nostalgia. Il Duce, il fascio, il ricordo della Fiorenza Ferrini, morta nella casa di Mussolini, solo pochi mesi fa. Via così, dunque. Si ricomincia. Altro tema: il nemico. I partigiani, la sinistra. Niente corone sulle tombe repubblichine. Una miccia per l’odio e per la revisione storica distorta: “Propongo di andare sulle tombe dei partigiani pluripregiudicati per omicidio dopo la guerra e affiggere un foglio con scritto i delitti commessi”. Rilancia tale Nino Cacciottoli: “Bastardi senza patria e onore che andavano ancora a uccidere anni dopo la guerra. Odiano con un odio che dura 70 anni”. La foto di una donna presa per i capelli biondi, stretto il volto tra le mani dei partigiani. Memoria parziale. Di nuovo fiato alla tromba dell’odio. Scrive Franco Dradi: “La faccia dei partigiani dice tutto di loro. La nostra cosiddetta Repubblica è fondata sul sangue di innocenti e ragazzi d’onore che questa immondizia ha vigliaccamente versato. Se esiste un inferno, è lì che finiranno assieme alla loro genia malata”.
Nostalgia e attualità. Anna Frank, la figurina all’Olimpico, la maglia giallorossa della Roma. Attacco antisemita. Indignazione ovunque. Giusta, condivisa. “Laziale e fascista” tira dritto e scrive: “Quasi quasi ci scappa la lacrimuccia? Che dite? Ma indignati di cosa? E di cosa ci si deve scusare. Ma la facessero finita. Rassegnatevi”.
Da sociale a social. È il fascismo che dilaga in Rete. Facebook è la chiave, la piattaforma ideale per fare proseliti, ricordare, proporre, tentare di agganciare. Pagine nere dentro una risacca che monta come uno tsunami. Che aumentano di mese in mese. Sessanta, settanta alla volta. Qualcuno si è messo a contarle, analizzarle, catalogarle. Ne è uscito un quadro inedito, mai visto. Merito di Giovanni Baldini e del suo staff. Del sito Patria Indipendente e dell’Anpi. “Abbiamo censito oltre 3.000 pagine – spiega Baldini –, contiamo, entro dicembre, quando chiuderemo la ricerca, di superare le 4.300”. Dati e informazioni finiscono in un maxi-grafico. In realtà una grande nebulosa navigabile, dove le pagine Facebook stanno collegate le une con le altre. Non tutte e così si formano altre piccole nebulose. Ogni cerchio un link. Ogni colore una categoria: dai nostalgici agli identitari, dai gruppi Rac (Rock Against Comunism) a Lealtà e Azione, dal Movimento Patria Nostra fino alla galassia dell’associazionismo dove i temi sociali sono solo il paravento per portare avanti la propaganda neo-fascista.
Più il cerchio è grande, più appare autorevole. Il metro di misura sono soprattutto i like in entrata alla pagina. Le pagine che “si piacciano” sono collegate da una linea. Va da sé che Casapound e Forza Nuova attraggano il maggior numero di consensi. “L’idea – prosegue Baldini – è stata quella di andare alla ricerca di coloro che dopo la svolta di Fiuggi del 1995 non hanno seguito Alleanza Nazionale”. L’Msi scompare. Chi resta? Dove va? Con chi? La galassia neofascista così si polverizza in tante piccole monadi. Spesso in lotta tra loro. Mai unite, il più delle volte divise. Perché, si sa, a tutti piace fare il Duce a nessuno il gregario. E così si scopre che tutto il Blocco studentesco (declinato per città) sta nella sfera di Casapound. E un dato emerge netto. Lo spiega sempre Baldini: “Casapound sta progressivamente cannibalizzando Forza Nuova e si prepara, a tutti gli effetti, a raccogliere il testimone lasciato dall’Msi nel 1995”.

E così l’appello parte dalla pagina “Boia chi molla”. “L’Italia – si legge – ha bisogno di noi. Uniamoci e risolviamo la situazione”. E dunque ecco l’attualità declinata alla maniera neo-fascista. Dallo Ius Soli all’immigrazione alla nuova legge di Emanuele Fiano (il ddl sulla propaganda fascista), lui figlio di Nedo che ad Auschwitz ci passò, perse la famiglia, e riuscì a sopravvivere. Tema questo dibattuto su molte pagine. Fiano “il talebano”. Giuseppe Noce dalla pagina “Benito Mussolini” avverte il politico del Pd: “La guerra è finita caro Fiano, non ricordare sempre le stesse cose anzi bisogna togliere i campi di concentramento che li avete lasciati per ricordare l’Olocausto basta. Le cose brutte vanno tolte sono baracche che fanno male invece ne avete fatto dei luoghi di pellegrinaggio”. Mario e Patrizia Curatolo rilanciano: “Figlio de na… anche se cerchi di cancellare qualsiasi scritta o scultura appartenenti al fascio ricordati che saranno indelebili nel cuore di ognuno di noi appartenente al fascio viva il Duce”.

La tematica gender è un altro filo comune. La famiglia è quella tradizionale. Una pagina dedicata a Evita Peron posta volantini “l’unica famiglia è quella naturale”. Associazionismo si diceva. Temi buoni come l’ecologia. Come “La foresta che avanza” che, però, spende tempo e risorse per chiedere di ripristinare la scritta Dux sul Monte Giano, cancellata da un incendio dell’agosto scorso. Mentre Den, ovvero “Destra estrema nazionale”, non spreca parola, ma posta immagini di pistole infilate nei pantaloni per sostenere la legittima difesa. Per Augusto Bunker il motto è: “Saluto romano orgoglio cristiano”.
Il gruppo rock Hobbit si occupa di Ius Soli e davanti alla presidente della Camera Laura Boldrini che sostiene lo sciopero della fame pur di far passare la legge, risponde con un appello: “Proponiamo ai nostri seguaci di inviarci la descrizione dei piatti tipici della vostra città in nome della nostra sacra identità”. Che poi il gruppo Hobbit, tra rock e politica, fa anche del gran merchandising. Magliette e scritte “Ardite schiere, bandiere nere”. Identitari si diceva, contro lo Ius Soli, andare a pensare il contrario sarebbe sciocco. Ecco allora “Niemals”, emporio legionario. Felpe in vendita e un messaggio chiaro. “Questo è uno strumento di autofinanziamento militante per testimoniare la nostra visione del mondo. Lealtà, coraggio, onore: questa la sfida”.
La pagina “Progetto enclave” vuole che l’Europa si svegli. “Europe awake: nella Vandea o nella trincea delle Ardenne, a Salò oppure a Berlino in fiamme. Da Derry a Belfast risorge l’aurora, dal piombo degli anni Settanta risorge l’Europa”. Identità e passato. Volti criminali abbigliati da eroi. Erich Priebke “e il suo abominio giudiziario”. La vera storia promette la pagina “Virtute e Canoscenza”, “non perdetevi l’occasione di conoscere il Capitano!”. Ettore Muti, morto nel 1943 (sepolto al Campo X del Cimitero Maggiore di Milano assieme ad altri 921 repubblichini) nel cui nome nacque la Legione Muti, che torturò tanti innocenti in via Rovello. “Onore a Ettore Muti – si legge su Rdvis – il suo coraggio e la sua vita ci siano quotidianamente di esempio”. E poi Achille Starace, segretario del Partito nazionale fascista “grande figura d’italiano, un vero eroe”.
Ma c’è altro, oltre al visibile. Un doppio livello, l’inganno, il paravento dell’anti-politica, del populismo declinato al degrado. Il bersaglio è l’immigrato. Di questo si occupa un ricerca parallela, sempre giocata su Facebook e portata avanti dall’Osservatorio democratico sulle nuove destre diretto da Saverio Ferrari. Tutto si alimenta di fake news e numeri sugli sbarchi fuori da ogni logica. Una delle pagine più seguite è “Dimissioni e tutti a casa”. L’immigrato viene chiamato, ironicamente, “risorsa”. Si legge: “Nuova risorsa tenta di rubare un bus e manda all’ospedale un carabiniere e quattro guardie giurate”. Stessa pagina, qui Iolanda Ciasca si rivolge direttamente all’assessore milanese Pierfrancesco Majorino: “Noi italiani vorremmo che vi accadesse qualche cosa di una di quelle che succede a noi comuni mortali senza scorta. Gli stranieri scopriranno il vero motivo per il quale li accogliete: per i soldi!”. E ancora: “Nessuno può fermare la migrazione della fauna. Ve lo volete mettere in testa voi cacciatori? Libertà per la beccaccia africana”. Stessi motivi di razzismo in altre pagine come “Piove governo ladro” o in “Militanza fascista 2” che se la prende con don Biancalani, il prete di Vicofaro (Pistoia) diventato famoso per aver portato un gruppo di migranti in piscina e attaccato da Forza Nuova. Scrive tal Bruna: “Stronzo aiuta gli italiani, anzi vai in Africa, lì ti mettono a 90 gradi”.

Territorio e identità deviata. “Difendi la tua città”, le cosiddette pagine del “gentismo”. “Sei di Pavia”, ad esempio. “L’odio non potrà mai scalfire la purezza del nostro amore”. Citando il testo del gruppo Rac Ddt: “Basta una canzone, basta un bottiglia. Quante braccia tese, è la tua famiglia”. Nelle ricerca di Giovanni Baldini le pagine dei gruppi musicali sono circa 122. Soli neri e simboli nazisti, white power, odio e aryan rock. Come quello dei veneti Katastrof che inneggiano a Priebke: “Tu sei rimasto fedele all’ideale supremo. Sarai sempre esempio per la bianca gioventù!”. Di tutto e di più nella nebulosa dei neo-fascisti italiani. Legati dalla nostalgia, nascosti dentro l’odio populista per il diverso.

Una marea nera che non arretra. Ma resta divisa al suo interno. Ultimo esempio, la marcetta ridicola del 28 ottobre. Annunciata da Forza Nuova e da Roberto Fiore poi ritirata. Cosa che non è piaciuta a Maurizio Boccacci, ex Fuan ed ex Avanguardia Nazionale che in una lettera scrive: “Caro Fiore chi vuol combattere veramente il sistema non mendica benevolenza ma scende in strada e lo combatte così è sempre stato! Le lotte fatte nelle borgate sono state fatte senza alcun permesso, certo pagando, ma infiammando quel popolo che ci vedeva marciare e lottare”. Insomma, se da un lato Facebook fotografa un preoccupante magma nero in aumento che si alimenta di fake news e antisemitismo a buon mercato, fissando anche nuove direzioni, dall’altro la realtà della politica riconduce il neo-fascismo italiano a semplici schiamazzi tra pochi.

il manifesto Corriere della Sera 28 ottobre 2017. Articoli di Giuseppe Grosso e Paolo Lepri. (m.p.r.)


il manifesto
L’AZZARDO DELL'INDIPENDENZA.
SCATTA IL COMMISSARIAMENTO

di Giuseppe Grosso

Catalogna. Il Parlament dichiara la República catalana: 70 Sì, 10 No, 2 voti in bianco e 53 deputati assenti su 135. E a Madrid il senato mette in moto l’articolo 155. Rajoy destituisce Puigdemont e il suo governo e convoca elezioni regionali il 21 dicembre.

Carme Forcadell, la presidente del Parlament catalano, conta i voti. Dietro di lei, la senyera quasi si intreccia con la bandiera spagnola, in un’immagine che è la definizione visiva del concetto di «paradosso». Sgrana i «sì», settanta, con la compunzione di una sacerdotessa. Ogni tanto, qualche «no»: uno, due, dieci in totale; e due schede bianche. Basta e avanza per dichiarare, alle 15,27, la Repubblica catalana. Con i parlamentari costituzionalisti usciti dall’aula per protesta, i repubblicani si alzano in piedi e intonano l’inno della nascente Catalogna indipendente.

Hanno vinto: dopo un tira e molla logorante, che ha monopolizzato il dibattito politico (non esiste più corruzione, della disoccupazione non si parla più, la crisi non si sa dov’è finita) e sfibrato la società catalana e del resto di Spagna, gli indipendentisti hanno presentato al mondo la loro creatura. O forse hanno perso, perché, dopotutto, lo scontro frontale consegna agli annali Puigdemont e compagni, ma condanna la causa nazionalista alla reazione repressiva di Madrid e quindi al fallimento. Rajoy, a pochi minuti dal voto del parlament, lo ha ribadito via Twitter: «Lo stato di diritto ripristinerà la legalità».

Insomma, se fino all’altro ieri esisteva uno spiraglio per il dialogo – tanto invocato da ogni parte e così poco praticato – il salto mortale di Puigdemont, lo chiude irrimediabilmente. E allora forse non ha vinto nessuno, tranne l’egoismo e l’infantilismo politico che hanno dimostrato sia Barcellona che Madrid, entrambi, fin dall’inizio della crisi, ottusamente determinati ad arrivare alla resa dei conti. I generali indipendentisti tutto questo lo sanno bene. Sanno che ieri hanno portato a casa la più classica delle vittorie di Pirro e perciò, subito dopo il voto (segreto, su richiesta di Junts pel Sì), hanno mostrato alle telecamere dei volti tiratissimi. Come, del resto, quelli del gruppo di Catalunya si que es pot (la costola catalana di Podemos), spaccati al loro interno tra favorevoli e contrari (questi ultimi allineati alla posizione ufficiale del partito). «Il risultato elettorale dà Puigdemont e al suo esecutivo il diritto di governare, non quello di dichiarare l’indipendenza», ha commentato Pablo Iglesias, che però ha manifestato il suo dissenso nei confronti della reazione di Rajoy.

Musi lunghi anche per i socialisti, che hanno pronunciato un discorso durissimo nel parlamento catalano, e ovviamente per Pp e Ciudadanos, la sigla più visibile del fronte unionista in Catalogna. Sorridevano solo quelli di Erc e della Cup, che è riuscita a imporre a tutto il blocco repubblicano la sua linea dura e a mantenere tutte le promesse fatte al suo elettorato; e, insieme a loro, tutto il popolo secessionista, sceso in piazza in massa fin dalle prime ore del pomeriggio per celebrare l’ebbrezza effimera di sentirsi liberi da una Madrid, ieri più che mai, lontana e straniera. Al punto che a Girona, roccaforte indipendentista, la bandiera spagnola è stata rimossa dal palazzo municipale, rimasto vestito solo della senyera, ondeggiante contro il cielo della neonata Repubblica catalana.

Al rumore festoso della piazza, faceva però da contrappunto la solennità dell’emiciclo del Senato, dove si preparava il castigo alla hybris catalana. Con 214 voti a favore e 47 contrari, veniva approvata l’applicazione, per la prima volta dal varo della Carta costituzionale, del famigerato articolo 155, appoggiato anche dal Psoe, che ha votato per la linea dura insieme a Pp, Ciudadanos e Coalición Canarias. I «no» sono arrivati dalle bancate di Unidos Podemos, Erc, Partido Nacionalista Vasco e PDeCAT.

Affilati i coltelli in Senato, Rajoy ha convocato per le 7 un consiglio dei ministri straordinario con l’obiettivo di rendere immediatamente operative le misure previste dal 155. Nel mirino, ovviamente, Puigdemont e il suo governo; il paese resta con il fiato sospeso in attesa di sapere l’intensità della risposta di Madrid. Rajoy ricompare verso le 20,20, e spara dritto alla testa dell’indipendentismo, mentre in Catalogna, impazzano i balli e i canti: Puigdemont esautorato, il suo governo rimosso, e il capo della polizia catalana destituito. E – a sorpresa – annuncia già la data delle prossime elezioni regionali: il 21 di dicembre. Ma è solo l’inizio: il 155, verrà applicato «progressivamente e proporzionalmente alle circostanze», come accordato con il Psoe. Ed è molto probabile che a questi primi provvedimenti segua il commissariamento totale dei Mossos d’Esquadra (fondamentale nella strategia del governo di restaurazione dello status quo) e la limitazione dell’autonomia dei mezzi di comunicazione pubblici catalani. «La normalità si costruisce sulla legge; dobbiamo restituire la voce a tutti i catalani». E ricomporre una frattura sociale che impiegherà anni a saldarsi.


LA VIA DEL DIALOGO
MA SI PUÒ ANCORA RICOSTRUIRE
di Paolo Lepri

Non basterà un tweet per riportare serenità in un Paese lacerato, non basteranno quei novantasei caratteri che il presidente del governo Mariano Rajoy ha scritto circa tre minuti dopo la dichiarazione d’indipendenza approvata dal Parlament di Barcelona mentre la folla riunita nel Parc de la Ciutadella continuava ancora a lanciare boati di gioia. «Chiedo tranquillità a tutti gli spagnoli. Lo Stato di Diritto ripristinerà la legalità in Catalogna». In questo momento difficile, purtroppo, la tranquillità promessa dal primo ministro sembra essere infatti soltanto una improbabile utopia.

Ma questa utopia «minore», questo desiderio di ritorno alla normalità, è forse quello che chiede la maggioranza dei cittadini. Non solo quelli che hanno in queste ultime settimane esposto le bandiere della loro «casa comune» — una casa in cui le autonomie sono sempre state una realtà indiscussa — alle finestre di Madrid e di altre città lontane dalla ribellione. Anche quelli che non hanno parlato, i tanti che non hanno votato nel referendum per l’indipendenza di questa comunità autonoma riconosciuta già come «nazione».

Si poteva evitare tutto quello che sta accadendo? La politica non si può leggere con il filtro delle emozioni. Ma l’essenza stessa delle autonomie spagnole e la trama dello Stato democratico costruito dopo gli anni oscuri del franchismo sono molto lontane, concettualmente, dall’avventurismo della rottura.

La leadership catalana ha invece voluto ignorare, in questi mesi di crisi, che non esiste nell’Europa di oggi un nazionalismo «positivo» e che la rivendicazione delle diversità può passare soltanto attraverso la difesa dei principi costituzionali, del rispetto degli assetti pacifici, dell’unità contro la disgregazione. È un errore imperdonabile. Non è un caso che la dichiarazione di indipendenza unilaterale sia stata giudicata «illegale» perfino dal leader di Podemos Pablo Iglesias, nonostante la posizione ambigua che il suo movimento-partito ha avuto durante tutto questo snervante braccio di ferro.

La storia di questi ultimi decenni - una storia che tanto Rajoy quanto Carles Puigdemont hanno deciso di dimenticare - insegna che si può negoziare su tutto e che si deve negoziare anche con quelli che possono essere ritenuti i nemici. Chi non lo ha fatto ha sbagliato. È forse inutile dire che il governo di Madrid, nato debole, anzi debolissimo, dopo il risultato interlocutorio di due appuntamenti elettorali, ha maggiori responsabilità iniziali dei suoi avversari. Le passeggiate del presidente del governo nel giardino della Moncloa con il suo cane Rico avrebbero potuto produrre qualche riflessione in più. E l’inspiegabile repressione nelle strade di una Barcellona pacifica ha confuso, come spesso accade, la bilancia dei torti e della ragioni.

È stato detto che le istituzioni europee hanno assistito alla crisi dal palco bruxellese degli spettatori, preoccupandosi solo di solidarizzare con il governo di Madrid per evitare guai maggiori. Certo, è vero che l’Unione non avrebbe potuto fare molto di più, anche se avesse voluto, senza creare precedenti pericolosi, senza allontanarsi dal proprio mandato. Ma situazioni eccezionali richiedono sforzi di intelligenza eccezionali. Se la rivoluzione del 1989, per esempio, fosse stata affrontata con meno coraggio e fantasia, una svolta epocale come l’unificazione tedesca non si sarebbe concretizzata così rapidamente. Dispiace vedere il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk dichiarare ieri sera che «non è cambiato niente». No, è cambiato tutto. Si tratta ora di ricostruire, non più di tenere insieme. A Madrid e Barcellona si deve fare un passo indietro, l’Ue deve farne molti altri in avanti. Anche fuori dai sentieri tracciati.

il Fatto quotidiano

“Io non mi riconosco più nel Pd”. Nel partito che accoglie in maggioranza il plurinquisito Denis Verdini e disegna alleanze coi centristi Giuseppe Castiglione e Angelino Alfano, Pietro Grasso non ci vuole stare. È il pomeriggio di ieri quando il presidente del Senato, appena finita la sua gestione dell’iter del Rosatellum, comunica l’uscita dal gruppo dei democratici e il suo passaggio al Misto. Restano orfani della seconda carica dello Stato, insomma, i senatori guidati da Luigi Zanda, pidino di rito democristiano che, in questi ultimi giorni, ha evitato accuratamente di citare nei suoi discorsi l’ex magistrato Grasso. A conferma che la separazione era in gestazione ormai da tempo: “La misura è colma, politicamente e umanamente. Non mi riconosco più nel merito e nel metodo di questo Pd, in comportamenti che imbarazzano le istituzioni e ne minano la credibilità e l’indipendenza. Non mi riconosco nemmeno nelle sue prospettive future”. Ci ha riflettuto una notte, dopo la baraonda in aula. Al 5Stelle Vito Crimi, che invocava le sue dimissioni, aveva replicato rassegnato: “A volte è più difficile restare che andare”. Poi ha capito che col Rosatellum si è valicato un limite di decenza politica e fingere ancora sarebbe stato ipocrita: “È una scelta sofferta, ma è l’unica che certifichi la distanza, umana e politica, da una deriva che non condivido”.

Quando Grasso, ricevendo le firme contro il Rosatellum dai professori che guidarono il Comitato del No al referendum, auspicò la riapertura della discussione sulla legge senza la forzatura del voto di fiducia e senza umiliare Palazzo Madama, dal Nazareno hanno reagito con gli insulti. Secondo il presidente del Senato, peraltro, il nuovo sistema elettorale allontana ancora di più gli eletti dagli elettori, riproponendo lo strumento dei nominati che fa tanto comodo ai segretari di partito. Si poteva almeno, ad esempio, dare l’opportunità ai cittadini di esprimere due voti disgiunti per lasciare libertà di scelta sul candidato del collegio e sulle liste in corsa. Il solo auspicio ha irritato Zanda&C. E le ragioni sono antiche. Il rapporto tra il Pd di Matteo Renzi – per l’ex magistrato ben diverso da quello che in epoca Pier Luigi Bersani lo trascinò in politica – e il numero 1 di Palazzo Madama si è frantumato durante la lunga fase che va dalla riforma costituzionale al referendum di dicembre. Ogni obiezione di Grasso – come quella sulla ricerca del “plebiscito” – è stata trattata come un oltraggio e dunque meritevole di una reazione velenosa.

Non proprio accorata, a dire la distanza tra i due mondi, la reazione di Zanda: “Mi ha comunicato per telefono la decisione di dimettersi dal gruppo poco prima di renderla nota. Per quanto mi ha detto si è dimesso principalmente perché non condivide la linea politica del partito e, in particolare, le decisioni sulla legge elettorale. Mi ha detto che, non fosse stato presidente del Senato e avesse dovuto votare, non avrebbe votato né la legge, né la fiducia sugli articoli”. La signorilità e il senso delle istituzioni dei vertici dem sono stati poi esemplificati da un tweet di Salvatore Margiotta, della Direzione Pd: “Fosse vero, Grasso dovrebbe dimettersi anche da presidente del Senato”. Per una volta sono i renziani i più tranquilli: il vicesegretario Maurizio Martina è “addolorato”; Matteo Orfini addirittura rispetta la scelta (“ovviamente non trascineremo la seconda carica dello Stato nello scontro politico”).

L’ex magistrato nelle prossime settimane dovrà far sapere se continuerà a fare politica, in che modo, dove, se da candidato in prima fila o da riserva della Repubblica. Per adesso, Grasso scarta un’ipotesi: presentarsi di nuovo agli elettori col Pd, il partito di Renzi che già mostra le intenzioni di una campagna populista. “Quando mi sono candidato nel Pd – dice – riconoscevo principi, valori e metodi condivisi, che si sono andati disperdendo nel corso degli anni”.

Anche il blocco rosso del Nazareno si è disperso. Pier Luigi Bersani ha fondato Articolo1-Mdp. Alla festa di Napoli degli “scissionisti”, Grasso aveva ricevuto ovazioni e aveva ricambiato: “Mi sento un ragazzo di sinistra”. A un mese dal quel giorno, il presidente del Senato deve capire la sinistra che Mdp può e vuole rappresentare: “Per il futuro vedremo, non è oggi la giornata giusta per pensarci”. Ovviamente, dal lato bersaniano, le pressioni per farne il frontman (con connesso saluto a Giuliano Pisapia) della prossima corsa elettorale aumenteranno. Forse un primo segno Grasso potrebbe scorgerlo nella giornata del 6 novembre, quando pian piano le schede cominceranno a uscire dalle urne siciliane: il panorama potrebbe cambiare parecchio, per ora si aspetta e ci si gode la fine degli equivoci.

la Repubblica, 27 ottobre 2017. A partire dai fatti Banca d'Itale e legge elettorale, un'efficace panoramica della squallida situazione nella quale la "politica politicante" ha gettato le isituzioni democratiche.

A METÀ strada tra il Vietnam e i Balcani, la politica lancia nel peggiore dei modi i suoi saldi di fine stagione. La nuova legge elettorale e il caso Banca d’Italia sono due mesti paradigmi di un caos repubblicano che non conosce vincitori ma solo vinti. Due amare allegorie di un processo di “rottamazione istituzionale” destinato a durare, purtroppo, fino alle elezioni del marzo 2018 e oltre.

Il rinnovo del governatore alla Banca d’Italia è frutto di una battaglia dissennata, che lascia sul campo morti e feriti. Mattarella e Gentiloni, titolari per legge del diritto di nomina, resistono all’assedio di Renzi, che ha chiesto in Parlamento la testa di Ignazio Visco. Ma a quale prezzo?

I due presidenti tengono fermo il presidio delle istituzioni, evitando a Via Nazionale un ribaltone che avrebbe potuto avere effetti destabilizzanti. Ma si assumono una grande responsabilità: si fanno “garanti”, di fronte all’opinione pubblica, di un governatore che nei prossimi tre mesi dovrà comunque rispondere dei suoi atti in una commissione parlamentare d’inchiesta già in parte deformata a nido di serpenti. C’è da sperare che i veleni non spurghino, e non finiscano per intossicare anche gli organi di garanzia.
Renzi deve fare un passo indietro: ribadisce che “non condivide”, anche se la rispetta, la scelta del suo “amico Paolo”. Anche qui: a quale prezzo? Per rifarsi la verginità perduta di fronte al Paese, su Banca Etruria e sul “bail in”, il segretario non esita a compiere un “atto sedizioso” alla Camera, avallando una mozione di sfiducia nei confronti di Visco. Per lucrare un pugno di voti ai Cinque Stelle, trasforma la natura del Pd: da “unico argine ai populismi” a “partito che tra il popolo e i Poteri Forti sta dalla parte del popolo”. Troppo comodo, per una “forza di sistema”, andare all’attacco del sistema. Troppo tardi, per un ex premier che ha governato tre anni, si è caricato sulle spalle il peso del conflitto di interessi di Maria Elena Boschi e di papà Pierluigi, ha cambiato i vertici di Mps e ne ha addirittura rinviato il salvataggio per non impattare con il referendum costituzionale. Cos’è ormai questo partito democratico, di piazza e di palazzo, nessuno più sa dirlo.
Visco respinge l’offensiva renziana, difende l’autonomia di Palazzo Koch e ottiene un secondo mandato. Ma di nuovo: a quale prezzo? Non è lesa maestà affermare che qualcosa non ha funzionato, nei controlli sulle crisi bancarie di questi ultimi dieci anni costate quasi 60 miliardi di denaro pubblico. Per quanti chiarimenti Visco potrà ancora dare, il rischio è che un’ombra di sospetto continui a gravare anche in futuro su Via Nazionale, e che al suo vertice si ritrovi per altri sei anni un “governatore mascariato”. O comunque sotto accusa dal partito di maggioranza relativa.
È l’esito più perverso della scomposta campagna renziana, che propone un tema sensato nel modo più sbagliato.
Se si passa alla legge elettorale la conta delle “vittime” è ancora più pesante. Il famigerato “Rosatellum” passa con una raffica di otto fiducie. Già questo, prima ancora di ogni valutazione sul merito della sedicente “riforma”, basterebbe a svilire ulteriormente un Parlamento ridotto a quel che sembra ormai da troppo tempo. Lasciamo perdere la metafora delle “aule sorde e grigie” che approvano a forza il “Fascistellum”, perché con tutta evidenza (e per nostra fortuna) il Ventennio è stato tutt’altra storia. Ma è vero che le Camere sono state ancora una volta trasformate in un banale votificio, e piegate dall’ultimo atto di forza di una partitocrazia debole, a novanta giorni dalla fine della legislatura.
Ancora una volta (com’era già successo per il Titolo V e per il “Porcellum”) prevale l’uso congiunturale delle regole. E ancora una volta perdono tutti, in questo blitzkriegordito in due settimane da quattro partiti in cerca d’autore. Pd, Forza Italia, Lega e Ap si blindano tra loro, con un patto scellerato. Per tagliare fuori i Cinque Stelle, senza rendersi conto dell’eterogenesi dei fini, cioè di avergli regalato un formidabile argomento di propaganda per la campagna elettorale. Per tenersi mani libere, fabbricando coalizioni finte prima del voto e nascondendo “grandi coalizioni” subito dopo. Per assicurarsi un manipolo di fedelissimi, da piazzare nel Parlamento che verrà, all’insegna del motto di Arbore: meno siamo, meglio stiamo.
Dentro al Palazzo perde Gentiloni, costretto suo malgrado a subire una fiducia di cui avrebbe fatto volentieri a meno, come ha denunciato in aula l’emerito Napolitano. Perde Renzi, che per sconfiggere i demoni di Grillo e D’Alema rinnega tutti gli “idoli” che ha venerato (il popolo che sceglie, il vincitore “la sera delle elezioni”, la vocazione maggioritaria del centrosinistra). Perdono Berlusconi e Salvini, ingabbiati in una camicia di forza e accomunati forse da un elettorato, ma non certo da una politica. Perde Alfano, sospeso tra due forni in un limbo in cui finirà per cuocere comunque.
Fuori dal Palazzo perdono i grillini, che inscenano i soliti vaffa e i loro macabri rituali di piazza.
Ma soprattutto perdono gli italiani, che si ritroveranno un Parlamento fatto per due terzi da “nominati” e le pluri-candidature che consentiranno ai “trombati” nei collegi uninominali di riciclarsi nel proporzionale. Ma alla fine, dopo cotanta ricerca, i quattro partiti lo trovano, finalmente, il loro vero “autore”. È Denis Verdini, il padre-padrino di Ala. Con i suoi voti rende possibile questa “guerra lampo” fuori tempo massimo. Con una realpolitik terribile ma incontestabile il senatore condannato e pluri-inquisito celebra in aula il suo “Verdini Pride”, ricordando a tutti quello che non si può più nascondere: “Questa legge non è mia figlia, semmai è mia nipote… Noi nella maggioranza c’eravamo, ci siamo e ci saremo”. Appunto: se la legislatura non fosse agli sgoccioli, Gentiloni dovrebbe salire al Colle, e Mattarella dovrebbe prenderne atto.
Valeva la pena di sacrificare appartenenze e coerenze, per farsi salvare da Verdini? Una domanda che ancora una volta vale soprattutto per il Pd, che mentre beve l’amaro calice del Rosatellum patisce anche l’addio doloroso di Pietro Grasso. Il presidente del Senato che dopo il “colpo di mano” lascia il partito democratico è il segnale inequivoco di una “rottura sentimentale”, prima ancora che politico- istituzionale. Il segretario sacrifica un pezzo di storia e di cultura politica, sull’altare di una brutta legge elettorale che oltre tutto non dà alcuna garanzia di governabilità. Come ha scritto Roberto D’Alimonte, a un partito o a una coalizione, per governare, non basterebbe neanche il 40% nel proporzionale: dovrebbe vincere anche il 70% nel maggioritario, per avere una maggioranza risicata di almeno 317 seggi alla Camera.
Con questi numeri, la prossima legislatura sarà una penosa e pericolosa lotteria. La affrontiamo senza rete, tra opposti populismi e nefasti velleitarismi. Dopo lo strappo sul Rosatellum, non c’è in Parlamento una maggioranza “ufficiale” per approvare la legge di stabilità. Ieri Mario Draghi ha annunciato che da gennaio 2018 la quota di acquisti di titoli del debito sovrano da parte della Bce si ridurrà da 60 a 30 miliardi al mese. Tre giorni fa, mentre Renzi spacciava altri bonus milionari ai 18enni e Berlusconi prometteva pensioni a mille euro per tutti e dentiere gratis per gli anziani, nella serena Germania ancora senza governo un mese dopo le elezioni i dipendenti del ministero delle Finanze salutavano il falco Schaeuble che trasloca al Bundestag con una foto ricordo che dice tutto: Schwarze Null, un gigantesco “zero deficit”. Per i tedeschi, oggi, è una medaglia. Per noi italiani, tra pochi mesi, diventerà una minaccia.

Avvenire,

L’Italia è un caso esemplare delle grandi malattie economiche delle nazioni cosiddette “avanzate” in questi anni. L’Ocse ha dedicato un lungo rapporto a due dei malanni che affliggono, in misura diversa, tutte le economie sviluppate: l’invecchiamento della popolazione e l’aumento delle diseguaglianze economiche. Dato che le differenze nel successo delle persone sono anche il risultato cumulato di diseguaglianze che emergono fin dai primissimi anni di vita, è la tesi dell’Ocse, ogni governo può organizzare un’agenda di politiche che – agendo su istruzione, sanità, mondo del lavoro e redditi – possono prevenire la formazione delle diseguaglianze per i bambini, mitigare gli squilibri economici che si sono già sviluppati negli adulti, gestirli per i più anziani.

È un tipo di lavoro politico che l’Italia dovrebbe affrontare sul serio e molto presto, dato che è già il terzo paese con l’età media più alta del mondo e con un rapporto tra anziani e persone in età lavorativa destinato a salire dall’attuale 38% al 74% nel 2050 si troverà ad avere una situazione demografica da brividi nel giro di trent’anni. Partiamo già da una situazione molto problematica, fa capire l’Ocse nel “focus” dedicato al nostro paese. Negli ultimi tre decenni la situazione economica e lavorativa dei giovani è drasticamente peggiorata: dalla metà degli anni Ottanta, calcola l’Ocse, i redditi dei lavoratori con più di 60 anni sono saliti del 25% di più rispetto a quelli di chi ha meno di 35 anni. Un squilibrio aumentato quindi con un ritmo quasi doppio rispetto a quello già ampio (13%) della media dell’Ocse.

Questi giovani che si sono fatti più poveri vivono anche una maggiore diseguaglianza dei loro redditi rispetto alla generazione dei loro genitori e dei loro nonni. L’Ocse calcola e compara il livello di diseguaglianza nei redditi per persone della stessa età per i nati negli anni Venti, Cinquanta e Ottanta, e per l’Italia vede una variazione quasi nulla per la classe degli attuali 60enni (+0,6%) e molto più decisa (+4,7%) per gli attuali trentenni. «Dal momento che l’ineguaglianza tende a salire durante la vita lavorativa, una più alta diseguaglianza tra i giovani di oggi porterà probabilmente a una più alta diseguaglianza nei pensionati del futuro, soprattutto dato il forte collegamento tra redditi lavorativi e pensioni» avverte l’Ocse, che sottolinea come in Italia a causa della «mancanza di una forte rete di sicurezza sociale» il livello di ineguaglianza della vita lavorativa si confermi integralmente nella vita da pensionati. In media nelle nazioni dell’Ocse, la diseguaglianza si riduce di un terzo con la pensione. Gli studiosi lanciano un avvertimento esplicito: «Assicurare una pensione decente sarà particolarmente difficile per le persone con bassi livelli di educazione, che hanno meno probabilità di lavorare in età avanzata, e per le donne, perché molte di loro lasciano il mercato del lavoro per prendersi cura dei parenti».

La ricetta per superare questi problemi, concludono i ricercatori dell’Ocse, si basa sul miglioramento dell’offerta educativa in età scolare e pre-scolare. Questo tipo di investimento darebbe più chance ai figli delle famiglie più povere e nello stesso tempo aiuterebbe le donne a partecipare alla forza lavorativa del paese. Dopodiché occorrono migliori interventi per gestire il passaggio dalla scuola al lavoro, contrastare la disoccupazione di lungo periodo e offrire possibilità di formazione per gli adulti.

il Fatto Quotidiano,

A cent’anni di distanza, non c’è nulla di più attuale del primo libro dedicato da un grande intellettuale italiano alla disfatta per antonomasia della Grande Guerra: Viva Caporetto, opera prima di Curzio Malaparte, fu scritto tra il 1918 e il ‘19, uscì nel ‘21, e per la sua violenza verbale fu sequestrato e ristampato subito in forma riveduta e con un altro titolo, La rivolta dei Santi maledetti (da cui cito), anch’esso peraltro sequestrato prima nell’Italia liberale del tardo 1921 e poi in quella fascista del ‘23. La tesi di fondo è semplice, anche se discutibile: Caporetto non è stata una vergognosa ritirata, ma anzi il momento culminante di una rivoluzione sociale mossa dal popolo delle trincee, quel popolo misto che un’élite politica e militare cialtrona e corrotta aveva mandato allo sbaraglio, e che con il disobbedire, col sabotare, col denunciare le inutili stragi, l’assurdità degli ordini e l’assenza di strategia, già prima della ribellione operata “gettando lo scudo” nell’ottobre del ‘17, si era esposto a ritorsioni, fucilazioni sommarie, o come minimo alla pesante accusa di disfattismo.
“Dire la verità è fare del disfattismo” pare abbia detto un giorno del ‘17 il generale Di Robilant, comandante della IV armata. La verità era che il sentimento patriottico nel Paese non lievitava, e che col passare dei mesi si approfondiva il solco di incomunicabilità e diffidenza tra le classi dirigenti (molti gli interventisti da salotto, non di rado imboscati; i pacifisti, loro, mantenevano agli occhi di Malaparte almeno una dignitosa coerenza) e le masse dei combattenti, sempre più insofferenti dei “lustri e sdegnosi ufficiali di cavalleria, dei panciuti e pettoruti ufficiali superiori”, di Cadorna “chiuso nella sua lucente armatura di princìpi e di tradizioni, alto nella sua aristocratica fierezza”. “Non amo un generale alto, che sta a gambe larghe, / fiero dei suoi riccioli e ben rasato. / Uno basso ne voglio, con le gambe storte, / ma ben saldo sui piedi, e pieno di coraggio”: forse memore della nota satira del greco Archiloco, il colto Malaparte constata la sostanziale sfiducia di Cadorna nei confronti delle sue truppe (un errore di valutazione e di ethos su cui torna oggi lo storico Marco Mondini nel fresco saggio Il capo, che tiene dietro all’imprescindibile La guerra italiana del 2014, sempre per i tipi del Mulino), e salva solo gli ufficiali di trincea, i “pastori di genti” (omericamente, i “poimènes laòn”) i quali compartivano con le reclute l’insensatezza degli ordini e l’orrore della carneficina. Quegli stessi che, passata la catastrofe, il generale Diaz mise al centro del suo piano di rivitalizzazione di un’armata destinata alla riscossa.
Interventista della prim’ora e precoce volontario in Francia, dove poi nel ‘18 fu gravemente ferito ed ebbe i polmoni corrosi dall’iprite, Malaparte non accusa però solo la “confraternita di unti dal Signore” abituati a lambiccare strategie in una concezione astratta “che risentiva molto delle ville venete, non del fango e del sangue delle trincee”. Il suo disgusto – che è quello degli antichi combattenti per nulla convertiti all’antimilitarismo – si estende al “bosco elegante ed umanitario” delle crocerossine, ai giornalisti superficiali o prezzolati, alla retorica vuota e gratuita in cui si bagna un Paese di ciurmadori e politicanti, il Paese dell’ “armiamoci e partite”. Un Paese che (come aveva ricordato, in altro senso, l’interventista Apollinaire – amico di Malaparte al “Lapin agile” di Montmartre – nell’ode All’Italia del 1915) più degli altri dovrebbe sentire responsabilità dinanzi agli uomini quando il dilemma si pone fra civiltà e barbarie: “L’Italia, dove il diritto è nato, è fra i paesi più incivili del mondo: vi manca assolutamente, cioè, il senso del diritto. Chi si sente cittadino, fra noi? Chi rispetta lo Stato?”.
La realtà della barbarie della Grande Guerra è oggi nota da molti studi; e si guarda ormai più sobriamente alla reale portata della “dissidenza” dei soldati rispetto a tale barbarie e a chi la ordinava. Tuttavia, a cent’anni di distanza, Viva Caporetto è un libro notevole per almeno due ragioni: da un lato esso aiuta a cogliere i primi germi di un sentimento di odio sociale tra il “popolo” e la “casta”, a conoscere dunque quella humus di risentimento e di insoddisfazione che portò molti reduci di ogni colore ad aderire al fascismo – un approdo cui giunse lo stesso “socialista rivoluzionario” Malaparte, per la sorpresa di Gobetti e degli ordinovisti con cui collaborava; e fu un’adesione ricca di ombre e di incomprensioni. D’altra parte, l’opera prima del giovane scrittore toscano colpisce per il coraggio di un’analisi che non aspetta le “bocce ferme” (come farà Emilio Lussu con Un anno sull’altipiano, uscito nel 1938, e a Parigi: ne fu tratto, con palese forzatura antimilitarista, Uomini contro di Francesco Rosi), ma si sobbarca a un’operazione di verità “in presa diretta”, esponendo l’autore ad attacchi e persecuzioni nei primi tempi del Ventennio. Al netto delle sue derive nazionalistiche e irrazionalistiche, e al netto di una diagnosi a tratti volutamente provocatoria, un Malaparte polemico e non ancora surrealista (né passibile della taccia di opportunismo, che spesso l’accompagnerà), pianta il cuneo in quello scollamento fra propaganda e realtà, fra narrazione delle classi dirigenti e vita dei “soldati semplici”, fra retorica e concretezza, che anche in tempo di pace resterà uno dei principali problemi del nostro Paese.

il Fatto Quotidiano,

Nel 2014, per la prima volta, la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale. In nome del principio della continuità dello Stato la sentenza non ha travolto deputati e senatori eletti l’anno precedente, ma ha comunque sancito espressamente la rottura del rapporto di rappresentanza tra i parlamentari e il corpo elettorale. In poche parole, ha sancito la non rappresentatività del Parlamento attualmente in carica.

Ciononostante, la maggioranza parlamentare non si è fatta scrupolo di abusare dei numeri che l’avevano incostituzionalmente resa tale, riscrivendo a proprio vantaggio le regole del sistema istituzionale. Un tentativo vanificato da un doppio fallimento: la bocciatura referendaria della riforma costituzionale e l’incostituzionalità anche della nuova legge elettorale.

Oggi, incredibilmente, ci risiamo. Ancora una volta una maggioranza parlamentare non rappresentativa degli italiani prova a imporre una legge elettorale segnata da astuzie e forzature: mancanza di un chiaro principio ispiratore, divieto del voto disgiunto, ripartizione pro-quota del voto maggioritario tra i partiti della coalizione nel proporzionale, ritorno delle liste-civetta, candidature plurime, liste bloccate… Alla base, un patto apertamente rivolto a danneggiare le forze politiche lasciate escluse e a privare i cittadini del potere di determinare la composizione del futuro Parlamento. Il risultato che si va costruendo sotto i nostri occhi è talmente artificioso e incomprensibile che gli stessi fautori della legge non hanno potuto evitare il ridicolo di prevedere l’inserimento nella scheda elettorale di istruzioni per l’uso agli elettori!

Da più di dieci anni i partiti elaborano leggi elettorali rivolte non ai cittadini, ma esclusivamente a se stessi. Non mirano a valorizzare la volontà popolare, ma a distorcerla a loro favore. Non si interrogano su quale strumento sia più adeguato alle esigenze sociali, ma su quello più utile ai loro regolamenti di conti. È ora di dire basta.

I vertici istituzionali hanno il dovere di garantire il corretto rispetto delle regole della competizione politica. Vogliamo credere che questa volta le presidenze delle Camere sapranno difendere il dettato costituzionale respingendo l’inammissibile pretesa del governo di apporre la fiducia sulla legge elettorale. E vogliamo credere che questa volta il Presidente della Repubblica non accetterà di farsi coinvolgere in un’operazione finalizzata, a pochi mesi dal voto, a predefinire incostituzionalmente il risultato delle elezioni a discapito della volontà degli elettori.
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