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E' da tempo che raccogliamo le denunce e le analisi di uno dei più gravi crimini che si stanno compiendo nei confronti dell'umanità, si vedano sia la cartella 2015-Esodo XXI che 2017-Accoglienza Italia. Quest'articolo non poteva mancare perchè spiega come l'omissione di soccorso, il rifiuto all'asilo e all'accoglienza sono gravissime violazioni alle norme fondamentali del nostro diritto e della nostra civiltà. (a.b.)
Finalmente, dopo venti giorni, i naufraghi della Open Arms sono potuti sbarcare, grazie a un provvidenziale intervento della magistratura. Il sospiro di sollievo è legittimo e anche doveroso, ma c’è un aspetto della questione che merita un approfondimento. Per giorni si è discusso su quanti e quali profughi stessero abbastanza male da convincere le autorità a lasciarli scendere a terra. La contesa politico-umanitaria si è trasferita su un terreno che dovrebbe essere relativamente obiettivo, quello medico, sulla base di diagnosi contrapposte sulle condizioni delle persone trattenute a bordo.
Il punto è che le questioni dei salvataggi in mare e dell’asilo sono state dislocate dal piano dei diritti a quello della compassione. Non si tratta più di diritti umani incoercibili, e quindi di doveri inderogabili per uno Stato democratico che quei diritti ha liberamente riconosciuto e incorporato nella propria Costituzione e in svariati Trattati internazionali. Sono stati ridotti a situazioni da prevenire e da tenere a distanza il più possibile, e poi eventualmente da esaminare caso per caso ancora prima che gli interessati richiedano eventualmente la protezione internazionale.

I criteri surrettiziamente introdotti sono quelli dell’età (i minorenni soli, ma non quelli che hanno un fratello a bordo), del genere (le donne, specialmente se incinte o accompagnate da bambini in tenera età), o appunto delle condizioni di salute (ma con riserve, soprattutto quando il problema riguarda la sfera psichica, e non è quindi facilmente diagnosticabile).

Uno scivolamento analogo si constata nel ricorso ad altri due argomenti anti-accoglienza abbondantemente utilizzati dalla rumorosa propaganda nazional-populista, di fronte ai quali i difensori dei diritti umani mostrano spesso un certo imbarazzo. Uno è il preteso benessere dei richiedenti asilo, dotati –si dice– di cellulari ultramoderni, catenine d’oro e monili vari. Anche in questo caso, i rifugiati dovrebbero far compassione per essere accolti, recitare la parte dei miserabili privi di tutto per suscitare la nostra pietà. Altrimenti non sarebbero meritevoli di accoglienza.

Riecheggia la perniciosa idea che la causa delle migrazioni in generale sia la povertà assoluta, la fame, l’incapacità di provvedere a se stessi, ma l’idea è ancora più sbagliata quando si tratta dell’asilo: un tempo i rifugiati in Europa erano soprattutto persone colte, intellettuali, artisti o voci dissenzienti che appartenevano alle élite dei Paesi di origine.

L’asilo, e a maggior ragione il soccorso in mare, non è motivato dalla povertà e neppure dalle condizioni di salute, ma è un diritto umano motivato dalla vulnerabilità delle persone interessate, dai rischi che correrebbero se non venissero prima soccorse e poi almeno provvisoriamente accolte. L’altro deprecabile ma insistente argomento polemico indirizzato contro chi si espone a favore dell’accoglienza, specie quando si tratta di persone note al grande pubblico, chiama in causa il loro impegno diretto nei confronti dei rifugiati: “Quanti ne accogli a casa tua?”.

L’ultimo bersaglio in ordine di tempo è stata l’attrice Luciana Littizzetto, che ha peraltro saputo rintuzzare l’attacco sulla base di un encomiabile curriculum di impegno sociale. Di nuovo però, la logica sottostante rivela la sostituzione della compassione ai diritti umani: se ti fanno tanta pena, accoglili tu, con i tuoi beni e sopportandone il presunto disagio. È come se, di fronte a chi chiede più attenzione ai malati o alle persone con disabilità, si rispondesse di provvedere a loro con le proprie sostanze. Surrettiziamente si abbandona la logica dello Stato sociale, chiamato a rispondere alle varie necessità – incluse quelle umanitarie – redistribuendo le risorse raccolte con il prelievo fiscale, per tornare a forme di carità discrezionale.

Di fronte a questo deterioramento della cultura civile oltre che giuridica – che su queste pagine si è continuato per un verso a denunciare e sottolineare e per l’altro a contraddire di speranza e buon diritto indicando esempi positivi e buone pratiche– sorge spontanea una richiesta: se davvero si formerà un nuovo Governo, improntato a una visione politica ben diversa dal Governo precedente, ponga tra i suoi primissimi atti un ripristino dell’impegno del nostro Stato nella tutela dei diritti umani.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile

Un'indagine recente ha rivelato che milioni di cittadini tedeschi, i quali avevano certamente avuto conoscenza diretta o indiretta della tragedia dei campi di sterminio, avevano completamente rimosso dalla loro memoria quell'evento. Ho l'impressione che questo stesso fenomeno si stia ripetendo identico nel caso dei cittadini italiani al cospetto dei massacri perpetuati dal colonialismo in Africa in nome di una presunta "civilizzazione" e più recentemente degli innocenti rigettati nei flutti del mare monstrum o addirittura colpiti dalle armi dei seguaci del ministro Salvini, nella completa passività dei suoi alleati di governo.
Bertold Brecht affermava che "il sonno della ragione genera mostri" ma ora non è solo la ragione a dormire ma anche l'uso "normale" di alcuno dei cinque sensi che la natura ha donato a ciascun essere umano. Le persone affette da questo morbo inumano sembrano all'apparenza cittadini del tutto normali: respirano e sorridono, si odiano ed amano, mettono su famiglia, producono, allevano ed educano figli appartenenti anch'essi alla razza umana. Se quello che mi appare appartiene alla mia stessa umanità, è essere membro di questa umanità che comincia a farmi paura.
Negli ultimi anni sono morti nel Mediterraneo almeno 15.000 migranti. E continuano a morire, anche se, allontanate le ONG, cade il silenzio su una strage continua, atroce, senza pietà neppure per i bambini. Il ministro della malavita però non si accontenta delle vite spezzate e del successo dei suoi slogan feroci. Vorrebbe di più. Per ogni vita strappata alla morte 5.000 euro di multa comminata ai salvatori. In un paese che alza muri, in città che si chiudono ai diversi, trattandoli come scarti dell’umanità, occorre ribellarsi prima che la barbarie di una nuova

shoa diventi la specificità intollerabile di questi tempi orribili. (m.c.g)

19 febbraio 2019. Il governo italiano da mesi commette il crimine di omissione di soccorso nei confronti di naufraghi in pericolo e di sabotaggio dei soccorritori volontari che salvano vite umane nel Mediterraneo, negando loro approdo in porti sicuri. Complici del crimine tutti i partiti di destra, da M5s, alla Lega, Forza Italia, FdI e Autonomie, che hanno votato a favore dell'impunità di Salvini nella Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato. (e.s.)

Per Israele la route 4370 è una «tangenziale» che permette al traffico di scorrere senza problemi all’ingresso orientale di Gerusalemme. Per i palestinesi, invece, è la prova dell’intenzione di Tel Aviv di sviluppare una doppia rete stradale, una per loro sotto occupazione e un’altra per gli israeliani. In effetti la corsia ovest a loro destinata preclude l’accesso alla Città Santa e prosegue verso il sud della Cisgiordania (Nena-news.it).

19 gennaio 2019 - Milano
FORUM ASSOCIAZIONE LAUDATO SI’
UN’ALLEANZA PER IL CLIMA, LA TERRA E LA GIUSTIZIA SOCIALE

Un’iniziativa promossa dal gruppo consiliare Milano in Comune con Casa della carità, Osservatorio Solidarietà - Carta di Milano, Associazione Diritti e Frontiere (ADIF), CostituzioneBeniComuni, Associazione Energia Felice, Ecoistituto della Valle del Ticino. Qui il programma completo.

Sintesi del Tavolo Pace e beni comuni
a cura di Mario Agostinelli (coordinatore)
Intervengono:
Lisa Clark - Rete italiana per il disarmo, co-presidente International Peace Bureau, Beati i costruttori di pace)
Elio Pagani - Pax Christi
Guido Pollice - già senatore, presidente Verdi Ambiente e Società
Luca Zevi - architetto e urbanista
Gli umani sono creature piuttosto pericolose per il pianeta in cui vivono. Il simbolo che rappresenta questo al meglio è probabilmente l'orologio del giorno del giudizio (il Doomsday Clock). Si tratta di un orologio o un simbolo immaginario, che rappresenta quanto è probabile che gli umani provochino una catastrofe globale. È stato messo in atto come una sorta di metafora, dal Bollettino degli Scienziati Atomici un consesso internazionale che pubblica una rivista accademica sulla sicurezza globale e sulla tecnologia. A Gennaio 2019 l’orologio segna 2 minuti alla mezzanotte. Le sue lancette sono rimaste sulla stessa posizione dell’anno precedente, ma sono pur sempre le più prossime alla fine dal 1953. La maggior minaccia per l'umanità consiste nel crescente arsenale nucleare in tutto il mondo.

Doomsday Clock

La faida tra Stati Uniti e Corea del Nord si è in gran parte ridotta, e questo è uno dei motivi per cui l'orologio non è cambiato dall'anno scorso. Ma le relazioni tra Stati Uniti e Russia sono ancora molto tese, e gli Stati Uniti e la Russia possiedono il 90% di tutte le armi nucleari in tutto il mondo. I tempi erano buoni per un po ', ma da allora, il giorno del giudizio si avvicina sempre di più, ricordandoci che la fine del mondo è a solo una o due decisioni sbagliate. In queste decisioni rientrano anche le politiche di mancato contenimento dei cambiamenti climatici

Il 7 Luglio 2017 si è svolta a new York una storica votazione in cui 122 stati si impegnano sulla base del trattato TNP (Trattato di proibizione delle armi nucleari) a non produrre né possedere armi nucleari, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente. Il Trattato potrà entrare in vigore quando sarà stato firmato e ratificato da almeno 50 stati. Sarà giuridicamente vincolante solo per gli stati che vi aderiscono e non proibirà loro di far parte di alleanze militari con stati in possesso di armi nucleari. Allo stato attuale non aderisce al Trattato nessuno degli stati in possesso di armi nucleari: gli Stati uniti la Francia e la Gran Bretagna, la Russia, Cina, Israele, India, Pakistan e Nord Corea e gli altri membri della Nato, in particolare Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia, che ospitano bombe nucleari statunitensi. Aderendo al Trattato, l’Italia dovrebbe disfarsi delle bombe nucleari Usa schierate sul suo territorio a Ghedi ed Aviano (50 bombe nucleari B-61 ad Aviano e 20 a Ghedi-Torre, al cui uso vengono addestrati anche piloti italiani). Ai 122 Stati membri dell'ONU, si sono associati parlamentari, sindaci e organizzazioni della società civile nel celebrare l'adozione di un trattato finalmente giuridicamente vincolante per vietare la bomba atomica impegnandosi ad accrescere la coscienza pubblica sui principi e sui valori dell'umanità. Il valore del TNP è innanzitutto quello di creare una norma universale e di aprire un negoziato umanitario che parte da una valutazione sull’essere umano.

La novità dopo Rio 1992 sta nella percezione che l’umanità possa perire non solo per la forza distruttiva della bomba, ma anche per la progressione brusca del cambiamento climatico. A livello politico, però, non ci sono adeguati segnali di preoccupazione e di azione per azzerare le emissioni di gas serra e cercare quindi di evitare i fenomeni più catastrofici. Limitare il riscaldamento globale a 1,5°C significa intrecciare sotto il segno del diritto della pace e della cura di Madre Terra le due emergenze più attuali.

La California, nell'ambito del movimento "We are still in" , contro la decisione di Trump di ritirare gli USA dall'accordo di Parigi, adotta un piano per il 100% rinnovabili entro il 2045 ed allo stesso tempo supporta il TNP. Questa è la prospettiva in cui si deve porre l’Unione Europea. E’ importante chiarire come il militarismo e la logica imperante dell'economia di guerra fungano da acceleratori della contaminazione ambientale e dei cambiamenti climatici in corso, nonché delle minacce della sicurezza globale e dell'ingiustizia sociale. Reagire a questa realtà di degrado complessivo contribuisce a far crescere una cultura politica e sociale che riaffermi la centralità di una rinnovata alleanza tra esseri umani e natura. “Dirottare risorse dal mondo fossile a quello pulito”, è la riedizione o la reiterazione complementare di “svuotare gli arsenali e riempire i granai”. Lo spostamento di investimenti dalla macchina militare alla prevenzione della catastrofe climatica è un’urgenza assoluta. Va ricordato che con le scelte o le non scelte che oggi faremo (o che lasceremo fare) in difesa o meno della comune umanità sarà costruita la qualità del futuro, da cui nessuno potrà neanche volendo sfuggire.

Il diritto “di” pace è l’opposto del diritto che vige in guerra e che riguarda l’uguaglianza e la giustizia sociale senza cui non c’è “pace” possibile, né in ambito nazionale né in quello internazionale. Nel caso della pace e nella formulazione dell’articolo 11 emergono quei diritti naturali e inalienabili dell'uomo che vengono posti dalla Costituzione prima dello Stato e dell'ordinamento. Emerge quindi una considerazione non nuova: che il principio di maggioranza non sempre è di per sé coincidente con il principio di democrazia.

Guerre per il petrolio, guerre per l'acqua, guerre per la terra, guerre per l'atmosfera: la scarsità di risorse e il loro rapido deterioramento sono all’origine di conflitti di così devastante impatto sulle condizioni di vita da provocare ondate di emigrazioni. Il degrado di materia vitale alla massima velocità (i processi naturali non ricorrono a forme di combustione) e con un impiego inusitato di energia (le esplosioni richiedono che la trasformazione energetiche si consumino nel più breve lasso di tempo possibile) trascende le potenzialità della natura e impedisce una rigenerazione della vita in dissintonia con i tempi della natura. Per semplificare: quanto più elevata sarà la densità energetica di una bomba, (termica chimica o nucleare), tanto più lunghi saranno i tempi di bonifica del territorio distrutto. L' impronta ecologica della guerra rende tanto più stringente per i popoli il “diritto della pace”, certamente più integrale del “diritto alla pace”. “Per conquistare la pace si deve abitare la Terra con leggerezza, distribuire le sue risorse vitali in modo equo, mantenere lo spazio ecologico delle comunità” (W. Sachs). C’è piena coerenza tra Laudato Sì e disarmo. E' indispensabile e urgente lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate in grado di garantire la Pace attraverso il disarmo integrale, la salvaguardia dell'ambiente, la sicurezza alimentare, l’accoglienza per regolare i flussi migratori.

Si stima che il solo Pentagono produca il 5% della CO2 globale, un valore che supera quello complessivo di diversi Paesi. La produzione di CO2 dell'insieme dei sistemi militari mondiali potrebbe ammontare al 15% della CO2 totale. (Oltre metà della quale imputabile ai 29 paesi della NATO). Il settore militare è esente (non viene contabilizzato!) da obblighi stabiliti alle convenzioni internazionali per il clima.

Il Nuovo Modello di Difesa presentato nel 1991 prevede la difesa armata degli interessi italiani ovunque nel mondo, in piena violazione dell'art.11 della Costituzione: spinge quindi verso l'acquisizione di sistemi d'attacco e di proiezione a lungo raggio e mortifica la corretta applicazione della L. 185/90 sulla esportazione di armi (L.185/'90). Va contestata la nostra presenza nella NATO: la sua spesa militare vale il 52% di quella mondiale e non è più statutariamente una alleanza solo difensiva. La UE deve rinunciare a capacità di proiezione militare all'estero, adottando un modello strettamente difensivo, non nucleare, nel rispetto dello Statuto ONU, che sola può, come ultima ratio, usare la forza militare per riportare la pace.

Un tempo libero dalle costrizioni del consumo, del mercato e delle macchine è l’utopia del socialismo del Novecento. Negli ultimi quarant’anni le telecomunicazioni, la digitalizzazione, l’accesso alle banche dati, la rapidità di interconnessione e di elaborazione hanno accentuato la possibilità di espropriazione del tempo per alcuni e del suo possesso per altri. Si tratta di un “furto di tempo”, senza la cui comprensione si perde la pienezza del valore sociale del lavoro. Anche i tempi di vita, di ozio, di apprendimento sono oggetti di esproprio, al punto che il riscatto del “tempo proprio” rappresenta forse l’esigenza primaria dell’esistenza ai giorni nostri. La colonizzazione del tempo maschera molti conflitti. Possedere e dominare il tempo – lavoro e ozio, orario vincolato e tempo libero - così come una volta possedere e dominare lo spazio, corrispondono, nel senso comune, ad una manifestazione di successo e di supremazia politica e sociale, mentre subire un imponente meccanismo di controllo e sequestro del tempo - saturato, accelerato, compresso, spiato, sprecato, ormai al di fuori di qualsiasi forma di negoziato – fa parte dell’affermazione di uno stile di vita imposto e passivamente accettato, contraddistinto dal consumo e dallo spreco. La natura, al contrario dell’impresa, sceglie, tra i vari concepibili modi di realizzare le sue azioni, la traiettoria più economica dal suo punto di vista, che è quella della minimizzazione dell’energia. Avvengono così delle scissioni irreparabili tra mondo artificiale e naturale, tra tempo fisico e tempo biologico, tra tempo produttivo e tempo proprio e viene infranta definitivamente l’armonia tra tempo del mondo, tempo di vita e tempo di lavoro. Riappropriarsi del tempo ha anche una componente di genere che va liberata dall’assetto attuale di potere maschile. Siamo di fronte ad un irrazionale eccesso di capacità trasformativa da parte del lavoro, che accelera il degrado del mondo naturale. L’enorme “dividendo” che si ottiene a spese della natura e del lavoro nella nuova organizzazione su scala temporale e spaziale della produzione, deve essere restituito alla natura conservando l’ambiente e distribuito tra i lavoratori con la riduzione generalizzata e politicamente sostenuta dell’orario di lavoro.

Nasce la necessità di uno spazio di educazione alla bellezza per sfuggire alla razionalità del calcolo utilitaristico volto al profitto. Il Capitolo II dell’Enciclica Laudato Sì, cerca nella tradizione ebraico-cristiana la radice di una possibile ecologia integrale fondata su una cultura del limite del potere umano.
Il sostrato morale della bellezza del paesaggio agrario storico italiano, non scaturisce da una progettazione a tavolino, ma da un processo produttivo virtuoso. La compresenza di tutte le coltivazioni – antesignana dell’agricoltura “a chilometro zero” – la rotazione sistematica delle coltivazioni stesse e il riposo periodico della terra danno infatti vita a un sistema complesso che, in quanto tale, assume una valenza figurativa equivalente e complementare a quella degli insediamenti urbani storici. Dobbiamo fare appello a percorsi di rigenerazione urbana consapevoli di “come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro” (Laudato si’,152). Essenziale è però coordinare le azioni di resistenza in un “paradigma ecosistemico”, da contrapporre a quello “tecnocratico dominante”. Coniugare solidarietà e innovazione è la grande sfida che ci si para innanzi.

Aggiunte finali del curatore

Il “diritto di pace”, riguarda una concezione del diritto attributiva ai popoli del potere di “autodeterminazione” e conferma il ruolo antagonistico della “sovranità popolare” rispetto al ruolo dell’élite economico-politiche dominanti. Rompere la Costituzione delle Repubblica antifascista e di democrazia-sociale “fondata sul lavoro” e sul diritto “di” pace, è di fatto una rottura di grandi proporzioni, in quanto limita la sovranità popolare che ha la sua rappresentanza nel Parlamento, non nel Governo.

Se non ci si rifà all’articolo 11 nella sua interezza, nel migliore dei casi quello della pace è un concetto assai relativo che suscita in ciascuno di noi immagini differenti e assume significati diversi a seconda della persona, del luogo e del tempo, un ideale, insomma, che di volta in volta diventa reale soltanto in un determinato contesto. L'anelito di potere e ricchezza, sia esso individuale o collettivo, se non viene mantenuto entro certi limiti mediante valori più elevati, finisce per condurre facilmente all'insoddisfazione, alla corruzione e alla guerra. Oggi al conflitto si aggiunge una nuova dimensione: consumiamo gli elementi naturali, l'aria, l'acqua, la terra, la flora e la fauna da cui dipende la vita tutta e quelle delle generazioni a venire.

Un bell’esempio di difesa della nostra sovranità, sancita dalla Costituzione, e della nostra sicurezza è quello per cui il Governo garantisce la sicurezza sbarrando la porta ai migranti ma spalancandola alle armi nucleari Usa.

lacittàfutura.it, 8 dic 2018. Qui, ulteriori riflessioni sul pacchetto sicurezza, che non solo attacca ai diritti elementari dei migranti ma anche quelli di tutti noi. Sulla paura e la repressione promosse da questa legge si legga inoltre un articolo di eddyburg. (i.b.)

comune-info.net, 12 gen 2018. Seppellito sotto un mare di dollari l'art.11 della costituzione: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli [...]". Sono made in Italy gli destinati a ospitare i droni killer americani usati usati nelle guerre nel Corno d’Africa e nello Yemen. Qui la notizia. (a.b.)

Il 28 novembre scorso il Parlamento ha trasformato in Legge il Decreto Sicurezza, figlio di un susseguirsi di provvedimenti animati da sentimenti xenofobi. La Legge, che contiene elementi opposti ai principi di uguaglianza e solidarietà contenuti nella nostra Costituzione, non solo è discriminatoria nei confronti degli “ultimi della terra” costretti a migrare per poter sopravvivere, ma limita le libertà per quei stessi cittadini italiani che dovrebbe “difendere”. Qui la lucida analisi di Alex Zanotelli su comune.info e la sua esortazione a resistere all’avanzata delle barbarie.
Sempre su comune.info due interventi dedicati ai bambini, ultimi fra gli ultimi: uno del poeta e scrittore Bruno Tognolini; l’altro dello scrittore, drammaturgo e regista teatrale Alessandro Ghebreigziabiher.

Numerosi consigli comunali hanno già votato mozioni che chiedono la sospensione immediata del Decreto: Lecco, Bologna, Firenze, Mantova, Merano, Milano, Palermo, Torino, Senigallia, Ancona… Continueremo ad aggiornare l’elenco ricordando a tutti la frase di Hanna Harendt: “Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa”. (m.c.g.)

Fonte: immagine tratta da Belluno Pop.
ArcipelagoMilano

comune.info


Da una parte gli 'ultimi': quelli che il capitalismo segrega, opprime o sfrutta, che tentano di sopravvivere e assicurare un futuro ai loro figli cercando di raggiungere i "luoghi del benessere"; dall'altra i privilegiati: quelli che il capitalismo arrichisce, che a suon di meschinità, prevaricazioni e talvolta violenza difendono un impero ormai in decadenza, costruito anche con le risorse rubate ai questi "paesi poveri" da cui si scappa.
Qui il link all'articolo su comune info di Guido Viale. Sul lungo cammino e i pericolosi confini che hanno attraversato, ma anche sulla loro volontà di proseguire si legga: "La carovana dei migranti va avanti inseguendo un miracolo" di Sebastian Escalòn.
Questi 'ultimi', non sono altro che i nuovi dannati della terra: gli sfrattati dello sviluppo: qui un articolo di Ilaria Boniburini per approfondire le ragioni e le responsabilità che abbiamo nei confronti di queste popolazioni in fuga. (a.b.)

n manuale nazista di come respingere, spossessare dei diritti, segregare e opprimere le vittime dello sfruttamento capitalistico, del capitalismo di ieri e di oggi. Qui una raccolta di articoli per comprendere i rischi che pone alle nostre libertà. (i.b.)

Dopo il via libera del Consiglio dei ministri (24 settembre) e del Senato (7 novembre), la Camera ha approvato il cosi detto "Decreto Sicurezza", una legge che è un attacco frontale ai diritti e al sistema di protezione dei migranti, dei senza tetto, dei movimenti sociali e di tutti coloro che non si arrendono al sistema di privilegi, sfruttamento e limitazioni delle libertà.

Composto di 42 articoli, il decreto riguarda soprattutto i due temi più cari a Salvini: l’immigrazione e la sicurezza. Un unico testo per due questioni tra loro non correlate, ma che proprio perché sono raggruppate in un unico decreto si va costruire un equazione fuorviante, nella quale migrant, movimenti sociali in occupazione, senza tetto equivalgono a criminalità, terrorismo, problemi di sicurezza interna. Allusione sulla quale il governo non solo ci marcia, ma costruisce tutta la sua politica del consenso, che è basata sull’alimentare paura, insicurezza e senso di disordine.

L'idea che sottrarre diritti e reprimere i gruppi più fragili della nostra società possa risolvere i problemi del nostro paese rivela quanto l'attuale governo non sia per niente interessato a prendersi cura degli abitanti e dei problemi che gravano sulla società, ma semplicemente di protrarre un sistema di privilegi e fomentare uno stato di paura che non farà che aumentare le discriminazioni e diminuire le nostre libertà.

Per comprendere la gravità dei provvedimenti contenuti nel decreto, sia in termini di misure per l’accoglienza che di sicurezza si legga l’articolo “Decreto Salvini: come trasformare più di 100mila persone in clandestine” di Thomas Maerten del 25 settembre 2018. In questo articolo si spiega come la vita di migliaia di "rifugiati" saranno rovinate, in quanto a loro sarà precluso l'ottenimento del permesso di soggiorno e quindi l'opportunità di raggiungere un'autonomia economica e abitativa. Impedendo a queste persone di intraprendere un percorso di "regolarizzazione" per sopravvivere non potranno che lavorare in nero e vivere clandestinamente, favoreggiando le reti di sfruttamento e abuso e facendo arricchire imprenditori che ne faranno uso, la mafia e altri business illegali.

Il sistema SPRAR, un modello positivo di accoglienza, che nasce ufficialmente nel 2002, e annovera tra essi l'esperienza di Riace (qui un breve articolo di Tonino Perna) e Rivalta (qui un'intervista a Gianna De Masi) viene pesantemente ridotto e smantellato dal decreto. Viene invece privilegiato il "business della carcerazione", raddoppiando il tempo di detenzione nei centri di permanenza per i rimpatri (CPR).
Per approfondire gli altri aspetti del decreto - pubblica sicurezza, codice antimafia e beni confiscati, che introducono misure securitarie e repressive si leggano il "Decreto sicurezza o Stato di polizia?" del Collettivo politico di scienze politiche del 4 novembre e il capitolo dedicato a questo ambito dell'articolo "Cosa prevede il decreto sicurezza e immigrazione, criticità e rischi di incostituzionalità" di Andrea Zitelli del 9 novembre. Quest'ultimo articolo contiene anche un capitolo dedicato all'accusa di incostituzionalità espressa da giuristi e professori di diritto.

Occorre peraltro rendersi conto di come questo decreto sia debitore di tanti provvedimenti già attuati dal Decreto Minniti-Orlando sulla Sicurezza Urbana e sull’immigrazione, stato convertito in legge dal Parlamento il 12 aprile 2017. Si legga quindi "Un’analisi del decreto Minniti/Orlando: non vogliamo repressione, ma casa, lavoro, scuola e sanità" scritto dalla redazione perUnaltracittà.

perUnaltracittà ha redatto un utilissimo numero speciale "Sicurezza e repressione" da dove sono tratti alcuni degli articoli sopra suggeriti. Qui il link. (i.b.)

Così come il ragazzo che ne è diventato il simbolo iconografico, la strenua resistenza delle marce di questi mesi a Gaza difficilmente sarà fermata dagli accordi tra Israele e Hamas patrocinati dall’Egitto. Il giovane Aed Abu Amro è stato ferito durante la Marcia del lunedì, quella sulla spiaggia contro l’assedio via mare, ma non è grave e tutto lascia credere che presto potrà tornare a manifestare. Si fanno più insistenti, intanto, le voci sull’accordo che tenterebbe di rendere la grande Marcia del Ritorno iniziata a fine marzo poco più che simbolica fino a farla cessare a fine anno. Ma, nonostante faccia di tutto per riuscirci, e malgrado tutti i media lo lascino intendere, è assai improbabile che Hamas riesca a fermare una protesta cui non ha affatto dato vita né, per ora, è mai riuscita davvero a controllare. (comune-info)

Aed Abu Amro, il ragazzo divenuto icona della “Grande marcia del ritorno” – facilmente identificabile dopo che il memorabile scatto di Mustafa Hassouna ha riempito i social e i mezzi di informazione di massa – è stato colpito da un cecchino israeliano durante la manifestazione del lunedì, quella che si svolge lungo la spiaggia a nord di Gaza per rivendicare la fine dell’assedio via mare, oltre che dell’assedio tout court. Era abbastanza normale aspettarselo e Aed ovviamente se lo aspettava, ma se resistere non è un gioco di società è anche normale correre il rischio, e Aed lo ha corso.

Ora è ricoverato in ospedale, ferito da uno dei proiettili con cui Israele ha azzoppato una buona percentuale della gioventù palestinese. I medici dicono che non dovrebbe riportare danni permanenti il che significa che il proiettile non è esploso frantumandogli l’osso. Chi conosce un po’ i gazawi sa che non sono facilmente “addomesticabili”, né da Hamas, né dall’assediante e sa che le decine di migliaia di manifestanti che in questi mesi hanno seguitato a marciare lungo il confine, non si sono fatti fermare neanche dopo aver perso una o entrambe le gambe. Lo sa bene anche Israele che, infatti, nell’archivio delle sue vergogne conta anche l’assassinio di diversi manifestanti invalidi.

Siamo certi di ritrovare Aed, una volta uscito dall’ospedale, a manifestare per la rottura dell’assedio e l’applicazione della Risoluzione Onu 194 che Israele seguita a calpestare.

Le voci accreditate di questi giorni parlano di accordi tra Hamas e Israele patrocinati dall’Egitto. Accordi che dovrebbero gradualmente bloccare la grande marcia rendendola soltanto una manifestazione di facciata fino al suo concludersi con la fine dell’anno.
Hamas – si dice – punirà chi contravverrà ai suoi ordini di non lanciare sassi né aquiloni fiammanti. Hamas, forse, dovrà punire molti manifestanti perché una cosa che il mondo mediatico ignora e ha “voluto” ignorare già dal primo giorno della marcia è che si tratta di un’iniziativa a “propulsione popolare” e non di un’iniziativa promossa da Hamas, sebbene Hamas ci stia mettendo il cappello. Esattamente come voleva Israele e inoltre, cosa importante, cercando in tal modo di riprendere l’autorevolezza d’immagine che era andata via via scemando grazie a una politica da una parte troppo repressiva e dall’altra non più capace di fornire assistenza e servizi a due milioni di persone per la maggior parte povere e prive di lavoro.

La prova che sarà difficile bloccare i manifestanti la si è avuta sia ieri che venerdì, i due giorni dedicati alla marcia. L’una, quella del venerdì, iniziata il 30 marzo lungo l’assedio terrestre, e l’altra, quella del lunedì, iniziata successivamente, lungo l’assedio via mare. C’è stata meno affluenza, è vero, ma c’è stata e lo dimostrano i gas e le pallottole sparate dagli snipers che seppur non hanno ucciso (immediatamente) i manifestanti, ne hanno feriti molte decine.

A Beit Lahya, lungo la spiaggia a nord di Gaza, è ancora più criminale la reazione dei cecchini alla marcia dei palestinesi, perché mentre questi dimostrano sulla spiaggia, i tiratori scelti dello Stato ebraico fanno il tirassegno senza che vi sia neanche l’ipotetico minimo rischio dei cosiddetti scontri che servono ai media per giustificare i numerosi assassinii e ferimenti di manifestanti palestinesi.

I dieci feriti di ieri sulla spiaggia di Gaza sono stati ricoverati allo Shifa e all’Indonesian hospital e tra questi c’è Aed che i medici considerano (al pari degli altri per fortuna) non particolarmente grave.

Il Comitato Nazionale per la Rottura dell’Assedio, ha comunque dichiarato: “Non fermeremo le marce di ritorno e le marce navali finché i nostri obiettivi non saranno raggiunti”. Gli obiettivi come ormai dovrebbero sapere anche i distratti, sono la fine dell’assedio (e gli accordi ne prevedono un notevole alleggerimento ma non la fine) e il diritto al ritorno nelle loro terre come da Risoluzione 194 e questo non sembra che Israele sia disposto a concederlo restando, di fatto e di diritto, fuorilegge, cioè al di fuori della legalità internazionale.

Il Comitato ha precisato che le marce hanno l’obiettivo di garantire ai palestinesi i diritti umani fondamentali che Israele comprime, tra cui la libertà, l’autodeterminazione e il diritto di stabilire uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come sua capitale. Questa specifica aggiuntiva mostra che gli obiettivi sono chiaramente legittimi e addirittura che si avvicinano, per la parte che concerne “lo Stato indipendente” alle posizioni dell’avversario interno, cioè dell’Anp, ma ogni osservatore politico sa che per quanto possano essere legittimi e addirittura moderati, questi obiettivi non saranno raggiungibili finché Israele seguiterà a non pagare sanzioni per le sue azioni illegali e criminose.

La marcia, anzi “le” marce intanto continuano e nelle prossime settimane si capirà se Hamas avrà ottenuto i risultati che i manifestanti auspicano, o se sceglierà un compromesso che renderà inutile il sacrificio di oltre 200 morti e di circa 21.000 feriti tra cui Aed Abu Amro, l’icona della Grande Marcia.

Articolo pubblicato su l’antidiplomatico, ripreso da comune-info, qui raggiungibile, che vi ha aggiunto le immagini e un'introduzione.

nigrizia.it
«È inaccettabile che il negriero di ieri sopravviva nei governi che oggi tornano a incatenare la libertà degli africani, subordinandola agli stessi interessi e allo stesso potere oppressore». Padre Alex Zanotelli ha preso in prestito dall’arcivescovo di Tangeri Santiago Agrelo queste parole fortissime per denunciare le colpe di cui l’Occidente e l’Europa si stanno macchiando nell’affrontare la questione dell’immigrazione. Intervenuto oggi, giovedì 25 ottobre, al Nuovo Teatro Orione di Roma per la presentazione del Dossier Statistico Immigrazione 2018, il missionario comboniano ha affrontato da far suo un argomento caldissimo, su cui stanno prendendo il sopravvento strumentalizzazioni politiche che puntano a far raccogliere consensi a chi vuol far apparire lo straniero come il “nemico” e l’“invasore”.

Il rapporto, realizzato dal Centro Studi e Ricerche IDOS in partenariato con il Centro Studi Confronti, con la collaborazione dell’UNAR (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) e con il sostegno economico del Fondo Otto per mille della Chiesa Valdese e dell’Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi, anche in questa sua 28ª edizione si prefigge proprio l’obiettivo di combattere con i numeri e le analisi la disinformazione e la becera propaganda che nel nostro paese si sta consumando sulla pelle dei migranti.

Bastano pochi dei dati contenuti nel dossier per confermare che l’Italia è rimasta intrappolata in una falsa narrazione di questo tema. Stando a un sondaggio del 2018 condotto dall’Istituto Cattaneo, gli italiani sono infatti il popolo con la percezione del fenomeno migratorio più lontana dalla realtà dei fatti. «L’Italia – si legge in proposito nel rapporto – non è né il Paese con il numero più alto di immigrati né quello che ospita più rifugiati e richiedenti asilo. Con circa 5 milioni di residenti stranieri, viene dopo la Germania, che ne conta 9,2 milioni, e il Regno Unito, con 6,1 milioni, mentre supera di poco la Francia (4,6 milioni) e la Spagna (4,4 milioni)».

La maggioranza degli italiani continua, inoltre, a credere che gli sbarchi sulle nostre coste continuino ad aumentare, e invece nel 2018 sono diminuiti dell’87,4% secondo i dati del ministero dell’interno, mentre a lievitare sono stati i morti nel Mediterraneo. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni tra gennaio e settembre 2018 sono stati 1.728, di cui 3 su 4 nella sola rotta tra Italia e Libia. Una strage quotidiana che ha tra le sue cause anche l’accordo per il contrasto dell’immigrazione illegale, stretto tra Roma e Tripoli nel febbraio del 2017 e tradottosi in un massiccio piano di respingimenti verso la Libia.

E, ancora, gli italiani pensano che gli immigrati nel nostro paese siano musulmani, e invece si tratta per la maggior parte (oltre il 50%) di cristiani. E sostengono che gli stranieri rubino loro il lavoro, mentre è certificato che oggi gli immigrati in Italia svolgono impieghi che non confliggono con le nostre richieste di occupazione, semplicemente perché si tratta di mansioni che non vogliamo né siamo costretti a svolgere in quanto precarie, pesanti, pericolose, spesso soggette al lavoro nero o a pratiche di caporalato. Per l’esattezza, come si evince dal dossier, «è straniero il 71% dei collaboratori domestici e familiari (comparto che impiega il 43,2% delle lavoratrici straniere), quasi la metà dei venditori ambulanti, più di un terzo dei facchini, il 18,5% dei lavoratori negli alberghi e ristoranti (per lo più addetti alle pulizie e camerieri), un sesto dei manovali edili e degli agricoltori».

Nel corso della presentazione del rapporto della condizione lavorativa degli immigrati residenti in Italia ha parlato soprattutto Aboubakar Somumahoro, dirigente dell’Unione sindacale di base. Tra le persone intervenute c’è stato anche il direttore di UNAR Luigi Manconi, che da parlamentare nella passata legislatura è stato tra chi si è battuto maggiormente per l’approvazione dello Ius Soli. Luca Anziani, vice-moderatore della Tavola Valdese, ha parlato dell’Italia come di «un paese con poca memoria» andando alla «radice culturale» del problema, «la stessa che in passato ha permesso a Mussolini di approvare prima le leggi razziali e poi quelle antisemite che sono state il preludio alle deportazioni di massa degli ebrei». Mentre Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche di IDOS, nel sottolineare l’importanza della presenza in platea degli studenti delle scuole, ha voluto dedicare simbolicamente questa giornata di confronto e dialogo a Domenico Lucano, il sindaco della “multirazziale” Riace, colpito da un provvedimento di divieto di dimora nel comune calabrese per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e affidamento fraudolento diretto del servizio di raccolta differenziata dei rifiuti. «L’auspicio – ha dichiarato Di Sciullo – è che un’esperienza felicissima di integrazione dei migranti riconosciuta in tutto il mondo non venga svilita da queste decisioni». Ripartire da questa speranza è un impegno che l’Italia dell’accoglienza e del rispetto degli “altri” deve portare avanti. Soprattutto in tempi di tensioni e chiusure come quelli attuali.

frontierenews.it

Negli ultimi due o tre anni, il tema delle esigenze nell’ambito dell’accoglienza ai migranti aveva finalmente iniziato a fare presa e a mostrare i primi risultati a macchia di leopardo, segno di una lenta eppure percettibile volontà di cercare soluzioni nuove che restituissero autonomia, prima di tutto economica ma non solo, agli ospiti delle strutture di accoglienza.

A partire dal 2015, con la nuova disciplina dell’accoglienza (Decreto Legislativo 18 agosto 2015, n. 142, che recepisce la direttiva 2013/33/UE) e passato un po’ di tempo dalla confusione inaspettata provocata dall’Emergenza Nord Africa, il sistema di accoglienza aveva cominciato ad includere nuove esperienze, come testimonia il volume Le iniziative di buona accoglienza e integrazione dei migranti in Italia Modelli, strumenti e azioni, uscito nel maggio 2017. Sembrava profilarsi una risposta alternativa al modello assistenziale, come quello in regime nei CAS (centri di accoglienza straordinaria), verso altre forme di accoglienza integrate e più efficaci, seppure con qualche incertezza poiché tali iniziative erano -e tutt’ora altre ce ne sono-, sempre frutto delle volontà di singoli enti locali, enti attuatori e comuni più o meno illuminati e lungimiranti. Erano e sono, cioè, esperienze applicate sulla base di uno slancio singolo e non con la perentorietà e garanzia di uguaglianza per tutti, di una norma di legge; senza, perciò, essere trasformate pienamente in diritto. In ogni caso, di questa attenzione crescente verso attività altre a breve non rimarrà traccia, se, assieme alla direttiva già emanata dal Ministero dell’interno il 23 luglio del 2018, il nuovo decreto Salvini entrerà a regime. Una svolta regressiva che, tra le tante cose, limiterà ai soli bisogni primari e assistenziali l’accoglienza dei migranti e giocherà sporco, ancora una volta, con il loro tempo.

Attacco all’accoglienza

La politica migratoria italiana, specialmente da un anno e più a questa parte, mira al cuore e spezza le gambe a chi cerca di percorrere la già accidentata strada verso l’autonomia. L’inganno è sottile, ma l’obiettivo che si persegue è molto chiaro: nell’impossibilità di precludere totalmente l’accoglienza, in virtù degli obblighi legislativi e costituzionali e dei trattati europei e internazionali, “sono costretto ad accoglierti. Tuttavia, ti nego ogni possibilità. Ti tengo qui, per un tempo infinito, finché non ti sfinisco. Se prendi un’iniziativa, rendo tutto così complicato da farti mollare la presa, da scoraggiarti finché non smetterai di provarci.” Per i più caparbi e intraprendenti, c’è sempre la tagliola della risposta alla domanda di asilo: rischiano di non avere alcun permesso, se non appartengono alla famigerata lista di paesi di veri rifugiati. Dove non arrivano a fermare gli scarsi strumenti di integrazione economica e lavorativa, ci pensa, perciò, la burocrazia. È come se saltassero le maglie di quella sottile collana che dovrebbe legare insieme ogni elemento del percorso migratorio: documenti, accesso ai servizi di base, formazione scolastica e professionale, ricerca lavoro e dell’autonomia abitativa. Ogni maglia fatica a raccordarsi con la successiva; ogni processo è scollato, e quando viene anche un solo passaggio, la persona rischia di rimanervi impigliata per anni. In questo aspettare a nervi scoperti, paralizzante, si può immaginare quanto sia complesso trovare un proprio equilibrio e tenere alto il morale: c’è chi si deprime, chi si arrabbia; qualcuno perde la pazienza e la calma, assorbito dai pensieri che si accalcano nell’attesa; altri ancora, mollano la presa, e si alzano dal letto con sempre più fatica.

Finora è stato così. Adesso, ci penserà il nuovo decreto sull’immigrazione, al vaglio in questi giorni, a stringere ancor più violentemente la presa. Il nuovo piano immigrazione limiterà i servizi relativi all’inclusione e all’integrazione ai soli titolari di protezione internazionale. I tempi di attesa per i richiedenti asilo saranno, a quanto pare, più brevi, ma la loro permanenza all’interno delle strutture di accoglienza diventerà ancor più inutile, e immobile. Per loro, il decreto prevede anche il restringimento all’accesso ai servizi comunalie l’impossibilità di accedere nello SPRAR, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Tutto questo renderà il percorso dei migranti ancora più difficile ed esasperante, aumenterà la pressione sul vivere quotidiano, sulle piccole cose che peseranno e si faranno più complicate. Per molti non ci sarà altra via, una volta preclusa la formazione linguistica, l’orientamento lavorativo e ogni strumento necessario all’integrazione, che finire in strada, ai semafori e ai parcheggi dei supermercati, come già avviene.

Il tempo dell’accoglienza

Un piccolo passo indietro è, dunque, necessario per inquadrare cos’è quel tempo dell’accoglienza che si è voluto andare a colpire con la direttiva del 23 luglio e il nuovo decreto “Salvini”. Un tempo che, come abbiamo indicato, si è sempre faticato a considerare con la dovuta attenzione, sia dal punto di vista quantitativo ma, soprattutto, qualitativo. La situazione italiana prevede percorsi di istruzione e formazione che non di rado hanno inizio in fasi avanzate dell’accoglienza; non sempre riescono a svolgersi in maniera strutturata, ed il numero di coloro che vi hanno accesso non copre affatto tutta l’utenza. Non mancano ovviamente le buone pratiche e il lavoro onesto di tantissimi che operano nel settore, ma si tratta ancora di una situazione, specialmente nei CAS, dove si naviga -seppure con cuore e professionalità- a vista. La capacità di uscire indenni dal circuito dell’accoglienza ed essere autonomi rimane, di fatto, ancora in larga parte affidata alla particolare intraprendenza dei singoli ospiti, secondo le diverse situazioni di partenza e le differenti risorse interne di ciascuno. Tra lo sbarco e l’arrivo dei documenti possono trascorrere anche due anni: un pezzo di vita che si trasforma, per una parte dei migranti, in un’attesa esclusiva, nel senso di escludere ogni altro aspetto del vivere quotidiano. Diventa normalità l’assenza (o la forte riduzione) di quella parte di vita fatta di interessi personali e rapporti umani che è parte integrante del ben-essere di ciascuno; come se fosse pensabile vivere di soli bisogni senza perdere, aspettando che la burocrazia faccia il suo corso, qualcosa di sé. Si dissipano in questo tempo le energie, gli slanci, le aspirazioni che accompagnano le persone al loro arrivo: si abbatte quella capacità di reagire [1] così preziosa, che rappresenta il motore di una vita in perenne ricerca di una realtà in cui riconoscersi e ritrovarsi.

Il c.d. decreto Salvini propone, tra i vari punti, l’abrogazione della protezione umanitaria per i richiedenti asilo e la riforma in senso restrittivo della cittadinanza.
All’interno di un sistema di accoglienza che non rende di fatto obbligatoria la formazione linguistica e professionale, l’incertezza di un esito positivo e, dunque, della possibilità di rimanere nel paese non alimentano l’intraprendenza e le iniziative personali. Al contrario, sono un tarlo che corrode a poco a poco l’ostinazione e la fiducia necessarie a cercare o percorrere altre strade che, seppur apparentemente meno immediate e più complicate, a lungo andare possono davvero rappresentare opportunità concrete. I primi a pagarne le conseguenze sono sempre i meno resistenti, i cosiddetti vulnerabili, coloro che hanno storie provanti alle spalle, o chi, come i migranti analfabeti, portano addosso un macigno che peserà il doppio, e non perdonerà, nelle nostre società tecnologiche. Ma a volte ad abbattersi sono anche i più attivi, persone che nel proprio paese avevano studiato o avviato un’attività, ed ora avvertono la dolorosa frustrazione dell’attuale condizione. E sono sempre tra costoro i ragazzi che mollano un percorso scolastico, ripreso qui, a due passi dalla fine; fanno scelte avventate e controproducenti, buttano via le poche certezze accumulate sulla scia di una calma che non c’è più e s’è già portata via la lucidità per mettere a fuoco le cose; si lasciano scappare quell’unica occasione buona che era capitata loro davanti e che, ormai, è diventata piatta e irriconoscibile, come tutto il resto. Per stanchezza, per disperazione, per noia, per sfiducia, per depressione.

In questo contesto, è l’attenzione alle esigenze di cui parla lo psichiatra Fagioli, ossia a tutti gli aspetti legati a quel mondo personale ed altro fatto di affetti e interesse senza il quale la possibilità di raggiungere un ben-essere reale non sono pensabili, a determinare una visione diversa dell’accoglienza [2]. Sulla stessa traiettoria si colloca, tra le diverse proposte che potrebbero raccogliere la sfida di un’accoglienza che guarda alle esigenze, l’idea di un percorso di sensibilizzazione mirato ad una maggiore conoscenza della realtà sociale e culturale del nostro paese attraverso l’arte, da parte di migranti giovani e meno giovani. Un’iniziativa che risponde all’esigenza di un tempo diverso, quello per le cose apparentemente inutili o comunque non strettamente necessarie, eppure così vitali al fine di mantenere svegli, di alimentare l’interesse verso una realtà circostante non più percepita come immutabile. Le cose inutili dunque, come l’arte, il cui linguaggio universale riporta tutti, inesorabilmente, verso un’uguaglianza di nascita che non è mai abbastanza stare a ribadire. Il percorso di sensibilizzazione artistica mette sotto gli occhi dei partecipanti le cose belle, quelle che vengono fuori quando le persone stanno bene, contando sull’immediatezza delle impressioni che le opere d’arte suscitano per accorciare le distanze con una realtà a volte percepita troppo lontana. Così facendo, si restituisce una conoscenza del territorio e del suo tessuto umano e sociale oltre i luoghi del bisogno.

Le iniziative culturali sono pensate per essere uno spazio che mette momentaneamente tra parentesi le incombenze e i problemi del quotidiano, i pensieri ricorrenti in cui tante persone, durante il loro percorso nell’accoglienza, a volte si incastrano. Dicono che gli fa male la testa, altre volte il braccio, o la pancia, ma il motivo non si trova, e piano piano si fanno più assenti. Proporre l’arte può andare a rompere qualcosa, a smuovere le acque attraverso la proposizione di stimoli intelligenti e mirati. Non basta però, la semplice fruizione, bisogna sapere quali sollecitazioni offrire se si vuole far leva sulla sensibilità delle persone, quali contenuti e significati si vogliono evidenziare. Alla base, c’è il riconoscimento dell’intelligenza di ciascuno, sempre, anche quando il pensiero sembra viaggiare su due binari diversi, per esperienze di vita particolarmente lontane, o per l’assenza di un percorso scolastico – pensiamo ai migranti analfabeti – che ha reso la mente più concreta, meno abituata ad astrarre e ad esprimersi con lunghi discorsi. L’arte, tuttavia, prima ancora di rivolgersi al pensiero parlato sollecita, invece, la sensibilità, quel sentire che deriva dalla forza delle cose, dalle esperienze di vita che contraddistinguono le storie personali. “Un essere umano entra in rapporto con il mondo attraverso la pelle” dice la scrittrice marocchina Fatima Mernissi [3]. Questa intelligenza di pelle, immediata, è quella su cui fa leva l’arte, capace di dare stimoli intelligenti e provocare risposte altrettanto intelligenti. Saranno poi questi pensieri a tornare nella quotidianità di tutti i giorni, ad offrire una resistenza in più; a sostenere il diritto-speranza ad una vita dignitosa alla quale ciascuno, in cuor suo, vuole aspirare.

Qualcuno forse ritrova, mentre guarda un film, un pezzettino di sé; qualcun altro sta bene senza un perché: forse è il posto pieno di colore, forse la musica, forse la poltrona del cinema nel calmo buio della sala. Qualcuno pensa: “Questo è successo anche a me”. E forse si sente un po’ meno solo. Le storie di tutti, in fondo, hanno sempre qualcosa in comune. Gramsci lo chiamava il “valore aggiunto della socializzazione dell’opera artistica, del suo rivivere in altre persone” [4].

Note

[1] Profondamente legata, nella nascita umana, alla vitalità, secondo la definizione di M. Fagioli. Cfr. Massimo Fagioli, Left 2011, Roma: L’Asino D’Oro, 2014, pp. 231-236

[2] Cfr. Massimo Fagioli, Bambino Donna e Trasformazione dell’Uomo, Roma, L’Asino D’Oro, 2013, pp. 122-123

[3] Fatema Mernissi, La Terrazza Proibita, Firenze: Giunti, 1996, p.220

[4] Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli, Gramsci per la Scuola. Conoscere è Vivere, Roma: L’Asino D’Oro, 2018, p.54

Sara Forcella è arabista e mediatrice culturale. Laureata alla Facoltà di Studi Orientali dell’Università La Sapienza di Roma (oggi ISO), dopo varie esperienze di studio all’estero nel 2012 ha iniziato a lavorare come mediatrice culturale all’interno dei centri di accoglienza per richiedenti asilo, durante l’Emergenza Nord Africa. Si occupa di mediazione linguistica e culturale in ambito legale e medico, di alfabetizzazione in italiano L2, e di attività per l’integrazione e la “sensibilizzazione culturale” attraverso l’arte. Attualmente è dottoranda presso L’Istituto Italiano di Studi Orientali di Roma (ISO).

Tratto dalla pagina qui accessibile.

Il ministero dell'Interno ha ordinato la chiusura dei progetti legati all'immigrazione promossi dal comune di Riace. Tutti i migranti saranno trasferiti entro 60 giorni. E le istituzioni tacciono, diventando complici di un atto vergognoso e ingiusto, diretto ad annientare ogni politica di accoglienza. Ma il sindaco di Riace non si piega e presenta il ricorso al Tar. (a.b.)

il manifesto,

Mercati e Unione europea in allarme, opposizione all’attacco, richiamo del presidente della Repubblica alla Costituzione, perché l’annunciata manovra finanziaria del governo comporterebbe un deficit di circa 27 miliardi di euro.

Silenzio assoluto invece, sia nel governo che nell'opposizione, sul fatto che l'Italia spende in un anno una somma analoga a scopo militare. Quella del 2018 è di circa 25 miliardi di euro, cui si aggiungono altre voci di carattere militare portandola a oltre 27 miliardi. Sono oltre 70 milioni di euro al giorno, in aumento poiché l'Italia si è impegnata nella Nato a portarli a circa 100 milioni al giorno.

Perché nessuno mette in discussione il crescente esborso di denaro pubblico per armi, forze armate e interventi militari? Perché vorrebbe dire mettersi contro gli Stati uniti, l'«alleato privilegiato» (ossia dominante), che ci richiede un continuo aumento della spesa militare.

Quella statunitense per l'anno fiscale 2019 (iniziato il 1° ottobre 2018) supera i 700 miliardi di dollari, cui si aggiungono altre voci di carattere militare, compresi quasi 200 miliardi per i militari a riposo. La spesa militare complessiva degli Stati uniti sale così a oltre 1.000 miliardi di dollari annui, ossia a un quarto della spesa federale.

La spesa militare provocherà però nel budget federale, nell'anno fiscale 2019, un deficit di quasi 1.000 miliardi. Questo farà aumentare ulteriormente il debito del governo federale Usa, salito a circa 21.

Esso viene scaricato all'interno con tagli alle spese sociali e, all'estero, stampando dollari, usati quale principale moneta delle riserve valutarie mondiali e delle quotazioni delle materie prime.

C'è però chi guadagna dalla crescente spesa militare. Sono i colossi dell'industria bellica. Tra le dieci maggiori produttrici mondiali di armamenti, sei sono statunitensi: Lockheed Martin, Boeing, Raytheon Company, Northrop Grumman, General Dynamics, L3 Technologies. Seguono la britannica BAE Systems, la franco-olandese Airbus, l'italiana Leonardo (già Finmeccanica) salita al nono posto, e la francese Thales.

Non sono solo gigantesche aziende produttrici di armamenti. Esse formano il complesso militare-industriale, strettamente integrato con istituzioni e partiti, in un esteso e profondo intreccio di interessi. Ciò crea un vero e proprio establishment delle armi, i cui profitti e poteri aumentano nella misura in cui aumentano tensioni e guerre.
La Leonardo, che ricava l'85% del suo fatturato dalla vendita di armi, è integrata nel complesso militare-industriale statunitense: fornisce prodotti e servizi non solo alle Forze armate e alle aziende del Pentagono, ma anche alle agenzie d'intelligence, mentre in Italia gestisce l'impianto di Cameri dei caccia F-35 della Lockheed Martin.

In settembre la Leonardo è stata scelta dal Pentagono, con la Boeing prima contrattista, per fornire alla US Air Force l'elicottero da attacco AW139.

In agosto, Fincantieri (controllata dalla società finanziaria del Ministero dell'Economia e delle Finanze) ha consegnato alla US Navy, con la Lockheed Martin, altre due navi da combattimento litorale.

Tutto questo va tenuto presente quando ci si chiede perché, negli organi parlamentari e istituzionali italiani, c'è uno schiacciante consenso multipartisan a non tagliare ma ad aumentare la spesa militare.

Riferimenti

In eddyburg.it abbiamo più volte segnalato come l'Italia continui a sostenere ingenti spese militari nonostante l'articolo 11 della nostra Costituzione ripudia la guerra e ribadisce l'impegno per la pace. A questo proposito si consiglia la lettura dell'articolo di Adriana Cosseddu "Il caso serio delle bombe italiane". Per una panoramica si veda l'articolo sul Rapporto Milex 2018, che sottolinea come insieme alla crescita delle spese militari, dal 2008 ad oggi aumentate del 25,8%, continua la servitù nucleare dell'Italia. Qui un articolo sulle spese per i droni, finora usati solo per ricognizione, ma che ora stanno per essere armati con bombe e missili e senza che la scelta sia stata dibattuta in Parlamento. Le spese militari sono in ascesa anche in Europa, dove il 2018 si annuncia un anno record,

il manifesto,

Per chi ha conosciuto Domenico Lucano fin dal 1998, ha visto gli sforzi fatti da lui e dai giovani volontari dell’associazione “Città futura”, ha toccato con mano la sua grande umanità, la sua totale dedizione alla causa, la sua trasparenza e onestà. Non si può accettare che nella Locride dove impera la borghesia criminale una persona come il sindaco di Riace possa finire agli arresti domiciliari per aver promosso matrimoni tra italiani e stranieri o per aver affidato a una cooperativa sociale la raccolta differenziata con il mulo!

Per chi ha visto un paese abitato da pochi anziani, senza una scuola, un bar, un luogo dove riunirsi, un paese triste e moribondo, rinascere passo dopo passo anche grazie alla solidarietà di tante associazioni, singoli cittadini, gruppi di volontariato, non può accettare la fine di questo sogno divenuto realtà. Perché Riace è ormai un simbolo vivente di come si possa rovesciare l’approccio al fenomeno migratorio, di come sia possibile non solo la convivenza pacifica (in vent’anni non c’è stato un reato rilevante o un conflitto tra la popolazione locale e i rifugiati), ma la resurrezione di un paese moribondo grazie al lavoro, all’energia e la volontà dei giovani migranti.

Al di là del valore umano di Domenico Lucano, della sua opera instancabile, del suo carisma, Riace rappresenta un miracolo sociale: dalla iniziale sinergia tra una Ong (il Cric) , Banca Etica, la comunità anarchica di Longo Mai, al commercio equo, all’associazione per la pace, al turismo solidale praticato da tanti, italiani e stranieri, all’opera determinante di collante nazionale svolta da ReCoSol (la Rete dei Comuni Solidali), ad artisti e giornalisti, in tanti hanno dato un contributo convinto perché hanno visto che “un altro mondo è concretamente possibile”. L’ha visto un grande regista come Wim Wenders che nel ventennale della caduta del muro di Berlino ha dichiarato di fronte a dieci Nobel per la pace che “la civiltà e il futuro dell’umanità passano da luoghi come Riace, in Calabria”.

L’hanno imitato in tanti il modello Riace: da Sant’Alessio in Aspromonte a Acquaformosa, da Calanna a Gioiosa Jonica, ci sono decine di sindaci e amministrazioni locali, non solo in Calabria, che in questi anni hanno seguito l’esempio di Riace e hanno visto progressivamente rinascere i loro Comuni abbandonati.

Ed è questa la strada che bisogna seguire per la rinascita del nostro paese. Quasi tutto l’Appennino è ormai in via di desertificazione, di abbandono di terre e un grande patrimonio abitativo che va in malora, un abbandono che si traduce in frane, incendi, alluvioni, proprio nel tempo in cui c’è bisogno sempre più di terre coltivabili, non inquinate, per una produzione alimentare di qualità. Per questo abbiamo assoluto bisogno dei migranti, e dovremmo ringraziarli se ancora abbiamo una pastorizia, o produciamo il famoso parmigiano reggiano o il prosciutto di Parma. Ma, dobbiamo lottare e impegnarci per toglierli dalla condizione di semischiavitù in cui versano nella piana di Rosarno come a Foggia, per restituirgli quella dignità di essere umani che non ci faccia vergognare di essere italiani.

Per tutto questo l’attuale governo, senza se e senza ma (ma i 5S…) che punta a chiudere gli Sprar, a mandare a casa 40.000 giovani italiani che lavoravano a fianco dei migranti nei centri di seconda accoglienza, che mira a trasformare in clandestini e marginali la maggioranza di coloro che sono arrivati in Italia negli ultimi anni, deve essere combattuto senza paura. La reazione, forte e convinta, di una moltitudine all’arresto del sindaco di Riace ci dice che c’è ancora una parte del nostro paese che non si è arresa alla disumanità, che non è caduta nella globalizzazione dell’indifferenza, come l’ha definita il “compagno” Francesco.

the submarine
Attraversare il mar Mediterraneo non è mai stato così mortale: in questa giornata istituita dallo Stato, è fondamentale ricordare che questa situazione non è normale — e la colpa è del nostro paese.

Due anni dopo l’istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione — che cade il 3 ottobre, il giorno della strage di Lampedusa nel 2013 — il mar Mediterraneo non è mai stato così pericoloso.

I dati di UNHCR descrivono le condizioni dell’attraversamento del Mediterraneo il 30,6% più mortali della media, mentre un rapporto dell’ISPI pubblicato pochi giorni fa documenta un record del numero dei morti a settembre e negli ultimi quattro mesi — il 20% di chi è partito dalle coste della Libia o della Tunisia per raggiungere il nostro paese risulta morto o disperso.

È questa la realtà che si nasconde dietro lo sbandierato “calo degli sbarchi” — diminuiti circa dell’80% in un anno, senza che questo sia servito a neutralizzare la retorica dell’invasione — ed è una realtà molto parziale: non solo perché l’assenza delle navi delle Ong nel Mediterraneo centrale significa che non ci sono osservatori indipendenti e imparziali che possano documentare cosa succede in quel tratto di mare, ma anche perché la linea adottata dai governi europei per arginare il flusso migratorio — esternalizzare la frontiera in Africa — si traduce in altre violenze e in altre morti (nei lager libici o nel deserto) lontane dai nostri occhi e dalle nostre statistiche.

Cosa sia successo lo sappiamo: i governi centristi di Germania, Francia e Italia, che avevano cercato di mantenere politiche nell’ambito della decenza nella gestione del fenomeno migratorio dal 2014 al 2015 — anche se sempre in un’ottica emergenziale e insostenibile sul lungo periodo — hanno ceduto alle pressioni interne che li hanno portati a sdoganare politiche retrograde precedentemente relegate ai partiti di estrema destra. In un effetto valanga, il Partito socialista francese si è estinto, il Partito democratico italiano è in corso di estinzione, Merkel mantiene la leadership del CDU quasi per coincidenza.

L’Italia è passata dal senso di colpa — e dell’orrore — costruttivo che aveva portato all’istituzione della giornata del 3 ottobre, al paese che si è preso carico di ripulire il mar Mediterraneo dalle navi delle Ong, e, indirettamente, di aumentare la probabilità di morte in mare per le persone che ricordiamo oggi.
O che dovremmo ricordare: oggi a Lampedusa, dove si terrà una marcia di commemorazione, non sarà presente nessun rappresentante delle istituzioni. E non ci saranno nemmeno gli studenti che hanno partecipato al progetto “Porte d’Europa,” perché il Ministero dell’Istruzione ha tolto il proprio sostegno all’iniziativa.

“In questo momento non c’è nessuna operazione civile di salvataggio attiva nel Mediterraneo,” ci spiega al telefono Ruben Neugebauer dell’Ong tedesca Sea Watch. La nave di cui fa parte — Sea Watch 3 — è bloccata a Malta, e attualmente la Ong riesce a sorvegliare il mare solo con la propria missione aerea.

“Anche le navi delle flotte europee e la Guardia costiera italiana latitano: rimangono operative nelle acque solo le milizie libiche, che non possono essere considerate responsabili di azioni di salvataggio,” continua Neugebauer. “Sempre più navi mercantili rifiutano di aiutare barche in difficoltà. La missione aerea di Sea–Watch ha osservato più volte casi di navi mercantili che, dopo aver ricevuto da parte loro segnalazioni di barche in difficoltà o chiamate di soccorso, hanno preferito ignorarle e cambiare direzione. Temono che a seguito del loro intervento si ripropongano situazioni come quella della Diciotti, dove prima di avere i permessi per lo sbarco delle persone raccolte si è trascinato per giorni e giorni. In questo momento far sbarcare i naufraghi è diventata un’operazione complicata ed incerta, e i capitani delle navi mercantili non considerano più loro compito gestire la situazione.”

Paradossalmente, la stretta contro le navi umanitarie ha riportato la rotta migratoria più pericolosa del mondo allo status precedente all’istituzione di Mare nostrum, cioè allo status che ha reso possibile la strage di Lampedusa del 2013: in assenza delle Ong, i migranti cercano di raggiungere direttamente le nostre coste, affrontando un viaggio più lungo e pericoloso a bordo di imbarcazioni fatiscenti.

“Qualsiasi miglioramento non sarà all’orizzonte, a meno che i governi europei non decriminalizzino il salvataggio in mare, uno scenario in questo momento completamente slegato dalla realtà politica del continente” — che anzi, dalla Francia di Cédric Herrou all’Italia di Mimmo Lucano, sta andando verso una progressiva istituzionalizzazione del “reato di solidarietà” non solo in mezzo al mare, ma anche sulla terraferma. “Ciononostante, le persone non smetteranno mai di provare a intraprendere questo viaggio: la situazione in Libia sta peggiorando e le persone continueranno a scappare da violenza e combattimenti,” conclude Neugebauer.

È importante ripeterlo: la presenza di navi umanitarie per salvare i migranti nel Mediterraneo non è una situazione auspicabile — è l’extrema ratio per sopperire a una grave mancanza politica e arginare, perlomeno, lo sterminio in atto. La situazione auspicabile, che tutte le sinistre europee dovrebbero chiedere a gran voce, è la presenza di vie legali e sicure per i migranti africani, che non dovrebbero essere costretti a rischiare la vita — con o senza le Ong o le missioni militari — per raggiungere l’Europa. Rivendicare “accoglienza” è una battaglia di retroguardia: bisogna rivendicare libertà di movimento e diritti per tutti, a prescindere dal colore della pelle e dal paese di provenienza.

(Erica Farina ha contribuito alla stesura di questo articolo)

Tratto dalla pagina qui raggiungibile

The Guardian

il manifesto

«Migranti. se si vuole rovesciare il tavolo di una partita già persa occorre andare non solo alla radice dell’insofferenza per i migranti, ormai trasformata in odio e in angherie quotidiane; e nemmeno solo alla radice dell’austerity che l’ha provocata; bensì capire che cos’è veramente ciò che l’austerity sta bloccando. E’ questa la chiave per affrontare anche molte delle cause all’origine della “crisi migratoria”, che non è un’emergenza, ma un processo secolare»

L’Unione, già Comunità (che vuol dire mettere le proprie risorse in comune) Europea, si sta dissolvendo sotto i nostri occhi. Forse si è già dissolta. A prima vista la causa più evidente del fallimento è la cosiddetta «crisi migratoria». È evidente che trattare decine o centinaia di migliaia di esseri umani come pacchi, come un peso da scaricarsi l’un l’altro e facendo finta, a ogni nuovo arrivo, di affrontare il problema per la prima volta, non è una politica lungimirante.

L’Ue non ha combattuto le politiche di Orbàn quando era ora di farlo, mentre aveva a suo tempo condannato quelle dell’austriaco Haider (ma non quelle di Bossi quando per la Lega l’Unione era già “Forcolandia”). Così ha creato nel suo seno i Salvini, e i molti come lui, in tutto il continente. L’establishment europeo è stato accecato dalla sua “cultura economica”, pensando che il “resto”, l’unità politica, seguisse automaticamente (l’intendence suivra…). Così è passato come un carro armato sulla Grecia (culla della sua “civiltà”) per salvare qualche banca francese o tedesca e ora, dopo aver subito senza reagire la “brexit”, rischia di venir trascinata nel baratro dall’Italia: nazione “fondatrice” dell’Unione, ma Stato quasi fallito. Per cui, se l’Italia e i suoi abitanti sono un vuoto a perdere, con i migranti se la vedano loro…

Eppure nel dopoguerra la ricostruzione dell’Europa, quella che aveva dato vita alla Comunità europea, era stata in gran parte opera di immigrati (metà profughi dell’Est europeo, metà provenienti dalle sponde Nord, Italia compresa, e Sud del Mediterraneo). Immigrati erano stati anche i protagonisti dei “miracoli economici” degli anni ‘60 e della successiva ancorché parziale ascesa dell’Unione a potenza (economica) mondiale. La svolta è arrivata con la crisi del 2008, che ha portato alla luce pulsioni represse da tempo. L’Unione l’ha affrontata con l’austerità, rinunciando con ciò a un ruolo da protagonista; e da allora i migranti - sia profughi, di guerra e, sempre più, anche ambientali, sia gente affamata in cerca di un lavoro - hanno cominciato a venir trattati come la peste. Le destre europee, e il popolo dei social e degli stadi che le segue, lo fanno apertamente, spesso con un linguaggio che è ormai, e in modo ostentato, nazista. Gli altri, le forze “istituzionali”, lo fanno in modo ipocrita, cercando di nasconderlo. Ma, per tutti, profughi e “migranti economici” sono solo un peso e come tali vengono trattati. Da loro c’è solo da ricavare qualche occasione per sfruttarli meglio per ripagarsi del fatto di non essere riusciti a scacciarli.

Così, al centro delle prossime elezioni europee, ma soprattutto di un ben più importante confronto sul futuro delle nostre vite e della convivenza, ci saranno loro, i migranti; o, meglio, la capacità o meno di disfarsene; o la promessa di essere più bravi nel farlo. Privi di alternative, centro e “sinistre” non faranno che accodarsi alle ricette delle destre. Affrontare questa partita aggrappandosi alla zattera che affonda delle sinistre europee e al loro rosario di desiderata mai contestualizzati, mai veramente perseguiti e quasi sempre rinnegati - lavoro, welfare, diritti, istruzione, ricerca… - vuol dire averla già persa. Lo scontro tra accogliere e respingere è già deciso perché dietro ad “accogliere” non c’è né un programma per il “dopo” - che fare di e con chi viene accolto? – né il progetto di un’Europa diversa da quella che c’è; mentre dietro a “respingere” c’è un progetto preciso, anche se mai dichiarato: il trattamento riservato oggi ai migranti è quello in serbo anche per la maggioranza di noi. Perché che cosa ne sarà dell’Europa di domani, qualsiasi strada imbocchi, non riguarda solo i migranti ma tutti noi.

Dunque, se si vuole rovesciare il tavolo di una partita già persa occorre andare non solo alla radice dell’insofferenza per i migranti, ormai trasformata in odio e in angherie quotidiane; e nemmeno solo alla radice dell’ che l’ha provocata; bensì capire che cos’è veramente ciò che l’austerity sta bloccando. E’ questa la chiave per affrontare anche molte delle cause all’origine della “crisi migratoria”, che non è un’emergenza, ma un processo secolare.

A essere bloccata è la conversione ecologica: la capacità di indirizzare forze e pensieri alle misure per far fronte ai cambiamenti climatici e a un degrado ambientale irreversibili. È l’unica scelta in grado di restituire un ruolo all’Europa, ma che è anche senza alternative che non siano la rovina del pianeta e dell’umanità e una guerra permanente contro i migranti destinata a provocare milioni di morti e ad alimentare reclutamenti di massa da parte di formazioni terroristiche. Ma è una svolta che non può più essere affidata a Governi e imprese che hanno dimostrato di non saperla affrontare. Solo quei movimenti attivi nella difesa dei territori e nel sostegno ai migranti, che sono molti e variegati, ma dispersi e scollegati, possono mettere all’ordine del giorno l’intera questione in modo concreto, con buone pratiche e un confronto aperto. Se sapranno farlo potranno riorientare anche una parte di quelle forze politiche e delle istituzioni, a partire dai governi locali, che hanno da tempo perso ogni contatto con la realtà.

La conversione ecologica non può che essere un processo partecipato e svilupparsi a partire dal livello locale, avendo però di mira tutto il pianeta. Ma di esso profughi e migranti sono una componente essenziale, perché possono portare un grande contributo alla realizzazione dei milioni di interventi diffusi necessari (l’opposto delle Grandi opere e dei grandi eventi dell’attuale modello di “sviluppo”); soprattutto se il finanziamento di quegli interventi sarà legato all’inclusione di una consistente quota di migranti tra la manodopera da coinvolgere e non da sfruttare. Assisteremmo allora a una corsa per “accaparrarseli”, mentre continuando a trattare come ora la popolazione immigrata stiamo trasformando l’Europa in un grande campo di concentramento (da gestire accanto alla vita che si svolge “come sempre “), ma anche in un campo di battaglia.

Ma i migranti sono una componente essenziale della conversione ecologica anche perché il loro coinvolgimento è una strada obbligata per la rigenerazione dei loro territori di origine, a cui molti di loro vorrebbero poter tornare e con le cui comunità molti altri mantengono dei contatti. Il risanamento ambientale e sociale (la partecipazione) di quei territori ha bisogno di nuovi attori, che possono essere solo loro; certo non gli attuali Governi locali o quelli che se ne stanno appropriando in continuità con le politiche coloniali del secolo scorso; e meno che mai le multinazionali che ne stanno devastando il territorio: cioè tutti quelli del “prima noi”, non solo qui, ma anche “a casa loro”.

il manifesto, 20 luglio 2018. La descrizione del cosiddetto «modello Niger» di respingimento dei migranti osannato da Tajani: un altro super affare per l'industria militare e politici corrotti, che ha l'effetto di lievitare i costi del viaggio e aprire nuove vie, ma soprattutto morti e sofferenze. (i.b.)

Ora che il Niger viene indicato come la prossima frontiera esterna dell’Unione europea, non passa mese che un leader o un sotto-leader europeo non si rechi nella caldo-umida Niamey o al più nell’infuocata Agadez: l’ultimo in ordine di tempo è il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, appena rientrato dal viaggio con al seguito una trentina di imprenditori europei. E anche Tajani ha voluto visitare Agadez oltre alla capitale.

L’antico caravanserraglio schiavistico, poi avamposto coloniale francese ai bordi del Sahara, da dove provenivano fino a due anni fa il 90 per cento dei migranti subsahariani diretti in Libia e da lì in Europa, è oggi una città caotica – nei racconti di chi la vive – e strapiena di presenze occidentali, anche di militari – in particolare provenienti dalla vicina base di droni americana costata secondo il New York Times 110 milioni di dollari, che ospita oltre 800 «berretti verdi» e da cui partono i comandi dei raid aerei anti-Isis in Libia.

Ma soprattutto è piena di ambasciate, rappresentanze di agenzie dell’Onu e della Ue. E sono in fase di ultimazione i lavori per la costruzione di due nuovi compound per le sedi diplomatiche di Arabia Saudita e Stati Uniti grandi come interi isolati e sormontate da alte mura con garitte alla maniera di quelle di Kabul o Baghdad.

Tajani naturalmente ha incontrato e stretto la mano al presidente del Niger, l’intramontabile Mahamadou Issaufou – siede alla presidenza dal 2011 ma in precedenza è stato primo ministro dal 1993, presidente del Parlamento e capo dell’opposizione in un periodo di frequenti colpi di Stato – che per l’occasione si è fatto trovare in patria. Pare che non sia così frequente, che preferisca soggiornare all’estero, tanto che il soprannome che gli viene appioppato è «Rimbo», dal nome della più famosa compagnia nigerina di autobus transfrontalieri, per altro di proprietà del suo amico personale e politico Mohamed Rhissa Ali, segnalato nei Panama Papers per aver investito gran parte della sua fortuna alle Seychelles, il più vicino paradiso fiscale.

Il Niger totalizza un certo numero di record: è uno dei paesi più poveri al mondo, una persona su dieci è affetta da malnutrizione grave secondo il Programma alimentare mondiale: 2,3 milioni di persone bisognose di aiuti Pam, con un aumento del 21% rispetto al 2017 e il governo calcola che altri 1,4 milioni di nigerini saranno colpiti da insicurezza alimentare nel corso della carestia attualmente in atto. I vertiginosi rincari di riso e zucchero hanno già provocato manifestazioni e tumulti questa primavera, dopo i quali gran parte dei leader della società civile sono stati arrestati.

Contemporaneamente è uno dei paesi con più corruzione al mondo: è al 112 posto nella lista di 180 paesi in base agli indici dell’ong Trasparency international. E infine, più di recente, è diventato il Paese destinatario della maggior percentuale di aiuti della Ue pro capite al mondo. Il fondo europeo di sviluppo ha stanziato per il ciclo 2014-2020 731 milioni di dollari per il Niger, ai quali se ne sono aggiunti prima altri 108 milioni, poi altri 30 per l’assistenza ai profughi nella regione del Diffa e altri ancora sono stati promessi nei giorni scorsi da Tajani, anche se per il momento il presidente del Parlamento di Strasburgo ha preferito non evocare cifre esatte, quanto piuttosto affari.

Tajani ha parlato espressamente della collaborazione con le autorità nigerine come di «un modello che dobbiamo estendere ad altri paesi del Sahel seguendo l’esempio della Turchia dove abbiamo impegnato 6 miliardi di euro per chiudere la rotta balcanica». E si è portato in delegazione, oltre ai trenta «uomini d’affari interessati ad investire in Niger» attraverso una «partnership vantaggiosa», anche i dirigenti della Banca europea per gli investimenti.

Il presidente Issoufou ha annunciato che entro l’anno convocherà una conferenza sugli investimenti prioritari pubblici e privati in favore della forza, anche armata, del G5 Sahel – che oltre al Niger comprende Mali, Mauritania, Ciad e Burkina Faso – cioè il cartello di Stati del Sahel a cooperazione rafforzata che hanno appena ricevuto quasi mezzo miliardo di dollari (414 milioni) di donazioni internazionali – tra Usa, Ue, Canada e Giappone – per finanziare addestramento e forniture militari alla nascente forza militare regionale che dovrebbe stabilizzare l’area. È a sostegno di questa forza del G5 Sahel che l’ex governo Gentiloni ha voluto inviare 479 soldati italiani di cui grazie ad un rocambolesco scaricabarile delle autorità di Niamey si sono quasi perse le tracce. Da notare che a fianco degli eserciti del G5 Sahel ci sono già i 4 mila soldati francesi dell’operazione Barkhane.

Antonio Tajani, arrivato con il compito di «rafforzare la cooperazione strategica», anche «per il ruolo chiave che il Niger sta avendo nel ridurre drasticamente i flussi di migranti irregolari verso la Libia e l’Europa», ha tratteggiato la possibilità di investimenti e trasferimenti tecnologici in vari settori, dall’agricoltura alle energie rinnovabili, ma soprattutto traffico aereo e controllo delle frontiere, attraverso l’impiego dei sistemi satellitari Galileo e Copernicus.

Quanto al «modello Niger » tanto decantato da Tajani, oltre che sulle due basi occidentali di droni, fa leva sulla legge nigerina numero 36 che ha reso illegale ai cittadini stranieri viaggiare a nord di Agadez verso il deserto, cioè lungo le piste più battute perché costellate di pozzi e oasi. Non sono molti i migranti che le guardie nigerine intercettano, solo 7 mila rimandati indietro nel 2017, mentre nel frattempo la corruzione per far chiudere un occhio ai gendarmi ha fatto lievitare i costi dei viaggi verso la Libia e reso la traversata del deserto molto più pericolosa, spesso mortale, come denuncia il reportage apparso su Africa Report di Daniel Howden e Giacomo Zandonini.
I costi proibitivi e i rischi di morte hanno contribuito a far passare quest’anno da 300 mila a soli 10 mila i migranti in transito da Agadez. Ma altri varchi esistono per i passeurs Touareg e Tebu, come ad Arlit al confine con il Marocco e a Seguedine, dove si sono verificate recentemente le maggiori stragi nel deserto.

Le strategie di respingimento europee hanno fatto già triplicare negli ultimi tre mesi i migranti chiusi nei centri di detenzione libici, da 5 mila a 9.300, secondo l’ultima stima dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e hanno portato le morti in mare a un migrante ogni sette imbarcati. Ma ciò che conta è che le commesse militari, per il monitoraggio delle frontiere e per le agenzie al servizio di questa politica, continuano a maglie sempre più larghe.

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