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il manifesto, 30 gennaio 2019. Un cementificio trasformato in un parco pubblico. Al netto della retorica giornalistica, un segnale sulla possibilità di fare nuovo spazio pubblico attraverso la riconversione di spazi dismessi, anche nei piccoli comuni. (d.b.)

Se i nomi bastassero a se stessi, il Comune bresciano di Collebeato sarebbe già a posto con quello che si ritrova. Ma la cornice collinare che sovrasta questo borgo alla periferia nordorientale di Brescia, da cui lo separa il fiume Mella che scende dalla Val Trompia, correva il rischio di essere tutt’altro che beata. Soprattutto il colle che sovrasta il paese, ambito come quello di altre zone diventate, dal Dopoguerra, terreno di conquista di prime e seconde case: villette nella migliore delle ipotesi. Negli anni Settanta però l’amministrazione locale impone uno stop al consumo del suolo, specie in collina. In seguito fa di più: acquisisce l’area dove è sorto negli anni Cinquanta un cementificio, un ecomostro che poi sarà demolito e trasformato in un centro sportivo comunale. E ancora, inizia una maratona per trovare i finanziamenti che stanno trasformando in parco l’intera area collinare, nota una volta per i suoi pescheti e ormai sfuggita all’assalto delle villette. Una rete ecologica dove è tornata in forze la «Ballerina bianca» e dove negli ultimi anni viene a sostare la «Garzetta», un trampoliere candido dal lungo becco nero.

Vale davvero la pena di andarci a Collebeato. Se non altro, una volta tanto, per raccontare una buona notizia. L’anticamera del paese, se ci arrivate da Brescia, non è esattamente una bellezza. Prima di attraversare il Mella ed entrare a Collebeato, la periferia di Brescia vi accompagna con l’anonimità di un quartiere post industriale, con piccole e grandi fabbriche, capannoni e depositi in buona parte rovinati dal tempo e dall’abbandono. C’è anche una vecchia fabbrica di cui resiste – puntellata – una facciata interessante di mattoni rossi, in attesa forse di riqualificazione. L’ingresso a Collebeato è invece una piccola sorpresa: case basse e ben conservate sotto una collina ricoperta di boschi appena sopra un’area agricola abbastanza estesa che circonda il borgo.

Il palazzo comunale è un edifico antico senza troppe pretese nel centro del Paese. E’ li che ci riceve Antonio Trebeschi, il sindaco che rappresenta la continuità di una scelta ambientale nata già diversi anni fa ma concretizzatasi poi con forza – e sforzi non indifferenti – nei primi anni di questo secolo. Nel 2002 infatti il Comune acquista 55mila mq – su cui si trova un cementificio sorto negli anni Cinquanta e ormai in disuso – e altri 155mila mq di superficie collinare che comprendono la cava che serviva alla fabbrica per produrre il cemento. E’ una fetta di collina ferita, con un ecomostro di oltre 2500 mq di superficie alto più di 16 metri e sormontato da una ciminiera di 34 tra altri capannoni e manufatti industriali con un volume in degrado di circa 50mila metri cubi.

«Nel Dopoguerra – spiega Trebeschi – un sacerdote molto famoso nella zona, Padre Marcolini, aveva creato CemBre (Cementifico Bresciano) per produrre il cemento richiesto dalla costruzione in tutta la provincia di villaggi realizzati con la cooperativa La famiglia». Le intenzioni di Marcolini erano probabilmente ottime in quegli «Anni della fretta», come li ha definiti Giacomo Corna Pellegrini – geografo bresciano e democristiano – che ha raccontato anni fa in un saggio il desiderio della classe dirigente della Repubblica di dare a tutti case e servizi. Dopo una decina d’anni le cose cambiano e la struttura viene ceduta a Italcementi. Che nel 1971 la chiude. «All’inizio – continua Trebeschi – per i collebeatesi fu un sollievo dalla polvere prodotta dalla struttura che tra l’altro minacciava la tradizionale coltura del pescheto». Ma bisognava fare di più.

Fatto il passo per acquisire strutture e terreni, nel 2009 si inizia ad abbattere l’ecomostro che, tra il 2011 e il 2013, diviene un Centro civico sportivo. Quanto costa l’operazione? Tanto, dice Trebeschi: «Quasi due milioni di euro solo per l’acquisto, con risorse ottenute dall’alienazione di un terreno comunale». Poi altri 800mila euro accendendo due mutui per demolire e ricostruire. «Eppure – conclude Trebeschi – i cittadini hanno capito e ci hanno sostenuti», premiando l’amministrazione di sinistra alle elezioni. Il percorso non è stato facile: il Comune ha fatto accordi con privati, partecipato a bandi, cercato risorse aggiuntive, acceso mutui sempre col rischio di non farcela. Ma adesso l’ecomostro è solo un ricordo in bella mostra in una fotografia aerea di Collebeato «prima» dell’intervento.

La sensibilità di Collebeato non finisce con la coscienza ambientale, col cementificio o col progetto di un corridoio ecologico tra fiume e colline. Oltre ad aver aderito alla campagna «Accogli come vorresti essere accolto», si è declinata anche nella firma che Collebeato ha messo in calce all’adesione al Trattato per la messa la bando delle armi nucleari che l’Onu ha chiesto anche all’Italia di ratificare. Per adesso lo hanno fatto solo i Comuni che aderiscono all’iniziativa «Italia Ripensaci» e alla campagna promossa dai «Mayors for Peace». Nel bresciano i firmatari – con la stessa Brescia e l’amministrazione provinciale – sono già un quarto del totale dei municipi. Inutile forse dire che Colleabeato è stato tra i primi.

Accoglienza. In Spagna, Catalogna, non in Italia, Piemonte, Lombardia, Veneto, Lazio . Sull'altra sponda dello stesso mare, ma molto lontani. il Fatto Quotidiano online 21 febbraio 2017

Barcellona è una città in contro-tendenza rispetto a quella parte di Europa ammaliata dalle sirene del nazionalismo, delle barriere e della xenofobia. Un fiume in piena di gente – 160.000 per le autorità di polizia, 350.000 per gli organizzatori – si è presa il centro della città catalana per una marcia festosa in favore dei rifugiati e per la solidarietà. Prou excuses. Acollim ara! (Basta scuse. Accogliamo ora!) è stato lo slogan che ha riunito il popolo della solidarietà, in quella che, dall’inizio della crisi dei rifugiati, è da considerarsi come la più grande manifestazione continentale per l’integrazione.

"Casa nostra, casa vostra" è l’associazione organizzatrice della campagna, un’unione di cooperanti, operai, studenti e professionisti – tra essi giornalisti, architetti e avvocati – con esperienza nei campi di rifugiati installati nelle zone di frontiera tra la Grecia e la Macedonia. Il manifesto dell’associazione è un inno all’inclusione, un richiamo alla necessità di un’applicazione piena dei principi contenuti nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e dei valori fondanti dell’Unione europea.

Le oltre 72.000 adesioni al manifesto pubblicato sul sito degli organizzatori costituivano un buon presagio per la riuscita dell’evento, tuttavia nemmeno i più ottimisti potevano sperare in una manifestazione così partecipata, con rappresentanti di oltre 200 associazioni a sfilare dalla centralissima piazza Urquinaona – situata a poche centinaia di metri dalle Ramblas – verso la Via Laietana, principale arteria cittadina. Sindacati, Ong, delegati di gruppi universitari, associazioni come No més morts, obrim fronteres (“Non più morti, apriamo le frontiere”), Catalunya, terra d’acollida (“Catalogna, terra d’accoglienza”), SOS Racisme e Stop Mare Mortum a precedere politici di ogni schieramento, rappresentanti di formazioni indipendentiste, socialisti federalisti, o forze collocate più a sinistra, come Podemos.

Ada Colau è il sindaco che dal giorno del suo insediamento ha fatto apporre lo striscione “Refugees welcome” sul balcone del Municipio, nella monumentale plaça Sant Jaume, sabato ripeteva con orgoglio di essere il primo cittadino della Capitale internazionale della pace e dei diritti umani. Una manifestazione che ha riunito decine di migliaia di persone – di sabato pomeriggio quando scuole, università e uffici sono chiusi – per reclamare a gran voce principi che toccano direttamente la sfera di altri.

Com’è lontana l’Italia bloccata sui social a lamentarsi di tutto, come sono lontane le sparate del leghista Salvini che proprio il 18 febbraio ha parlato della necessità di “una pulizia di massa, strada per strada”. Eppure, anche lui, al tempo di “Roma ladrona” era un fiero sostenitore dell’indipendentismo catalano, movimento però, da sempre solidale, da sempre europeista.

«La liberazione delle acque italiane è iniziata così, nel cuore sismico del Paese, nel punto in cui il Sangro, sceso dalle balze del Parco nazionale d’Abruzzo, curva verso l’Adriatico sotto le montagne del Molise». comune-info, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)

«Il bulldozer affonda i cingoli nella corrente, pianta il braccio snodabile nel muro dell’argine e in un fracasso infernale aziona la perforatrice. Appena il primo pezzo di cemento crolla, ecco l’acqua appenninica nuovamente libera, trovare una strada tra i massi. La senti cantare, respirare, spumeggiare, come una volta». Potrebbe essere l’incipit di un libro di fantascienza, invece è il resoconto poetico e autentico che il giornalista e scrittore Paolo Rumiz riporta su “Il Venerdì” di Repubblica per raccontare quanto accaduto nel comune virtuoso di Scontrone, seicento abitanti in provincia dell’Aquila.

Quest’anno il Comune di Scontrone ha vinto il Premio Comuni Virtuosi nella categoria Gestione del territorio, per un’operazione che in Italia suona come una specie di rivoluzione: restituire spazio e terra ai fiumi, lavorando sulla prevenzione.

«Il progetto cha abbiamo candidato racconta di come, dopo trent’anni, il fiume Sangro abbia vinto la sua battaglia contro il cemento – dice la sindaca Ileana Schipani, dottoressa in scienze ambientali. Negli anni Ottanta, infatti, il tratto di fiume Sangro che scorre nel nostro territorio, tra Villa Scontrone e Castel di Sangro, venne canalizzato e cementificato per sei chilometri. Un intervento di grande impatto, con il quale l’assetto naturale del corso d’acqua fu completamente modificato, il fiume raddrizzato e sagomato con opere artificiali, il bosco ripariale distrutto».

Un’opera da trenta miliardi di vecchie lire finanziata – si motivava all’epoca – per evitare che il fiume straripasse nelle vicine campagne durante i periodi di piena. Oggi, dopo tanti anni di convivenza incivile tra fiume e cemento, è stato finalmente avviato un progetto integrato dal punto di vista idraulico e ambientale, finanziato attraverso fondi comunitari. «Si tratta – continua la sindaca – sostanzialmente di un intervento che punta a ridurre il rischio idraulico, restituendo spazio al corso d’acqua e quindi migliorando l’ambiente fluviale».

In particolare, i lavori mirano a consentire una dinamica fluviale che abbandoni la logica della canalizzazione: nel progetto si è infatti scelto di procedere alla demolizione dei muri e delle difese spondali in cemento ormai rovinati; per proteggere i centri abitati è stata prevista la realizzazione di rilevati arginali a ridosso delle aree già urbanizzate, senza sottrarre spazio alle aree di potenziale esondazione; in alcuni punti si è ritenuto di riprofilare le sponde per ricostituire un adeguato gradiente di riconnessione tra l’alveo attivo e la piana alluvionale adiacente, così da consentire una naturale laminazione delle acque di piena nelle aree alluvionali di natura demaniale (e non urbanizzate) presenti lungo il corso d’acqua.

«A tutt’oggi, il progetto in corso di realizzazione può essere annoverato come esempio unico nel panorama regionale e probabilmente nazionale, e può costituire un precedente importante, da imitare anche in altre realtà simili con corsi d’acqua resi artificiali».

Chiedo quali sono state le difficoltà maggiori che l’amministrazione ha incontrato nella realizzazione di un progetto che ha richiesto tempo, e quindi pazienza e lungimiranza per essere messo in cantiere. «Il progetto ha richiesto un’intensa e costante interazione tra i soggetti coinvolti diversi, e un elevato di livello di competenze tecniche e di conoscenza del territorio. Partivamo da un progetto preliminare del Genio civile regionale, che prevedeva di mitigare il rischio idraulico attraverso interventi volti a riportare il canale in cemento alla sua condizione originaria (cioè quella della costruzione degli anni Ottanta). La capacità dell’Amministrazione comunale di avanzare una proposta alternativa e concreta, e sostenibile dal punto di vista ambientale, ha probabilmente giocato un ruolo decisivo per arrivare agli interventi sopra descritti».

Il comune ha ragionato in un’ottica di area vasta, cercando alleanze e sinergie con i comuni limitrofi, trovando una governance che tenesse conto del disegno di insieme di un intero territorio.

La cementificazione del fiume Sangro prese il via proprio negli anni Ottanta, e trovò da subito una forte opposizione delle popolazioni locali, ciò che blocco a metà il nefasto intervento. «Si può dire che quella fu una tra le prime proteste ambientaliste contro la cementificazione dei fiumi. È facile quindi comprendere come la presenza del canale sia stata considerata fin dall’inizio un elemento estraneo alla comunità e poi, col passare degli anni e il progressivo degrado dell’opera, sempre più come un detrattore ambientale. Non a caso, nei programmi elettorali amministrativi da oltre un decennio si parlava di ‘rinaturalizzazione del fiume Sangro’ come di un importante obiettivo da perseguire. C’è stato quindi un generale consenso della comunità locale intorno a questo nuovo progetto. Nel periodo precedente l’intervento sono stati realizzati diversi momenti di informazione e di coinvolgimento della popolazione per illustrare, discutere e condividere gli aspetti progettuali».

Ileana Schipani è un sindaco giovane. Tra le vene scorre passione pura per un mestiere che è il più bello e complicato del mondo, in barba a tutte le maldicenze che riforniscono di carburante l’auto della demagogia. Com’è oggi fare i sindaci di una piccola comunità? «È senza dubbio un’esperienza umanamente straordinaria, perché in una piccola realtà la partecipazione attiva della comunità alla vita del paese è l’elemento determinante per provare a costruire prospettive di sviluppo locale, soprattutto in un contesto come quello della montagna appenninica. Quindi l’impegno principale, al là dell’amministrazione ordinaria, sta proprio nel farsi venire buone idee e nel prodigarsi per la loro realizzazione. Che in fondo è proprio ciò che provano a fare ogni giorno i cosiddetti Comuni virtuosi».

Cosa dovrebbe fare la politica nazionale per essere di aiuto alle periferie dell’impero? «Se penso all’amministrazione di un piccolo comune come il mio, senza dubbio chiederei alla politica di saper fare distinzione tra le diverse realtà degli enti locali: spesso ci troviamo a dover applicare procedure e norme o ad assolvere ad adempimenti burocratici che risultano completamente slegati dalla realtà, con il risultato che gli stessi spesso contribuiscono ad aggravare le criticità della macchina amministrativa invece che semplificarla. Chiederei regole generali certe, ma più autonomia nell’azione volta a dare risposte alle aspettative della nostra comunità, anche e soprattutto al fine di invertire la rotta dello spopolamento e dell’abbandono della montagna».

«La liberazione delle acque italiane è iniziata così, nel cuore sismico del Paese, nel punto in cui il Sangro, sceso dalle balze del Parco nazionale d’Abruzzo, curva verso l’Adriatico sotto le montagne del Molise». Se a dirlo è Paolo Rumiz allora possiamo crederci per davvero. (Il progetto di rinaturalizzazione in sintesi).

L'impiego diseguale delle regole è uno degli strumenti che il potere tirannico adopera per reprimere i tentativi di praticare politiche alternative. L'Italia di Renzi ne è maestra. Il manifesto, 5 novembre 2016

Torniamo a parlare di Riace, un vero miracolo nei progetti ambientali, nel recupero e trasformazione del borgo storico, nell’accoglienza dei richiedenti asilo, come esempio di rinascita della comunità e di risposta lavorativa per tanti giovani. Sempre in prima linea per l’emergenza sbarchi. Riace, segnalato da Fortune, ma ancora prima nel 2010, del World Mayor Prize, Domenico Lucano citato nella classifica dei sindaci fra i 23 finalisti, insieme a sindaci della Città del Messico e Mumbai.

Un esperimento concreto che viene copiato e moltiplicato in altre regioni. Tuttavia, a fronte di un’attenzione internazionale, (in questi giorni sarà presente Tokyo Tv), e l’arrivo di frotte di giornalisti, fotoreporter, filmaker, antropologi, ricercatori, Riace viene preso di mira da burocrazie che mettono in discussione pratiche decennali come l’uso dei cosiddetti bonus. Moneta locale utilizzata fra esercenti che ne accettano il valore simbolico, per ovviare agli storici e perenni ritardi dello Stato nel far confluire nelle casse del Comune i contributi per finanziare i progetti. Il che significa poter garantire l’acquisto dei beni di primissima necessità.

Questi bonus o banconote locali sono state negli anni stampate con immagini di persone vittime della mafia: Peppino Impastato, Rocco Gatto, Gianluca Congiusta, o di liberatori di popoli come Che Guevara, Martin Luther King, Nelson Mandela. L’uso di questi voucher (simili per servizio a quelli usati dalle agenzie di viaggio), funziona ed è servito in questi anni a ridurre drasticamente il malcontento dei richiedenti asilo. Per questo il sistema della moneta locale è stato adottato anche da altri comuni come Camini, Gioiosa Ionica, Stignano, Caulonia, Acquaformosa…

Non si capisce il senso di questo diktat: «Sospendere immediatamente l’uso di questi bonus» giungendo ad ipotizzare di «molteplici reati ascrivibili all’esercizio non autorizzato di tale attività». Uno Stato che ha perso il controllo sulla sua moneta, che si inchina alle cure da cavallo di Bruxelles, e poi fa la voce forte del padrone con dei piccoli Comuni che dovrebbe solo ringraziare dalla mattina alla sera perché sistematicamente si ingegnano per sopperire a carenze pubbliche e tolgono le castagne dal fuoco. D’altra parte è lo stesso governo che non ha preso minimamente in considerazione la proposta di Enrico Grazzini, ed altri valenti economisti e sociologici tra cui l’indimenticabile Luciano Gallino, di mettere in circolazione una moneta fiscale con la garanzia della Cassa Depositi e Prestiti.


Nelle città italiane ed europee, medie e grandi, esiste una via della Zecca in quanto fino al XIX secolo da Palermo a Milano in decine di città si stampava una moneta locale che circolava essenzialmente nel territorio comunale. Era una pratica assai diffusa fin dai tempi dell’impero romano ed ancor prima nelle città-stato greche. Si può dire che da quando è stata coniata la prima moneta (VIII secolo A.c.) hanno spesso convissuto due tipi di monete: in oro ed argento per il commercio con l’estero, in ferro, rame o altro metallo meno nobile per gli scambi in un territorio limitato (come quello di un Comune o di una Signoria o Principato nel Medio Evo). Addirittura in Israele, ma non solo, esisteva il siclo, una moneta sacra che veniva usata esclusivamente per tutte le attività che avevano a che fare col Tempio sacro di Gerusalemme. Non è un caso che nel racconto del Vangelo, quando Gesù scaccia i mercanti dal tempio, si parla espressamente anche di «cambiavalute». Che ci facevano? Non era un territorio straniero. Ma era uno spazio sacro in cui poteva essere usato solo il siclo e nessuna altra valuta.

Con l’avvento delle banche centrali e degli Stati nazionali, progressivamente, vennero eliminate tutte le Zecche Comunali in Italia come nel resto d’Europa. Ma, la storia come sappiamo, non procede linearmente e ciò che sembra appartenere al passato, a volte ritorna in altra forma. Così da una ventina d’anni assistiamo in tutto il mondo a tentativi per reintrodurre, a vario titolo, delle “monete locali complementari” o più esattamente delle “quasi monete”, ovvero strumenti monetari che hanno un grado di liquidità, e quindi di fiducia, leggermente inferiore a quella della valuta ufficiale, ma non per questo non funzionano come mezzi di scambio e di pagamento. D’altra parte, i buoni pasto che enti pubblici e grandi imprese private danno ai propri dipendenti vengono spesso utilizzati per gli acquisti nei negozi o esercizi pubblici (ristoranti ad esempio) convenzionati. E chi è più anziano ricorderà certamente come i gettoni telefonici, oggi spariti, valevano negli ultimi tempi 200 lire e venivano utilizzati proprio come le altre monete metalliche.

Questo accanimento nei confronti dei Comuni della fascia jonica calabrese andrebbe fermato, con una cittadinanza attiva a difesa di quel poco che funziona nel nostro paese. Altrimenti si dovrebbe avere il coraggio di dichiarare illegali i buoni pasto.
«Nel parco Leith Links c’è un gruppo di un centinaio di persone, di tutte le età, che va a coltivare la terra. Thomson Reuters Foundation, Regno Unito». Internazionale.online, 19 settembre 2016 (c.m.c.)

Su un appezzamento di terreno grande un ettaro, nel quartiere settentrionale di Leith, a Edimburgo, Evie Murray cammina tra fiori e verdure coltivati con cura. «Prima quest’area era piena di spazzatura, siringhe e bustine di preservativi». Murray partecipa a Crops in pots, un’iniziativa comunitaria nata nella capitale scozzese, che ha coinvolto centinaia di abitanti impegnati a coltivare zucche, patate, fagioli, bietola, mele, uva spina e perfino un albero di noci.
È uno dei tanti esempi di un’ondata silenziosa ma significativa di riforme che stanno cambiando le regole della proprietà terriera in Scozia, la meno equa dell’Europa occidentale:, perché metà della terra è in mano a 500 persone. Nel 2013 lo Scottish national party (Snp), che guida il governo locale di Edimburgo, si è impegnato in una riforma agraria radicale. L’obiettivo è fare in modo che entro il 2020 più di 400mila ettari di terreni siano di proprietà delle comunità locali. Questa misura è stata varata sullo sfondo di tensioni sempre più forti legate alla presenza di grandi latifondisti, spesso assenti, che esercitano forme di controllo risalenti all’epoca in cui la Scozia era un paese rurale governato da un’aristocrazia terriera.

Eredità aristocratica

Secondo i dati del governo scozzese, i terreni che le comunità locali hanno acquistato dai privati hanno ormai superato un totale di 200mila ettari. Il governo ha più che triplicato i contributi al Fondo scozzese per la terra per aiutare le comunità a comprare, passando da tre a dieci milioni di sterline all’anno.

Nel marzo del 2016 il governo dell’Snp ha approvato la legge di riforma agraria, che ha dato alle comunità la possibilità di forzare la vendita di un terreno a patto di riuscire a provare che in questo modo si favorisce lo “sviluppo sostenibile”. Una delle compravendite più importanti è avvenuta nel dicembre del 2015 e ha riguardato la tenuta di Pairc sull’isola di Lewis, nelle Ebridi Esterne. Una disputa durata dodici anni si è conclusa con la vendita di 11mila ettari alla comunità locale per 500mila sterline.

Secondo gli attivisti le riforme erano necessarie da tempo e il provvedimento di legge non fa abbastanza. Per la ministra per la riforma agraria scozzese Roseanna Cunningham, invece, l’ostacolo più grosso al cambiamento è il grado di coinvolgimento delle comunità. Cunningham sostiene che spesso si esprime un interesse all’acquisto di un terreno solo dopo che è stato messo in vendita, quando ormai è troppo tardi. Ma ammette che anche la legge ha dei limiti: “Ci sono ampie distese di terra che probabilmente non saranno mai vendute, e continueranno a essere trasmesse di generazione in generazione”.

Buona parte delle diseguaglianze nella proprietà terriera in Scozia risale all’ottocento, quando il sistema di eredità della terra in vigore tra gli aristocratici si combinò con una violenta campagna per scacciare i piccoli agricoltori e gli abitanti del luogo per fare spazio ai grandi allevamenti di pecore.

Tenere alta l’attenzione

«La Scozia ha il più bizzarro sistema di proprietà terriera del mondo sviluppato e nessuno ha niente da ridire», sostiene Lesley Riddoch, coordinatrice di Our land, una rassegna di dibattiti e incontri sulla terra. Riddoch ha fatto parte del consiglio di amministrazione dell’isola di Eigg, nelle Ebridi Interne. Eigg fu acquistata nel 1997 dagli abitanti per 1,5 milioni di sterline ed è diventata la prima comunità al mondo ad avere una rete elettrica alimentata completamente a energia solare, eolica e idrica. «Dobbiamo tenere alta l’attenzione su questo argomento», dichiara Riddoch.«La terra in Scozia è meno abbordabile e disponibile che in qualsiasi altro paese europeo».

Lorne MacLeod, presidente dell’organizzazione Community land Scotland, ha dichiarato che affidare la terra alle comunità significa sfruttarla nel modo più vantaggioso. «Le persone si sentono più responsabilizzate», osserva MacLeod, la cui organizzazione rappresenta 69 comunità scozzesi, di cui una quarantina è riuscita ad acquistare dei terreni. Alcune comunità hanno costruito nuovi porti, turbine eoliche e un campo da golf da 18 buche, e reinvestito i guadagni a loro beneficio.

Evie Murray, 39 anni, ha sempre vissuto a Leith. In passato ha lavorato come assistente sociale con i tossicodipendenti, ma dopo la crisi economica del 2008 è stata licenziata. In città era difficile allevare i figli, compresi quelli adottivi, e ancora di più trovare aree all’aperto dove farli giocare. Così ha avuto l’idea di creare un’area comunitaria da condividere con altri genitori e i vicini. Nel 2013 ha contattato il consiglio comunale e ha ottenuto il permesso di usare l’area ai margini del parco Leith Links, anche se l’accordo è suscettibile di cambiamenti ed è di breve durata. Attualmente, racconta, un centinaio di persone, un gruppo eclettico e intergenerazionale, va lì regolarmente per coltivare la terra.

La comunità sta cercando di negoziare un’altra concessione, che riguarda un piccolo edificio presente sul sito, che loro vorrebbero trasformare in un bar, dove usare i prodotti locali. «La terra e la sua disponibilità sono estremamente importanti per la salute delle persone», dice Murray, indicando i coltivatori impegnati a ridere e chiacchierare. «È difficile quantificare l’impatto che possono avere, ma lo potete constatare con i vostri occhi».

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

«La tragedia di Amatrice ha portato alla ribalta i piccoli centri. Cioè la nostra spina dorsale. La nostra ricchezza. La nostra unicità. Ed è da lì che possiamo ripartire. Ecco come». Espresso.it, 16 settembre 2016 (m.p.r.)

Anche chi vive in città, chi vive sulle coste, dovrebbe sentire l’urgenza di politiche alte per le terre alte dell’Italia interna. La questione è l’altezza, lo sguardo verso il futuro. Costruire un grande corridoio ecologico lungo tutto l’Appennino è azione che non si fa in pochi anni, ma è quello che serve. I paesi italiani sono un patrimonio universale. Solo noi abbiamo paesi di mille abitanti che sembrano capitali di un impero. Come si fa a non vedere che la questione dell’Italia è la questione dei paesi?

Per anni ci siamo attardati sulla questione meridionale e invece c’era una storia che riguardava tutta la penisola, era la storia dell’Italia alta, dell’Italia interna, una storia che va da Comiso a Merano. L’Italia ha un asso nella manica, i suoi paesi, e non lo usa. Speriamo che venga fuori con la Strategia Nazionale delle Aree Interne. È una delle poche cose buone avviate dal governo Monti, grazie a Fabrizio Barca, che allora era ministro per la coesione territoriale. Ora quel ministero non esiste più, ma Barca ha comunque fatto in tempo ad avviare un complesso meccanismo che attualmente coinvolge 66 aree selezionate in tutta Italia (circa mille comuni e 2 milioni di abitanti). La Strategia Nazionale, attualmente guidata da Sabrina Locatelli, impegna una serie di giovani tecnici molto preparati e molto motivati, e vede tutt’ora impegnato Barca in veste di consulente a titolo gratuito.

L’assunto è che l’Italia interna non è un problema, ma una mancata opportunità per il paese. La missione è fermare l’anoressia demografica dando forza ai servizi essenziali di cittadinanza: scuola, sanità, trasporti. A questa base si aggiungono le azioni di sviluppo locale che in tutte le regioni hanno come fuoco centrale il valore dell’agricoltura e del paesaggio. Si parla da più parti di accesso alla terra da parte dei giovani, ma le pratiche concrete sono ancora poche. A volte i gruppi di base sono più avanti delle istituzioni.

Due buoni esempi vengono dalla Puglia: La Casa delle Agriculture nel Salento e l’esperienza di Vazapp nel foggiano. Ma ce ne sono in tutte le regioni: fare in modo che si incrocino e lavorino assieme è uno degli obiettivi della Casa della paesologia, un’esperienza che mette insieme tante persone che incontro nei miei giri nell’Italia interna.

C’è bisogno di un grande investimento dello Stato per mettere in sicurezza le case fragili delle zone altamente sismiche. L’articolo 42 della Costituzione andrebbe inteso sempre più nel senso di garantire la funzione sociale della proprietà. In altri termini i palazzi dell’Italia interna non utilizzati dai proprietari dovrebbero diventare beni comuni. Bisognerebbe parlare di scuole di montagna. Bisognerebbe riflettere sul valore di tutta una serie di mestieri che vanno perdendosi. La Strategia Nazionale ha previsto di realizzare in Basilicata una Scuola della pastorizia. L’ottica è quella di rendere attrattiva l’Italia considerata più marginale. Ma ovunque ci si scontra con una burocrazia troppo lenta e con una politica dal fiato corto, attratta dalle azioni che fanno notizia e dai territori dove ci sono molti elettori.

L’Italia dei paesi ha bisogno di un approccio radicalmente ecologista. Seguire più la lezione di San Francesco che quella dei santoni della finanza. Forse è arrivato il momento di rendersi conto che è andato in crisi il paradigma meccanicista-industrialista che pensava i luoghi come inerti supporti della produzione di merci. Ripartire dai luoghi significa ripartire da un patrimonio di biodiversità straordinario. Da questo punto di vista non parliamo di luoghi della penuria, ma di luoghi della ricchezza. E lo stesso vale per la sociodiversità.

Questo approccio ovviamente non può eludere il binomio mercato e lavoro. I paesi italiani se non ricevono domande non hanno lavoro e senza lavoro il territorio deperisce. Si può immaginare che i paesi saranno oggetto di domanda e dunque di lavoro per via della loro diversità. Pensiamo che oggi ci sia un bisogno di diversità. Il lavoro cruciale è dare fiducia, portare nei luoghi le persone che fanno buone pratiche. Forse è il momento giusto per coagulare, per dare coesione, per mettere assieme ciò che per troppo tempo è rimasto isolato e disperso.

Ci vuole un’idea di sistema. Nei prossimi anni ci sarà un ritorno ai paesi e alla campagna. Il lavoro da fare è dare forza a questa tendenza che è già in atto, è mettersi alle spalle l’idea che i paesi sono destinati a morire. Quella dei paesi in estinzione è una bufala mediatica. In Italia non è mai morto nessun paese. Si sono estinte piccole contrade, ma i paesi non sono mai morti, al massimo sono stati spostati a seguito di terremoti o frane. Se l’Italia dei paesi non esce dal clima depressivo è destinata all’insuccesso qualunque strategia. La prima infrastruttura su cui lavorare è di tipo morale, è l’infrastruttura della fiducia: è il ragionameno da cui parte la festa della paesologia ad Aliano, una festa che mette insieme il meglio delle arti e dell’impegno civile al servizio delle piccole comunità e del mondo rurale, in conflitto con le vecchie equazioni: mondo rurale-mondo arretrato.

È importante dare alla parola “contadino” un prestigio che non ha mai avuto, riportandola all’antica funzione di custode del territorio, oggi più attuale che mai, soprattutto in prospettiva futura. Pensiamo agli artigiani del cibo, proprio per sottolineare la cura con cui si coltivano e si trasformano i prodotti. Il cibo che unisce bontà e qualità terapeutiche. È il lavoro che sulla scia di Slow Food fanno tanti. Mi piace segnalare Peppe Zullo sui monti della Daunia e Roberto Petza che in Sardegna utilizza e rielabora i prodotti del territorio e della tradizione e li ripropone in forme originalissime. A Siddi si fa non solo ristorazione di respiro internazionale ma anche attività di formazione delle nuove generazioni rieducando al cibo e al gusto le persone attraverso una microfiliera locale del vino, dei formaggi, degli ortaggi e dei salumi.

Una buona pratica per i nostri paesi è lo sblocco dell’immaginazione. In fondo la tradizione è un’innovazione che ha avuto successo. Troppo spesso nei piccoli paesi si ha paura di essere visionari, come se questo ci potesse assicurare un giudizio di follia da parte degli altri. Urge anche nelle stanze della politica la presenza dei visionari che sanno intrecciare scrupolo e utopia, l’attenzione al mondo che c’è con il sogno di un mondo che non c’è.


Franco Arminio è poeta, scrittore e documentarista. Anima il blog 
Comunità Provvisorie e ha fondato la Casa della Paesologia

A Roma, durante il mandato del sindaco Marino, sono state gettate le basi di un programma ambizioso e concreto. Vi spieghiamo di che si tratta e perché, per il bene della città, occorre proseguire con la stessa determinazione.

Resilienza è una bella parola

Resilienza è l’ennesimo termine dal significato indeterminato, ripreso dal lessico internazionale, che riscuote grande successo in campo urbanistico. Il fastidio legato all’abuso modaiolo non deve alimentare un pre-giudizio negativo. La parola resilienza descrive una mirabolante capacità del mondo naturale e della psicologia umana: rispondere alle pressioni continue (stress cronici) e alle crisi improvvise (shock acuti) con un misto di adattamento e apprendimento. Come non provare interesse verso i meccanismi che consentono agli esseri viventi di rialzarsi più forti di prima?
Riferito alla città, l’attributo resiliente esprime la capacità di rispondere all’esasperazione dei rischi ambientali e alle conseguenze di fenomeni naturali sempre più estremi. Rendere la città più resilienti è un compito urgente e necessario, se vogliamo offrire qualche opportunità alle nuove generazioni, verso le quali – in tutta onestà – non abbiamo finora dimostrato grande empatia.

La resilienza delle città è legata alla capacità di prepararsi al futuro, governando le trasformazioni e non subendole passivamente. Seppure indispensabili, piani e regolamenti non bastano, come troppe volte abbiamo constatato. Servono investimenti mirati, di risorse economiche e di saperi, per riorganizzare la macchina amministrativa, per favorire la comunicazione tra cittadini e istituzioni, per mobilitare energie e intelligenze collettive.

Per una volta, Roma potrebbe essere di esempio per le altre città italiane. Alla fine del 2013, una proposta presentata dall’Assessorato alla Trasformazione Urbana è stata selezionata fra le prime 33 partecipanti a un programma internazionale interamente finanziato dalla Rockefeller Foundation, grazie al quale Roma può essere la prima grande città italiana a dotarsi di una strategia per la resilienza.

Comprendere i problemi per trattarli diversamente

Quale città al mondo può dirsi più resiliente di Roma, protagonista come nessun’altra di grandi ascese e cadute rovinose? Il rapporto di valutazione preliminare spiega quanto sia consolatorio e ingannevole questo luogo comune.

Oltre 400 soggetti attivi nella città (imprese, associazioni, istituzioni) sono stati consultati per ricostruire un quadro attendibile della situazione attuale. In estrema sintesi, possiamo dire che, col passare degli anni, Roma è diventata sempre più estesa, diseguale e vulnerabile. Di conseguenza, i suoi “asset critici” (le reti infrastrutturali, i servizi e lo straordinario patrimonio culturale) faticano a reggere nelle condizioni ordinarie e sono sempre più esposti agli eventi straordinari. Non per caso, i disservizi sono particolarmente frequenti e i loro effetti sono amplificati dalle fragilità del sistema, ripercuotendosi con particolare severità sulle fasce sociali più deboli. Rischi ambientali sistemici e disagi sociali cronicizzati fanno sì che la proverbiale capacità di adattamento dei cittadini romani, sostenuta dal loro cinico disincanto, non basti più per fare di Roma una città resiliente.

Fin qui, si tratta di cose note che il rapporto, meritoriamente, ricapitola con chiarezza e rigore. Il cuore del documento, però, è costituito dalle indicazioni sui possibili rimedi.

Mentre in natura la complessità costituisce un fattore di ricchezza e di forza, a Roma si traduce in complicazione e in de-responsabilizzazione: l’intrico di competenze è tale che ciascuno si sente legittimato a dichiarare la propria impotenza di fronte ai problemi. E allora è proprio da qui che occorre partire, dal modo in cui si deve governare un sistema complesso, per metterlo in grado di reagire alle turbolenze prodotte in un contesto, ambientale ed economico-sociale, in continuo mutamento. Il rapporto fornisce una vera e propria “rimappatura” dei problemi, evidenzia i numerosi punti di forza sui quali fare leva e individua cinque aree prioritarie di intervento: territori e connessioni (per migliorare il benessere quotidiano), persone e capacità (per ingaggiare gli abitanti), governance, partecipazione e cultura civica (per sostenere le iniziative da intraprendere), risorse e metabolismi (per utilizzare al meglio ciò che esiste nella città), sistemi, patrimoni e reti (per progettarli e gestirli tenendo conto delle fasi di crisi). Per ogni area sono indicate sette domande alle quali gli stakeholder, nella seconda fase del programma, dovrebbero rispondere per costruire la vera e propria strategia, ridefinire l’agenda e il contenuto delle politiche pubbliche e riorganizzare di conseguenza la macchina amministrativa.

Dalle retoriche ai fatti

Come fare per conciliare ambizione e concretezza? Come costruire un programma così impegnativo e di lungo respiro e, allo stesso tempo, fornire risposte tangibili in tempi ragionevoli? Alessandro Coppola, responsabile del progetto fino all’interruzione forzata dell’amministrazione guidata dal sindaco Ignazio Marino, ci fornisce alcune indicazioni sui progetti e i partenariati a cui si stava lavorando.

Aumentare la consapevolezza sugli stress cronici e gli shock improvvisi. Per generare un’azione pubblica di qualità e durevole nel tempo, occorre avere un buon sistema di conoscenze, continuamente alimentato, e di libero accesso. Si possono e si devono costruire partenariati virtuosi con i molti istituti che, a Roma come nel resto d’Italia, si occupano di ricerca ambientale e prevenzione dei rischi.

Prepararsi al futuro significa non rinunciare a guardare lontano… Tutte le più importanti città del mondo si occupano di ambiente attraverso piani e programmi di lungo termine. Anche in Italia, si deve e si può fare lo stesso. In particolare, le città metropolitane devono dotarsi di un piano strategico: quale occasione migliore di questa?

… e adoperarsi subito per aprire le nuove strade. I cambiamenti radicali si conquistano attraverso progetti-pilota che producono effetti positivi nel breve termine e indicano nuovi percorsi di più lungo respiro. I fondi della programmazione europea 2014-2021 possono essere utilmente orientati a questo scopo, rinunciando a progetti di concezione otto-novecentesca, costosi da realizzare e mantenere e di elevato impatto territoriale, in favore di infrastrutture leggere (verdi, blu e immateriali), più efficienti ed efficaci.

Uscire dai recinti sclerotizzati delle politiche di settore. Per essere efficaci, le politiche pubbliche devono essere sostenute da un’organizzazione adeguata della struttura amministrativa. La portata delle questioni da affrontare e l’esigenza di coordinamento e integrazione richiedono un coinvolgimento al massimo grado delle istituzioni e, come primo passo, l’istituzione di una cabina di regia più alto livello dell’amministrazione cittadina.

Ingaggiare la cittadinanza. Scambiare informazioni utili per assumere le decisioni, ingaggiare gli stakeholders e i change-makers nella definizione di progetti condivisi che favoriscano nuove economie di impresa e producano valore sociale e ambientale, coinvolgere i cittadini lungo il percorso di ideazione e realizzazione delle iniziative. Come dimostrano gli straordinari progressi compiuti attorno al ciclo dei rifiuti, non si tratta di un’utopia, ma di comportamenti virtuosi ampiamente sperimentati.

E ora?
La pubblicazione del rapporto di valutazione preliminare chiude la prima fase del programma. Ora viene la parte più difficile. Senza tanti giri di parole, con il commissariamento il programma ha perso visibilità e ci sono forti possibilità che il lavoro venga normalizzato e ricondotto nell’alveo degli ininfluenti prodotti da convegno. Sarebbe un’occasione persa, per i romani soprattutto. Alla parte più avveduta della città, ai movimenti e alle associazioni che si battono per un cambiamento netto e duraturo, chiediamo di leggere attentamente il rapporto e di formulare richieste precise ai futuri amministratori. Roma, per essere resiliente devi impegnarti per davvero: conviene soprattutto a te.

Nota. Nel sito del comune, sono disponibili i documenti e tutte le informazioni sulle iniziative promosse nella prima fase di Roma Resiliente.

Una rassegna delle questioni affrontate e delle molte iniziative avviate in relazione a una delle principali sfide di resilienza emerse - quella del cambiamento climatico - è contenuta in questo articolo di Alessandro Coppola, disponibile on-line su Gli stati generali.

Si parla di Roma Resiliente nell’iniziativa Conversazioni su Roma, organizzata dall’Università di Roma Tre

«Intendiamo produrre conoscenza, non apparenza, perché solo il rigore dello studio e della ricerca e l’applicazione costante al lavoro possono portare a uno sviluppo coerente e sostenibile, verificabile in itinere e, perciò, correggibile». La Repubblica, ed. Firenze, 28 gennaio 2016

L’intervento di Tomaso Montanare coglie nel segno. Pistoia non è e non sarà la riproduzione miniaturizzata di se stessa nei gadget delle bancherelle e nei souvenir turistici. È una città apasso d’uomo, dalle antiche origini contadine, che ancora si riconoscono nel suo carattere riservato e persino introverso. Pur integrata nell’area metropolitana che arriva sino a Firenze, Pistoia ha preservato – grazie anche all’eccellenza produttiva del vivaismo – il confine tra il tessuto urbano e la campagna, quel limite che fonda e costituisce la città.

Ci siamo candidati convinti che una comunità, per promuovere se stessa, non debba presentarsi diversa da com’è, ma valorizzare le proprie caratteristiche e peculiarità: i progetti presentati sono il frutto di un lavoro intenso e spesso silenzioso che ha unito ed appassionato le tante anime della città. Abbiamo concorso non per trasformarci in un conglomerato fluttuante di turisti chiassosi e scomposti, ma perché orgogliosi di poter mostrare le nostre ricchezze e i nostri progetti. Intendiamo produrre conoscenza, non apparenza, perché solo il rigore dello studio e della ricerca e l’applicazione costante al lavoro possono portare a uno sviluppo coerente e sostenibile, verificabile in itinere e, perciò, correggibile.

Siamo convinti che il sapere e la cultura siano i primi e più significativi fattori per l’emancipazione di tutti gli umani, lievito per la crescita e la formazione di cittadini liberi e consapevoli, di cittadini democratici: la cultura come diritto di cittadinanza. Per questo, la cultura, in tutte le sue espressioni, costituisce la fonte ispiratrice di ogni nostra azione politica e di governo.

Per questo, il lavoro di restauro e recupero del patrimonio storico-artistico è stato ed è impegno prioritario per l’amministrazione: abbiamo già restituito alla città la chiesa di Santa Maria del Soccorso, il Chiostro di San Lorenzo, a breve recupereremo Sant'Jacopo in Castellare, la Saletta Gramsci, l’antica chiesa di San Salvatore e San Pier Maggiore. Il progetto di rigenerazione del Ceppo, che ci vede impegnati al fianco della Regione Toscana e dell’Asl, vedrà l’intera area monumentale del vecchio ospedale passare in proprietà al Comune di Pistoia, trasformata nel più importante polo museale cittadino. Qui sorgerà anche la Casa della Città, un urban-center che diventerà il cuore pulsante della partecipazione attiva dei pistoiesi alla vicenda pubblica.

La città è il primo dei beni che abbiamo in comune, spazio pubblico e luogo di esercizio diffuso della democrazia. Per assicurarne la cura è indispensabile una comunità partecipe e vigile, aperta e curiosa del mondo, che non cessi di interrogarsi sul proprio futuro. Per questo diamo vita ogni anno ad un appuntamento di riflessione critica sulle trasformazioni urbane, che consente anche una costante verifica dell’azione dell’amministrazione, leggere la città, nel corso del quale saremmo lieti di poter accogliere le stimolanti riflessioni di Tomaso Montanari, preziose anche per il lavoro che ci attende da qui al 2017.

In Italia ci sono ancora popolazioni che protestano quando si vuole seppellire di cemento l'antico paesaggio nel quale si riconoscono, e combattono uniti contro il governatore che vuole abbattere il vincolo ambientale. La Repubblica, 29 ottobre 2015

Gli ultimi erano stati i Longobardi e i Bizantini: era dal VI secolo dopo Cristo che nel Contado di Porta Eburnea non si combatteva una battaglia altrettanto carica di futuro. Siamo a sei chilometri a sud-ovest di Perugia, tra le valli dei fiumi Caina, Genna e Nestore, in un territorio di bellezza spettacolare: centoventi chilometri quadrati di paesaggio intessuto di monasteri, torri, ville, piccoli borghi medioevali. L’Italia: al suo meglio. Quella che diresti che ormai non c’è più. E che invece resiste: almeno fino a quando lo consentiremo.

È un storia remota, quella che ha imposto al Contado la sua omogeneità culturale e visiva: è il 570 dopo Cristo quando i Longobardi non riescono a sfondare la linea delle fortificazioni di Narni, Amelia, Todi, Perugia e Gubbio. Si forma così il cosiddetto Corridoio Bizantino, che per quasi due secoli continuerà a connettere Roma a Ravenna, un resto di Italia romana sempre più accerchiata dai ducati longobardi. Nel 593 i Bizantini arrivano fino a creare un lago artificiale, che possa fermare l’avanzata dei “barbari”. Ed è in questa resistenza — militare e culturale — che affonda le sue radici l’immagine di questa parte d’Umbria: perché, intorno all’anno Mille, le numerosissime strutture difensive che punteggiavano quella parte di Corridoio Bizantino divennero altrettanti luoghi di abitazione e lavoro per i monaci benedettini. La Grangia di Monticelli fu un’enorme azienda agricola monastica, che fece subentrare le ragioni dell’economia rurale e della preghiera a quella della guerra. Cosa quasi miracolosa, gli ultimi mille anni (e soprattutto gli ultimi cento) non hanno cambiato le cose più di tanto, permettendo a Perugia di conservare (almeno su questo lato) ciò che un tempo era il vanto di ogni città italiana: il dolce trapasso tra il tessuto urbano e la campagna.
Come scriveva Carlo Cattaneo nel 1858, «la città formò col suo territorio un corpo inseparabile»: una realtà che, mezzo millennio prima, il Buon governo affrescato a Siena da Ambrogio Lorenzetti aveva rappresentato con la forza delle immagini.

Ma come in tutte le favole, ad un certo punto arriva una strega cattiva: e la strega in questo caso si chiama speculazione edilizia. Perugia si espande, e sposta i suoi ospedali proprio verso il Contado. E nel cuore di quest’ultimo si cominciano a costruire complessi edilizi di cinque piani tra viali di tigli e ville storiche (sul crinale tra Pila e Badiola), si progettano strade a scorrimento veloce, si creano nuovi paesi di cemento accanto a borghi medioevali spopolati (115.000 metri cubi a San Biagio della Valle).

È a questo punto che i cittadini del Contado insorgono. Nel gennaio 2010 otto associazioni nate dal basso, comuni cittadini, proprietari di dimore storiche chiedono al Ministero per i Beni culturali di dichiarare che la salvaguardia del Contado di Porta Eburnea è di particolare interesse pubblico: in pratica, chiedono di vincolarlo, cioè di salvarlo prima che sia troppo tardi. Una volta tanto, lo Stato c’è, esiste, risponde. Dopo lunghe battaglie, e a prezzo di molti compromessi ( l’area da difendere scende da 110 a 58,5 km quadrati), nel maggio di quest’anno il vincolo arriva. Tutto bene, dunque? Per niente: come in un film dozzinale, la strega apparentemente morta si rialza, più cattiva di prima. E, paradossalmente, la strega ha ora il volto della Regione Umbria e del Comune di Marsciano: i quali, invece di essere felici per la salvezza del loro stesso territorio, hanno deciso di ricorrere al Tar per annullare il vincolo.

Non è un episodio isolato: insieme alla Liguria di Toti, l’Umbria di Catiuscia Marini è forse la regione oggi più amica del cemento. Basti dire che nel marzo scorso il governo Renzi (non propriamente verde: si ricordi lo Sblocca Italia) ha deciso di impugnare davanti alla Corte Costituzionale il Programma Strategico Territoriale dell’Umbria, che pretenderebbe di sottoporre ab origine il Piano del Paesaggio alle esigenze dello sviluppo, in una specie di condono preventivo tombale. Ma c’è di peggio: la giunta regionale è arrivata a confezionare un dossier di 34 pagine (si trova sul web) per chiedere al ministro Franceschini di rimuovere il soprintendente Stefano Gizzi, colpevole di fare il suo mestiere, cioè di difendere il territorio. Nel dossier si legge che il vincolo del Contado di Porta Eburnea osa imporre - udite udite - prescrizioni «molto dettagliate e restrittive, e di forte impatto sulla pianificazione urbanistica di livello comunale». Un vincolo che vincola: quale oltraggio!

Naturalmente, l’argomento principe della Regione è l’eterna equazione cemento= lavoro. Ed è esemplare che a smentire questa visione insostenibile e suicida dello sviluppo siano stati i lavoratori umbri dell’edilizia, che nel pieno della battaglia per il Contado hanno diffuso un documento in cui dicono che dalla crisi del settore (pesantissima: dal 2009 al 2014 le imprese edili umbre sono scese da 4.548 a 2.838, e le ore lavorate da 20 a 10 milioni) si esce «limitando il consumo di territorio », e invece «puntando al recupero, alla difesa del territorio, del paesaggio e del patrimonio storico-artistico-culturale, alla riqualificazione urbana, all’efficientamento energetico, alla messa in sicurezza delle scuole e di tutti gli edifici pubblici». Una bella lezione di lungimiranza, concretezza e responsabilità.

A giorni le associazioni di cittadini che difendono il Contado di Porta Eburnea depositeranno una diffida al Comune ed alla Regione, con l’invito a ritirare il ricorso contro il vincolo, in autotutela. Una copia della diffida sarà inviata alla Corte dei Conti chiedendo che, se il Tar rigetterà il ricorso, i consiglieri comunali e regionali paghino le spese di giudizio di tasca propria. Come dire: se proprio volete distruggere il paesaggio italiano, almeno non fatelo a spese nostre.

«Baratti, Populonia, Bondeno, Sepino, nomi che non avranno la fama degli Uffizi o di Brera. Eppure in realtà sparse (soprattutto al Sud) sopravvive un modo sorprendente di gestire il patrimonio, un modello vincente». La Repubblica, 26 agosto 2015

TUTTI parlano dei venti supermusei, e delle nomine (per me assai discutibili) dei superdirettori appena fatte. D’accordo: gli Uffizi, Brera, la Galleria Borghese o l’Archeologico di Napoli sono la punta di diamante del nostro patrimonio artistico: ma è bene ricordare che ne conservano una percentuale minima. Sono gli organi pregiati di un corpo le cui cellule sono le infinite, piccole istituzioni culturali che innervano la Penisola. E guardare alle microstorie del patrimonio significa trovare, lontano dai riflettori, storie di successo: buone pratiche del tutto trascurate dalla macchina politico-mediatica, ma non dai visitatori.

Un esempio? Il Parco Archeologico di Baratti e Populonia comprende una delle necropoli più belle del mondo: i tumuli dei signori etruschi di duemilacinquecento anni fa spuntano come grandi funghi verdi sul prato che degrada fino al mare, da cui sorgono le sagome delle isole dell’Arcipelago toscano. Chiude la scena l’acropoli di Populonia, la grande città del vino e del metallo: il ferro che, estratto all’Elba, veniva qua lavorato su scala industriale. Tutto questo non sarebbe accessibile, materialmente ed intellettualmente, senza una delle strutture museali più avanzate e consapevoli dell’Italia di oggi. Trentotto dipendenti — archeologi, restauratori, archivisti, geologi, naturalisti e guide — fanno girare una macchina che comprende anche un Centro di Archeologia Sperimentale capace di fare innamorare adulti e bambini. Tutto è curato nei minimi dettagli: fino agli oggetti che si possono comprare nella libreria, realizzati da artigiani locali in materiali ecocompatibili, fino alla pasta trafilata al bronzo, ricavata da vecchi semi autoctoni di grano recuperati e studiati.

Un parco archeologico sostenibile, con una rigorosa certificazione ambientale: perché l’educazione degli italiani del futuro sia a tutto tondo. E il modello di governance non è meno interessante. La Società Parchi di Val di Cornia è stata costituita nel 1993 per iniziativa dei comuni di Piombino, Campiglia Marittima, San Vincenzo, Suvereto e Sassetta, e di alcuni soci privati. Questi ultimi non puntavano a un profitto diretto, ma alla partecipazione ad un processo di valorizzazione del territorio che avrebbe dato più valore anche alle loro imprese. E, attraverso la gestione dei parcheggi e delle aree litoranee presenti nel suo territorio, la Società ha raggiunto nel 2007 il pareggio di bilancio, con 90.000 presenze all’anno. Più a nord, nel comune ferrarese di Bondeno, è stato il terremoto a favorire un’esperienza unica. A Pilastri è venuto alla luce un villaggio dell’età del Bronzo (una cosiddetta terramara), e si è iniziato uno scavo originalissimo: perché è aperto a tutti, raccontato passo passo sui social e su YouTube, visitato assiduamente da scolaresche che partecipano ai laboratori. Un’operazione così popolare che Comune e Provincia hanno deciso di investire: da lì e da un crowdfunding derivano i fondi per pagare la cooperativa di giovani archeologi e paleozoologi che scavano e organizzano i laboratori. Questa comunità scientifica dichiara di avere «un importante obiettivo sociale, oltre che scientifico, quello di condividere il più possibile l’esperienza di scavo col pubblico, in modo da far sì che il passato rimesso in luce dall’archeologia sia percepito come una realtà attuale e condivisa; come parte integrante di una identità sempre di più collettiva e, al tempo stesso, come nuova potenziale risorsa e prospettiva di sviluppo ». Una filosofia “civile” che, a scavo terminato, potrà ispirare il Museo Archeologico Ferraresi di Stellata di Bondeno, che accoglie già i reperti delle campagne precedenti.

In Molise, invece, è stato un accordo tra ministero per i Beni culturali (che mette a disposizione gratuitamente istituti e luoghi della cultura e spazi per le attività di accoglienza), Regione, Università e Cnr a far sorgere un’associazione di giovani laureati in archeologia e storia dell’arte capaci di “valorizzare”’ (ma nel senso autentico di “far conoscere”)luoghi come lo spettacolare Museo del Paleolitico di Isernia (costruito su uno dei siti preistorici più importanti del mondo, dove è possibile conoscere meglio che in qualunque altro luogo d’Italia la vita dell’uomo circa settecentomila anni fa) o la struggente area archeologica di Sepino.

Me.Mo Cantieri Culturali non dipende da contributi pubblici, ma si è messa sul mercato partecipando a concorsi regionali, nazionali o europei per il finanziamento dei propri progetti: una sorta di impresa popolare della conoscenza, che crea lavoro educando al patrimonio in modo innovativo.

Se, infine, a Catania è finalmente accessibile l’enorme cittadella barocca del Monastero di San Nicola, resa immortale nelle pagine dei Viceré di Federico De Roberto, è merito di Officine Culturali, una cooperativa della conoscenza fondata nel 2009 da alcuni laureati del Dipartimento di scienze umanistiche, che ha sede proprio lì. Questi giovani ricercatori ancora in formazione hanno investito le loro conoscenze, il loro tempo e il loro denaro per raggiungere due obiettivi: far conoscere il Monastero alla comunità (locale e universale) nel modo più accessibile e partecipato (per esempio attraverso un’editoria di qualità e un itinerario impeccabile e avvincente), e creare nuovi posti di lavoro e nuove professionalità. Anche grazie alla stretta collaborazione con il Dipartimento, la Soprintendenza e il Parco Archeologico di Catania, ci sono riusciti: 40mila persone hanno già potuto conoscere un luogo chiave per la storia della città, e lo stesso monumento viene progressivamente recuperato in parti finora chiuse, o degradate.

Se l’amministrazione catanese sarà lungimirante, anche il Castello Ursino e il suo museo potrebbero presto rinascere grazie all’opera di Officine Culturali, ampliando così il raggio di questa piccola economia virtuosa che crea lavoro creando conoscenza.

Si potrebbero citare molti altri casi, radicati soprattutto al Mezzogiorno (in parte analizzati in Sud Innovation. Patrimonio culturale, innovazione sociale, nuova cittadinanza, Franco Angeli editore, a cura di Stefano Consiglio e Agostino Riitano) e molto lontani dai supermusei: perché qua non c’è ombra del monopolio dei concessionari for profit che tengono in mano gli Uffizi o il Colosseo; perché siamo lontanissimi dalle ingerenze del potere politico centrale; perché l’obiettivo non è la spettacolarizzazione, ma l’educazione; il metodo non è la mercificazione, ma la ricerca; il destinatario non è un cliente, ma il cittadino.

Tutte cose belle, direte, ma troppo piccole per avere a che fare con i grandi musei. Sbagliato: nel Parco Archeologico di Baratti lavorano nove archeologi, cioè ben tre in più dei sei che cercano di tenere in piedi l’immenso Museo Archeologico di Napoli. Se vogliamo che i nostri musei non siano depositi di cose vecchie, ma laboratori di futuro, la loro importanza si deve misurare sulla vitalità della comunità che ci lavora. Baratti, Bondeno, Isernia e Catania funzionano perché sono pieni di giovani ricercatori entusiasti: i venti supermusei di cui tutti parlano sono invece ormai scatole vuote, presidiate da pochi anziani funzionari umiliati da decenni di cattiva politica. È questo che dobbiamo cambiare, se vogliamo una rivoluzione vera.

«Mentre noi combattiamo per salvare ogni singolo metro quadro di verde, un pezzo del nostro Dna, la Regione sta studiando un’inutile bretella da Vigevano a Malpensa da 200 milioni che distruggerebbe tutto il nostro lavoro passando in mezzo al territorio comunale». La Repubblica, 18 novembre 2014 (m.p.r.)

Cassinetta di Lugagnano (Milano). Superficie: 3,32 chilometri quadrati. Posizione: 45°25’27’’ Nord, 8°54’31’’ Est. Sulla mappa dell’Italia martoriata da alluvioni e frane dove ogni secondo (dati Ispra) spariscono 8 metri quadri di verde, c’è un fazzoletto di terra che — come il villaggio di Asterix in Gallia — resiste all’assedio della speculazione e alla sirena del Bancomat degli oneri di urbanizzazione: Cassinetta di Lugagnano, il primo Comune del Belpaese a consumo di suolo zero. Un borgo con 1.900 abitanti sulle acque limpide del Naviglio Grande, a una trentina di km. da Milano, dove dal 2007 il cemento è off-limits (o quasi) e dove è vietato cambiare la destinazione d’uso dei terreni da agricoli a edificabili. «Con il risultato che da allora — garantisce al bancone del bar della cooperativa locale Angelo Trezzi, simpaticissimo pensionato e volontario della Croce Azzurra — la qualità della vita è migliorata per tutti».

L’arma con cui Cassinetta ha costruito la sua «resistenza virtuosa » (copyright di Paolo Pileri, professore al Politecnico di Milano e membro del Centro ricerca del consumo di suolo nazionale) è semplice: non la bevanda magica di Panoramix, ma un Piano di gestione del Territorio (Pgt) varato sette anni fa dall’allora sindaco Domenico Finiguerra con un approccio rivoluzionario: stop alle nuove costruzioni. E via a un piano di sviluppo sostenibile in cui i campi continuavano a essere utilizzati per l’agricoltura e le case — se mai ne fossero servite di nuove — «sarebbero state ricavate sfruttando il patrimonio inutilizzato», come racconta l’attuale primo cittadino Daniela Accinasio, allora membro della giunta.
Il “se” non è una congiunzione a caso. «Per decenni i Comuni italiani hanno dato via libera a milioni di metri cubi di volumetrie solo per compensare a colpi di oneri di urbanizzazione i tagli dei trasferimenti dello stato», dice Pileri. E l’eredità di questa scelta — oltre a migliaia di villette a schiera, uffici e appartamenti sfitti o abbandonati da costruttori falliti — è il dissesto idrogeologico (un ettaro di suolo non urbanizzato trattiene 3,8 milioni di litri d’acqua) cui ci stiamo drammaticamente abituando in queste settimane. Cassinetta, prima di cementificare a pioggia, ha fatto i compiti a casa: «Abbiamo analizzato il trend della nostra popolazione — ricorda Accinasio — e da subito abbiamo capito che il fabbisogno di nuove case era limitatissimo ». Il Comune ha rinunciato così a faraonici progetti di mini-cattedrali nel deserto destinati a rubare spazio al verde. E per i nuovi arrivati in città ha ricavato 25 appartamenti restaurando la splendida villa settecentesca Clari Monzini e qualche altra unità abitativa sistemando un paio di antichi granai.
«Siamo un paese agricolo, abbiamo un’identità culturale e architettonica importante. Che senso ha costruire se non ne hai la necessità, mettendo a rischio geologicamente il territorio?», spiega il sindaco. Domanda retorica, qui lungo il Naviglio, visto che delle trenta villette a “stecca” costruite in paese negli anni ‘90 «solo dieci, per dire, sono oggi abitate ». Il piano Finiguerra ha fatto bene pure alla campagna: «Le aziende agricole della nostra zona non sono state costrette a cedere i terreni alla speculazione — continua Accinasio — si sono riconvertite al biologico. Così oggi hanno dimensioni che consentono loro di mantenere competitività.
«Cassinetta in questo è una mosca bianca», ammette Pileri. «Viviamo in una nazione che si mangia settanta ettari di verde al giorno (qualcosa come 100 campi da calcio) solo perché pensa che l’edilizia sia l’unico volano di sviluppo». «E la stragrande maggioranza dei Comuni utilizza da decenni il mattone per far cassa, senza pensare alla salvaguardia del territorio» conferma Damiano di Simine di Legambiente Lombardia. La storia di Cassinetta dimostra però che a volte essere virtuosi paghi. «Negli anni d’oro gli oneri di urbanizzazione valevano fino a 700mila euro su 2 milioni di entrate del nostro bilancio», dice Accinasio. Oggi sono solo qualche migliaio di euro. «Per questo abbiamo dovuto imparare a far di necessità virtù, facendo quadrare i conti senza il bonus-villetta ben prima della crisi edilizia che ha colto alla sprovvista molti altri enti locali». Come? Riducendo al minimo le spese (il sindaco ha 460 euro di stipendio, non ci sono consulenze e solo l’ufficio tecnico ha un telefonino a disposizione) e diversificando le entrate: «A esempio organizzando matrimoni e cerimonie nelle ville che abbiamo restaurato recuperando un altro pezzo della nostra identità», spiega il primo cittadino.
Piccoli esempi di pragmatica economia domestica, magari possibili solo in un Comune piccolo come questo. Il risultato è che alla fine — malgrado il “no” al cemento — il bilancio municipale (e non solo quello ambientale) è in attivo. Finiguerra ha lasciato ad Accinasio un conto in banca con diverse decine di migliaia di euro e oggi il saldo è positivo per 600mila. Soldi che «non possia-mo toccare», dice amaro il sindaco, per i tortuosi meccanismi del patto di stabilità.
L’oasi di Cassinetta però — come il villaggio di Asterix — è assediata e non dorme sonni tranquilli. La lobby delle costruzioni nel Belpaese, proprio perché ferita dalla crisi, è più viva che mai. E proprio in queste ore e in una Lombardia che piange le vittime da cementificazione, divampa la polemica sulla nuova legge del consumo del suolo regionale in discussione oggi al Pirellone. «L’obiettivo è il consumo zero come a Cassinetta — dice Di Simine — . Peccato ci sia un interregno di tre anni in cui i costruttori potranno accaparrarsi i progetti già pianificati». «Questa norma è un attacco al paesaggio e spalanca la strada al consumo di altri 55mila ettari di campagna in Lombardia, più dei 47mila bruciati tra il 1999 e il 2012», aggiunge Pileri. «Mentre noi combattiamo per salvare ogni singolo metro quadro di verde, un pezzo del nostro Dna, la Regione sta studiando un’inutile bretella da Vigevano a Malpensa da 200 milioni che distruggerebbe tutto il nostro lavoro passando in mezzo al territorio comunale», commenta preoccupata Accinasio. Soldi che, magari, potrebbero essere utilizzati con più profitto per contenere le piene del Seveso.
Il problema, forse, è che la felicità non fa ancora parte del calcolo del Pil. «Qui in paese il senso di appartenenza e di socialità è molto aumentato con il no al cemento », dice Trezzi nel bar di Cassinetta. «C’è gente che si è trasferita da Milano a qui proprio per questo - assicura Accinasio -. Persone più partecipi e attente ai bisogni di Cassinetta». La “rivoluzione virtuosa” continua. Sperando di non finire soffocata di nuovo nel cemento.

Finalmente una buona notizia. Il prezzo che si è dovuto pagare per superare l'ottusa resistenza degli interessi economici dei rottamatori del territorio (di cui ci occuperemo a breve) è l'ultimo pedaggio pagato a un passato devastatore? lo speriamo. Il Fatto Quotidiano,5 luglio 2014

Nel 2010 il libro Paesaggio, Costituzione, cemento di Salvatore Settis si chiudeva arrischiando una profezia: “I segnali molto positivi che vengono dalla nuova amministrazione regionale toscana, per bocca del presidente Enrico Rossi e dell’assessore Anna Marson, sono molto incoraggianti: forse questa regione così ricca di civiltà e di meriti potrà segnare una svolta”. Quattro anni dopo si può dire che Rossi e Marson non hanno tradito questa aspettativa: da martedì scorso la Toscana ha un Piano Paesaggistico Regionale, il primo redatto insieme al ministero per i Beni culturali.

Ma che cos’è un Piano Paesaggistico? È un lavoro enorme (a quello toscano ha lavorato un centinaio di tecnici) che innanzitutto “fotografa” l’intero territorio regionale, in tutta la sua complessità di geomorfologia ed ecosistemi, sistemi agrari, produttivi e urbanistici. Dopo il Piano, l’evanescente definizione di “paesaggio toscano” non coincide più con la collinetta coronata da cipressi, ma si traduce in una montagna di carte dettagliate, schede, elenchi di beni naturali, paesaggistici, archeologici. Ora sappiamo esattamente cosa vogliamo difendere, e cosa, e come, possiamo usare. Già, perché un Piano è esattamente il contrario di un vincolo: quest’ultimo strumento (prezioso, ma limitato) mi dice quello che non posso fare in un certo posto, mentre il Piano dice come, dove e quanto la Toscana vuole continuare a crescere.

A crescere in modo uniforme e (appunto) pianificato: evitando la balcanizzazione del territorio dovuta al moltiplicarsi e all’intrecciarsi delle competenze. E, soprattutto, a crescere in modo sostenibile: tenendo ben presente che “il paesaggio rappresenta un interesse prevalente rispetto a qualunque altro interesse, pubblico o privato, e, quindi, deve essere anteposto alle esigenze urbanistico-edilizie” (così una sentenza del Consiglio di Stato del 29 aprile scorso).

L’approvazione del Piano toscano ha una forte valenza politica nazionale. In un momento in cui Matteo Renzi dice che le regole e le soprintendenze sono un intralcio allo sviluppo (leggi: al cemento), è fondamentale far capire che dall’altra parte non ci sono solo i “no” dei vincoli: ma c’è anche la capacità di una comunità di decidere come trasformare il proprio territorio in modo responsabile e unitario. Come dire: non ci sono solo gangster e sceriffi, c’è spazio anche per un progetto di crescita condivisa. Come ha scritto Enrico Rossi (nel suo Viaggio in Toscana, in uscita presso Donzelli) “il Piano offre una cornice di regole certe, finalizzate a mantenere il valore del paesaggio anche nelle trasformazioni di cui esso è continuamente oggetto”.

Certo, nel Piano ci sono anche rigorose prescrizioni: come, per esempio, quelle che dicono dove non si potranno collocare impianti eolici o centrali elettriche a biomasse. Per capirsi: se il Molise si fosse dato un simile Piano, il suo territorio e la sua archeologia non sarebbero state massacrate da un eolico selvaggio che solo gli sforzi eroici del Direttore regionale del Mibac Gino Famiglietti stanno ora arginando. E se lo avesse fatto l’Emilia Romagna, non rischieremmo di perdere definitivamente il Palazzo San Giacomo a Russi, minacciato da una centrale a biomasse.

Nei giorni precedenti all’approvazione la discussione si è accesa soprattutto sul futuro delle cave delle Apuane. Ma nonostante le minacce e gli insulti della lobby del marmo, la Giunta ha sostanzialmente tenuto. Le associazioni ambientaliste hanno ragione a lamentare alcuni gravi cedimenti, ma ora le vette sopra i 1200 metri saranno finalmente salve, alcune cave saranno chiuse, e non sarà più possibile aprirne nei territori vergini del Parco delle Apuane. E soprattutto ogni futura decisione sull’apertura di nuove cave dovrà passare attraverso un percorso decisionale aperto ai cittadini: insomma, il Piano dà ottimi strumenti alla resistenza di chi si oppone al genocidio delle montagne del marmo.

Il merito principale va alla competenza e alla tenacia della mite e preparatissima Anna Marson, ordinaria di Pianificazione territoriale allo Iuav di Venezia e assessore alla Pianificazione: il suo lavoro dimostra che il rapporto tra sapere scientifico e amministrazione pubblica non deve per forza ridursi alle complici consulenze del Mose o dell’Expo. Il successo politico, invece, è di Enrico Rossi: se troverà il coraggio di riunire e rappresentare l'anima di sinistra che ancora sopravvive nel Partito democratico, avrà nel Piano Paesaggistico il suo miglior biglietto da visita.

Un'oasi nel deserto dell'Italia renzusconiana: la Toscana. La legge urbanistica e il Piano paesaggistico regionale. Le proposte della Giunta passeranno indenni al vaglio del Consiglio? dipenderà anche dalla società. L'Unità, 29 gennaio 2014


I paesaggi toscani, amati in tutto il mondo, così diversi dall’Appennino al Tirreno, paesaggi come fatti a mano dall’uomo nei secoli, terrazzamento dopo terrazzamento, filare dopo filare, seminati di borghi e di città turrite e murate hanno, dopo due anni di studi e di confronti fra Regione e Ministero, un nuovo piano generale con un apparato imponente di elaborati (ben 25 dvd). L’ha approvato la Giunta presieduta da Enrico Rossi (Pd) che lo definisce “un piano ciclopico per un territorio tutelato al 60 per cento”. Ma che, purtroppo, nei decenni precedenti ha subito aggressioni pesanti. A colpi di lottizzazioni. Al punto che fu salutata come una svolta la dichiarazione di esordio, oltre tre anni or sono, dello stesso presidente Rossi: “Non credo che il futuro della Toscana siano le villette a schiera.”

Quelle villette a schiera sotto accusa un po’ dovunque ad opera di comitati di base attivissimi, partiti dalla denuncia della mediocre lottizzazione di Monticchiello in Comune, nientemeno, di Pienza la città ideale di Pio II, e del convegno che ne seguì nel 2006. Nel 2004 erano stati rilasciati in Toscana permessi per quasi 5 milioni di metri cubi di sole residenze. Una colata. Dopo le elezioni regionali del 2010, venne chiamata a reggere lo strategico assessorato all’Urbanistica un’ottima docente della materia a Venezia, Anna Marson, con casa in Toscana, la quale si è gettata con passione e competenza nell’opera di revisione di una politica che rischiava di intaccare un patrimonio comune inarrivabile dalla Maremma alla Versilia, dal Senese all’Aretino, al Cortonese. “Il paesaggio in Toscana conta”, osserva l’assessore Marson, che ha dovuto e dovrà parare, come il presidente Rossi, non pochi attacchi. “E’ un bene comune di tutti i suoi abitanti che incorpora la memoria del lavoro di generazioni passate e costituisce un patrimonio per le generazioni a venire”. Esso richiede “non solo tutela, ma anche cura e manutenzione continua, rappresenta un valore aggiunto straordinario in termini di riconoscibilità, ma di attrattività anche economica del territorio”. So per certo che a chi esporta negli Stati Uniti vini toscani di qualità i compratori americani chiedono anzitutto delle buone immagini che consentano di capire in quali paesaggi sono collocate quelle vigne doc: più essi sono belli e più quei vini valgono. La bellezza come valore economico oltre che sociale.

Non è stato un cammino facile questo del Piano elaborato col Ministero dei Beni culturali come prevede il Codice per il Paesaggio, e lo sarà ancora meno in Consiglio regionale. Come quello della parallela legge urbanistica regionale, di cui parleremo in altra occasione. Ma dobbiamo augurarci che, grazie anche all’apparato di studi e di approfondimenti dal quale nascono le nuove regole paesaggistiche, esso possa vincere resistenze e opposizioni, divenendo un esempio per le altre Regioni, per lo Stato stesso, per il Parlamento che da troppo tempo assiste inerte alla cementificazione diffusa, ad un consumo di suolo forsennato. Di suolo e di paesaggio.

Il piano definisce in modo puntuale il territorio urbanizzato differenziando le procedure per intervenire in esso da quelle per la trasformazione in aree esterne sia per salvaguardare i territori rurali, sia per promuovere riuso e riqualificazione delle aree degradate o dismesse. Esso non consente nuove edificazioni residenziali o le sottopone al parere obbligatorio della conferenza di copianificazione. Ci sarà un maggior accesso dei cittadini agli atti urbanistici e il monitoraggio costante della situazione territoriale. In modo di fornire alla Regione e alla conferenza paritetica fra le istituzioni materiali e pareri tecnici elaborati. Nel paesaggio come “bene comune costitutivo dell’identità collettiva toscana” - fa notare l’assessore Marson - si compie lo stesso percorso realizzato negli anni ’50 e ’60 dal vincolo su singoli edifici alla tutela di interi centri storici. Con un recupero concettuale e politico importante: i piani urbanistici intercomunali. All’agricoltura va evitato il più possibile lo spezzettamento dovuto a interventi non agricoli: essa, se rispettosa dell’ambiente, può risultare fondamentale “per lo sviluppo sostenibile e durevole, garantendo la qualità alimentare e ambientale, la riproduzione del paesaggio, l’equilibrio idrogeologico, il benessere anche economico della regione”. Funzioni molteplici, tutte essenziali, che l’abbandono delle terre alte e un’agricoltura “industriale” non rispettosa dell’ambiente (spianato a colpi di ruspe) hanno depotenziato o cancellato, provocando, incrementando frane, smottamenti, alluvioni. Guasti di cui l’uomo è responsabile e che bisogna sanare, prevenire.

Il piano paesaggistico è organizzato su di un livello regionale e su venti ambiti, dalla Lunigiana alla bassa Maremma, dal Casentino alla Val d’Orcia. Esso “è un piano sovraordinato cui sono tenuti a conformarsi gli altri piani e programmi di livello regionale e locale”. Gerarchia fondamentale. Con una certezza delle regole tale da ridurre al minimo la discrezionalità relativa ai procedimenti e alle stesse valutazioni di merito, ai tempi della pianificazione (da accorciare dai 6 anni attuali a 2 al massimo).

Quanti in Italia credono ancora, nonostante le mille cocenti delusioni, al presente e al futuro della pianificazione, alla tutela attiva del paesaggio e dell’ambiente di un Belpaese amato più all’estero ormai che in Italia, si schierino a favore di questa copianificazione esemplare fra Ministero e Regione Toscana e della parallela legge urbanistica regionale. Questo è vero, orgoglioso regionalismo. Questo che afferma un codice di regole condivise “per il buongoverno”. Come non ricordare, a questo punto, gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo pubblico di Siena sul Buongoverno in città e in campagna? Come non ricordare le lontane parole di Emilio Sereni, storico del paesaggio agrario, “il gusto del contadino per “il bel paesaggio” agrario nato di un sol getto con quello di un Benozzo Gozzoli per il “bel paesaggio” pittorico, e con quello del Boccaccio per il “bel paesaggio” poetico del Ninfale fiesolano”? Notazione ripresa nel ‘77 da Renato Zangheri anche se le campagne sembravano davvero divenute marginali. Oggi sappiamo che, per tanti versi, non è più così. La collina italiana si è in parte ripopolata e la montagna ha quanto meno arrestato la fuga biblica durata oltre mezzo secolo. Ma per tornare a sperare dobbiamo pianificare.

Gli articoli d'apertura di Angelo Mastrandrea e Alessandro Portelli al secondo numero dell'inserto "L'Italia che va"curato da Piero Bevilacqua per il manifesto, 25 luglio 2013. Nell'inserto del giornale altri articoli di Giuseppe De Marzo, Giuseppe Trimarchi, Eleonora Martini, Luca Fazio

IL MADE IN ITALY E UNA LOTTA ANNI '50
di Alessandro Mastrandrea

Il «quadrilatero del gusto» nella capitale, il Quarto Stato con le buste della spesa a Eataly, gli orti urbani attorno ai casali occupati nell'agro romano, il recupero delle vecchie cascine lombarde, i «nuovi contadini» e il boom del biologico. La vera alternativa italiana si chiama «food economy»

Il Campo Boario era l'antico mercato di Roma in cui venivano commerciati i prodotti che sbarcavano al vicino Porto Fluviale. Poi - nella seconda metà dell'800 - fu trasformato in Mattatoio. Oggi, analogamente a quanto avvenuto al Meatpacking district di Manhattan o alla Villette di Parigi, è stato riconvertito alla cultura e alla gastronomia e ospita un museo di arte contemporanea, un pezzo della Facoltà di Architettura, un centro sociale occupato da trent'anni - lo storico Villaggio Globale - sul cui pennone sventola come uno straccio pasoliniano una bandiera rossa usurata dal tempo, i "cavallari" che trasportano i turisti per le vie del centro, un centro culturale kurdo. Fino a pochi mesi fa un farmer market , ora trasferito nel vicino quartiere della Garbatella, contendeva i clienti gastronomicamente corretti alla Città dell'Altra Economia, un ambizioso progetto figlio del connubio tra l'amministrazione veltroniana e i movimenti altermondialisti che intendeva raccogliere, in un unico spazio pubblico, i sostenitori di un altro modo di produrre, eticamente ed ecologicamente sostenibile. Dopo la traversata nel deserto dell'epoca Alemanno e non pochi dissidi interni, la Città è ripartita da qualche mese con una nuova gestione, alcune defezioni e nuovi ingressi. Oggi ospita una ciclofficina, un negozio di articoli riciclati, una sartoria che utilizza gli scarti di lavorazione, un'erboristeria, alcune cooperative di fattorie sociali, un bar, un ristorante, un mercato settimanale di cibo biologico e un supermercato rigorosamente bio e con prodotti del commercio equo e solidale. Giusto di fronte all'ex Mattatoio, in corrispondenza del museo Macro, ha da poco aperto i battenti il nuovo mercato di Testaccio. La struttura è nuovissima, aperta su quattro lati e polifunzionale: nelle sue sale si è svolto, lo scorso anno, il Salone dell'editoria sociale. Somiglia più a un mercato del nord Europa - o semmai alla mitica Boqueria di Barcellona - che a uno dei tanti agglomerati di bancarelle rionali. A pochi passi, al di là del Tevere, una ex fabbrica ristrutturata ospita la sede del Gambero Rosso, l'università del cucinare e mangiare bene. Ascensori e scale mobili portano alle sale in cui si tengono i corsi per aspiranti cuochi e alla tv satellitare. Il ristorante è all'ultimo piano. All'ingresso, una rivista celebra il primo numero della rivista da cui è nato tutto. Titolo: «Sua eccellenza Italia». Data: 16 dicembre 1986. In prima pagina un articolo di Carlo Petrini, futuro fondatore di Slow Food, e il richiamo a un reportage di Loris Campetti «a pranzo nella mensa di Mirafiori». La grafica appare familiare: è quella del manifesto , di cui il primo Gambero Rosso era una costola. O meglio, un inserto, editorialmente parlando. Sulla rive gauche del Tevere, nell'Air terminal costruito per i Mondiali di calcio del '90 e rimasto abbandonato per vent'anni, Eataly, il tempio dello slow food , ha festeggiato da poco il cinquemilionesimo visitatore in appena un anno. Dal balcone dell'ultimo piano giganteggia un'immagine del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, in marcia con le buste della spesa. Il fondatore di Eataly, Oscar Farinetti, ha vinto la scommessa di rendere di massa una cultura gastronomica finora ritenuta di nicchia.

La Città dell'Altra Economia, il Gambero Rosso, Eataly, i mercatini a chilometro zero di Testaccio compongono un vero e proprio quadrilatero del made in Italy gastronomico che pare non avvertire la crisi. A osservare da qui, si capisce perché, nell'Italia della Grande Recessione, l'unico settore in controtendenza è quello legato al cibo: le assunzioni in agricoltura - certifica l'Istat - sono cresciute del 3,8 per cento rispetto allo scorso anno, e mentre il Pil italiano sprofondava, la food economy andava in controtendenza, facendo registrare un balzo dell'1,1 per cento. «Sono dati che, sommati all'andamento in crescita sia dell'occupazione sia delle nuove aziende agricole iscritte negli elenchi delle Camere di commercio, dimostrano la vitalità di un settore che continua a muoversi con una tendenza anticiclica rispetto al resto dell'economia», commenta Gino Rotella, segretario nazionale della FlaiCgil. In particolare, a trainare il boom della food economy sono le produzioni biologiche, che fanno segnare un +10 per cento e inondano i mercati e i negozi di mezza Europa, specie al Nord, dove i prodotti bio hanno una diffusione non più di nicchia. Vale la pena chiedersi le ragioni di questo boom e se si può parlare di ritorno alla terra in un Paese come l'Italia che, all'indomani dell'Unità, viveva al 90 per cento di agricoltura e che dal dopoguerra ha trasformato radicalmente il suo modello produttivo. «Certo, c'è il calo dei consumi, magari si spende un po' meno. Ma chi acquista il biologico ha fatto una scelta di vita e cerca di mantenerla», mi spiega il nuovo presidente della Città dell'Altra Economia Enrico Erba. Dietro la decisione di acquistare il biologico c'è l'adesione a un diverso modello di consumo, «per questo, nonostante la crisi, le persone cercano di mantenerla», conferma il presidente dell'Aiab Lazio Adolfo Renzi. L'Associazione italiana del biologico (Aiab) può contare su circa seimila soci tra consumatori, produttori e agricoltori. Renzi proviene da una famiglia di contadini del viterbese, è agricoltore a sua volta e conosce bene le durezze e le difficoltà di un mestiere per sua natura stagionale e legato alle oscillazioni meteorologiche. Sa bene che, dell'ondata di "nuovi contadini" - giovani in cerca di lavoro o che ritornano alla terra per scelta di vita - una buona parte si perderà per strada. «Da contadino, comprendo quanto sia forte l'immaginario bucolico. Però so che si tratta di un lavoro precario e pesante». Su un milione e centomila addetti al settore agricolo in Italia, circa un milione sono stagionali. E manca un luogo in cui si incrocino la domanda e l'offerta di lavoro: non esiste un ufficio di collocamento e l'unica via d'accesso è quella informale, spesso attraverso la mediazione dei caporali, che «hanno inventato il lavoro interinale prima dei nostri governi», ironizza Davide Fiatti della Flai Cgil. In ogni modo, il sindacato di Corso d'Italia stima che solo a Roma, la terza città agricola d'Europa nonostante gli scempi edilizi, l'agricoltura potrebbe dare lavoro a 35 mila persone. Una cifra che, per la Confederazione italiana agricoltura (Cia), aumenterebbe a 150 mila in tutta Italia. Secondo la Coldiretti, il 42 per cento dei giovani, se avesse accesso alla terra, sarebbe disposto a darsi all'agricoltura.

I «nuovi contadini»

Desertificato, urbanizzato, scempiato, industrializzato e ricoperto di capannoni, il territorio italiano non si presenta più come lo videro i bombardieri della Raf che lo sorvolarono nel '43. Quel che rimane è in mani pubbliche, abbandonato e improduttivo, o è accaparrato da privati, per mire essenzialmente edilizie. Nella capitale, le "compensazioni" previste dal piano regolatore ne fanno merce preziosa nelle mani dei costruttori, nonostante la crisi economica abbia lasciato sul groppone dei palazzinari qualche decina di nuovi quartieri rimasti semideserti: l'equivalente di una città di 350 mila abitanti, come hanno stimato gli urbanisti Rossella Marchini e Antonello Sotgia. E i giovani che vorrebbero inventarsi un'attività agricola? Molti si organizzano in cooperative e provano a occupare le terre, come nel dopoguerra dei braccianti calabresi di Melissa e di quelli siciliani guidati da Placido Rizzotto. Il difetto, come al solito, sta nel manico: il settore delle costruzioni ha trainato il boom economico degli anni '60, l'Italia è diventata un paese di proprietari di case - l'80 per cento ne possiede almeno una - ed è sempre arrivata, prima o poi, una modifica dei piani regolatori a consentire di edificare o un condono a sistemare gli abusi. Sulla base di queste premesse, chi può pensare a un uso della terra diverso? In Francia il problema è stato affrontato dando in comodato d'uso gratuito per due anni le terre incolte nelle mani dello Stato, e altrettanto si potrebbe fare in Italia. Poi bisognerebbe garantire l'accesso al credito: il 65 per cento dei giovani - stando a un sondaggio Swg/Coldiretti - lamenta difficoltà a ottenere prestiti dalle banche, mentre il 67 per cento ritiene necessari strumenti di finanziamento agevolato.

Occhio al prezzo

Luoghi come la Città dell'Altra Economia o Eataly rappresentano un punto di sbocco importante per le produzioni biologiche. I prezzi non sono più proibitivi come un tempo, ma rimangono più alti anche del 20/30% rispetto a un normale supermercato. «Il raffronto va fatto a parità di qualità, perché il biologico può essere anche scadente», dice Massimo Monti, amministratore delegato di Alce Nero, uno dei primi marchi bio italiani, «ma il prezzo conta fino a un certo punto. Alla base c'è una questione di cultura alimentare: chi cerca il biologico è attento a ciò che mangia». Cattedrali del gusto come quelle messe in piedi da Eataly, ancor più che la diffusione di supermercati biologici, hanno ormai sdoganato i prodotti bio, d'origine protetta o con il marchio di slow food a consumo di massa, alla stessa maniera dei Whole Foods statunitensi. La filosofia della Città dell'Altra Economia rimane invece un'altra, più legata all'ecosostenibilità e finalizzata ad avvicinare produttori e consumatori, nonché a creare stili di viti alternativi. Aspetti, quest'ultimi, che esulano dai tradizionali mercati rionali. «Quello dei mercatini di quartiere è un modello sbagliato e ormai obsoleto», è l'opinione di Renzi, perché lì «c'è ormai solo la dimensione del consumo e ci trovi le stesse cose che compreresti nei supermercati». Per capire fino a che punto possa spingersi l'alleanza tra produttori e consumatori, arrivando ad assumere una dimensione pre-politica, è necessario però spostarsi qualche centinaio di chilometri più a nord.

L'Expo in cascina

Gabriele Corti si definisce un «hippie evoluto». È un figlio del post-68 milanese e racconta come la cultura ecolibertaria degli anni '70 abbia generato, sul finire degli anni '70, «un bel movimento di idee». La facoltà di Agraria di Milano, dove lui era iscritto, era legata a doppio filo all'agricoltura industrializzata, ma al suo interno si era creata una nicchia "alternativa" di grande effervescenza. «C'era non solo la voglia di tornare all'agricoltura come lavoro, bensì come comunità di vita», racconta. Il testo di riferimento era Piccolo è bello di Ernst Friedrich Schumacher. Non siamo molto lontani dalla molla etica che motiva i "nuovi contadini" del 2013. Corti ha ristrutturato una bella cascina nel Parco del Ticino - il più grande parco agricolo d'Europa - dove ha messo in pratica quel che teorizzava. Oggi la cascina Caremma ha un livello di autosufficienza doppio rispetto a quanto prevede la legge, coltiva riso e produce un vino che qui non si faceva da due secoli e la prima birra a chilometro zero della Lombardia. La sua, dice, è una «agricoltura periurbana, di frontiera». Basta fare un paio di chilometri, infatti, ed è tutta una teoria di paesini e cittadine che senza soluzione di continuità si congiungono con la metropoli. I tempi della via Gluk di Adriano Celentano sono passati da un pezzo e oggi molte cascine che punteggiavano la campagna sono inglobate nella città. L'Expo del 2015 sarà dedicato all'alimentazione e qualche spicciolo è destinato alla ristrutturazione delle abitazioni contadine ormai urbanizzate. In una di queste, la Cascina Cuccagna, alla fine di maggio l'ambientalista indiana Vandana Shiva ha firmato la Carta dei diritti della terra coltivata. Poi, davanti agli studenti della Bicocca, ha fornito la sua ricetta anti-recessione: «Per uscire dalla crisi e per dare un nuovo futuro alle giovani generazioni è necessario un cambiamento di paradigma: dobbiamo abbandonare l'austerità per tornare alla semplicità. L'allontanamento dalla Terra è ciò che causa la crisi, solo il ritorno alla terra madre, organismo vivente che interconnette tutti noi, può quindi accordarsi con un modello di sviluppo alternativo, al cui centro si trova il benessere dell'umanità e dal quale nascono prodotti di qualità e nuovi posti di lavoro. Insomma, il futuro della Terra è la terra stessa».

I neoterritorialisti

Si intitolava "Ritorno alla terra" anche l'annuale raduno della Società dei territorialisti, un rassemblement di architetti, architetti, ingegneri, docenti universitari, attivisti neoruralisti. Un po' seguaci del filosofo della "decrescita felice" Serge Latouche, un altro po' teorici dell'alleanza tra produttori e consumatori, tutti proiettati verso un modello di sviluppo eco-compatibile, i territorialisti si definiscono «entomologi del territorio», visto che ne conoscono ogni anfratto. Politicamente e culturalmente, si pongono agli antipodi della globalizzazione spersonalizzante e della «modernità liquida» baumaniana. Il luogo del raduno era la Cascina Caremma dell'ex hippie Corti. Tra i partecipanti, vecchi e nuovi contadini, professori e ricercatori universitari. Diversi tra i partecipanti appartenevano a Gruppi di acquisto solidale (Gas), che da queste parti sono più strutturati che altrove. Silvia Salvi, dell'osservatorio Cores di Bergamo, ha condotto una ricerca sul fenomeno dei Gas in Lombardia: «Ne fanno parte soprattutto famiglie con alto titolo di studio e impiegati. Molti hanno alle spalle esperienze di partecipazione attiva. Entrano nei Gas per la qualità dei prodotti e per sostenere i produttori, hanno un'organizzazione orizzontale, si distribuiscono compiti e ruoli e cercano di ripensare la logistica della distribuzione». L'evoluzione di questo percorso si chiama Des, un acronimo che sta per Distretti di economia solidale. Mettono insieme Gruppi di acquisto, produttori biologici e alcune amministrazioni comunali sensibili al tema, promuovendo uno stile di vita sostenibile. «I Des danno consistenza fisica allo spazio pubblico che esiste tra Stato e mercato», spiega Giuseppe de Santis, della rete Gas della Brianza. Una "terza via" che «crea i presupposti per un nuovo modello di società e cura del territorio, poiché insegna a diventare cooperativi in una società competitiva e liberista». In questo modo, si accorcia drasticamente la filiera produttiva e si sperimenta un modello mutualistico, la distanza tra produttori e consumatori si riduce sensibilmente, fino a configurare una vera e propria consonanza di interessi, e la food economy si trova a rappresentare non solo un volano per riportare in alto il Prodotto interno lordo, ma si propone come un vero e proprio modello alternativo. Economico e sociale.

NUOVI IMMAGINARI
RIVOLTIAMO LA CITTA', COLTIVIAMO L'ORTO
di Alessandro Portelli

Saremo stati qualche decina nella simbolica occupazione del Borghetto San Carlo, ventidue ettari di terreno agricolo di proprietà comunale sulla via Cassia fra La Storta e la Giustiniana a Roma, abbandonato dall’istituzione e rivendicato all’uso pubblico da un gruppo di cooperative di giovani agricoltori. Ma eravamo virtualmente almeno diecimila, tante quante le firme che le coop Terra!, da Sud e Coraggio (Cooperativa Romana Giovani Agricoltori) hanno consegnato al sindaco Marino e agli assessori all’urbanistica e al patrimonio del Comune di Roma.

Gli interventi che si sono susseguiti nel piccolo spazio di terreno liberato oltre il filo spinato e dietro il cancello ostinatamente chiuso e arrugginito, hanno sottolineato la disponibilità espressa dai nuovi rappresentanti delle istituzioni (municipi, comune e regione sono adesso su una stessa lunghezza d’onda, il clima può cambiare), il collegamento con altre esperienze vicine (per restare a Roma Nord, quella di Volusia o quella ormai radicata di Cobragor), e soprattutto l’idea che riprendere in mano il grande patrimonio delle terre liberi comunale non è solo un’occasione produttiva, occupazionale e di servizi, ma configura anche una diversa prospettiva sulla città. Roma, il terzo comune agricolo d’Europa, l’agricoltura ce l’ha dentro e – come tante metropoli in crisi in tutto l’occidente – può farne un elemento di ripresa non solo economica ma anche, forse soprattutto, culturale e ambientale. Se per generazioni i contadini sono stati i custodi della terra e i creatori e portatori di preziosi saperi (troppo spesso disprezzati: c’è anche il disprezzo di classe verso i contadini e la loro fatica fra le ragioni dell’abbandono dell’agricoltura), gli agricoltori di oggi si sentono pienamente integrati in una cultura urbana in trasformazione.

Non a caso, come mostrano le inchieste recenti anche della Coldiretti, l’agricoltura è uno dei
pochissimi comparti economici in cui l’occupazione aumenta, anche fra i giovani. Anche per questo, le cooperative che rivendicano il Borghetto San Carlo progettano un’agricoltura moderna, multifunzionale, sinergica – da un lato, un’agricoltura capace di integrare tecnologie e conoscenze avanzate e di creare occupazione (parlano di almeno quaranta posti di lavoro); dall’altro, che non sia solo (preziosa) produzione di cibo ma anche cura dell’ambiente, bellezza, servizi al territorio, ricettività, progetti terapeutici e didattici – dagli asili nido all’ippoterapia – riconoscimento del valore del lavoro materiale e rinnovamento del contatto con la materia vivente, smarrito nell’invasione del cemento.

Il fatto è che la città del terzo millennio non è più uno spazio edificato compatto ma un intreccio di usi molteplici del territorio. Un libro recente, Apocalypse Town dell’urbanista Alessandro Coppola, mostra come la crisi delle città americane in fase di deindustrializzazione, da Youngstown a Detroit a certe parti di New York – si sia rovesciata nella reinvenzione dell’uso dello spazio urbano, di cui gli orti del Lower East Side di Manhattan sono l’esempio più conosciuto ma non necessariamente il più importante. Anche a Roma vediamo i segni di questo processo, dalle occupazioni agli orti urbani ai gruppi di acquisto solidale ai mercati dei produttori della filiera corta; infatti l’intervento sulla Cassia si collega anche a un censimento che le cooperative stanno portando avanti su tutti gli spazi agricoli non utilizzati di proprietà pubblica di cui è costellata Roma. Anche per questo più di uno degli interventi in assemblea ribadiva la impraticabilità del paradigma centro-periferia: il recupero del Borghetto San Carlo serve anche a immettere elementi di comunità e socialità in un’ex borgata diventata quartiere dormitorio. Ma è un compito urgente, perché gli usi e abusi passati lasciano danni spesso irreversibili. Penso all’esperienza dell’Orto Insorto al Casilino: uno spazio abbandonato dove gli occupanti hanno scoperto che la terra era ormai inservibile, avvelenata da sversi industriali e inquinamento (ma non ci hanno rinunciato, stanno studiando colture alternative e comunque quel terreno non edificato resta un luogo di socialità offerto al quartiere).

Tutto questo, naturalmente, ha bisogno anche della politica. L’irresponsabile abbandono di tante preziose risorse di proprietà pubblica è anche la conseguenza dell’inerzia delle istituzioni. Il Borghetto San Carlo era di proprietà di uno dei grandi costruttori romani, Mezzaroma, che lo ha ceduto al comune in cambio di permessi di edificabilità in altre zone della città, obbligandosi a restaurare, al costo di tre milioni di euro, il meraviglioso e vastissimo casale che sta in cima alla collinetta del borghetto (e da cui fa l’altro si gode una straordinaria vista sulla campagna romana). Il termine in cui il manufatto restaurato doveva essere consegnato al comune è scaduto da mesi, ma non è stato fatto niente e l’amministrazione Alemanno non ha ritenuto suo dovere obbligare il costruttore al rispetto degli impegni contrattuali. La disponibilità dichiarata da Marino e dai suoi assessori è senz’altro sincera; ma per smuovere la macchina comunale e passare dalle parole ai fatti è necessaria la pressione, contestativa e collaborativa, di un movimento di massa sostenuto dal consenso dei cittadini. L’esperienza di Borghetto San Carlo è un segnale incoraggiante in questa direzione.

«La rivitalizzazione dei borghi promossa dell'Agenzia dei Borghi Solidali, si fonda, a partire dalla vocazione dei luoghi, su modelli di sviluppo innovativi e sostenibili». Il manifesto, 18 luglio 2013

Quanti lettori conoscono l'area grecanica calabrese e quanti di loro sanno che essa racchiude un immenso patrimonio culturale, naturalistico e storico, reso ancor più suggestivo dai Greci che - nel VIII secolo - vi sbarcarono lasciando un segno indelebile del loro passaggio? Forse pochi o pochissimi. Eppure, esistono numerose realtà, straordinari borghi antichi fatti di viuzze, casette in pietra auto-costruite e adornate dai caratteristici fichi d'india bruciati dal sole, dove il tempo sembra essersi fermato agli antichi valori, alle piccole e semplici quotidianità, dove tuttora la lingua parlata è il grecanico (minoranza linguistica, dialetto greco-calabro). Alcune di queste, erano zone che stavano morendo arrendendosi irrimediabilmente all'emigrazione e allo spopolamento, ma sono state riportate in vita grazie alle azioni del progetto "I luoghi dell'accoglienza solidale dell'Area Grecanica", che dal 2010 ha cercato di rimediare, ricreando motivi di permanenza e costruendo i presupposti per migliori condizioni di vita. Grazie all'impulso e al contributo di Fondazione con il Sud è stato possibile da un lato, costruire una rete di oltre 70 partner tra associazioni, cooperative ed enti locali, con soggetto capofila l'Associazione onlus Pro-Pentedattilo, dall'altro creare un'Agenzia di sviluppo locale per una gestione strutturata del progetto Borghi Solidali.

Tra i territori dell'Area Grecanica interessati ci sono Bagaladi, Melito Porto Salvo, Montebello Jonico, Roccaforte del Greco, Roghudi e San Lorenzo. Tutti luoghi che hanno scelto di tutelare le proprie peculiarità culturali, di valorizzare le minoranze, le persone svantaggiate e gli immigrati, in cui si intrecciano multiculturalità, artigianato locale, enogastronomia e bellezze architettoniche.

I borghi, scenari suggestivi del versante jonico calabrese caratterizzato da un paesaggio aspro e rurale, sembrano oggi tanti tasselli di un mosaico: diversi per storie e leggende ma, simili per tessuto sociale e dinamiche culturali. E Borghi Solidali, in questi primi tre anni, si è proposta da un lato, di ricostruire l'aspetto identitario delle comunità locali, dall'altro di attivare percorsi di integrazione riportando soprattutto i giovani in quelli che si erano trasformati in non-luoghi per eccellenza. Citiamo, un esempio su tutti, Pentedattilo, straordinario borgo che prende il nome dalla forma della rocca su cui giace, simile ad una gigante mano di pietra (penta e daktylos cioè cinque dita). Il suo fascino è raccontato direttamente dalle parole scritte dall'inglese Edward Lear che, nel 1847, viaggiò per la provincia reggina. «La visione - scriveva in Diario di un viaggio a piedi - è così magica che compensa di ogni fatica sopportata per raggiungerla: selvagge e aride guglie di pietra lanciate nell'aria, nettamente delineate in forma di una gigantesca mano contro il cielo (...) mentre l'oscurità e il terrore gravano su tutto l'abisso circostante». Il borgo abbandonato dai suoi abitanti per effetto di fenomeni migratori oltre che per le continue minacce naturali, terremoti e alluvioni, è stato per tanto tempo conosciuto come «il paese fantasma più suggestivo della costa calabrese». Oggi, grazie a tanta progettualità messa in campo dall'associazione Pro-Pentedattilo, che ha utilizzato opportunamente risorse pubbliche e regionali e quelle della Comunità Europea, grazie ad associazioni di volontariato provenienti da tutto il mondo, Pentedattilo è diventato un crocevia di principi e valori etici e di legalità, un villaggio diffuso del turismo responsabile, che si rafforza e si struttura grazie a Borghi Solidali. Nell'immaginario palcoscenico legato alla leggendaria strage degli Alberti, le casette del paese si sono trasformate in luoghi in cui arte e artigianato si confrontano con la tradizione, ci sono infatti le botteghe tipiche: quella del legno, della ceramica e del vetro artistico, della natura e delle tradizioni popolari, e ancora la Biblioteca della Donne e della Legalità, la Casa della Pace e quella delle Minoranze.

Ciò a dimostrazione che obiettivo di Borghi Solidali non è solo la rinascita dei borghi, ma la creazione di un percorso d'inserimento sociale e lavorativo dei soggetti più deboli. A sostegno c'è poi un'intensa animazione territoriale fatta di teatro, musica, cinema, arte, che riversa volti, parole e suoni tra le viuzze in pietra. Parliamo, per esempio, di due appuntamenti particolarmente cari al pubblico: quello del Pentedattilo Film Festival, rassegna di cinema breve giunta all'ottava edizione, che lo scorso anno ha registrato oltre 5 mila visitatori in soli tre giorni e quello di Oxygen, il concerto rock che vuole essere di monito e contrasto all'incombente progetto di costruzione della Centrale a Carbone a Saline Joniche. Ed ancora, delle visite guidate, delle escursioni naturalistiche, dei seminari tematici, dei campi nazionali ed internazionali di volontariato, dei Sabati Letterari itineranti e dei Laboratori di Teatro condotti da due diverse compagnie professioniste che coinvolgono tantissimi giovani.

«La rivitalizzazione dei borghi - spiega Piero Polimeni, direttore dell'Agenzia dei Borghi Solidali - si fonda, a partire dalla vocazione dei luoghi, su modelli di sviluppo innovativi e sostenibili. Tra le parole chiave mi piace parlare dell'ospitalità. Valorizzando l'attitudine della popolazione all'accoglienza e riutilizzando il patrimonio immobiliare dismesso, acquisito in comodato d'uso dal progetto come ostelli, foresterie e abitazioni tipiche, Borghi Solidali permette un modello di ospitalità diffusa». Accanto a ciò, virtuoso il percorso legato alla mobilità sostenibile. «Stiamo cercando di sperimentare - conclude Polimeni - un sistema integrato che coniughi il trasporto pubblico e collettivo con mezzi ecologici e di condivisione: veicoli elettrici, carpooling e carsharing. È importante infatti facilitare l'accessibilità e gli spostamenti ma anche avere la responsabilità civica di preservare il territorio e l'ambiente».

Il tour di un paesologo attraverso gli anfratti più reconditi di tre regioni: Basilicata, Calabria e Campania. Tra montagne in cerca di un nuovo umanesimo, borghi da raccontare e intellettuali tardo-magno greci. Il manifesto, 18 luglio 2013

La Salerno-Reggio Calabria a un certo punto esibisce i suoi famosi cantieri. Ho la sensazione che li vedranno anche i miei nipoti. Siamo tra Lagonegro e Lauria, alberi e ponti, viadotti, gallerie, betoniere, scavatori. Forse qualche tratto poteva pure rimanere stretta, non c'era bisogno di allargare tutto. A un certo punto si può anche andare piano. Ma ormai qui i cantieri sono un mantra, l'autostrada sembra un pretesto per tenere in vita i cantieri.
Faccio confusione tra Laino Castello e Laino Borgo, non capisco dove sia il pezzo di paese morto. Poi lo trovo, scatto una foto da lontano. È presto, ma la calura è già minacciosa.

Arrivo a Rotonda, dove già sono passato. È il paese di un mio fraterno amico, Andrea Di Consoli. Lui è figlio di contadini e ora vive e scrive a Roma. Capisce profondamente i libri degli altri e scrive i suoi in una lingua accaldata, intensa, senza vezzi e aloni. Lui mi piace molto di più del suo paese. In piazza ci sono degli alberi canadesi, messi dai soliti architetti che vorrebbero abbellire quelli che nel loro gergo si chiamano «invasi spaziali». Mi siedo per scrivere che l'insegna più scintillante è quella della farmacia. E poi una scritta nell'atrio di una casa che ospitò Garibaldi: E la splendida turba e il vano fasto lieto deride. Non vedo ruderi, parti decrepite, c'è un po' di gente in giro, il panificio, la macelleria, la gioielleria, il negozio di piante e fiori e poi i bar, quanti ne vuoi. A un certo punto un tipo mi chiama per nome. Gli ha parlato di me Di Consoli. Mi dice che è tornato da Torino, dipinge e fa altri lavoretti. Il reddito sicuro lo assicura la moglie che è insegnante. Mi porta a vedere i suoi quadri. Mi regala una maglietta dipinta. Ha fretta di dirmi tante cose, la foga tipica di chi è incerto se pensarsi genio o fallito. Se passate da Rotonda cercatelo, si chiama Adriano Galizia.

L'appuntamento con la persona che ci deve fare da guida è all'una, in piazza, a Viggianello. Arrivo al paese e non vedo la piazza. Non è sulla strada, non ci puoi parcheggiare la macchina dentro. È un palmo di mano nascosto sotto il campanile. La trovo e mi siedo con la sposa su una panchina nel filo d'ombra che rimane. Silenzio e calura. Ecco un tipo con un carrello a motore con alcune buste della spesa dentro. L'operazione di scendere le scale è laboriosa. La seguo in tutte le sue fasi poi gli chiedo spiegazione. Lui dice che il carrello di solito lo usa per trasportare la legna. In questo paese tutti si riscaldano con la legna, ma ci sono da fare un sacco di passaggi dall'albero al camino. Faccio notare al mio animoso interlocutore che portando le buste in mano avrebbe fatto meno fatica. Intanto siamo già in confidenza. Parliamo, perché lui non sa che fare e noi dobbiamo aspettare la guida. Mi colpisce che lui identifichi il successo del paese con la presenza dei cantanti. È una cosa che ho sentito altre volte. Se non arrivano più i cantanti famosi è segno di decadenza. Penso al sindaco che ha invitato me. Non credo sia una scelta che si può spendere in campagna elettorale. Al Sud è successo che a un certo punto le persone hanno smesso di cantare, si è rotto il legame tra musica e vita quotidiana. Il canto non serviva più per far dormire i bambini, per fare le serenate, per lenire le fatiche. Il cantante famoso che veniva alle feste del patrono era il segno del paese che voleva mettersi alle spalle la sua cultura, voleva rottamare i suoi suoni antichi e diventare moderno, telegenico. Si può anche capire questa scelta negli anni settanta, ma adesso appare assurdo spendere diecimila euro per un modesto urlatore che ha il solo merito di essere apparso qualche volta in televisione.

La guida è arrivata, e la sua presenza un poco rompe il mio disagio. Andiamo in un agriturismo che a me sembra lontano dal paese, ma a loro no, perché il paese è tutto fatto di frazioni e da un estremo all'altro ci sono trenta chilometri e quasi mille metri di dislivello. Il pranzo è buonissimo, mi mette di buon umore per tutto il pomeriggio. Apprezzo particolarmente la minestra 'mbastata (minestra "impastata" con patate e verdure di stagione).

Alle sei è prevista in piazza la presentazione del mio ultimo libro. In attesa che arrivi gente la giornalista del posto mi fa una lunga intervista. Tante domande, ma in questi casi mancano sempre quelle sulla lingua. L'essenza della paesologia non è la difesa dei paesi, ma un certo modo di far girare le frasi, di sentire la lingua. Comunque è una bella serata, il cielo è pieno di rondini. Al mio fianco oltre al sindaco, c'è Biagio Accardi, un giovane cantastorie che da tre anni gira a piedi i paesi del Pollino in compagnia di Cometina, un'asina pure lei giovane. I paesi sono cinquantasei, trentadue nel versante calabro e ventiquattro in quello lucano.

A questo punto è il caso di citarli tutti. I comuni calabresi sono: Acquaformosa, Aieta, Alessandria del Carretto, Bagnara, Belvedere Marittimo, Buonvicino, Castrovillari, Cerchiara di Calabria, Civita, Francavilla Marittima, Frascineto, Grisolia,Laino Borgo, Laino Castello, Lungro, Maierà, Morano Calabro, Mormanno, Mottafollone, Orsomarso, Papasidero, Plataci, Praia a Mare, San Donato di Ninea, Sangineto, San Lorenzo Bellizzi, San Sosti, Sant'Agata d'Esaro, Santa Domenica Talao, Saracena, Tortora, Verbicaro.

I comuni lucani sono: Calvera, Castelluccio Inferiore, Castelluccio Superiore, Castronuovo di Sant'Andrea, Carbone, Castelsaraceno, Cersosimo, Chiaromonte, Episcopia, Fardella, Francavilla in Sinni, Latronico, Lauria, Noepoli, Rotonda, San Costantino Albanese, San Giorgio Lucano, San Paolo Albanese, San Severino Lucano, Senise, Teana, Terranova del Pollino, Valsinni, Viggianello.

Il secondo giorno è prevista un'escursione sul Pollino. La manifestazione organizzata dal Comune di Viggianello si chiama Uomini e cime e prevede tre giornate tra giugno e agosto con tre scrittori. Il sindaco è di Sel e pure lui scrive. Quelli che si aspettano i grandi cantanti resteranno delusi.

Arriviamo in macchina fino a un certo punto e poi comincia la marcia. I primi passi sono affannosi. La mia ipocondria si fa subito viva quando mi avvio in zone dove non è facile il soccorso. Penso a un infarto e al fatto che non ci sarebbe il tempo utile per provare a salvarmi. In effetti non si capisce perché dovremmo salvarci. Sono deluso, pensavo e speravo che dopo la morte di mia madre almeno l'ipocondria si attenuasse, pensavo che la paura della morte andasse in vacanza e invece è sempre qui, al lavoro. Saliamo verso l'alto, comincio a prendere un poco fiducia, ma arrivati in un bel pianoro io e la mia sposa, insieme a una coppia di giovani sposi salentini, decidiamo di fermarci. Il resto della compagnia si dà come meta la cima del Pollinello, pure loro decurtano un poco le ambizioni iniziali, ma saliranno comunque in una zona utile per ammirare da vicino gli esemplari di pino loricato, l'albero simbolo di queste montagne. Io li guardo da lontano questi alberi che cercano la cima, alberi da due rami, alberi in preghiera, che quando muoiono diventano bianchi e lisci come un osso.

Il Pollino è una montagna di nicchia, non ha villette, alberghi ad alta quota, attrazioni pacchiane. È una rosa di montagne sparse ai quattro venti. Non c'è una cima aguzza, un pezzo firmato, è una montagna corale, comunitaria. Nessuna cima si stacca dalle altre. Non sono montagne da scalare, ma da ruminare. L' hardware c'è tutto, forse bisogna lavorare sul software. Penserei a una serie di musei immaginari: museo dell'aria, museo del silenzio, museo della luce.

Il sole sul Pollino mi ha bruciato un occhio. Stendermi sotto il sole mi mette in pace, ma non lo avevo mai fatto alle due del pomeriggio a 1700 metri di quota. Dopo due giorni senza lingua l'occhio gonfio mi riporta alla scrittura. È sempre il guasto, l'errore ad avviarmi alle parole. Mi hanno chiamato qui per raccontare la montagna, ma io la montagna non la capisco. Il mio paesaggio è un altopiano, la terra mossa dell'Irpinia d'Oriente. Dell'altopiano abito l'orlo, il punto in cui si crepa, si squarcia. Dormo sul precipizio. La terra frana, l'aria è sempre mossa dal vento. L'unica analogia col Pollino è il cuore sismico che batte nel profondo.

Del Pollino mi piace la lontananza. Tutto è lontano da questi paesi, perfino le montagne che hanno sulla testa. A Viggianello sentono che intorno a loro c'è un'ora di vuoto. Ci vuole un'ora e mezza per il mare, per l'ospedale. Un'ora e mezza per la città più vicina, Cosenza, ma è in un'altra regione. Il Pollino è troppo ampio per questi tempi stretti, troppo austero per quest'epoca fumosa e posticcia.

A Viggianello puntano sul turismo, ma i turisti sono ancora pochissimi. Arriva qualcuno da Taranto, da Bari. I napoletani hanno altre mete, i lucani e i calabresi altre montagne.

L'ultimo giorno Vincenzo Corraro, il sindaco di Viggianello, mi porta a vedere Pedali, la sua frazione, la più popolosa, quella da cui vengono tutti i sindaci. È una frazione spezzettata, un'edilizia che concede poco alla bellezza, come in quasi tutti i paesi del parco. La storia cambia quando saliamo sulla montagna che sovrasta la frazione. Facciamo una bella passeggiata, anche se improvvisamente arrivano le nuvole e non si capisce se sono quelle del vecchio inverno o del nuovo. Qui piove, nevica, fa freddo per dieci mesi all'anno. Il luogo giustamente ha fame di bellezza, ma la vita quotidiana è assai difficile: troppo spesso si sente il silenzio di chi se n'è andato e di chi non è mai venuto.

Faccio al sindaco qualche domanda intima e parliamo anche dei libri che ha nel cassetto. Lui ha una vena romanzesca, ma io lo invito a raccontare la sua esperienza di sindaco, a partire dalla vicenda di una vecchia centrale a lignite che l'Enel vorrebbe riconvertire per bruciare biomassa. Una di quelle tipiche battaglie in cui i colonizzatori spesso riescono a imporre i loro interessi offrendo il miraggio del lavoro. È assurdo che nel cuore di un parco nazionale si possa installare un'attività inquinante che contrasta palesemente col sogno del turismo. Molti sindaci si lamentano per i vincoli che pone il parco. Forse non è amministrato benissimo, ma è facile immaginare che cosa accadrebbe se i vincoli fossero allentati. La forza del Pollino dev'essere la pazienza. Il capitalismo è la civiltà delle pianure, le sue montagne sono i grattacieli. Il Pollino deve aspettare che arrivi un nuovo umanesimo, l'umanesimo delle montagne. Non sono i paesi che stanno morendo, ma la civiltà urbana. Oggi la forza è nei margini, nei luoghi appartati.

Prima di salutarci il sindaco ci dà una bottiglia di fragolino e una soppressata. La Lucania è una terra generosa. Anche se è sempre difficile misurarla la generosità mi pare che i paesi del Pollino, da questo punto di vista, abbiano un primato. È difficile transitare intorno a un bar senza che qualcuno ti offra qualcosa. Ma non è solo questione di doni materiali, qui le persone sono generose già nello sguardo, nel modo di parlare, di ascoltare.

Domenica pomeriggio, dopo un altro pranzo buonissimo all'agriturismo, è ora di partire. Ho un appuntamento a San Marco di Castellabate, nel Cilento. Invece di scegliere la via più breve, scaliamo ancora il Pollino perché voglio andare a San Severino Lucano. Faccio solo in tempo a notare un po' di staccionate in legno, segno che il paese ha cura di apparire più turistico degli altri.

Salire e poi scendere. E poi scendere ancora verso la valle del Sinni. Quasi nessuno in giro. Per vedere qualche turista devo arrivare al lago Sirino. Farei ancora in tempo a prendere l'autostrada, invece punto su Sapri. Percorso tortuoso passando per Lagonegro, qui c'è un proliferare di monti che partoriscono altri monti. Arrivati a Sapri dobbiamo fare i conti con la sterminata vastità della provincia di Salerno. Per arrivare a San Marco bisogna uscire dalla costa e infilare altre montagne. Intanto abbiamo fatto in tempo a capire che il turismo domenicale è quasi tutto proteso verso il mare. Il sud che vuole abbronzarsi surclassa quello che vuole camminare. Arriviamo sfiniti nella bellissima casa della mia amica Luisa Cavalieri. Siamo nel Cilento, il gemellaggio col Pollino mi sembra naturale. Unire il mediterraneo costiero al Mediterraneo interiore mi sembra un buon compito. La posta in palio non sono i turisti, ma un'altra idea di mondo, un'altra idea della vita. Almeno a casa di Luisa il sogno sembra già realizzato.

Inizia oggi sul manifesto (18 luglio 2013) la pubblicazione di un interessante inserto settimanale proposto e curato da Piero Bevilacqua, dedicato a un'Italia minore che può additare le vie da percorrere per costruire un0Italia migliore perchà diversamente "moderna"cioè all'altezza di una soluzione umana ai problemi di oggi.Anche i frequentatori di eddyburg sono invitati a collaborare

Da Bobbio, in Emilia Romagna, a Pentedattilo in Calabria. Gli italiani riscoprono i paesi spopolati per ritrovare una dimensione antropologica del vivere travolta dalla modernità
L'Italia non è solo - in misura storicamente più rilevante che nel resto d'Europa - terra di città. È anche regione di borghi, di paesi, piccoli e medi, disseminati lungo la dorsale appenninica e preappeninica e fin sulle Alpi, ma presenti anche, con caratteristiche proprie, nella Pianura padana. E una saliente caratteristica è la loro varia origine storica, che va da epoche remotissime sino all'Otto-Novecento, insieme alla diversità delle genti e delle colonizzazioni che li hanno plasmati. Si pensi a un centro come Bobbio, in Emilia Romagna, abitato in età neolitica, poi colonizzato dai Liguri, dai Celti, dai Romani; oppure Putignano, in Toscana, parimenti attivo nel neolitico, colonizzato dagli Etruschi e successivamente romanizzato. E ancora, sempre per sottolineare l'antichità della fondazione e la varietà delle civilizzazioni - ma per cenni necessariamente avari e sporadici - si può ricordare, scendendo verso Sud, Norcia, in Umbria, centro d'incontro di varie etnie nel mondo antico, poi assoggettata ai Romani; Gerace, in Calabria, colonizzata dai Greci a partire dal VIII-VII secolo e poi divenuta bizantina.

Nel Lazio e in parte dell'Italia meridionale dominano i borghi di origine medievale del cosiddetto incastellamento - studiato dallo storico Pierre Tourbet - risultato dell'aggregarsi degli abitati intorno a un castello feudale, per proteggersi dalla incursioni saracene e poi normanne di quell'età turbolenta. Ma è solo per suggerire una idea della vetustà storica e della multiformità delle culture. Non sorprende, dunque, se un numero grandissimo di questi borghi possiede al suo interno e nei suoi immediati dintorni un patrimonio immenso di resti e di manufatti, che custodiscono la memoria millenaria d'Italia, l'operosità di innumerevoli generazioni di artigiani e artisti. In questi centri sono disseminati santuari, torri, casali, abbazie, chiese, pievi, palazzi signorili, necropoli, ville, mausolei, sepolcri, chiostri, affreschi, statue e dipinti, anfiteatri, aree archeologiche, cinte murarie, strade, porte, vasche termali, cisterne, acquedotti. I resti, insomma, talora ben conservati, di una civiltà impareggiabile. Nel 1980 Federico Zeri curò l'VIII volume della Storia dell'arte italiana per Einaudi, dedicata ai Centri minori dove tanto tesoro è illustrato per ricchissimi esempi. Mentre le benemerite guide rosse del Touring Club, come ricordava Italo Calvino, costituiscono il «catalogo nazionale» dove così innumerevoli beni sono registrati nel loro contesto storico e territoriale.

Ora che cosa accade nella nostra civilissima Italia? Accade che una parte crescente di questi borghi sono a rischio di abbandono, o sono già divenuti dei centri fantasma. Si calcola che siano almeno 5000 in tali condizioni. Naturalmente, la tendenza in atto non è senza contraddizioni. Esistono territori montani, come il Mugello, in Toscana, dove la popolazione tende a crescere. Negli ultimi anni i paesi intorno a Roma si sono gonfiati di popolazione. A causa degli elevati costi dei fitti, molti cittadini che lavorano a Roma sono andati a vivere nei paesi vicini, eleggendoli quali dormitori rurali del loro pendolarismo. Ma la corrente prevalente è l'abbandono, lo svuotamento demografico, soprattutto lungo la dorsale appenninica e nelle aree interne.

A questa situazione da tempo si vanno opponendo con varie iniziative non pochi enti e gruppi, come l'Associazione Borghi più belli d'Italia, sorto nel 2001 per impulso della Consulta del turismo e dell'Anci, il Gruppo Touring Club, il Paesi Fantasma Gruppo Norman Brian (che si occupa della mappatura dei borghi) e varie altre associazioni a scala locale, come l'Azione Matese, impegnata a favore dei paesi del Massiccio del Matese. Ciò di cui queste associazioni e varie altre hanno bisogno, tra l'altro, è senza dubbio una visione territoriale più ampia delle aree interne italiane e della formazione di una rete veramente attiva di informazione, scambi e cooperazione. Le aree interne fanno oggi parte di un vasto progetto, necessariamente di lunga lena, avviato da Fabrizio Barca all'interno del ministero per la Coesione territoriale. Si tratta di un disegno di riequilibrio demografico, sociale, ambientale che può offrire nel tempo vaste prospettive al lavoro italiano e alla valorizzazione delle immense risorse naturali ospitate in queste terre. L'agricoltura della biodiversità agricola e la sua trasformazione agroindustriale, la selvicoltura, l'allevamento, l'utilizzo delle acque interne, l'escursionismo, il turismo, l'agricoltura sociale, le fattorie didattiche, la produzione di energia su piccola scala, l'artigianato del riciclo costituiscono le leve potenziali della rinascita di queste aree dove è prosperata per secoli la nostra civiltà rurale. A condizione, naturalmente, che i servizi fondamentali (scuole, ospedali, trasporti) riacquistino o conservino il loro ruolo irrinunciabile.

Ma i borghi possono svolgere una specifica funzione attrattiva. Al loro interno si custodiscono non solo i manufatti artistici che abbiamo sommariamente elencato, ma, assai di sovente, essi sono scrigni invisibili che custodiscono antichi saperi, dialetti, culture e letterature popolari, strumenti musicali tradizionali e canti antichi, conoscenze di erbe e piante, forme di preparazione e conservazione dei cibi, cucine multiformi. In questi luoghi si conserva anche altro. In realtà, il nostro immaginario colonizzato dal demone dell'utile ci impedisce di scorgere tanti invisibili tesori immateriali. Si ritrovano infatti in tanti borghi, talora intatti, modalità del vivere, ritmi quotidiani, un rapporto speciale con il tempo e la memoria, emozioni e modi di guardare, lentezze e assaporamenti della realtà circostante che nella città sono ormai perduti per sempre. Una dimensione antropologica del vivere e del sentire, travolta dalla modernità, che si ritrova ancora conservata come per una miracolosa regressione in un altro tempo storico.

Perciò occorre stabilire un nuovo rapporto di curiosità e scoperta, creare un nuovo sguardo sul nostro passato - come da tempo va facendo Franco Arminio, anche sulle pagine del manifesto - mescolare l'antico con il presente: ad esempio trasformando vecchi edifici in abbandono, riattivando antiche manifatture con nuove produzioni, o cambiandole in "manifatture delle idee", cioè in sedi di nuovi centri di ricerca. Occorrerà dunque seguire e documentare le iniziative che vanno sorgendo nei borghi, perché essi segnano il sentiero di un nuovo possibile rapporto degli italiani col proprio territorio e con il proprio passato.

A tal fine trovo qui quanto mai opportuno soffermarmi, sia pur per pochi accenni, su una singola esperienza in uno degli angoli più difficili e fisicamente avversi della nostra Penisola. E anche impervi sul piano civile, a causa della criminalità endemica. Mi riferisco alle attività che dal 2010 va svolgendo l'Agenzia dei borghi solidali nei comuni dell'estrema Calabria come Pentedattilo, Roghudi (spezzato in due da una alluvione nel 1971) e Montebello, all'interno del progetto «i luoghi dell'accoglienza solidale nei borghi dell'area grecanica». L'Agenzia, aggregazione di numerose altre associazioni, ha sede a Pentedattilo - pittoresco paese sullo Jonio che scende a cascata da una rupe - in un edificio, Villa Placanica, sottratto alla mafia. Tra le varie iniziative messe in cantiere, organizza campi di lavoro estivo nazionali e internazionali, il che porta centinaia di ragazzi provenienti da ogni dove negli ostelli presi in gestione nei borghi. È un modo per valorizare il patrimonio edilizio pubblico e privato in abbandono, per riportarlo a nuove funzioni e utilità. In questi spazi si vanno aprendo anche le cosiddette Botteghe solidali. Nel frattempo, all'interno dello Spaziofiera di Roghudi nuovo e di Pentedattilo, sono all'opera botteghe artigiane che puntano a riscoprire e dare nuovo valore alle tradizioni manifatturiere grecaniche, offrendo nello stesso tempo lavoro a immigrati e cittadini svantaggiati. Si tratta di una esperienza agli inizi, condotta da giovani molto capaci e legati al proprio territorio per passione e sensibilità storica. Con un tenace sforzo di aggregazione vanno creando e diffondendo culture di solidarietà e di legalità e soprattutto mettono in moto rapporti interculturali e di cooperazione fra le persone: quelle forme di comunicazione e di scambio che erano già vive su queste terre quando nel Mediterraneo fioriva la civiltà greca e il mare era luogo di vicinanza e di dialogo fra popolazioni diverse.

Un'anticipazione di questo articolo è stata pubblicata su eddyburg, nelle "opinioni "dell'autore, col titolo I borghi dell'utopia

Serve a molte cose insieme la pratica illustrata da Sartori e La Cecla: recuperare senza sfigurare patrimoni in degrado, promuovere un turismo di conoscenza e non di cartolina, ridurre i costi della visita, far crescere un'imprenditorialità legata al territorio. La Repubblica, 30 marzo 2013

L’hotel diffuso tra vicoli e piazze
di Leonora Sartori

Il futuro (anche immobiliare) dell’Italia? «Dimenticate il nuovo e guardatevi intorno per ripartire da quello che c’è già». Che la rinascita italiana debba puntare sull’esistente, non lo dicono solo i sindaci del cemento zero come Domenico Finiguerra, ma anche trentenni ecosensibili e esperti di nuove tecnologie come Daniela Galvani e Andrea Sesta, architetto e ingegnere del web. Sono loro gli ideatori della start up Impossible Living (impossibleliving. com), progetto online per “riattivare” gli edifici abbandonati collegando associazioni territoriali, gruppi, amministrazioni e imprenditori attraverso il crowd sourcing.

Il tesoro nascosto dell’Italia secondo alcuni starebbe proprio nella classica provincia italiana, spesso dimenticata, con la sua grande abbondanza di paesi, borghi e campanili. A dimostrare l’interesse per borghi e campagne, il crescente numero di strutture e turisti (soprattutto stranieri, americani e nord europei in primis) degli alberghi diffusi italiani. Poche regole, secondo il fondatore dell’associazione alberghi diffusi Giancarlo dell’Ara (albergodiffuso. com). Un borgo gestito come un albergo, con reception comune e servizi in camera. Si ristruttura, in modo filologico, originale, autentico. Le camere sono disposte in edifici separati e preesistenti, a non più di duecento metri l’uno dall’altro, in un centro storico vivo e abitato.Ottanta le strutture sparse per l’Italia, si va dai piccoli borghi misteriosi della Liguria a Sextantio o alle Grotte di Civita a Matera, progetto con servizi (e prezzi) di altissimo livello che attirano stranieri, vip e star da tutto il mondo, ideati dall’italo svedese Daniele Kihlgren. Innamorato del “patrimonio storico minore” italiano, Kihlgren ha restaurato con attenzione filologica il borgo di Santo Stefano di Sessanio (Aq), creando un fatturato in netta e continua crescita, che non si è interrotto nemmeno dopo il terremoto del 2009.

Il ritorno sentimental-imprenditoriale al borgo è una formula che attira anche giovani, come Eleonora Fioriti, trentenne in controtendenza che ha da poco lasciato un lavoro a tempo indeterminato in banca, per aprire nel suo paese, Gualdo Tadino (Pg), vicino a Gubbio e Assisi, l’albergo diffuso Borgo Sant’Angelo. «I corridoi? Saranno le strade del borgo. La reception? All’ingresso del vecchio convento del XIII secolo, insieme alla sala colazioni e alcune camere, mura spesse, pavimento originale, pochi mobilitipici che ho fatto ridisegnare da un artigiano locale», racconta Fioriti. L’albergo diffuso è una formula made in Italy (ma che stanno copiando nei piccoli paesidel Giappone) di hotel sostenibile e km zero, che non si costruisce, ma semplicemente c’è già e permette non solo di aprire nuove ipotesi di lavoro, di recuperare e valorizzare vecchi immobili in borghi incantati, ma anche di salvare dall’abbandono interi paesi e ridare vita a territori abbandonati senza costruire nulla di nuovo. Nato dopo il terremoto del 1976 in Friuli, l’albergo diffuso è ora previsto da 16 regioni italiane (tra cui Sardegna, Marche, Umbria, Emilia Romagna, Liguria e Puglia).

Solo la bellezza sa sfidare il cemento di Franco La Cecla

Al fondo del concetto dell’Albergo Diffuso stanno due evidenze : la prima è l’abbandono in cui versa buona parte del nostro patrimonio costruito. In un paese in cui la sbornia immobiliare ha cementificato la metà del terreno del paese non deve stupire che buona parte della ricchezza di borghi, edifici pubblici e piazze sia diventato un teatro di ombre morte. Dall’altro c’è la crisi in cui siamo e che ci spinge a pensare che occorra anzitutto ricominciare dalle risorse. E il patrimonio delle culture dell’abitare in Italia fa parte di queste risorse: provate a ricostruire oggi posti come Monteriggioni o Piazza Armerina e vedete quanto vi costerebbe e quanto sarebbe impossibile, visto che non siamo più capaci di costruire in quel modo.

Allora l’Albergo Diffuso serve a ricordare che un centro storico è molto meglio dell’Hilton e che il vero lusso è passeggiare per un borgo costruito dall’intelligenza collettiva e non dalla stupidità di un architetto. Siamo arrivati talmente al fondo del bicchiere che oggi c’è bisogno di una sfida come quella lanciata dal Movimento per la “Custodia gratuita di spazi temporaneamente occupati”,(sembra un titolo di un romanzo di Hrabal) una invenzione di un genio bolognese, Werter Albertazzi che così ha ridato vita attraverso crowd sourcing, uffici e spazi di ospitalità a ben sette enormi contenitori a Bologna. Al di là della retorica delle occupazioni è una iniziativa che serve a ricordarci che dobbiamo servirci della ricchezza che abbiamo già e che ci è stata sottratta da una idea rapinatrice del territorio nazionale.

Imparando dalla storia e dalla natura più che dalla modernizzazione tecnologica e dai modelli omologati si possono fare cose che sembrano miracoli. Non qui da noi: altrove, per esempio nel Burkina Faso. La Repubblica, 31 gennaio 2013

L’uomo che fermò il deserto non è né uno scienziato né un facitore di miracoli, ma un contadino del Burkina Faso che grazie al suo exploit continua a suscitare invidia e ammirazione presso i più illustri agronomi del pianeta. La sua battaglia per salvare le colture di miglio e di sorgo dall’avanzare delle sabbie, Yacouba Sawadogo l’iniziò più di un quarto di secolo fa. Negli anni Ottanta, la sua terra era già afflitta da una terribile siccità che da allora non ha fatto che peggiorare. Stiamo parlando del Sahel,sovrastato dal più grande e più vorace deserto del mondo, il Sahara, che diventa sempre più vasto, mangiando giorno dopo giorno savane e terre agricole, con un appetito aguzzato dal clima impazzito per via dell’effetto serra.

Come ha agito Yacouba? Il contadino è ricorso a una ricetta antica o forse preistorica poiché lo “zaï ”, che in lingua mossi vuol dire “fossa”, è una pratica agricola usata a quelle latitudini dalla notte dei tempi. Lo “zaï” deve avere inizio a primavera, che nel Burkina Faso coincide con la stagione secca, e consiste nello scavare buche profonde 30 centimetri e larghe circa 20. Una volta che l’area in questione èstata lavorata con una quantità adeguata di fosse, queste saranno prima riempite di sterco di capra misto a cenere e foglie secche, poi seminate. Tutto qui? No, perché dopo la semina è importante che la gente del villaggio vada ad ammirare il lavoro eseguito, e aspetti la pioggia. Anzi, la poca pioggia che cadrà durante i brevi monsoni subdesertici,ma che le fosse raccoglieranno senza sprecarne una sola

goccia. All’inizio della sua avventura, nemo profeta in patria, Yacouba era considerato un pazzo dalla sua gente. Una volta fu perfino denunciato e quando giunse una camionetta di gendarmi per dargli una lezione, lui fu costretto a nascondersi nel bush. Poi, però, con il passare degli anni e con l’aggravarsi della siccità, dal suo villaggio, così come da altre centinaia di piccoli centri contadini, la popolazione cominciò a fuggire andando a ingrossare quelle legioni di miserabili che ancora affollano i campi profughi o gli slum delle città africane.

Nel frattempo, con l’ostinazione di un ricercatore, o di un santo, Yacouba continuava a mettere in pratica lo “zaï” per riesumare poco per volta i segreti ormai dimenticati dei suoi avi. Fino a quando, una decina di anni fa, le gemme di sorgo cominciarono a spuntare sempre più forti e più numerose, mentre nei fazzoletti di terra lasciati a maggese crescevano acacie e arbusti rimboscando ciò che l’aridità aveva bruciato. Grazie alla sua tenacia, vaste porzioni di deserto sono oggi terre fertili che forniscono ricchezza(lo “zaï” ha consentito ai contadini di raddoppiare o anche triplicare i loro raccolti) e chi era fuggito altrove ha cominciato a tornare per ripopolare quelle lande riportate alla vita.

Tre anni fa, una casa di produzione statunitense, la 1080 films, girò un documentario su questo pioniere della lotta contro l’inarrestabile avanzata delle sabbie. Dopo aver vinto una decina di premi, il film è stato trasmesso dalle tv di mezzo mondo e Yacouba invitato a parlare in diverse conferenze internazionali. Dove il contadino taumaturgo è sempre stato accolto con meritatissime standing ovation.

Quando le buone pratiche nascono dal "basso": l'esempio della valutazione sul piano di assetto territoriale di Treviso. Scritto per eddyburg, 27 gennaio 2013 (m.p.g.)

La sezione Italia Nostra di Treviso, come contributo al processo di pianificazione comunale e a fronte di un PAT (piano di assetto territoriale) presentato dall’amministrazione decisamente sovradimensionato, ha sperimentato un semplice processo di valutazione del patrimonio edilizio non utilizzato qui descritto. Da una analisi pur non esaustiva sono emerse moltissime aree (circa 70) passibili di riutilizzo / riqualificazione, denominate “buchi neri”.
In allegato trovate sia l’elenco che la legenda, così come la planimetria di queste aree che interessano tutte le zone della città ed hanno una superficie notevole: le sole tre caserme segnalate ( Piave, Salsa, De Dominicis) delle quali una abbandonata e le altre due acquisite dal comune, hanno una superficie complessiva di circa 150.000 mq, mentre per rimanere al solo centro storico i tre maggiori complessi hanno una superficie di oltre 30.000 mq con una volumetria che raggiunge i 60.000 mc.
A partire da questa base conoscitiva Associazioni e cittadini affronteranno nelle prossime settimane un processo partecipativo alla redazione del PAT su di un piano meno superficiale e sbilanciato di quello previsto dagli attuali strumenti amministrativi.
Ci sembra un esempio di grande utilità che segnaliamo per la sua efficacia e sul quale vi terremo informati (m.p.g.)


Premessa conoscitivaIl Comune di Treviso ha sempre avuto (fin dal 1945: progetto adottato ma mai perfezionato) Piani Regolatori con una eccessiva capacità insediativa, soprattutto residenziale. Le previsione del PRG adottato nel 1967 ed approvato nel 1974 erano di circa 140.000 abitanti a fronte degli 90.446 esistenti al Censimento 1971 (massimo storico raggiunto). Nel 2001, nel nuovo PRG adottato, a fronte degli 80.144 abitanti censiti la capacità insediativa era di circa 135.000 unità.
Questo progetto di PRG è stato definitivamente approvato nel 2004: anno di entrata in vigore della nuova Legge Regionale sulla gestione del Territorio (L.R. n.11/2004); su questa contemporaneità il Comune di Treviso ha tentato per 8 anni di iniziare le procedure per redigere un PRG fondato sulle prescrizioni della nuova legge regionale. Solamente alla fine del 2011 ha dovuto arrendersi emanando il bando di appalto per l’aggiudicazione dei lavori di redazione del PAT (Piano di Assetto del Territorio)

Iniziative 2201-2005La sezione di Treviso di Italia Nostra ha promosso e sostenuto critiche alle previsione del PRG adottato riguardanti soprattutto la previsione di una tangenziale Est prevista su territorio particolarmente fragile (risorgive e corsi d’acqua) concretata con oltre 8.000 osservazioni e contro il cambio di destinazione d’uso dell’Ospedale Psichiatrico di S.Artemio, ormai praticamente dismesso, da zona per servizi a residenza (con previsione di vendita a privati= cordata d’acquisto già individuata).
La tangenziale Est è stata cancellata e l’area dell’Ospedale Psichiatrico è rimasta di proprietà pubblica (attuale sede dell’Amm.ne Provinciale).
La debolezza dell’Associazione non ha permesso, in quel momento, di affrontare il tema della eccessiva previsione insediativa e del conseguente consumo del suolo.

L’attualitàAlla fine del 2011 si è venuti a conoscenza che la Regione voleva che anche il Comune di Treviso adeguasse il PRG alla L.R. n. 11/2004: era giunto il momento di iniziare a studiare alcune scelte prevedibili: primo fra tutte l’incremento della capacità insediativa ed il conseguente uso/consumo di territorio agricolo.
La presenza nel territorio di alcune Caserme dismesse o in via di dismissione ci ha convinto ad iniziare una verifica di tutti gli edifici e di tutte le aree non più utilizzate al fine di individuare quelli che abbiamo chiamato “buchi neri”. La scelta del “nome” non è casuale e si è verificata di grande impatta mediatico: quelli esistenti nelle galassie “mangiano” la materia; i nostri “mangiano” la città.
L’indagine si è svolta sulla base delle nostre conoscenze, prima a tavolino ed in seguito con verifiche puntuali; prima redigendo un elenco impegnando due persone e successivamente interessando alla ricerca altre associazione o gruppi (i contributi non sono stati molti ma hanno permesso coinvolgimento e conferme).
Contemporaneamente abbiamo iniziato a chiedere che il Comune fornisse il dato di tutti gli alloggi risultati liberi/non occupati sulla base del Censimento della popolazione: soltanto da poco abbiamo ricevuto il dato di 4.800 alloggi non occupati pari a circa il 12% del totale, ben oltre alla percentuale “fisiologica” del 5-6%. Si deve inoltre tener presente che non sono compresi gli alloggi previsti negli S.U.A già convenzionati ma non ancora realizzati a causa della crisi.

Ci siamo posti infine il problema della comunicazione dell’indagine sui “buchi neri” che abbiamo volutamente (ma questo non è stato detto) tenuta incompleta partendo dalla considerazione che era preferibile non indicare tutto quanto avevamo individuato al fine di poter sostenere che la situazione era ancora peggiore.
Per avere un elemento di forte ed immediato impatto abbiamo messo in una planimetria del territorio comunale in scala 1.10.000 come premessa per una individuazione fotografica (da Google Map) di ogni sito individuato.

La prima presentazione pubblica del lavoro (elenco e planimetria) è avvenuta nel giugno 2012, in anticipo di quasi un mese rispetto alla prima convocazione indetta dal Comune per il cosidetto “coinvolgimento” previsto dall’art.2 comma c) della L.R. n. 11/2004.
In questo modo abbiamo immediatamente spostato l’attenzione sulla necessità di bloccare ogni ulteriore espansione: l’Amministrazione Comunale ha dovuto immediatamente recepire il messaggio. Ma abbiamo anche ottenuto la possibilità di coinvolgere i cittadini: con una serie di incontri è stato presentato alla Amministrazione e ai progettisti un documento di sintesi di richieste firmato da 26 associazioni e gru ppi: Oltre a questo abbiamo presentato 5 contributi su temi specifici da noi redatti ed altri 18 contributi presentati da associazioni e gruppi non individuati dall’art. 13 della L. 349/1986, che il Comune non voleva né invitare al dibattito, né ascoltare.
Nei prossimi giorni il progetto di PAT sarà presentato e discusso il Consiglio Comunale; sulla base dei ”contributi” presentati sarà possibile verificare quanto essi siano stati presi in considerazione e, quindi, predisporre una campagna di osservazioni specifiche e puntuali.
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Documenti allegati
Legenda buchi neri
Elenco buchi neri
Planimetria buchi neri

Anche l´Italia, nel suo piccolo, funziona. Da Nord a Sud ci sono 63 comuni d´eccellenza dove tutto è ecosostenibile, riciclabile, alternativo. Ponte nelle Alpi, ad esempio. Ottomila anime nel Bellunese dove la raccolta differenziata è arrivata al 90%. O Melpignano (Lecce) dove una cooperativa per il fotovoltaico voluta dal sindaco permetterà ai cittadini di non pagare la bolletta per vent´anni. Amministrazioni coraggiose, medaglie al valor civile appuntate sul territorio italiano.

I primi della classe sono riuniti nell´associazione Comuni virtuosi (da non confondere con la lista ufficiale del ministero dell´Economia degli enti che rispettano il patto di stabilità), nata nel maggio del 2005 con un obiettivo semplice: «Diffondere il buon esempio - spiega Marco Boschini, coordinatore dell´iniziativa - e creare una rete di condivisione delle esperienze mettendo a disposizione delibere e progetti già realizzati per chi vuole innovare». Perché un´altra amministrazione è possibile, anche con la crisi.

Sfogliando l´elenco dei virtuosi, ci si imbatte in Corchiano, 4000 abitanti, in provincia di Viterbo. I vigili girano in bici per inquinare meno, lo scuolabus è alimentato col biodiesel prodotto con gli oli esausti da cucina recuperati dal Comune, la fontana pubblica ha eliminato l´uso di 200 mila bottigliette, le ristrutturazioni degli edifici si fanno solo se migliorano l´efficienza energetica. C´è poi Cassinetta di Lugagnano, in provincia di Milano. Un borgo medievale sul Naviglio grande, 1800 abitanti, che per primo in Italia ha abolito gli oneri di urbanizzazione. «Difendiamo il territorio dalla cementificazione - spiega l´ex sindaco di centrosinistra Domenico Finiguerra - consentiamo solo restauri dei fabbricati esistenti. Per compensare gli incassi mancati, abbiamo tagliato le luminarie di Natale e i fuochi d´artificio. Ci siamo inventati i "matrimoni a mezzanotte" nelle ville del nostro paese. Portano 30 mila euro all´anno».

Far parte del club dei migliori comuni d´Italia, però, non è da tutti. Ci sono criteri rigorosi per l´ammissione: avere un livello di raccolta differenziata superiore al 65 per cento, una superficie urbanizzata inferiore al 15, un piano energetico comunale, forme di mobilità alternativa (piste ciclabili, car sharing, piedibus), stili di vita improntati alla sobrietà. Castellarano, in provincia di Reggio Emilia (vincitore nel 2011 del premio "Comuni a 5 stelle" indetto dall´associazione), fa quasi vergognare per quanto è perfetto. L´impianto fotovoltaico pubblico da un megawatt è stato realizzato su una vecchia discarica dismessa, evitando spreco del suolo. È nato qui uno dei primi Gruppi di acquisto solidale del fotovoltaico. Nelle aree verdi si utilizza il compost per la concimazione, negli uffici pubblici si usa solo carta riciclata e i dipendenti fanno la spesa via web. E non è finita: per gli operai del comprensorio della ceramica è stato messo in piedi un progetto di condivisione dell´auto per ridurre il traffico.

Si dirà che queste esperienze funzionano, ma solo nelle piccole realtà. «Non è così - ribatte Boschini - in Europa ci sono esempi di amministrazioni votate all´ecosostenibilità. Basti pensare a Friburgo, o anche ad alcuni progetti realizzati da Parigi e Londra. Con impegno e coraggio, le cose si possono fare anche a Roma o a Milano». In Italia il Comune virtuoso più grande per ora è Capannori, in Toscana, con 47 mila abitanti. Tra i vari meriti, ha anche quello di aver inaugurato l´era del bilancio partecipativo. I cittadini vengono informati con assemblee pubbliche di tutte le spese effettuate. «Dopodiché - spiega l´assessore all´Ambiente Alessio Ciacci - sono loro, tramite una votazione pubblica, a decidere come utilizzare 500 mila euro che ogni anno riserviamo ad hoc in bilancio». L´anno scorso sono serviti per finanziare la ristrutturazione di alcune scuole, voluta e votata dai cittadini.

A volte per essere bravi amministratori basta una piccola grande idea. A Melpignano nel Leccese il sindaco Ivan Stomeo si è inventato, caso unico in Italia, la cooperativa del fotovoltaico. «Sfruttando i tetti piani delle nostre case - racconta - abbiamo creato una cooperativa che compra gli impianti e li installa sulle case dei soci, gratis. La cooperativa si finanzia con gli incentivi del Conto Energia, chi aderisce ha energia gratis per vent´anni. Finora abbiamo installato una sessantina di impianti». E a Berlingo, nel Bresciano, 2500 abitanti, la giunta ha trasformato una discarica in centro in una struttura polifunzionale alimentata con fonti rinnovabili. Dal letame nascono davvero i fiori.

Proprio mentre stiamo scrivendo questa breve nota per eddyburg, il 16 gennaio 2012 è stato sottoposto a provvedimento di custodia cautelare Massimo Ponzoni, ex assessore e attuale consigliere PDL della Regione Lombardia nonché segretario alla Presidenza del Consiglio regionale (e con lui, anche Franco Riva, ex sindaco di Giussano, Antonino Brambilla, vicepresidente della Provincia di Monza e Brianza, e altri). Fra le accuse per Ponzoni: “la capacità di determinare, almeno in parte, i contenuti dei PGT di Desio e Giussano, assicurando a imprenditori a lui vicini (…) cambi di destinazioni di terreni (da agricoli a edificabili)”. Ma il nome di Ponzoni era già emerso nelle carte dell’inchiesta “Infinito” sulla ‘ndrangheta in Brianza.In attesa di riscontri giudiziari probanti, si tratta di un ennesimo episodio che evidenzia che la Lombardia è coinvolta in una spirale di illegalità al cui centro stanno non soltanto il settore edilizio ma anche le politiche urbanistiche; e che, nelle amministrazioni comunali, non è più soltanto l’Edilizia privata il luogo principe delle occasioni di corruzione, ma anche l’Urbanistica.

I varchi della legislazione urbanistica lombarda

Un elemento appare comunque certo: di questo vero e proprio assalto al territorio, talora con caratteristiche di assoluta illegalità e talora legittimato dalla legge, siamo debitori alla legislazione urbanistica lombarda che, con la sua propensione alla ‘flessibilizzazione’, ‘sburocratizzazione’, ‘snellimento’ e ‘semplificazione’ delle procedure, ha creato le condizioni affinché le Giunte possano agire prevalentemente in deroga ai piani. I PGT, infatti, sono oggi in molti casi vissuti come meri adempimenti burocratici e/o come costosi esercizi retorici completamente svincolati dagli strumenti attuativi. E il risultato in termini di consumo di suoli, ma anche di tutti i costi collettivi che a questo incontrollato consumo sono correlati (i costi economici e ambientali di una mobilità irreversibilmente legata al trasporto su gomma, la perdita altrettanto irreversibile di prezioso suolo agricolo e di biodiversità, la crescente impermeabilizzazione dei suoli, la frammentazione degli habitat naturali e delle reti ambientali, la caduta complessiva di ‘urbanità’) appare davvero preoccupante.

Da un punto di vista meramente quantitativo, da un rapporto recente sui consumi di suolo emerge che in Lombardia nel periodo 1999-2004 il territorio urbanizzato è cresciuto a ritmi di 13 ettari/giorno; e a Milano la superficie urbanizzata ha registrato un incremento, nel periodo 1999 al 2007 (e cioè con l’avvio delle riforme urbanistiche regionali), del 10,5%. Attualmente la Provincia di Milano è urbanizzata per il 39,7%, ma se si escludono i Comuni del Parco Sud, ancora relativamente poco edificati, il territorio della conurbazione milanese è ormai totalmente consumato, con il Nord Milano che raggiunge livelli di urbanizzazione del 95% (DiAP, INU, Legambiente, 2011).

Ma in questo scenario in tutti i sensi insostenibile si stanno manifestando alcuni segnali positivi, sia per quanto riguarda l’attenzione crescente dedicata anche da alcune amministrazioni locali a misure per il controllo degli intrecci politica/malaffare mafioso, sia per quanto riguarda il tema del controllo del consumo di suolo attraverso piani più consapevoli e virtuosi.

Alla base sta il fatto che la norma che ha introdotto la possibilità di scioglimento dei consigli comunali e provinciali per fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso ( che risale al 1991) ha reso possibile, sull’intero territorio nazionale e in oltre vent’anni di applicazione, oltre 200 casi di scioglimento tra consigli comunali e provinciali e aziende ospedaliere.

Desio: dal commissariamento prefettizio alla variante parziale del Piano di Governo del Territorio

Uno dei casi più recenti è quello verificatosi, a fine 2010, a Desio (dove appunto il sopracitato Ponzoni potrebbe avere influenzato, secondo le autorità giudiziarie, gli orientamenti del PGT), un comune di oltre 40.000 abitanti situato nella provincia di Monza-Brianza. A fare da detonatore è stata appunto l’operazione “Infinito”, avviata nel luglio 2010 e gestita dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, che ha portato all’arresto di oltre 300 persone, tra affiliati e imprenditori prestanome, che gestivano traffici illeciti a favore di alcune cosche ‘ndranghetiste con radici sempre più solide nel cuore della Padania. Tra le persone coinvolte vi era qualche consigliere comunale di Desio, le cui relazioni con i clan locali emergevano dalle intercettazioni della magistratura. All’arresto hanno fatto seguito la dimissione di 11 consiglieri di opposizione e 6 di maggioranza e il provvedimento prefettizio che ha fatto di Desio il primo Comune lombardo sciolto a causa di infiltrazioni mafiose. Ciò che si profila, dalle indagini e dalle intercettazioni telefoniche, sottolinea una volta di più, per chi ancora non ne fosse convinto, che non esistono territori tabù per la criminalità organizzata e che il ‘pedigree padano’ non solo non è sinonimo di legalità, rigore e trasparenza, ma neppure rappresenta una barriera per operazioni illegali che trovano humus fertile in un’area economicamente avanzata, e quindi ricca di occasioni per l’investimento di denaro sporco, e in un tessuto sociale spesso privo di anticorpi. Insomma, in questi ultimi anni, mentre molti amministratori locali ribadivano, per i loro territori, il ritornello morattiano che “la mafia non esiste”, alcuni rappresentanti eletti dai cittadini contrattavano, con i boss locali, il numero di preferenze necessarie per la propria elezione.

L’immagine della ricca Brianza che scaturisce dai documenti della Magistratura è preoccupante: è l’immagine di un territorio sottoposto a forti pressioni da parte di potenti clan legati alla ‘ndrangheta (sollecitati anche dai ricchi appalti in progetto in vista di Expo 2015), attorno ai quali si stringono patti e affari tra esponenti politici e imprenditori sempre più disposti a tutelare gli affari della criminalità organizzata per vedere aumentare i propri profitti. E’ il territorio, oggi, che spicca come il fulcro attorno al quale ruotano i principali interessi della criminalità organizzata: appalti, ma soprattutto concessioni e piani attuativi per costruire che consentano un rapido riciclaggio del denaro sporco proveniente dagli altri traffici illeciti gestiti dalle cosche. E proprio in terra lombarda si fa sempre più stridente il contrasto tra una legge urbanistica che fa della semplificazione e dello snellimento burocratico i propri cavalli di battaglia e l’impellente necessità di elaborare nuovi strumenti di controllo in grado di arginare il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa che proprio da un modello de-regolamentato trae i maggiori benefici.

A Desio però le condizioni sono cambiate. Dopo un anno di Commissariamento prefettizio, la nuova Giunta di centro sinistra, insediatasi nel maggio del 2011, ha deciso di rivedere i contenuti di un PGT che, approvato nel 2009 dalla precedente Amministrazione, si era dimostrato incapace di guidare le operazioni immobiliari ed edilizie che, complessivamente, hanno prodotto 137.000 metri cubi di nuove abitazioni e 11.200 metri quadrati per le attività produttive al di fuori degli strumenti di pianificazione attuativa, senza quindi concorrere al miglioramento della città pubblica in termini di più servizi, migliore qualità urbana, minore congestione. Il nuovo Documento di Piano, alla cui elaborazione ha contribuito come consulente un docente del Politecnico, Arturo Lanzani, grazie a una convenzione a titolo gratuito (!) siglata con il Dipartimento Architettura e Pianificazione, cambia le regole del gioco. Gli atti di variante del PGT di Desio contengono infatti linee guida che si propongono di riformulare la strategia del Documento di Piano, al fine di riordinare l’assetto territoriale secondo principi di contenimento della crescita insediativa, di recupero degli spazi agricoli periurbani e di miglioramento della qualità dei servizi esistenti. Il riconoscimento del suolo come bene comune, in un contesto come quello della Brianza, che presenta elevatissimi livelli di urbanizzazione, costituisce un principio fondamentale che può segnare una svolta importante per consentire di immaginare forme di sviluppo finalmente lontane dai tradizionali modelli di dispersione insediativa ancorati a mere logiche di mercato. La riqualificazione del territorio urbanizzato volto ad evitare fenomeni di abbandono edilizio e di degrado, l’aumento della multifunzionalità dei servizi alla città, la tutela delle aree produttive da salvaguardare per impedire facili appetiti speculativi disposti a scommettere sul cambio di destinazione d’uso delle superfici dismesse, sono gli indirizzi generali che si propongono di rimodellare il territorio di Desio per migliorare la qualità della vita degli abitanti.

Oltre ai virtuosi principi generali, il nuovo Documento di Piano indica come priorità alcune azioni, fra le quali:

- la rettifica del perimetro urbanizzato, con la quale si è diminuito del 6% la superficie urbanizzata prevista dal PGT del 2009 e si vincoleranno le aree esterne per usi agricoli e forestali,

- l’introduzione di norme stringenti per gli interventi edilizi in ambito agricolo, con superfici minime di intervento da sottoporre a piano attuativo e con limitazione degli interventi possibili senza convenzionamento, al fine di evitare la frammentazione del territorio,

- l’inserimento di meccanismi di compensazione ambientale per qualsiasi tipo di intervento che preveda l’occupazione e la compromissione del suolo: è prevista la cessione di aree, in misura differenziata a seconda che l’edificazione sia prevista in aree di espansione, in tessuti consolidati o in zone già compromesse da precedenti usi, con vincolo di inedificabilità permanente e sistemazione a bosco, prato alberato o filari di siepi a carico dell’operatore.

- l’obbligo per gli interventi di nuova costruzione e ristrutturazione edilizia, che superino i 300 mq per gli edifici residenziali e i 500 mq per gli edifici produttivi, di presentare un piano attuativo, al fine di adeguare il sistema dei servizi fruibili e valorizzare la città pubblica,

- l’eliminazione della possibilità di calcolare la superficie utile di pavimento esistente come volume diviso l’altezza virtuale di 3 metri, al fine di evitare speculazioni incoerenti con i reali diritti volumetrici esistenti nel tessuto consolidato.

La struttura della variante è convincente nella volontà di innescare processi virtuosi di uso del territorio, volti alla tutela e alla valorizzazione degli elementi naturali (verde urbano e sistema degli spazi aperti), di quelli sociali (recupero e riqualificazione del tessuto consolidato aumentando la dotazione di servizi collettivi) e di quelli economici (supporto alle attività produttive). Come è ovvio, nei documenti della variante non vengono citate le passate controversie mafiose, poiché sono tuttora al vaglio della magistratura; ma appare chiara la volontà politica di operare scelte territoriali volte ad arginare interessi immobiliari sospetti che hanno, nel recente passato, prodotto esiti spaziali indesiderabili.

Altri Comuni dell’hinterland, anch’essi segnati da vicende ‘mafiose’, hanno avviato esperienze volte alla tutela della trasparenza, facendosi promotori di una politica della legalità in un contesto regionale fatto di luci e ombre come quello lombardo.

Corsico: un laboratorio della legalità per il governo dei beni comuni

A Corsico, un centro di oltre 30.000 abitanti a sud-ovest di Milano, da quasi dieci anni le Amministrazioni Comunali stanno conducendo una dura lotta contro l’evasione fiscale che ha portato anche all’arresto di alcune persone legate alla ‘ndrangheta, tramite gli accertamenti immobiliari eseguiti su immobili intestati a neo-maggiorenni nullatenenti. L’Amministrazione di Corsico ha investito sulla costruzione di una banca dati informatizzata che consente la sovrapposizione dei dati tributari, anagrafici ed edilizi, e sul ricorso ad efficaci strumenti per effettuare controlli incrociati. Ad esempio, con il monitoraggio dei passaggi di proprietà immobiliari, può oggi individuare plusvalenze che non vengono corrisposte all’erario semplicemente confrontando le date di acquisto e di vendita delle aree con i dati dei permessi di costruire. Se si riscontra un’anomalia, gli uffici comunali inviano la segnalazione all’Agenzia delle Entrate, che rimane l’unico ente competente per accertamenti tributari. Inoltre, a seguito di una convenzione stipulata nel 2010 con la stessa Agenzia delle Entrate, nel caso in cui la segnalazione venga accertata, la casse comunali incasseranno il 33% delle somme riscosse. L’impegno del Comune di Corsico non si ferma alla lotta all’evasione fiscale: Maria Ferrucci, sindaca di Corsico dal 2010 e il suo assessore all’Urbanistica Emilio Guastamacchia (anch’egli docente al Politecnico di Milano) hanno fatto della legalità una delle bandiere del loro mandato, diventando un modello di buona gestione per prevenire e contrastare le infiltrazioni criminali e assicurare la trasparenza amministrativa quale elemento fondamentale per garantire equità e giustizia sociale: ad esempio con l’istituzione di un “laboratorio legalità” cittadino che ha l’obiettivo di promuovere iniziative sociali e di elaborare strumenti amministrativi sempre più efficaci al fine di contrastare gli interessi illeciti concentrandosi, invece, sul governo dei beni comuni.

Merlino: un Protocollo di legalità per gli operatori immobiliari

Anche a Merlino, un piccolo centro di 1.800 abitanti al confine tra le province di Lodi e Milano, al fine di limitare le infiltrazioni mafiose nelle operazioni immobiliari private, è stato elaborato dall’Ufficio Tecnico Comunale, quale osservazione al PGT adottato, e sostenuto dal Sindaco, Dr. Giovanni Fazzi, un “Protocollo di legalità” che ora è parte integrante del Piano delle Regole del proprio PGT, in vigore dal luglio 2010. Il Documento di Piano indica come obiettivi principali il riuso delle numerose cascine dismesse al fine di contenere le nuove aree di espansione, la valorizzazione del sistema ambientale che in questo contesto è caratterizzato da un buon livello di qualità, il miglioramento della fruizione dei corridoi ecologici sovralocali e la compensazione ambientale per i nuovi interventi di espansione. All’interno di queste strategie si innesca il Protocollo di legalità che, facendo riferimento all’articolo 11 della legge urbanistica lombarda (L.R. 12 del 2005), che consente “…a fronte di rilevanti benefici pubblici, aggiuntivi rispetto a quelli dovuti e coerenti con gli obiettivi fissati, una disciplina di incentivazione in misura non superiore al 15% della volumetria ammessa per interventi ricompresi in piani attuativi finalizzati alla riqualificazione urbana e in iniziative di edilizia residenziale pubblica, consistente nell’attribuzione di indici differenziati determinati in funzione degli obiettivi di cui sopra…”, prevede che il bonus sia concesso, nella misura del 7%, agli operatori che realizzino immobili con sistemi di risparmio energetico avanzato, e nella misura dell’8% agli operatori che, in modo del tutto volontario, sottoscrivano il Protocollo. Con l’adesione al Protocollo, gli operatori immobiliari, in cambio del bonus volumetrico si impegnano a trasmettere all’Ufficio Tecnico Comunale informazioni sulla composizione societaria, sui contratti per lavori e forniture e sui subcontratti, adottando gli adempimenti anti-mafia in vigore per gli appalti pubblici. I contenuti del Protocollo diventeranno parte integrante della Convenzione Urbanistica che normerà il piano attuativo. Per i necessari controlli e verifiche l’Ufficio Tecnico si appoggerà al Prefetto, che rimane l’istituzione territorialmente competente in tema di anti-mafia. Il testo del Protocollo è l’esito di incontri e confronti tra le strutture comunali, la Prefettura, le associazioni di categoria e le associazioni di volontariato che si occupano di legalità sul territorio.

Milano: l’istituzione della Commissione antimafia

Infine, ultima in termini temporali, ma non certo per importanza, l’istituzione nel novembre 2011 a Milano di una Commissione antimafia per il contrasto della criminalità organizzata, fortemente voluta da Giuliano Pisapia anche in vista di Expo 2015: guidata da Nando Della Chiesa, e composta da Umberto Ambrosoli, Luca Beltrami Gadola, Maurizio Grigo e Giuliano Turone, essa opererà a titolo gratuito. Ed anche il Consiglio provinciale di Milano sta dando vita a una commissione consiliare antimafia che si propone di collaborare con quella milanese, la cui istituzione è stata formalizzata nella seduta consiliare del 16 gennaio.

La legalità quale strategia territoriale per uno sviluppo sostenibile

E’ possibile dunque per le amministrazioni locali impegnarsi concretamente per contrastare la criminalità organizzata che, con le sue mille sfaccettature e i suoi molteplici tentacoli, ha trovato in Lombardia varchi in contesti territoriali a lei sconosciuti ed è riuscita, infiltrandosi nel tessuto economico locale, a inquinare anche le tradizionali forme di rappresentanza democratica. E’ altresì possibile, attraverso la condivisione di buone pratiche che sono espressione di Amministrazioni Comunali che governano in nome del bene comune e non dell’affarismo, trovare nuove forme di contrasto per tutte le mafie, per immaginare un futuro diverso per il territorio lombardo: un futuro meno ‘vorace’ e più attento alla tutela delle risorse territoriali, degli equilibri ambientali e della qualità di vita dei suoi abitanti.

Queste esperienze sono importanti anche nell’ottica della futura città metropolitana di Milano. Il Piano generale di sviluppo del Comune di Milano 2011-2016 approvato negli ultimi giorni del dicembre 2011 - a seguito delle nuove Linee Programmatiche approvate dal Consiglio Comunale il 27 giugno 2011 ( il testo è allegato a Bottini in eddyburg.it, 2011) -, cita esplicitamente il concetto di legalità quale linea di intervento prioritaria, nella consapevolezza che “non basta il necessario contrasto all’illegalità e alle situazioni di criticità, non basta dare delle risposte alle forme di disagio, bisogna imprimere la consapevolezza che il contrasto all’illegalità, le relazioni solidali, la coesione sociale appartengono a una profonda cultura di legalità, di rispetto delle regole, di impegno per il bene comune.”

Riferimenti:

- Bottini F. (2011), “Urbanismo, carbone e bordelli” in eddyburg.it, 1 gennaio.

- DiAP, INU, Legambiente (2011), Rapporto 2011 sul Consumo di Suolo, Roma, INU edizioni.

Nel corso del 2007, la regione Puglia guidata da Nichi Vendola, con l’assessore all’Assetto del territorio Angela Barbanente, ha avviato la redazione del nuovo Piano paesaggistico territoriale regionale (Pptr), affidandone il coordinamento scientifico ad Alberto Magnaghi dell’Università di Firenze. L’attività di redazione del piano è nella sua fase centrale, con lo svolgimento delle conferenze di pianificazione di dicembre 2008 ad Altamura, Acaja, Lucera. Qui si sono affermati alcuni cardini dell’azione di piano (la “certezza” del vincolo, la conoscenza e rappresentazione delle peculiarità dei paesaggi regionali, lo stop al consumo di suolo, l’integrazione paesaggistica delle politiche agricole in una prospettiva multifunzionale, la tensione verso la riqualificazione dei paesaggi degradati della periferia, della campagna e della costa, la partecipazione degli abitanti alla costruzione del piano ecc.) che cercherò di sintetizzare, non prima di aver collocato il Pptr in un quadro più generale. Esso sostituirà, una volta concluso l’iter di approvazione, il Piano urbanistico territoriale tematico, Putt., attualmente in vigore che, anche per un notevole deficit conoscitivo, rinvia essenzialmente ai comuni e ai singoli progetti le scelte di trasformazione. Una forte volontà politica di rilanciare la qualità del governo del territorio nella regione si è concretizzata tra l’altro nel Drag (Documento regionale di assetto generale, http://www.regione.puglia.it/drag/) un insieme di atti amministrativi e di indirizzi alla pianificazione provinciale e comunale che, previsto dalla legge regionale 20/2001, ne rilancia l’efficacia.

La conoscenza condivisa

La riorganizzazione degli strumenti di governo del territorio ha significato anche una forte spinta verso la creazione di “conoscenza condivisa”: la redazione della nuova carta tecnica alla scala 1:5.000 a cura di Tecnopolis, unita a specifici indirizzi del Drag, rende possibile in prospettiva l’omogeneità dell’organizzazione delle informazioni pur nel rispetto delle peculiarità locali. Alcuni esempi apprezzabili si hanno già con alcuni piani comunali in fase di redazione, come quello di Manfredonia.

Su queste basi si sono avviate altre operazioni di conoscenza. La redazione della carta Idrogeomorfologica regionale (affidata all’Autorità di bacino pugliese) definita con la collaborazione dei redattori del Pptr, si concluderà entro i primi mesi del 2009. La redazione della Carta dei beni (coordinatori prof. Giuliano Volpe rettore dell’Università di Foggia e l’arch. Ruggero Martines, Direttore regionale per i Beni culturali e paesaggistici della Puglia) ha il compito di censire tutti i beni immobili e le aree di valore culturale e paesaggistico localizzati in aree extraurbane. La redazione della Carta può contare su di un costante confronto con l’azione di piano, affinché essa divenga non solo strumento di tutela, ma premessa alle azioni di “valorizzazione integrata” e di sviluppo sostenibile nell’ambito del più ampio quadro di azione del Pptr.

In una amministrazione ristrutturata per Aree dentro le quali si vuole avviare un maggiore coordinamento tra settori, si colloca la redazione del Pptr: occasione ulteriore per una azione di raccordo tra gli strumenti di conoscenza, programmazione, pianificazione, grazie anche al lavoro di un gruppo di Vas (Iuav Studi e Progetti) che indaga le ricadute delle azioni di piano sui vari settori interessati. È chiara la necessità che il Pptr, nel corso della sua redazione, dialoghi con gli altri strumenti (il Piano di sviluppo rurale, il Piano delle infrastrutture, il Piano delle coste, i piani di area vasta, i Ptcp ecc.) e orienti le “politiche” attive sul territorio e sul paesaggio regionale.

Tre sezioni

Il Pptr come strumento tecnico è articolato in tre sezioni: l’Atlante del Patrimonio Ambientale, Paesaggistico e Territoriale, lo Scenario Strategico, le Regole.

L’Atlante costituisce il quadro conoscitivo del Pptr, che organizza il corpus di informazioni derivante dalle varie operazioni conoscitive avviate e pregresse, arricchite da indagini originali svolte dalla Segreteria Tecnica del Pptr. Le sezioni dell’Atlante alle differenti scale sono articolate in livelli analitici, sintesi strutturali e descrizioni patrimoniali. Questa struttura conoscitiva è orientata (oltre che alla riorganizzazione delle informazioni, ad esempio alla sistematizzazione del quadro dei vincoli su basi cartografiche certe) alla descrizione delle peculiarità regionali e alla evidenziazione delle regole insediative che le hanno prodotte.

L’indagine storica tende a ricostruire, nel lungo periodo, le grandi fasi di territorializzazione [fig.1], ad indagare la formazione dei caratteri dei paesaggi rurali assegnando ad alcuni un carattere “tradizionale”; ad analizzare le forme dell’insediamento nelle sue evoluzioni, specie nella variazione del rapporto tra spazio costruito e spazio aperto; a definire le “figure territoriali e paesaggistiche”, unità di “minima scomposizione delle individualità territoriali con una specifica struttura morfotipologica”. Il Piano rivolge molta attenzione alle dinamiche contemporanee, per poter registrare la natura della loro incidenza sulle grandi strutture invarianti che connotano il territorio regionale. Individuate le componenti strutturali dei diversi paesaggi regionali (e compiuto il tentativo di “rappresentarle” in elaborati efficaci, come ad esempio la Carta del patrimonio territoriale dei paesaggi della

Puglia [fig.2], che sarà anche articolata al livello di ambito e figura territoriale), il piano và definendo degli “obiettivi di qualità“ e calibrando regole per realizzare le condizioni della loro riproduzione in coerenza con il cammino tracciato dal DRAG per gli strumenti provinciali e comunali, che dovranno trovare nel piano regionale una salda visione di insieme.

La volontà di evidenziare la “lunga durata” delle dinamiche che hanno strutturato nel tempo la formazione delle peculiarità dei paesaggi pugliesi è una attenzione al passato rivolta essenzialmente a radicare nel territorio le scelte dello Scenario Paesaggistico contenuto nella seconda parte del Pptr, prefigurazione del futuro di medio e lungo periodo del territorio della Puglia. Lo scenario serve da riferimento strategico per “avviare processi di consultazione pubblica, azioni, progetti e politiche, indirizzati alla realizzazione del futuro che descrive”.

La terza parte organizza l’insieme delle Norme, che è prematuro trattare: sono un elenco di indirizzi, direttive e prescrizioni che dopo l’approvazione del Pptr avranno un effetto immediato sull’uso delle risorse che costituiscono il paesaggio. Tuttavia, nella calibrazione degli indirizzi e delle direttive tese al raggiungimento degli “obiettivi di qualità”, il Pptr (tra i primi strumenti regionali a sperimentare nel corso della sua redazione forme attive di partecipazione in applicazione della Convenzione europea del paesaggio) ha avviato la produzione di “linee guida” e di “progetti integrati sperimentali” tesi al raggiungimento degli assetti prefigurati negli scenari. Linee guida e progetti sono rivolti soprattutto ai pianificatori e ai progettisti, ma in diversi modi coinvolgono i “produttori” di paesaggio (costruttori, imprenditori agricoli, amministratori, abitanti riuniti in associazioni ecc.).

Le linee guida, in parte operanti all’interno dei progetti integrati che tentano di tipizzare, vengono redatte in forma di schede-norma, abachi e regolamenti mirati a particolari aspetti gestionali o costruttivi la cui dimensione interessa gli aspetti paesaggistici. Ad esempio, rispetto alla qualificazione ambientale e paesaggistica delle infrastrutture lineari (strade, ferrovie, linee elettriche, acquedotti), verranno rilasciate apposite linee guida con il concorso del recente Piano Regionale delle infrastrutture. Per la rete di mobilità infraregionale su ferro, si sono attivati due progetti sperimentali di valorizzazione di ferrovie minori: la Ferrovia del Parco nazionale dell’Alta Murgia e la Ferrovia del Parco nazionale della Valle dell’Ofanto. Su altre infrastrutture di produzione energetica (impianti fotovoltaici ed eolici) linee guida ad hoc detteranno i criteri localizzativi, dimensionali e tipologici.

Un altro esempio di linee guida si svolge nel campo delle morfotipologie insediative delle urbanizzazioni contemporanee, delle periferie e degli insediamenti costieri degradati, assumendo la necessità di una loro riqualificazione paesaggistica: qui il Pptr si appoggia sul Programma 2007-2013 di “Riqualificazione dei paesaggi dell’abbandono e della marginalità”. Anche la qualificazione paesaggistica e ambientale di un regolamento edilizio interessa un progetto sperimentale e darà vita a specifiche linee guida: con il Comune di Giovinazzo si propone un regolamento-tipo regionale, con l’introduzione di regole qualitative sui materiali da costruzione, le tipologie, i colori, l’inserimento edilizio nel paesaggio urbano e rurale, ecc. Un altro protocollo riguarda il regolamento per il Parco Nazionale dell’Alta Murgia concordato con l’Ente parco, che prevede indicazioni morfotipologiche per gli interventi di recupero e di nuova edificazione. Sui temi della riprogettazione delle strutture balneari e sul recupero delle aree costiere abbandonate è allo studio la delocalizzazione di oltre 400 alloggi abusivi a Lesina, con la decisione dell’assessorato regionale all’Assetto del Territorio di dare operatività al progetto esecutivo (Pirt) di demolizione, in quanto tali edifici compromettono la fascia dunale.

Dal punto di vista del recupero paesaggistico e ambientale, sono stati avviati progetti di recupero di cave a Cursi, Apricena, Avetrana, con ipotesi di riuso per funzioni pubbliche. L’integrazione delle linee guida con i progetti sperimentali è particolarmente evidente sulla progettazione e gestione di aree produttive ecologicamente e paesisticamente attrezzate (Apea). Rispetto a questo tema, sono stati firmati protocolli con il comune di Cisternino, nell’ambito del PUG, e con il comune di Modugno: le linee guida che ne deriveranno ambiscono a declinare regole generali da applicare nelle aree Pip e nelle zone Asi.

Il Piano mette in campo altri progetti. Ad esempio, proposte per una guida turistica innovativa sulla base dell’Atlante, che aiuti alla comprensione ecologica e storico strutturale dei paesaggi; restauri e recuperi di tratturi ancora integri o riconoscibili (ad esempio presso Motta Montecorvino, nel Subappenino Dauno, o nel tratto terminale del Tratturo Pescasseroli-Candela); riapertura di un “corridoio ecologico” in provincia di Foggia, sul torrente Cervaro, come anticipazione della Rete ecologica regionale, ecc.

Coinvolgimento degli abitanti

Soprattutto, il piano esprime al fondo una tensione al coinvolgimento degli abitanti nei processi conoscitivi e decisionali riguardo al paesaggio regionale, che si esplica anche nella scelta e nella calibrazione dei progetti integrati: ad esempio, con la redazione di mappe di comunità a Botrugno, Acquatica, Neviano, dove il processo di costruzione delle mappe ha potuto contare su azioni già avviate sul territorio, mentre è stato firmato recentemente un protocollo per l’Ecomuseo della valle del Carapelle, che integra al suo interno le mappe di comunità. In questo senso va il protocollo firmato con il Comune di San Cassiano e il Laboratorio urbano aperto (Lua), attivato per sostenere la realizzazione di un progetto in forma partecipata, avviato da tempo, di un parco agricolo multifunzionale nel Salento.

In questo spirito, il Pptr sta sviluppando un sito (dove saranno pubblicati in progress gli elaborati del piano) che include l’Osservatorio del paesaggio: uno strumento calibrato sui principi della Convenzione Europea del Paesaggio nel tentativo di indagare le percezioni degli abitanti, singoli o associati, del loro ambiente di vita (www.paesaggiopuglia.it). Qui qualsiasi utente ha la possibilità di contribuire a costruire una mappa “dal basso” con le proprie segnalazioni relative ai beni del paesaggio e alle offese al paesaggio, alle buone e alle cattive pratiche riferite al paesaggio. Vuole essere un segno di attenzione alla voce e alla sensibilità degli abitanti, e un tentativo di fare emergere (mappando le buone pratiche) quelle energie progettuali che il piano paesaggistico intende esaltare includendole nel proprio scenario strategico.

L’area vasta della Città Murgiana così come individuata dalla Regione Puglie nel definire i bacini per la pianificazione strategica, comprende le circoscrizioni comunali di Altamura, Gravina in Puglia, Poggiorsini e Santeramo in Colle, per un totale di circa 140.000 abitanti su 995 chilometri quadrati.

Una comunità locale che si interroga sul proprio presente e riflette sul futuro esprime la propria capacità di coesione sociale e territoriale; di sviluppo avveduto e lungimirante, a migliorare la qualità della vita, promuovere la crescita culturale, valorizzare le risorse economiche, sociali, ambientali, rafforzando ad un tempo la propria identità. Il percorso di pianificazione strategica è dunque molto articolato, anche se si rende più fluido alimentandosi alla ricchezza della società e dell’ambiente locale. Però è anche possibile più semplicemente chiedersi: dove vogliamo andare?

E semplicemente rispondersi: verso uno spazio territoriale simile a quello attuale, ma che ha evitato il rischio del degrado da sprawl organizzandosi per nodi compatti entro una rete policentrica non gerarchica. In tal modo, si sono rallentati i ritmi di consumo delle risorse, la rigenerazione e riqualificazione prevalgono sull’urbanizzazione. Lo sviluppo è qualificato, diversificato, parallelo e complementare alla diffusa crescita della qualità della vita locale. Un turismo culturale ecocompatibile si affianca alla rigenerazione urbana e alla tutela del paesaggio agricolo e naturale.

È stata una rilettura della storia locale a individuare nelle fratture e discontinuità sociali, nel rapporto a volte perverso fra sviluppo economico e sociale e risorse territoriali, uno dei principali elementi di debolezza strutturale. Quindi ora si tratta di privilegiare un percorso di rete territoriale, integrato non solo nelle singole azioni, ma anche nell’orizzonte di sviluppo.

I vantaggi di una Città delle Reti si riassumono in:

● uso avveduto delle risorse (finanziarie, manageriali e politiche) per la realizzazione di progetti di rilevanza intercomunale;

● valorizzazione del capitale sociale;

●economie di scala grazie alla dimensione territoriale e al coinvolgimento della collettività;

● costruzione di consenso per alcuni progetti condivisi di rilevanza strategica per i rapporti con le reti esterne;

● possibilità di avviare un marketing territoriale unitario;

● aumento della competitività generale;

● miglioramento dell’abitabilità/vivibilità urbana integrata alle reti ambientali;

● giudizioso consumo delle risorse territoriali, nella prospettiva di una vera autosostenibilità locale.

La rete della Comunità

Esiste nel territorio un capitale sociale incorporato nei luoghi sotto forma di senso di appartenenza e di tradizioni identitarie consolidate, e un capitale relazionale dato dalla capacità di cooperare per la salvaguardia e valorizzazione del territorio, per un minimo consumo di suolo, per migliorare la coesione sociale attraverso servizi unificati.

Si individuano da subito almeno due opportunità in questa direzione: l’elaborazione congiunta degli strumenti urbanistici (in particolare delle“previsioni strutturali” dei piani urbanistici comunali che definiscono le grandi scelte di assetto territoriale, e identificano i valori e gli obiettivi non negoziabili che sono l’espressione dell’integrità fisica, dell’identità ambientale, storica, culturale, e la struttura portante dell’infrastrutturazione e attrezzatura del territorio); l’elaborazione alla scala intercomunale delle politiche e dei progetti di rigenerazione urbana.

La rete dell’Abitare

Abitabilità ( livability), significa reinterpretare gli elementi fisici e sociali positivi della città tradizionale proiettandoli verso il futuro, con modelli insediativi compatti, densi, misti, ben accessibili, attenti allo sviluppo spaziale e socioeconomico sostenibile, e alla solidarietà sociale: tutti elementi scomparsi dall’insediamento disperso.

Si tratta di migliorare sensibilmente la qualità di vita degli abitanti e il senso di comunità, ponendo al centro la tutela delle risorse non intaccate dall’urbanizzazione, un potenziamento del trasporto pubblico, un’accessibilità per reti gerarchiche integrate, dove a ciascuna modalità – pedonale, ciclabile, automobilistica, coi mezzi collettivi - corrispondono funzioni, densità, servizi, uso specifico dello spazio, qualità e sicurezza adeguate.

All’assetto fisico del territorio si accompagna un recupero della ”urbanità”, obiettivo ricco di significati: piacere di vivere la città per il suo carattere sociale; eterogeneità, sicurezza, apertura, orgoglio locale, impegno ad agire eventualmente insieme.

Migliorare l’abitabilità territoriale, costruire una nuova urbanità, passa attraverso la realizzazione di progetti anche delimitati per settore e territorio, ma orientati a obiettivi generali.

La rete dei Flussi

La Città Murgiana si configura come arcipelago di relazioni determinate dai più recenti sviluppi delle infrastrutture stradali, dal sistema socioeconomico autocentrico al quale col tempo si sono aggiunte le aggravanti dei forti costi di adeguamento dei trasporti pubblici, e la catena di automatismi progettuali incrementali associati alla routine delle decisioni urbanistiche comunali. Appare però possibile affrontare il tema avvincente di una nuova progettualità a rete pensando ad esempio a percorsi continui pedonali-ciclabili integrati a strade e fermate del trasporto pubblico, alle comunicazioni telematiche, al coordinamento localizzativo delle funzioni polarizzate. I progetti infrastrutturali del futuro avranno come obiettivo quello di migliorare i caratteri di integrazione al contesto, e evitare una genesi separata delle opere rispetto al territorio di cui dovrebbero essere parte. Adeguamenti e connessioni sulla grande rete di viabilità saranno orientati a partire dalla priorità del tessuto urbano e territoriale locale.

La rete della Storia e della Natura

Il paesaggio dell’altopiano è risorsa unica, patrimonio nel quale si riflette in modo tangibile e immateriale la storia in evoluzione delle comunità. La sedimentazione storica costituisce un complesso di asset strategici disponibili, se ben compresi nella loro natura profonda, ad intrecciarsi virtuosamente con lo sviluppo sociale ed economico, nel segno della qualità e del benessere nel territorio locale. Sinteticamente le azioni saranno orientate a:

● ri-conoscere e promuovere il patrimonio esistente in tutta la ricchezza e diversità;

● individuare contesti ambientali e metodologie per la loro valorizzazione culturale;

● dotare il territorio di un sistema di monitoraggio dei siti turistico-culturali;

● creare una rete di istituzioni al fine di potenziare la consapevolezza del valore identitario.

In particolare per il riuso e valorizzazione del patrimonio storico sarà centrale l’impegno a progettare un organico piano di recupero e di rivitalizzazione dell’intero parco dell’architettura costruita.

In un contesto di reti urbane, rurali, naturali, il ruolo della campagna e della natura appare molteplice e complesso. Dalla promozione del territorio come giacimento di prodotti di qualità, o del sistema distributivo secondo una interpretazione allargata della formula “km zero” delle filiere corte. Valorizzare la produzione locale di alta qualità anche con sperimentazioni nel campo della distribuzione organizzata, inserendo il modello “ farmer’s market” anche nei progetti di riqualificazione urbana.

Assumono nuovo senso alcuni elementi fondativi della pianificazione territoriale, come la greenbelt agricola a delimitare l’urbanizzato e incentivare la rigenerazione, i corridoi o greenways a integrare la rete della mobilità locale sostenibile in parallelo ad attività agricole; l’integrazione fra reti ecologiche riducendo al minimo il consumo di suolo. Secondo un’idea di vero e proprio metabolismo alimentare della regione urbana.

La rete dello Sviluppo

Un futuro di continuità e cambiamenti dell’ambiente socio-economico vede alla base dimensioni e qualità disponibili, da cui sviluppare processi di upgrading del sistema senza trascurare aspettative sociali di breve periodo. Dove sussiste una concentrazione di domanda, lo sviluppo dell’offerta appare più facile: nei poli urbani. Unico polo attualmente dotato di dimensione “economicamente” rilevante è Altamura, che svolgerà una funzione di caposaldo.

Santeramo sarà nodo specializzato di massima concentrazione di attività manifatturiere. La zona industriale di Jesce si relazione direttamente a quella in territorio di Matera, costituendo già al presente e ancor più nel futuro una forte polarità continua aperta a sperimentazioni innovative delle produzioni e di governance.

Gravina e Poggiorsini si configurano come centri di alta qualità abitativa-residenziale e ambientale estesa a funzioni di qualità e benessere anche salutistico, in una continuità interregionale.

Per quanto riguarda l’industria agroalimentare, il futuro prospetta varietà e tecniche colturali capaci di assorbire le innovazioni e le tecnologie, ora prodotte all’esterno dell’area, giovandosi della rete di conoscenza e ricerca. Ma si tratta di connettere capacità esistenti ma sparse, integrarle con ricerca e innovazione e specializzarle in termini di selezione varietale e di marketing.

Il sistema produttivo appare in parte penalizzato da carenze infrastrutturali dell’area, ma la logistica da sola non è in grado di creare le condizioni di miglioramento. La realizzazione delle infrastrutture dovrà essere inserita in modo integrato nello sviluppo del territorio, attraverso piani di area vasta, e adeguata ai vari obiettivi generali di sviluppo.

Nota: questo testo è stato elaborato appositamente per eddyburg.it, ma è desunto dagli studi e documenti confluiti nella Visione della Città Murgiana della Qualità e del Benessere. Tutti i documenti del Piano Strategico sono disponibili sul sito http://www.lacittamurgiana.it (f.b. - m.c.g.)

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