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Molte anime belle, comprendenti gran parte delle persone con cui condivido pensieri, analisi, critiche e moventi, continuano a rivolgere le loro attese, le loro speranze e i loro appelli a soggetti le cui storie e le cui posizioni li rendono assolutamente improponibili come promotori e attivisti di una fase di reale e radicale cambiamento.

Continuano così a rivolgersi a questo o a quel governo, a questa o quella formazione politica presente sul teatrino della politica politicante. Compiendo così un duplice errore: trasmettere la fiducia nella possibilità di quei soggetti a promuovere un cambiamento del mondo che essi stessi hanno contribuito a determinare, e impedire così alla cittadina e al cittadino lontani da quel teatrino incapaci di comprendere ciò che realmente accade e quindi a rendersi disponibili a un reale mutamento.

Parlare oggi di un parlamento democratico significa evocare un mito di cui si sono perse le tracce negli anni recenti. Significa evocare un tempo nel quale i diversi progetti di società espressi in funzione dei differenti interessi di parti della società trovavano insieme il luogo del confronto dialettico e quello della composizione del conflitto fra le parti. Ogni parte aveva dignità, la sua storia, la sua cultura e i suoi esponenti potevano testimoniare la coerenza con la storia personale e di gruppo.

Il parlamento era il luogo dello Stato, rappresentante degli interessi di ogni nazione entro il quale si svolgeva la dialettica. In questo quadro si svolgeva il momento delle elezioni. Queste erano lo strumento mediante cui si verifica quale fosse il consenso ottenuto da ciascuna delle parti e il Parlamento era il luogo istituzionale nel quale si definivano le alleanze necessarie per assicurare il governo dello stato.

Oggi tutto è cambiato. Al posto dei partiti sono nati raggruppamenti elettorali costituenti meri serbatoi di voti raccolti in nome di slogan superficiali, da leader che si sono resi accattivanti mediante tecniche analoghe a quelle che fanno la fortuna dei capipopolo o dei guitti dell’avanspettacolo o, nel migliore dei casi, di una popolarità acquisita attraverso la sapiente modulazione di campagne mediatiche.

Ecco perché oggi ciascuna formazione politica conta in misura dell’ampiezza dei voti di cui essa può contenere, spostandola a seconda della convenienza del momento da una sigla a un’altra, dal rosso al verde, dal bianco al nero, o per dar luogo ai più bizzarri intrecci di colori.
In tal modo la politica quale l’abbiamo conosciuta in tempi ormai lontani è scomparsa del tutto dall’insieme degli interessi quotidiani della più gran parte delle persone. Ecco perché l’astensionismo è endemico così come il richiudersi degli interessi dei potenziali elettori nei microcosmi più legati alla loro quotidianità.

Che fare per uscire da questo stallo? È un problema che si pone in modo particolarmente drammatico negli anni in cui eventi catastrofici minacciano il pianeta, in cui gli interventi e la riduzione del consumo energetico e l’uso parsimonioso delle risorse disponibili sono vitali.
Si pensi solo all’immane spreco di risorse che viene effettuato ogni giorno in misura crescente per alimentare il complesso militare e incrementare la spesa diretta e indiretta per futuri sforzi bellici, dove addirittura le guerre sono inventate, fomentate e usate per sostenere una crescita economica volta ormai solo alla distruzione.

Le bandiere arcobaleno sono ormai archiviate nei musei, ma nessuno dei raggruppamenti politici che usano e abusano della loro presenza nei parlamenti, in cui dovrebbero assumersi impegni, sembra accorgersene.

La risposta non può essere cercata nei blandi richiami del Presidente della Repubblica, che dovrebbe essere il tutelatore della corrispondenza fra le scelte politiche e i principi di fondo della Costituzione repubblicana, ma solo da un movimento di fondo delle speranze deluse, delle attese frustrate, dei tradimenti patiti, aprendo la strada a una nuova fase costituente basata sulla disponibilità a guardare con occhi nuovi la storia.

La Laguna di Venezia è un ecosistema vasto e complesso che appartiene oggi a 9 comuni, le cui vicende sono correlate all’evoluzione di un bacino che ne comprende 110. Per dieci secoli, sino al xviii, il governo unitario della Laguna è stato garantito dalla Serenissima Repubblica. È un ambiente unico al mondo: è l’ultima laguna rimasta tale per secoli. Infatti la laguna è per definizione, un sistema in equilibrio instabile, tra due forze contrastanti: le acque dei fiumi che portano verso il mare gli apporti solidi e le onde marine che erodono le coste. Ghiaie, sabbia, limo, residui vegetali che i fiumi portano verso la foce si depositano assumendo la forma di lunghe “barre” semi sommerse che, poco a poco generano i più stabili lidi. Tra i lidi e i margini della terraferma si forma uno specchio d’acqua salmastra irrorato dalle acque dolci dei fiumi e da quelle salate del mare, che penetrano dalle bocche rimaste aperte tra i lidi. Il fondale è formato dagli innumerevoli letti dei meati fluviali che nei secoli lo hanno percorso, scavando dove più dove meno, depositando detriti in misura più o meno vistosa. Si creano terre che per qualche ora al giorno o qualche settimana all’anno emergono dalle acque e ospitano variabili vegetazioni e specie animali. Su questi isolotti, formati dalle foci dei numerosi corsi d’acqua, le prime famiglie di pescatori e poi i popoli fuggitivi dall’entroterra sospinti dalle ondate dei “barbari”, consolidarono il terreno, costruendovi dapprima abitazioni e villaggi, poi la loro città, Venezia.

La laguna è per sua natura condannata da due diversi e opposti destini. Se vince la forza dei fiumi terragni, se prevale l’accumulo dei depositi solidi ecco allora che la laguna da instabile e multiforme specchio d’acqua si trasforma in uno stagno, poi in una palude, e finalmente, magari bonificata dalle umane opere, in un campo. Se vince la forza delle onde marine, l’erosione asporta terra trasformando la laguna in un braccio di mare, baia o golfo.

Contro questi due destini la Serenissima ha combattuto vittoriosamente per mille anni perché ha impegnato in questo obiettivo tutte le intelligenze presenti, le tecnologie adeguate, le risorse mobilitabili, l’autorità disponibile, le capacità di amministrazione saggiamente costruite. La scommessa era mantenere un sistema permanente. Sistema: un organismo costituito da un complesso di elementi, ciascuno dei quali essenziale e vitale, e ciascuno legato agli altri da precise relazioni, non modificabili a piacere senza condurre il sistema al collasso. Permanente: capace di rimanere tale nel tempo, governato dalle medesime leggi mutevoli della natura, benché soggetto agli ulteriori cambiamenti che gli eventi esterni e l’azione dell’uomo producevano. Soprattutto, significava adoperare le leggi della natura con un’accortezza ancora maggiore di quelle che la natura stessa avrebbe impiegato, poiché si trattava di rendere permanente un sistema che essa avrebbe cancellato, in un modo o nell’altro.

La caduta della Repubblica di Venezia (1797) fu senza dubbio la causa più appariscente del cambiamento: la fine di un governo unitario della Laguna. Eventi più vasti erano accaduti e il mondo era cambiato. Il trionfo del sistema economico-sociale capitalistico aveva introdotto modi nuovi di governare i rapporti tra gli uomini e quelli degli uomini con la natura e il mondo circostante. Ogni frutto prodotto dall’uomo o dalla natura, da bene (oggetto dotato d’una sua individualità e di un suo valore d’uso) era stato trasformato in merce (mero deposito di valore di scambio, oggetto fungibile con qualsiasi altro). L’individualismo, molla potente del progresso quantitativo, aveva via via cancellato le regole della comunità, soprattutto là dove queste minacciavano il “diritto” all’appropriazione privata dei beni disponibili. L’ambiente naturale, fino ad allora rispettato e temuto compartecipe dell’essere umano nel suo progetto di trasformazione e utilizzazione del mondo, era diventato semplice materia prima dello sfruttamento capitalistico. Lo Stato era diventato strumento per l’affermazione d’ogni borghesia capitalistica, nella concorrenza feroce per l’impossessamento di “ambienti” diversi, di “nature” diverse da sfruttare, trasformare, alienare.

Questi grandi mutamenti si riflettono sulla Laguna di Venezia. Dissolto l’ombrello protettivo delle regole che tutelavano i regimi proprietari, e la stessa consapevolezza della laguna come bene comune, parti estese del territorio lagunare sono privatizzate (bonificate o trasformate in bacini chiusi da argini) e usate in vista di tornaconti immediati. Ridotto così (di circa un terzo in mezzo secolo) l’ambito dove potevano estendersi le maggiori alte maree e le piene dei fiumi sversanti in Laguna, sono aumentate le frequenze e le intensità delle inondazioni dei centri abitati. Analogo effetto ha avuto l’approfondirsi dei maggiori canali d’accesso e delle stesse bocche di porto per i dragaggi effettuati onde consentire l’ingresso alle zone industriali di navi di grande pescaggio. Masse imponenti d’acqua si sono riversate dal mare in Laguna ogni volta che la fase lunare, il vento e la depressione atmosferica aumentavano il dislivello tra l’acqua esterna e quella interna. Questi effetti sono stati aggravati da due ulteriori eventi. Da un lato, il venir meno dell’attività di manutenzione continua della rete canalicola nelle zone più lontane dalle bocche di porto ha reso le parti marginali della laguna più difficilmente raggiungibili dall’onda di marea, e quindi ha ridotto ancora il bacino d’espansione efficace. Dall’altro lato, le esigenze della produzione industriale hanno provocato, nella terraferma, l’attivazione di numerosi pozzi di prelievo dell’acqua di falda, causando l’abbassamento del livello di quest’ultima e, con essa, di quel soprastante strato solido di argilla compattata da millenni (il caranto) che sorregge i limi e le sabbie su cui sorgono Venezia e gli altri centri lagunari.

L’equilibrio della Laguna viene progressivamente compromesso. L’acqua del 1966, per l’effetto congiunto della tracimazione dei fiumi e di un’eccezionale alta marea marina, minaccia di distruggere Venezia e gli altri insediamenti lagunari. Si apre un vasto dibattito per comprendere come si può salvare Venezia. Emerge la verità: le logiche di trasformazione otto-novecentesche, incuranti delle caratteristiche peculiari dei territori, producevano danni irreversibili, occorreva cambiare radicalmente indirizzo e trattare la Laguna come un sistema. Un primo risultato di quel dibattito fu la legge 171 del 1973. In realtà la legge apparve il frutto del compromesso tra due logiche. Così le descrive Luigi Scano nel libro Venezia: terra e acqua: la logica che «concepisce la laguna veneziana come un comune bacino d'acqua regolato da leggi essenzialmente meccaniche», e quella che «intende invece la laguna come un delicato ecosistema complesso, regolato da leggi che, con qualche forzatura, sono piuttosto apparentabili alla cibernetica, e rivolge i propri interessi alla conservazione e al ripristino globale delle sue essenziali caratteristiche di zona di transizione tra mare e terraferma attraverso un complesso coordinato di interventi diffusi». Si procedette anche alla redazione di un Piano comprensoriale dei comuni della Laguna di Venezia e Chioggia avente il compito di delineare l’insieme delle soluzioni territoriali da adottare per l’intera area. Il piano non giunse mai all’approvazione finale. All’unità di governo e alla lungimiranza della Serenissima, la pasticciata Repubblica italiana aveva sostituito un farraginoso meccanismo, espressione delle volontà contrastanti (e quindi paralizzanti) di poteri dei Comuni e della Regione, nonché di uno Stato, che attraverso il Ministero dei lavori pubblici (e il suo braccio operativo locale, quale era divenuto l’antico e glorioso Magistrato alle acque), agiva secondo le sue logiche. Infatti, mentre il Comune di Venezia elaborava, attraverso un gruppo di studiosi (con la direzione scientifica di Andreina Zitelli e il coordinamento politico-amministrativo di Luigi Scano) una proposta fortemente guidata dalla visione ecosistemica del problema, il ministro Franco Nicolazzi (PSDI) affidava la salvaguardia di Venezia al Consorzio Venezia Nuova (CVN), un consorzio privato di imprese vocate e interessate alla scelte di soluzioni finalizzate alle opere edilizie anziché alla tutela dell’ambiente. La proposta del Comune, contenuta nel documento Ripristino, conservazione ed uso dell'ecosistema lagunare veneziano, descriveva come il processo degenerativo della Laguna tendesse a farne scomparire i connotati specifici e forniva un quadro organico e coordinato di azioni e interventi necessari, iscritti in una predefinizione globale ma costantemente ricalibrabile e collocati in sequenze temporali che ne garantissero ed esaltassero le sinergie positive.

La proposta sistemica del Comune fu sopraffatta dalla logica speculativa e meccanicista rappresentata dal Mose e dall’affidamento dei poteri di progettazione, realizzazione e gestione a un consorzio privato di imprese afferenti al settore delle costruzioni. Il MoSE si presentava come un grosso affare, e così è stato. L’opinione pubblica è stata persuasa che la salvezza di Venezia fosse garantita da quel progetto, nel quale erano riposte tutte le speranze. Speranze fallaci, come è stato facile dimostrare.

Tre sono i danni principali che il Mose ha prodotto. Il primo è la devastazione ambientale e la rottura del legame ecologico tra l’habitat del mare e quello della Laguna, dovuto all’inserimento delle gigantesche strutture di calcestruzzo nelle quali sono innestate le paratìe mobile. Il secondo è la spesa addossata al contribuente. La spesa per il MoSe è attualmente valutata in 5.500 milioni di euro e l’opera non è ancora finite. A questi si aggiungono i costi di esercizio e di manutenzione stimati in 100-130 milioni all’anno. L’onere é ulteriormente aggravato dal fatto che non è per nulla sicuro che il sistema progettato sia realmente attivabile senza rischi ancora maggiori di quelli dell’alta marea eccezionale. Esistono infatti notevoli dubbi mai fugati, sulla tenuta delle cerniere che legano i portelloni mobili al basamento e sulla capacità del sistema di far fronte alle maggiori altezze marine dovute ai cambiamenti climatici. Il terzo danno è costituito dalla gigantesca azione di corruzione esercitabile e in gran parte già esercitata, sulle istituzioni e su importanti settori della società veneziana. Il CVN non è concessionario dello Stato per il solo MoSE, il complesso degli interventi che gli sono stati attribuiti (senza alcuna gara d’appalto o altra forma di pubblico confronto) è di circa 8.333 milioni di euro. A fronte di questi soldi, meccanismi non trasparenti, interessi enormi e racconti di favori. Sono molti i dipartimenti universitari e le altre istituzioni culturali, gli istituti di ricerca, gli studi professionali, le testate giornalistiche e altri organi d’informazione che hanno goduto di benefici e contributi, diretti o indiretti, dal CVN.

Ad opera dei suoi stessi governanti, divenuti complici, il governo della città e della Laguna sono stati interamente affidati a operatori interessati unicamente alla massima estrazione di valore dal prodotto di una storia millenaria. Al progressivo degrado della laguna dovuto al sistema MoSE, che ha anche precluso lo studio e l’implementazione di interventi più efficaci, adatti e lungimiranti, si è aggiunto l’effetto devastante di forme del turismo dominate dagli interessi strutturalmente legati al profitto da esso ricavabile. C’è quello di massa, il turismo “mordi e fuggi”, quello che invade Venezia senza conoscerla, che l’ammira come una raccolta di cartoline, senza comprenderla. E c’è il turismo d’élite, quello dei ricchi, che ambisce a un palazzo sul Canal Grande, o almeno a un pied-à-terre modernamente attrezzato. Tutti ugualmente concorrono a cancellare una delle caratteristiche che fanno della città un unicum e un modello per qualunque città che voglia essere davvero vivibile: l’equilibrio tra pietre e corpi, tra spazi e abitanti, tra città e comunità; quell’equilibrio che si può ancora vivere in qualcuno dei campi lasciato alla sua vita quotidiana. Un equilibrio minacciato anche dalla pressione sul mercato immobiliare. Le grandi navi cariche di turisti, dal canto loro, inquinano l’aria e le acque, distruggono la morfologia dei fondali, la biodiversità e l’equilibrio ecologico della Laguna; ma rimangono poiché dietro di esse prosperano interessi locali e globali, tutti solidali nello sfruttamento turistico.

Ancora una volta, il destino della città e il destino della sua laguna sono strettamente intrecciati. La ricchezza effimera portata dal turismo, come degrada la città, così compromette la Laguna. Se vi fosse una classe dirigente degna di questo nome, essa assumerebbe come punto di partenza il rapporto equilibrato e dinamico che si manifestato per secoli (e forse ancora sopravvive), tra gli elementi fisici della città e dell'ambiente e il concreto e complesso tessuto sociale ed economico (la popolazione, le attività produttive, i commerci, l'insieme insomma della vita quotidiana).

Un futuro realmente moderno dovrebbe fondarsi sulla consapevolezza che le qualità accumulate in un lungo, sistematico e intelligente lavoro di padroneggiamento della natura e della storia sono un patrimonio da amministrare con saggezza e lungimiranza. Ma chi oggi gestisce il potere non lo comprende e perciò lo distrugge.

Articolo scritto per il Semestrale dell'ANPI «Resistenza e Futuro» che quest'anno compie vent'anni. In corso di pubblicazione e presto consultabile sul sito dell'ANPI Venezia.

Questo proverbio dovrebbe essere ricordato da chi commenta i fatti dell'autobus guidato da un autista senegalese che trasportava bambini della scuola Vailati di Crema. L'autista ha incendiato il mezzo per vendicare gli africani lasciati morire in mare da Salvini. Salvini è stato giustamente criticato e imputato dai magistrati italiani per aver provocato la morte di immigrati che cercavano rifugio in Europa. Salvini è noto per essere un fanatico propagandista della tesi della necessità assoluta di ricacciare ai loro destini di sofferenza e morte quanti tentano di sfuggire all'inferno di molte realtà africane, inferno che il colonialismo - ha contribuito a creare e che il neocolonialismo dello sfruttamento delle risorse continua a perpetuare, spesso celato sotto la cooperazione allo sviluppo.

La rabbia scatenata dal ministro italiano contro i fuggiaschi è il vento che ha prodotto la tempesta della vendetta dell'autista senegalese. L'autista senegalese pagherà il suo atto violento e sarà incriminato. Salvini invece è già stato esonerato dal Senato ad essere processato. La proposta poi di attribuire a Rami, uno dei ragazzini dell'autobus di origini egiziane, la "cittadinanza per meriti speciali" per il suo atto di coraggio che gli ha permesso di portare in salvo i compagni, trasforma la rivendicazione di diritto, quello di cittadinanza, in "premio". Cittadinanza che viene negata a migliaia di persone in nome di un concetto asfittico, quello dello iure sanguinis, (cioè si è italiani se si nasce o si è adottati da cittadini italiani). Infatti sono residuali le possibilità di acquisire cittadinanza in altri modi, per esempio per iure soli o per residenza. Il principio dello ius cultura continua ad essere ignorato.



Oggi 21 marzo 2019, 237 senatori hanno negato alla Magistratura l’autorizzazione a procedure contro Matteo Salvini accusato di sequestro di persona aggravato, per non aver concesso lo sbarco ai 137 migranti della Diciotti. (segue)

La maggioranza dei senatori ha votato contro la richiesta della Magistratura di perseguire il primo Ministro a norma della disposizione che chiede al parlamento l’autorizzazione a procedure contro suoi esponenti.

La disposizione era stata introdotta nel sistema legislativo italiano per evitare che una magistratura di un particolare colore politico potesse perseguitare membri del parlamento ingiustamente. Si tratta di una disposizione fedele al principio della separazione dei tre poteri (legislative, esecutivo, giurisdizionale) introdotta dalla rivoluzione borghese nel 1789 in opposizione al principio monarchico dell’unità in un unico soggetto dei tre poteri.

I 237 senatori che hanno negato l’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini hanno dunque palesemente dimostrato di anteporre gli interessi di casta e di appartenenza politica a quella dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.


La laguna è un ecosistema complesso, governato dall'equilibrio dinamico tra le acque dolci dei fiumi che vi affluiscono e le acque salate del mare. La laguna è un'ambiente mutevole in bilico tra due destini: diventare una palude e poi un pezzo di terra o trasformarsi in un braccio di mare. La Laguna di Venezia è l'unica rimasta tale per oltre un millennio; ciò grazie al lavoro costante di manutenzione e guida alle trasformazioni naturali realizzate durante i secoli della Repubblica Serenissima. Questo equilibrio ha cominciato ad essere compromesso dall'inizio dell'ottocento e ha raggiunto uno dei suoi momenti di massimo degrado alla metà del IXX secolo. Dopo la catastrofica acqua alta del 1966 si affrontò finalmente il problema della sua salvaguardia. Si individuò una delle principali cause del degrado nella realizzazione del cosiddetto Canale dei Petroli collegato alle attività della zona industriale di Porto Marghera. Questo intervento infatti distruggeva l'unitarietà del sistema naturale considerata come un elemento vitale per la sopravvivenza della laguna stessa. Tra le decisioni più importanti assunte dal Parlamento italiano in attuazione della Legge speciale per Venezia del 1973 era indicata l'eliminazione del nefasto Canale dei Petroli. Questo intervento non venne mai effettuato, ma oggi si propone addirittura di consolidare, rafforzare e prolungare la criminosa infrastruttura rafforzando il Canale dei Petroli e proseguendolo con una serie di elementi metallici.

Quello che non riuscirono a concludere i barbari del XX secolo lo fanno oggi i poteri dominanti a Venezia.

Nell'articolo di Italia Nostra "Salvaguardia, da noi ai giornali e dal Nazionale alla Commissione" vengono dettagliate le ragioni per cui le opere per il marginamento del Canale dei Petroli sono il modo sbagliato per intervenire nella laguna, ricordando inoltre che l'intervento a cui si vuole dare immediata esecuzione viene spacciato per «stralcio attuativo» quando il progetto generale di cui fa parte non è stato approvato e neanche sottoposto Via e Vas, cioè a valutazione di impatto ambiente, come un'opera di tale impatto dovrebbe essere assoggettata. Seguono due articoli dalla stampa locale
(e.s.)

la Nuova Venezia, 12 dicembre 2018

SI' ALLE PALANCOLE NEL CANALE DEI PETROLI
SCHIAFFO DELLA SALVAGUARDIA AL MINISTERO
di Alberto Vitucci

Lo «stop» inviato dal ministero per l'Ambiente non è bastato. Ieri mattina, dopo una lunga discussione, la commissione di Salvaguardia ha approvato a maggioranza il progetto per lo scavo del canale Vittorio Emanuele. Quindici i voti a favore, tre gli astenuti (il rappresentante dell'Ambiente Francesco Baruffi e le due soprintendenze), uno contrario (il rappresentante della Regione Antonio Rusconi). Respinte anche le proposte di sostituire il palancolato metallico con palificazioni in legno.Cantano vittoria gli Industriali e l'Autorità portuale, che avevano definito «urgente» l'avvio dei lavori per garantire l'accessibilità al porto veneziano da parte delle grandi navi.

Annunciano ricorsi gli ambientalisti.Una battaglia che dura da 50 anni, quella sul canale dei Petroli. Che molti studiosi reputano il principale imputato dello sconvolgimento idraulico della laguna, responsabile della sua continua erosione. Erosione che provoca anche interramento del Canale Malamocco-Marghera, più noto come canale dei Petroli. Scavato alla fine degli anni Sessanta proprio per far entrare in laguna le grandi petroliere.

Nello «stralcio progettuale» firmato dall'architetto Daniele Rinaldo è previsto lo scavo del primo tratto del canale. Per riportarlo alla quota di progetto prevista dal Piano regolatore, si legge nella relazione. Previsto anche un chilometro e mezzo di barriera con palancole metalliche per sostenere i marginamenti del canale minacciati dall'erosione. E una discarica di fanghi in cassa di colmata B, delimitata da pietrame. Interventi che in questo caso non erano ritenuti dal ministero di «ordinaria amministrazione». Dunque bisognosi della Valutazione di Impatto ambientale preventiva. Così, dopo numerose segnalazioni inviate dai comitati e dall'associazione Italia Nostra, è arrivata la risposta ufficiale firmata dal direttore generale del ministero Giuseppe Lo Presti. «La scrivente Direzione», scrive alla commissione l'alto dirigente dello Stato, «non è mai stata coinvolta nella valutazione ambientale del suddetto progetto, e pertanto non è possibile ad oggi fornire alcuna valutazione delle implicazioni di natura tecnico-ambientale che lo stesso comporta». «Sono state già avviate delle attività di verifica», continua la lettera, «si chiede pertanto a codesta Commissione di sospendere i lavori di esame del progetto, nelle more della conclusione delle suddette attività di verifica».

Un invito formale. Quasi una diffida, secondo le associazioni. Di cui però la commissione non ha tenuto conto. È prevalsa la tesi di chi sosteneva l'urgenza di avviare quei lavori per non provocare la paralisi dei traffici portuali. Sconfitta invece la linea ambientalista di chi invoca «interventi compatibili». «Non siamo contrari», avevano scritto i comitati al ministero, «ma la cassa di colmata non è una discarica. È un grave errore trattare quella parte di laguna come un canale di navigazione». Soddisfatti i progettisti, a cominciare dall'architetto Daniele Rinaldo. «Le protezioni saranno tutte sott'acqua, a parte l'angolo del canale», spiega, «perché abbiamo visto che quelle naturali, con le burghe e le tamerici, messe negli anni Novanta, non durano». Rinaldo ribadisce come il progetto abbia solo lo scopo di «consolidare il canale per la navigazione». Dragaggi per riportare la profondità alla quota di qualche anno fa. E protezioni per impedire «il crollo delle sponde e l'interramento, provocato dall'erosione».

Non è dunque il canale dei Petroli il primo responsabile di quell'erosione? No, secondo Rinaldo. Che ricorda: «Dei quattro milioni di fanghi scavati negli ultimi anni, solo un milione viene dal canale dei Petroli, il resto dalla laguna. Il canale ha aumentato la velocità dell'acqua ma l'erosione è colpa dei moli foranei e delle dinamiche della laguna». Tesi che non tutti gli ingegneri idraulici condividono. Adesso c'è chi teme che questo sia il primo passo verso un allargamento del canale, mirato a far passare in un prossimo futuro anche le navi da crociera dirette al nuovo terminal di Marghera. Ma dopo numerosi rinvii il progetto è stato approvato. Era già stato bocciato nel 2013, alla vigilia dello scandalo Mose. Adesso è stato ripresentato come «stralcio» per la parte verso San Leonardo. E approvato dalla Salvaguardia anche senza il parere di Valutazione di Impatto ambientale del ministero. Se non ci saranno ricorsi, eventualità possibile, i lavori potrebbero partire a breve.

la Nuova Venezia, 12 dicembre 2018
IL PORTO ESPRIME SODDISFAZIONE
ITALIA NOSTRA PREPARA IL RICORSO

di Alberto Vitucci

«Faremo ricorso. Il canale dei Petroli è la battaglia di Italia Nostra da cinquant'anni. Questo progetto non tiene conto della laguna. E soprattutto non è stata decretata l'urgenza che starebbe alla base di quei lavori». Così la presidente della sezione veneziana di Italia Nostra, Lidia Fersuoch, «accoglie la notizia dell'approvazione da parte della commissione di Salvaguardia, del progetto per lo scavo del canale Malamocco-Marghera. «Ci sono gli estremi per l'accesso agli atti e per un ricorso», dice, «si usano materiali estranei alla laguna come il pietrame. Adesso decideremo». Si punta il dito contro la mancata risposta alla lettera del ministero per l'Ambiente. Che avvisava della procedura in corso, chiedendo di «sospendere i lavori di esame del progetto in attesa delle verifiche di legge».

Grande soddisfazione invece dall'Autorità portuale. «L'intera comunità portuale accoglie con soddisfazione la decisione della Commissione», commenta il presidente Pino Musolino, «la scelta riconosce l'efficacia tecnica di un progetto sviluppato sfruttando modalità d'intervento sostenibili, in linea con quanto previsto dalla legislazione. Un progetto che, mantenendo adeguati livelli di salvaguardia dell'ecosistema lagunare, raggiunge anche l'obiettivo della salvaguardia della portualità. Poter finalmente garantire l'accessibilità nautica del porto, così come previsto dal Piano Regolatore Portuale, consente al nostro scalo di mantenere standard competitivi adeguati alle sfide imposte dal mercato, a beneficio di tutte le attività insediate, e di interpretare al meglio il ruolo che gli è proprio di motore economico della nostra regione, e di porta d'accesso ai mercati internazionali per i distretti produttivi veneti. Sarà ovviamente cura dell'Autorità di Sistema Portuale», conclude, «dare seguito alle prescrizioni emerse dalla Commissione di Salvaguardia». Prescrizioni che parlano della misura del pietrame e della riduzione della velocità delle navi nel canale durante le fasi dei lavori. Soddisfazione espressa anche dal Comune. «La praticabilità dei canali», ribadisce il sindaco Luigi Brugnaro, «è necessaria per il rilancio del Porto». E soddisfatti anche gli Industriali veneziani, che avevano sollecitato negli ultimi giorni l'approvazione del contestato progetto.

Ma gli ambientalisti rilanciano. «Non abbiamo mai detto che non si devono fare gli interventi di dragaggio, e nemmeno quelli di protezione del canale», hanno scritto al ministero le associazioni, «ma chiediamo che vengano fatti con modalità compatibili con il delicato ambiente lagunare. Dunque, palificate in legno e barene». Invece è passata la versione «hard», con le palancolate e il pietrame.


la Nuova Venezia, 13 dicembre 2018
CANALE DEI PETROLI,
PRONTO IL RICORSO AL TAR

di Alberto Vitucci

Un chilometro di palancole in ferro. Scogliere e pietrame in cassa di colmata B per contenere i fanghi scavati. E dragaggio del grande canale Malamocco Marghera, detto dei Petroli, per riportarlo alla «quota di progetto» e far passare le navi di nuova generazione. La commissione di Salvaguardia ha approvato non senza dibattito il progetto proposto dall'Autorità portuale. Ma adesso la partita si sposta a Roma. Italia Nostra ha subito annunciato un ricorso al Tar e sta raccogliendo documentazione da inviare al governo. «Non ci sono le motivazioni dell'urgenza», dice in una nota l'associazione per la tutela del territorio, «pietrame e palancole non sono materiali consentiti in laguna. E la Cassa B non è una discarica. Inoltre l'infissione di un chilometro e mezzo di sbarre di ferro taglierebbe la falda freatica. Con la possibilità di provocare in futuro un abbassamento del suolo come già successo negli anni Sessanta».

I comitati hanno anche sollecitato il ministero per l'Ambiente a intervenire. Poche ore prima del voto, era arrivata alla commissione una lettera firmata dal direttore generale del ministero Giuseppe Lo Presti. Un «invito» a sospendere l'iter in attesa delle verifiche del ministero. Secondo i tecnici dell'Ambiente è insomma necessaria una Valutazione di Impatto ambientale per quel tipo di interventi. Ma nella stessa seduta il presidente della commissione Maurizio De Gennaro ha dato lettura di una lettera di segno opposto, inviata dall'Autorità portuale e dal suo presidente, Pino Musolino. «La commissione è la sola titolata a decidere», in sostanza il contenuto della lettera. Alla fine la maggioranza dei componenti l'ha presa per buona. Votando il via libera al progetto - uno stralcio urgente del progetto originario del 2013 - per consentire i via ai lavori. Tre gli astenuti, un solo voto contrario. Ma Italia Nostra conferma l'intenzione di far ricorso al Tar. «Non è un interventi come gli altri, è la nostra battaglia che combattiamo da mezzo secolo», ribadisce la presidente della sezione veneziana Lidia Fersuoch, «in questo caso si continua a perseguire interventi sbagliati per la laguna. Il canale dei Petroli è il responsabile dell'erosione e dei guai della laguna centrale». Il Porto canta vittoria. «Finalmente si ripristina l'agibilità del Porto», dice il presidente Pino Musolino. dello stesso tenore i commenti degli Industriali, che avevano sollecitato nei giorni scorsi una soluzione della vicenda. E anche del Comune. «Ma l'urgenza di scavare doveva essere dimostrata e certificata», ribatte Italia Nostra.

La battaglia dunque si sposta in sede legale. Potrà essere il Tar del Veneto a decidere se l'intervento di scavo del canale Malamocco Marghera sia legittimo oppure no nella forma proposta. «Non siamo mai stati contrari al porto», dicono i comitati, «ma ci sono altri sistemi per proteggere il canale dagli interramenti». Pali in legno e barene artificiali per intercettare le correnti e il vento che insieme al moto ondoso provocano l'interramento del canale. Il Canale dei Petroli, costruito alla fine degli anni Sessanta per far entrare le grandi petroliere in laguna, è ritenuto una delle principali cause del dissesto lagunare. Una grande autostrada d'acqua dove prima era il canale Fisolo.

"LaRepubblica", 19 ottobre 2012

“il manifesto” 28 settembre 2012. anche in eddyburg

L'Unità, 25 settembre 2012

La Repubblica, 27ottobre 2011.

Cit. da Francesco Erbani, “Addio a Insolera urbanista militante”, la Repubblica, 28 agosto 2012

"La Repubblica", 12 maggio 2012. Anche su eddyburg

La Repubblica", 19 agosto 2012

D - Perchè nei piani urbanistici, al di là delle virtuose raccomandazioni, il paesaggio urbano - sia quello del futuro da costruire sia quello ereditato dalla storia - non sembra da tempo precisamente al primo posto, tanto che la città contemporanea fa fatica a trovare un dialogo costruttivo (nelle funzioni come nelle forme) per es. con fiumi, boschi, giardini privati ed aree di aggregazione ?

R - La ragione è, al tempo stesso, semplice e complessa. Essa sta nel fatto che la visione del territorio oggi egemonica è quella che vede e usa il territorio come qualcosa che diventa ricchezza (soldi e potere) mediante la sua “urbanizzazione”, dove con questo termine si intende la costruzione di strade e stradoni, case e casette, capannoni e piazzali – e così via. Se accanto alle forme si sapesse guardare anche alla sostanza delle cose, e ai meccanismi che governano le trasformazioni del territorio, ci si rederebbe facilmente conto che l’uso del territorio è finalizzato alla realizzazione di maggior ricchezza per chi lo possiede (o se ne può appropriare) mediante la sua trasformazione in quella “repellente crosta di cemento e asfalto” che indignava Antonio Cederna.

Il territorio dovrebbe essere visto, e usato, come un elemento essenziale della vita presente e futura della società perché è, come dice Piero Bevilacqua, l’habitat dell’uomo (e di altre specie animali e vegetali). Esso oggi è visto e usato unicamente come produttore di valore di scambio. Quindi i processi reali di trasformazione del territorio sono del tutto indifferenti sia al rispetto delle qualità (naturali, paesaggistiche, culturali) e degli elementi di rischio (terreni franosi, esondabili, falde inquinabili ecc.) esistenti, sia alla creazione di nuovi paesaggi dotati di qualità nuove.

A questo proposito devo aggiungere che a mio parere non siamo capaci di imprimere qualità nel territorio se non interpretiamo l’azione che compiamo oggi come lo sviluppo e la prosecuzione delle azioni che la natura e la storia hanno svolto nei secoli passati. Oggi, invece, l’interesse personale che sollecita i più (a partire dagli architetti e dai sindaci) è costituito dall’affermare la propria personalità, individualità, creatività, eccezionalità.

D - Nell'ipotesi che le città più virtuose nei prossimi 10 anni decidano di non costruire neanche un mattone, quali azioni potremmo intraprendere per recuperare il degrado e lo squallore crescente delle periferie e delle macro-infrastrutture già presenti ?

R – Suggerisco tre passaggi, e ritengo necessaria una condizione.

Primo passaggio: decidere che non si sottrae un solo metro quadrato al terreno libero (naturale o agricolo che sia) se non si tratta di un’indifferibile esigenza sociale non soddisfacibile riusando suoli già sottratti al ciclo nella natura, che si tratti di aree esterne o interne alla città costruita.

Secondo passaggio: abbandonare la logica, oggi dominante, di progettare ogni nuovo elemento (casa, strada, canale, piazzale ecc.) come elemento isolato dal contesto, e vedere invece ogni trasformazione come qualcosa che nasce da una visione, e da un progetto, relativi all’intero contesto cui l‘oggetto appartiene. Poiché il paesaggio altro non è che l’immagine, la forma, di un contesto ampio, identificabile nelle sue connessioni interne e colto nelle sue differenze da ogni altro contesto.

Terzo, conseguentemente applicare il metodo della pianificazione urbanistica e territoriale, colpevolmente abbandonati dei decenni passati per effetto delle stesse logiche, ideologie e interessi che hanno fatto prevalere la “città della rendita” sulla “città dei cittadini”.

Naturalmente non basta qualsiasi pianificazione: occorre una pianificazione orientata secondo principi e di obiettivi coerenti con quello della difesa della bellezza, della salute e del benessere dei cittadini di oggi e di domani. La pianificazione che si pratica oggi è volta invece alla crescita della ricchezza economica di chi adopera il territorio per accrescere il suo potere finanziario. Quindi, la condizione preliminare è che si modifichi il punto di vista dal quale si vede la città, e le esigenze che devono essere soddisfatte prioritariamente nel governo delle trasformazioni del territorio.

D - Partendo dalla tua esperienza di urbanista, puoi proporci degli esempi positivi di paesaggi contemporanei ?

R. Purtroppo nella mia memoria si sono accumulate immagini nelle quali le espansioni recenti hanno lasciato sopravvivere solo brandelli dei paesaggi del Belpaese di anni lontani. E mi riferisco sia alle espansioni nelle forme compatte delle periferie delle grandi città governate dalla speculazione degli anni del dopoguerra, sia nella sbriciolatura miserabile dell’abusivismo delle coste e delle periferie di gran parte dell’Italia centrale e meridionale, sia nello sprawl (lo sguaiato sdraiarsi della città sul territorio) delle opulente città dell’Italia dello “sviluppo”. I tentativi compiuti negli anni migliori della nostra storia recente (mi riferisco agli anni 60-70 del secolo scorso) sono stati per lo più stravolti dai decenni successivi.

E’ dalla difesa di quei residui brandelli (nella quale per fortuna un numero sempre più vasto di cittadine e cittadini sono impegnati), da una concezione della bellezza come un valore che nasce dall’umiltà (humilitas significa “adesione alla terra”) e dal rispetto della storia e della natura che potranno nascere esempi positivi di paesaggi contemporanei. La scommessa è riuscire a proiettare la storia sul futuro, evitando i due scogli del mimetismo e del nuovissimo.

Edoardo Salzano, 16 aprile 2012

da: Giorgio Napolitano, “Intervista sul pci”, A cura di E J Hobsbawm, Laterza 1976, p. 63-64)

la Repubblica",6 febbraio 2012.

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DueSindaci da dimenticare

Rlazione al convegno "Le forme della politica organizzata", Roma 22 giugno 2012, L'Unità, 23 giugno. Anche in eddyburg.

La mistificazione del lessico è uno strumento essenziale dell'ideologia dominante. E' perciò uno dei fronti della nostra guerra.

La citazione di Marx è tratta da, Annali Franco-tedeschi di Arnold Ruge e Karl Marx, a cura di G.M.Bravo, Edizioni del Gallo, Milano 1965, p. 134. Il brano originale di Marx, per la verità, è più efficace della traduzione. Marx usa il termine fassen, afferrare, ben più energico del «cogliere» della traduzione italiana.

Noi abbiamo tratto la citazione, e il piccolo testo qui sopra, dal libro di Piero Bevilacqua, Elogio della radicalità, Laterza 2012

Francesco Giavazzi, “Una commedia che deve finire”, editoriale dal Corriere della Sera, 19 maggio 2012

Da La distruzione della natura in Italia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1975, [p. 21]

"L’Unità", 21 aprile 2012. Anche su eddyburg

Una parole per me importante è la parola “politica”. Una parola oggi molto di moda, anche se in senso prevalentemente negativo. Una parola che viene adoperata spesso rovesciata nel suo significato fino a divenire un'arma contro l'avversario: si rovescia in “anti-politica”. Per me la “politica” non è solo quella che si fa nelle istituzioni e nei palazzi del potere, è anche quella che si promuove là dove si è accusati di praticare l'”anti-politica”.

La definizione di politica che a me pare eccellente – negli anni in cui la “politica” ufficiale sembra più interessata all'accumulazione del potere da parte di chi ce l'ha già anziché al realizzarsi di interessi generali della società – è quella che ne diede don Lorenzo Milani, quando fece esprimere a uno scolaro della sua Scuola di Barbiana il concetto di politica:

«Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la politica» (Lorenzo Milani, Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1967).

Politica è insomma, anche per me, l'unirsi tra più persone per “uscire insieme” da un problema che è di tutti – o almeno di molti, dei “tutti” di una determinata comunità – o dell'intera società.

"La Repubblica", 24 aprile 2012. Anche su eddyburg.

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