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Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
di Martin Niemöller



Prima di tutto vennero a prendere gli zingari.
E fui contento perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei.
E stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali,
fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me,
e non c'era rimasto nessuno a protestare.

queste parole, declinate in diverse versioni e diverse lingue girarono il mondo negli anni in cui il nazismo da partito divenne regime


MARZO
di Salvatore Di Giacomo

Marzo: nu poco chiove
e n’ato ppoco stracqua
torna a chiovere, schiove,
ride ‘o sole cu ll’acqua.

Mo nu cielo celeste,
mo n’aria cupa e nera,
mo d’’o vierno ‘e tempesta,
mo n’aria ‘e Primmavera.

N’ auciello freddigliuso
aspetta ch’esce ‘o sole,
ncopp’’o tturreno nfuso
suspireno ‘e vviole.

Catarì!…Che buo’ cchiù?
Ntiénneme, core mio!
Marzo, tu ‘o ssaie, si’ tu,
e st’ auciello songo io.

Qui il link alla canzone di Roberto Murolo Marzo

ribelle che sonnecchi,
non cedere alle lusinghe,
non farti buono,
di sterco e di sangue
è il mondo che attorno
ti puzza,
resta insano,
questo è il tuo posto,
ragazzo sulle barricate,
con un sasso in mano.


Henry Scott Holland (Ledbury, 27 gennaio 1847 -17 marzo 1918) è stato un teologo e scrittore britannico. Era profondamente interessato alla giustizia sociale e fondò il Pesek (Politica, Economia, Socialismo, Etica e cristianesimo), che condannava lo sfruttamento capitalista della povertà urbana. Nel 1889, ha fondato la Christian Social Union (CSU).


Death is nothing

«Death is nothing at all. It does not count.
I have only slipped away into the next room.
Nothing has happened.
Everything remains exactly as it was.
I am I, and you are you, and the old life that we lived so fondly together is untouched, unchanged.
Whatever we were to each other, that we are still.
Call me by the old familiar name.
Speak of me in the easy way which you always used.
Put no difference into your tone.
Wear no forced air of solemnity or sorrow.
Laugh as we always laughed at the little jokes that we enjoyed together.

Play, smile, think of me, pray for me.
Let my name be ever the household word that it always was.
Let it be spoken without an effort, without the ghost of a shadow upon it.
Life means all that it ever meant.
It is the same as it ever was.
There is absolute and unbroken continuity.
What is this death but a negligible accident?
Why should I be out of mind because I am out of sight?
I am but waiting for you, for an interval, somewhere very near, just round the corner.

All is well.
Nothing is hurt; nothing is lost.
One brief moment and all will be as it was before.

How we shall laugh at the trouble of parting when we meet again! »
La morte non è niente

La morte non è niente


Sono solamente passato dall'altra parte:
è come fossi nascosto nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu.
Quello che eravamo prima l'uno per l'altro lo siamo ancora.
Chiamami con il nome che mi hai sempre dato, che ti è familiare;
parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce, non assumere un'aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano
quando eravamo insieme.
Prega, sorridi, pensami!
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima:
pronuncialo senza la minima traccia d'ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto:
è la stessa di prima, c'è una continuità che non si spezza.
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri e dalla tua mente, solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall'altra parte, proprio dietro l'angolo.
Rassicurati, va tutto bene.
Ritroverai il mio cuore,
ne ritroverai la tenerezza purificata.
Asciuga le tue lacrime e non piangere, se mi ami:
il tuo sorriso è la mia pace
E come rideremo dei problemi della separazione quando ci incontreremo di nuovo! »

I PROFUGHI

Piegati da un peso
che non sempre si vede
avanzano nel fango o nella sabbia del deserto,
chini, affamati,

uomini di poche parole dai pesanti caffettani,
adatti a tutte le stagioni,
donne vecchie dai volti sciupati
che portano qualcosa, un neonato, una lampada
- un ricordo- oppure l'ultimo tozzo di pane.

Può essere la Bosnia, oggi,
la Polonia nel settembre '39, la Francia
otto mesi più tardi, la Turingia nel '45,
la Somalia, l'Afghanistan o l'Egitto.

C'è sempre un carro, o almeno un carretto,
colmo di tesori (il piumino, la tazza d'argento
e il profumo di casa che presto svanisce),
un'auto senza benzina abbandonata nel fosso,
un cavallo (che sarà tradito), la neve, molta neve,
troppa neve, troppo sole, troppa pioggia,

e quel caratteristico curvarsi,
come verso un altro pianeta, migliore,
con generali meno ambiziosi,
meno cannoni, meno neve, meno vento,
meno Storia (purtroppo un simile pianeta
non esiste, resta solo il curvarsi).

Tascinando i piedi,
vanno lentamente, molto lentamente,
verso il paese da nessuna parte,
verso la città nessuno,
sul fiume mai.

Adam Zagajewski

Dalla raccolta "Tradimento", Adelphi 2008, traduzione di Valentina Parisi.

Il manifesto, 6 luglio 2016 (p.d.)

Catturare l’effimero è l’aspirazione dei poeti, degli artisti. Abbas Kiarostami (Teheran 1940, Parigi 2016) ha confermato la sua attitudine attraverso un processo di semplificazione, meccanismo imprescindibile di tutta la sua poetica che abbraccia, oltre al cinema (ricordiamo Il Sapore della ciliegia, Palma d’oro a Cannes nel 1997 e tra i numerosi riconoscimenti nel 2005 il Pardo d’onore al Festival di Locarno e il premio alla carriera del Reykjavik International Film Festival), l’opera pittorica, scultorea e grafica – si era laureato in Belle Arti all’Università di Teheran – e la poesia. Anche la fotografia è frutto del suo sguardo minimalista: era lui stesso, dichiarando l’approccio da autodidatta, ad associarla agli haiku.

Una fotografia costruita sul silenzio, quindi, che è la trasposizione dell’idea del viaggio, della distanza, di una certa fragilità connessa con la condizione esistenziale della solitudine, ma che sollecita anche una memoria sensoriale. Certamente tematiche che hanno a che fare con il vissuto personale del regista iraniano che, come è noto, iniziò la carriera cinematografico con il cortometraggio Il pane e il vicolo (1970), seguito quattro anni dopo dal film Il viaggiatore, ma che durante la Rivoluzione del ’79 – essendo impossibile girare film nel suo paese – decise di trasferirsi in campagna. È lì, nella vastità degli orizzonti dominati da forti contrasti, tra luci abbaglianti e una natura non sempre accondiscendente, che cominciò a fotografare.

Quegli scatti erano il «dono» che faceva agli amici rimasti a Teheran: il modo per condividere con loro la libertà della natura, di luoghi incontaminati. «Queste mie foto e visioni sono il contrario della società iraniana e di quello che succede in Iran» – affermò nel 2009, in occasione della personale Abbas Kiarostami. Fotografie a colori e bianco e nero, organizzata a Roma dalla galleria Il Gabbiano – «Ho iniziato a fare foto così venticinque anni fa e, se ancora oggi continuo a scattarle nello stesso modo, è perché la gente può rovinare la società, ma non le pianure e la natura».

Una natura che, con le sue interferenze emotive, si rivela profondamente diversa rispetto alla visione lucida con cui la raffigura un altro grande interprete iraniano, Nasrollah Kasraian (attivo dal 1966), primo fotografo in Iran ad occuparsi di paesaggi. Come lui Kiarostami, che ne apprezzava il rigore, alternava il linguaggio del bianco e nero con il colore. Dichiarando, tuttavia, la predilezione per il primo che gli consentiva di prendere le distanze dal soggetto, interiorizzandolo: «soprattutto quando fotografo la natura, mi permette di farla diventare la ‘mia’ natura». Diversamente dalla sequenza cinematografica – «la fotografia è la madre del cinema», sosteneva – le sue immagini fisse sono momenti isolati, inquadrati spesso attraverso il parabrezza dell’automobile: una sorta di cornice, ulteriore filtro per connettere il mondo interno con quello esterno. Nascono così, frutto di una solo apparente casualità, gli «haiku fotografici» della serie Rain (2007-2008). «Stavo guidando, pioveva e il tergicristallo non funzionava. La macchina fotografica era sul sedile, accanto a me. Mi sono fermato e ho cominciato a scattare foto».

In realtà quel momento era stato preceduto da anni di attraversamento dello sguardo, al di là del parabrezza o dei finestrini dell’automobile, in viaggio – ancora ed ancora – per le strade dell’Iran e non solo. Il viaggio stesso è un tema centrale della sua produzione cinematografica, occasione per esplorare territori lontani, dall’Africa al Giappone passando per l’Italia con Copia conforme (2010), di cui le riprese sono state effettuate in Toscana. Interamente girato in un’automobile è, ad esempio, Ten (2002), come successivamente Like someone in love (2012), mentre il treno in corsa è lo scenario di Tickets (2005) con E. Olmi e K. Loach. Però «L’attimo decisivo», tornando alla fotografia, arrivò solo quando, con l’avvento della tecnologia digitale, Kiarostami ebbe la possibilità di dominare la luce, attenuando i riflessi che inevitabilmente avrebbero creato delle interferenze. «Pensai, allora, che era arrivato il momento di tornare a quella vecchia idea. Avrei potuto fotografare guidando. Feci così: una mano sul volante e l’altra impegnata a scattare la foto».

Il fluire delle immagini, catturate in velocità, sono comunque frutto di un’«immediatezza costruita», ossimoro permettendo. La caratteristica di una dominante riflessiva che appartiene alla fotografia su pellicola – determinata dalla necessità del limite delle pose (i rullini ne contavano 24 o 36) – sembra però una costante anche della «deviazione» digitale con cui Abbas Kiarostami ha confermato la sua libertà di visione. «In quell’indefinibile danza di linee, punti e colori che forma l’immagine», la presenza dell’uomo è sempre indiretta. Ma dietro il profilo ondulato di una collina o dell’albero che s’intravede tra le gocce di pioggia c’è lo sguardo di chi lo ha fermato, per sempre.

. Il manifesto, 14 maggio 2016 (p.d.)

Sono gocce rosso-sangue, bollenti e brillanti, l’anima di questi macigni che hanno costruito la storia del mondo e della Sardegna prima degli Dei». Così aveva confidato a un amico giornalista Pinuccio Sciola una calda notte di maggio del 1974. Con la fiamma ossidrica, nel suo giardino di aranci di San Sperate, lo scultore che s’è spento ieri all’età di 74 anni per un’emorragia cerebrale era riuscito a fondere il basalto. Così era Sciola, artista di origini contadine che ai miti e agli archetipi di una terra antica era legato indissolubilmente. Quel giardino di aranci è poi diventato nel tempo il «Giardino sonoro», labirinto di blocchi di calcare e di grandi masse di basalto e di granito scolpite con una tecnica che Sciola ha inventato nel 1999: profonde incisioni parallele che segnano la pietra e che, percorse con le mani, o con un sasso o anche con l’arco di violino, producono suoni strutturati. La scultura diventava strumento musicale. «Ma – diceva Sciola – arte sono anche quelle pietre, quei sassi che io non sfioro, perché l’arte è nella natura. Non è un inno alla bellezza un prato di primule e di papaveri?».

Non c’era però niente di ingenuo in questo tenersi di Sciola dalla parte del linguaggio primario della natura. Era nato in una famiglia di contadini, in una regione della Sardegna, il Campidano, in cui la forza dei codici antichi della tradizione ha contrastato, sino a pochi decenni fa, una modernizzazione per molti versi violenta e per altri cialtrona. Quei codici, che sono stati «codici di resistenza», Sciola li ha filtrati alla scuola della grande cultura europea, li ha fatti passare al vaglio della riflessione teorica delle maggiori correnti artistiche del ’900. All’Accademia di Salisburgo, dove ha compiuto i suoi studi dopo una breve tappa fiorentina, è entrato in contatto con Minguzzi, Kokoschka («Volle conoscere tutte le chiese preromaniche sarde, gli rimase impressa San Nicola di Ottana»), Manzù, Wotruba e Sassu.

Il suo primo lavoro importante fu nel 1972, quando collaborò con Henry Moore nell’esposizione al Forte Belvedere di Firenze. Dopo quell’esperienza, altre tappe del suo percorso furono gli studi alla Moncloa di Madrid, un lungo soggiorno a Parigi e, soprattutto, la frequentazione a Città del Messico con David Alfaro Siqueiros. «Siqueiros – diceva – mi ha fatto capire il senso dell’arte e insieme il valore della vita». Tornato in Italia, Sciola trasformò il suo piccolo borgo di contadini nel luogo privilegiato di un progetto di arte sociale che si rifaceva alla lezione dei muralisti messicani (Rivera e Orozco li aveva conosciuti attraverso Siqueiros). Le case di tufo di San Sperate furono affrescate ad lui stesso e da artisti che arrivarono da tutto il mondo. L’intera comunità che, a metà degli anni 70, partecipò a un’esperienza collettiva da cui nacque un museo a cielo aperto, che tuttora si snoda nelle stradine e nei vicoli del paesino. E che va ad aggiungersi al «Giardino sonoro» della casa nella quale Sciola ha voluto continuare a vivere e dalla quale si muoveva per le mostre in Europa e in America, con le sue opere monumentali nel parco del castello di Oiodonk in Belgio, al Palace Trianon di Versailles, al Barndorf Beio Baden di Vienna, in piazze di New York e Chicago, Londra e Stoccolma, Barcellona.

Guardando la sua intera produzione, Sciola può essere iscritto a una sorta di «linea sarda», che allo scultore di San Sperate arriva partendo da Costantino Nivola e attraversando Maria Lai. Tutti e tre legati a una visione dell’arte che intreccia l’attenzione per ciò che sfugge alla storia (l’archetipo e il mito) a una fortissima connotazione relazionale del lavoro dell’artista. Dire l’ineffabile per creare nuova socialità.



Un altro sole
di Serena D’Arbela
Piangemmo l’ideale
l’amore offeso
giurammo di non credere più
l’anima rabbuiata
gli slanci ventenni
svaniti come nubi
invecchiammo
prima eletti in ardenti gironi
a soccorrere il mondo
poi avvizziti come bimbi
delusi da una fiaba
ci abbandonammo
ad amori privati
eppure abbiamo ancora
il vizio di scrutare in cielo
fugaci bagliori
cercando

un altro sole.

Per iniziare l'anno nuovo riproponiamo a chi ci segue questa traduzione di Enzio Cetrangolo delle parti del poema De Rerum Natura che narrano della nascita del nostro mondo (V, 922-995: 1008-1016) . Auguri per un migliore 2016




Venuta dalla dalla dura terra fuori nei campi

la stirpe degli uomini era piú dura:
senza malanni del corpo,
al gelo, al caldo, a qualunque sorta dicibo,
poteva egualmente resistere, tanto
era dentro connessa di solide ossa e più grandi,

legata di fortissimi nervi le carni.
Trascinavano come bestie una vitasparsa e lunga.
Il curvo aratro non c'era,
nessuno sapeva far molle il suolo colferro, aprirlo
ai virgulti e tagliare con la ronca
i rami secchi alle piante:
Un frutto che al sole e alla pioggia spuntasse,
dono terrestre, calmava quei petti. E mangiavano
sotto le querce le ghiande cadute,
gli àlbatri che allora crescevano
sempre e molti e piú grandi, e li vedi

che adesso diventano rossi soltantod'inverno.
Così del duro cibo che offriva
la florida infanzia del mondo ipoveri.mortali
si accontentavano.
Quando avevano sete i fumi lichiamavano
come la voce lontana dell’acqua

chiama ancora le bestie assetate sullerupi.
E andavano per le grotte silvestriguardando
i ruscelli che bagnano i sassimuschiosi
e vanno verso l'erba del piano.
Non sapevano ancora trattare le cosecol fuoco
e vestirsi il corpo delle spoglie
degli animali: ma stavano nelle macchie
e coprivano di cespugli le squallide membra
costretti dalla tempesta nelle fessure
delle montagne.
D'ogni costume, d'ogni legge ignoranti
non potevano curarsi del bene comune:
chi trovava una preda la teneva per sé,

da solo imparando il rischio dellavita.
E Venere univa i corpi degli amanti
nelle foreste: la foia invincibile
menava dal maschio la femmina o lastessa forza
dell'uomo o un compenso che era
una manciata di ghiande o un bel fruttomaturo.
Meravigliosamente erano agili nelle membra;
e armati di pietre o di grossi tronchi di alberi
cacciavano le belve per le boscaglie;
molte ne vincevano e altre poche scansavano
al riparo di qualche antro nascosto.
Di notte si mettevano per terra, nudi
sotto le foglie: e non cercavano
urlando per i campi la luce del giorno perduta
nelle ombre: ma sepolti nel silenzio del sonno
aspettavano che -il sole tornasse all'orizzonte:
avevano già visto da fanciulli la vicenda

del buio e della luce; e non c'eranessuna
meraviglia per loro, nessuna paura
che sparito per sempre il lume del sole
una infinita notte restasse sulla terra:
ben altro affanno avevano: c'erano le belve
a. rendere incerto, fatale il riposo.
E se un cinghiale appariva o un leone affamato
scappavano dai lor tetti rocciosi
e pallidi nel cuor della notte cedevano
agli ospiti feroci il giaciglio di fronde.
E come adesso allora i mortali
lasciavano in pianto il dolce lume della vita:
ciascuno era pasto alle belve: ciascuno
inghiottito dai denti vedeva il suo corpo
chiudersi vivo dentro un vivo sepolcro,
e le gole dei monti si riempivano di gemiti.
Chi poi straziato nel corpo riusciva a fuggire
tenendo le mani tremanti sulle piaghe
chiamava orribilmente la morte;
e morivano cosí spasimando e senza soccorso:

non sapevano cosa fossero le ferite.
E col tempo fecero le capanne,impararono
l'uso delle pelli per coprirsi e ilsacramento
del focolare
La donna fu paga di un solo connubio,
e quando si videro assomigliati neifigli
cominciarono a ingentilirsi.
Il fuoco fece che i corpi intirizziti
non potessero piú stare sotto il cielo scoperto;

l'amore quietava le forze
e i fanciulli ammansivano con lecarezze
la rude superbia dei padri.

(V, 922-995: 1008-1016)
traduzione di Enzio Cetrangolo


riferimenti

Sapete che nel vecchio archivio di eddyburg ci sono numerose altre poesie, che potete raggiungere facilmente qui, proprio nella cartella Poesie.





La parte e l’intero

Ogni parte aspira sempre
a congiungersi con l'intero
per sfuggire all'imperfezione;

L'anima sempre aspira
ad abitare un corpo
perché senza gli organi corporei
non può agire ne sentire.

Essa funziona dentro il corpo
come fa il vento
dentro le canne di un organo,
se una delle canne si guasta
il vento non produce più il giusto suono.


Vi ricordate che anche nel vecchio eddyburg c'erano molte poesie? Ci sono ancora, nel vecchio archivio, nella cartella Poesie, naturalmente.

azione è dell'autore. In appendice una nota di Peter Kammerer, da Il Passaggio, anno VI, n 2, marzo/aprile 1993

PROFEZIA

AJean-Paul Sartre, che mi ha raccontato
la storia di Alidagli. Occhi Azzurri
Era nel mondoun figlio
e un giornoandò in Calabria :
era estate, ed erano
vuote lecasupole,
nuove, apandizucchero,
da fiabe difate color
delle feci.Vuote.
Comeporcili senza porci, nel centro di orti senza insalata, di campi
senzaterra, di greti senza acqua. Coltivate dalla luna, le campagne.
Lespighe cresciute per bocche di scheletri. Il vento dallo Jonio
scuotevapaglia nera
come nei sogniprofetici:
e la lunacolor delle feci
coltivavaterreni
che mail'estate amò.
Ed era nei tempi del figlio
che questoamore poteva
cominciare, enon cominciò.
Il figlioaveva degli occhi
di paglia bruciata,occhi
senza paura, evide tutto
ciò che eramale: nulla
sapevadell'agricoltura,
delle riforme,della lotta
sindacale, degliEnti Benefattori,
lui. Ma avevaquegli occhi
La tragica lunadel pieno
sole, era là, a coltivare
quei cinquemila,quei ventimila
ettari sparsi dicase di fate
del tempo dellatelevisione,
porcili a pandizucchero,per
dignità imitatadal mondo padrone.
Ma non si può vivere là ! Ah,per quanto ancora, l'operaio di Milano lotterà
con tanta grandezza per ilsuo salario? Gli occhi bruciati del figlio, nella
luna, tra gli ettari tragici,vedono ciò che non sa il lontano fratello
settentrionale.Era il tempo
quando una nuovacristianità
riduceva a penombrail mondo
del capitale: una storia finiva
in un crepuscoloin cui accadevano
i fatti, nelfinire e nel nascere,
noti ed ignoti.Ma il figlio
tremava d'ira nel giorno
della suastoria: nel tempo
quando ilcontadino calabrese
sapeva tutto,dei concimi chimici,
della lottasindacale, degli scherzi
degli Enti Benefattori, della
Demagogia dello Stato
e delPartito Comunista…
...e così avevaabbandonato
le sue casupolenuove
come porcili senzaporci,
su radure colordelle feci,
sotto montagnolerotonde
in vista delloJonio profetico.
Tre millennisvanirono
non tre secoli, non tre anni,e si sentiva di nuovo nell'aria malarica
l'attesa dei coloni greci.Ah, per quanto ancora, operaio di Milano,
lotterai solo per il salario?Non lo vedi come questi qui ti venerano?
Quasi come unpadrone.
Ti porterebbero su
dalla loro anticaregione,
frutti e animali,i loro
feticci oscuri, a deporli
con l'orgoglio delrito
nelle tuestanzette novecento,
tra frigorifero etelevisione,
attratti dalla tuadivinità,
Tu, delle Commissioni Interne,
tu della CGIL, Divinità alleata,
nel meraviglioso sole del Nord.
Nella loro Terra dirazze
diverse, la lunacoltiva
una campagna che tu
gli hai procuratainutilmente.
Nella loro Terra diBestie
Famigliari, la luna
è maestra d'anime chetu
hai modernizzato inutilmente.Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere
è un vento che cambia corso,nel cielo. Soffia ora forse dall'Africa
e tu ascolta ciò che pergrazia il figlio sa. (Se egli non sorride
è perché lasperanza per lui
non fu luce marazionalità.
E la luce delsentimento
dell'Africa, ched'improvviso
spazza le Calabrie, sia un segno
senza significato,valevole
per i tempi futuri !)Ecco:
tu smetterai di lottare
per il salario e armerai
la mano dei Calabresi.
Ali´ dagli OcchiAzzurri
uno dei tanti figlidi figli,
scenderà da Algeri,su navi
a vela e a remi.Saranno
con lui migliaia diuomini
coi corpicini e gliocchi
di poveri cani deipadri
sulle barche varate nei Regnidella Fame. Porteranno con sé i bambini,
e il pane e il formaggio,nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua.
Porteranno le nonne e gliasini, sulle triremi rubate ai porti coloniali.
Sbarcheranno aCrotone o a Palmi,
a milioni, vestitidi stracci
asiatici, e dicamice americane.
Subito i Calabresidiranno,
come malandrini a malandrini:
« Ecco i vecchifratelli,
coi figli e il pane e formaggio ! »
Da Crotone o Palmisaliranno
a Napoli, e da 1í aBarcellona,
a Salonicco e aMarsiglia,
nelle Città dellaMalavita.
Anime e angeli, topie pidocchi;-
col germe dellaStoria Antica,
voleranno davantialle willaye.
Essisempre umili
essi sempre deboli
essi sempre timidi
essi sempre infimi
essi semprecolpevoli
essi sempre sudditi
essi sempre piccoli,
essi che non vollero maisapere, essi che ebbero occhi solo per implorare,
essi che vissero comeassassini sotto terra, essi che vissero come banditi
in fondo al mare, essi che visserocome pazzi in mezzo al cielo,
essi che sicostruirono
leggi fuori dallalegge,
essi che siadattarono
a un mondo sotto ilmondo
essi che credettero
in un Dio servo diDio,
essi che cantarono
ai massacri dei re,
essi che ballarono
alle guerreborghesi,
essi che pregarono
alle lotte operaie...
...deponendo l'onestà
delle religionicontadine,
dimenticando l'onore
della malavita,
tradendo il candore
dei popoli barbari,
dietro ai loro Ali
dagli Occhi Azzurri —usciranno da sotto la terra per rapinare —
saliranno dal fondo del mareper uccidere, - scenderanno dall'alto del cielo
per espropriare - e perinsegnare ai compagni operai la gioia della vita -
per insegnare aiborghesi
la gioia dellalibertà -
per insegnare aicristiani
la gioia della morte
- distruggerannoRoma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ognisacramento
andranno comezingari
su verso l'Ovest eil Nord
con le bandiererosse
di Trotzky al vento...
_________________________________________________________
"alì dagli occhi azzurri".
una profezia di pier paolopasolini.

di Peter Kammerer

La figura di "Alì dagli Occhi Azzurri" è una figura emblematica per il Pasolini degli anni 1962-1965, impegnato in una riflessione esistenziale sul rapporto fra Nord e Sud e fra cristianesimo e marxismo. Per Pasolini le due questioni si incrociano e il punto focale della sua analisi poetica, la poesia "Profezia", è scritta in modo da formare una croce. Ma tutte le sue opere di allora, dalla "Ricotta" (1962) alla "Poesia in forma di rosa" (pubblicata nel 1964), dal film "La Rabbia" (1963) al "Vangelo secondo Matteo" (1964) fino a "Uccellacci e uccellini" (1965/66) risentono di questo travaglio. Poi "Uccellacci e uccellini" chiude un` epoca e ne apre un` altra (1).

Incontriamo "Alì dagli Occhi Azzurri" per la prima volta nella poesia "Profezia", scritta probabilmente già nel 1962 e pubblicata nel volume "Poesia in forma di rosa". Una dedica recita: "A Jean Paul Sartre, che mi ha raccontato la storia di Alì dagli Occhi Azzurri". "Poesia in forma di rosa" esce nel 1964, ma nello stesso anno Pasolini scrive ancora una seconda versione della "Profezia" (peggiorata secondo me) e la mette nella importante raccolta di racconti, sceneggiature e progetti di film che va dal 1950 al 1965. Al volume, pubblicato nel 1965, l`autore addirittura dà il titolo di "Alì dagli occhi azzurri" collocando così tutto il materiale in una prospettiva sorprendente e nuova. Il titolo viene spiegato alla fine in una "Avvertenza" che descrive l`incontro con Ninetto in un cinema romano. Ninetto è un "messaggero" e parla dei Persiani. "I Persiani, dice, si ammassano alle frontiere./ Ma milioni e milioni di essi sono già pacificamente immigrati,/ sono qui, al capolinea del 12, del 13, del 409...... Il loro capo si chiama:/ Alì dagli Occhi Azzurri" (2).

Versi della "Profezia" ne troviamo infine nella predica di S. Francesco nel film "Uccellacci e uccellini" (girato nell` inverno 1965/66). La citazione fatta nel film nella sceneggiatura non c`è, ma fu inserita più tardi, probabilmente durante il doppiaggio. Nella sceneggiatura la predica di S. Francesco agli uccelli è quella della tradizione: "Molto siete tenuti di lodare e benedire Iddio......perchè vedendo questo, gli eretici si possono convertire e ritornare alla vera fede..." (3). Una visione di San Francesco piuttosto scontata, arciconosciuta, quasi noiosa, direi. Pasolini probabilmente ha capito questo e gli è venuta l`idea di mettere in bocca a S. Francesco alcuni versi della "Profezia". Così il santo si rivolge agli uccelli con ben altra forza: "Voi che non volete sapere e vivete come assassini tra le nuvole e vivete come banditi nel vento e vivete come pazzi nel cielo, voi che avete la vostra legge fuori dalla legge e passate i giorni in un mondo che sta ai piedi del mondo e non conoscete il lavoro e ballate ai massacri dei grandi". Ecco il terzo mondo nella sua crudele innocenza, nella sua feroce irrazionalità e nella sua esistenziale alterità. Come porsi di fronte a questa alterità? San Francesco coglie il problema e continua la sua predica così: "Noi possiamo conoscervi solo attraverso Dio perchè i nostri occhi si sono troppo abituati alla nostra vita e non sanno più riconoscere quella che voi vivete nel deserto e nella selva, ricchi solo di prole. Noi dobbiamo sapervi riconcepire e siete voi a testimoniare Cristo ai fedeli inariditi, con la vostra allegrezza, con la vostra pura forza che è fede".

L`indicazione è precisa: Ci troviamo di fronte ad una aporia, ci scontriamo con una pietra dello scandalo. L`esistenza del terzo mondo per il mondo industrializzato è scandalo, perchè pone il problema non del concepire, ma del "ri-concepire" l`altro, cambiando i "nostri occhi troppo abituati alla nostra vita", cosa che si può fare "solo attraverso Dio". Per vedere giusto ci vuole qualcosa che trascenda la nostra situazione. Dio è una specie di punto di Archimede, dal quale diventa possibile muovere il mondo. La leva della rivoluzione posa su questo punto.

Nè la sinistra (ufficiale e non), nè la chiesa ufficiale (nonostante gli sforzi compiuti durante il Concilio Vaticano II) erano allora pronti a riconoscere la necessità di "ri-concepire" la presenza del terzo mondo come fatto organico, non separabile dalla nostra vita. D`altra parte era difficile cogliere allora il senso del concetto pasoliniano di "sottoproletariato". Come concetto sociologico faceva acqua da tutte le parti, ricorda Goffredo Fofi più volte (4); come concetto politico pure, sostiene Salinari, che critica nel 1966 sull`Unità le posizioni di Pasolini come "terzomondiste" scrivendo: "Sì al coraggio con cui Pasolini ... ci ricorda l`esistenza di tanta parte dell`umanità assillata da problemi diversi; diremo no al suo voler considerare proprio le zone sottosviluppate come i centri motori della rivoluzione". E Pasolini gli risponde: "Ma io ho fatto mai affermazioni di questo genere" e insiste sul "rapporto dialettico `scandaloso` dei popoli arretrati o sottosviluppati con la razionalità dei centri del neocapitalismo" e sul fatto che "un` unica linea così sembra unire i nostri sottoproletariati urbani e agricoli... con le tribù africane" (5). Pasolini rivendica un significato sociologico e politico al suo concetto di sottoproletariato, ma sa bene che esso non è riducibile nè alla sociologia, nè alla politica. Il sottoproletariato di Pasolini è un concetto altrettanto teologico. La rappresentazione del sottoproletariato nel sacrificio e nella crocefissione è rievocazione di un mito, ma anche descrizione di una attualità bruciante: un passato che non è passato, ma che ogni giorno si rinnova. In parole povere: il terzo mondo non ricorda solo il nostro passato, ma lo è nel presente della società industriale.

3) La profezia

In questa poesia Pasolini predisse trent`anni fa una specie di invasione di "extracomunitari" la quale poi si è verificata realmente. Scrive Pasolini:

"Ali dagli Occhi Azzurri
uno dei tanti figli di figli,
scenderà da Algeri, su navi
a vela e a remi. Saranno
con lui migliaia di uomini
coi corpicini e gli occhi
di poveri cani dei padri

"Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camicie americane."


Sono sbarcati in Puglia ed erano Albanesi, ma la descrizione è esatta. E Pasolini l`ha fatta agli inizi degli anni `60, quando l`emigrazione italiana del dopoguerra verso l`estero raggiungeva il suo massimo livello e nessuno si sarebbe immaginato un` Italia paese di immigrazione e Boat people del Mediterraneo, le cui coste oggi il Ministro Martelli vuole difendere con l`esercito. Nessuno. Pasolini fu l`unico ad avere questo "fiuto sociologico". Era l`unico a decifrare il messaggio di Ninetto, il "messaggero". Ma anche se questi fatti si sono avverati, essi comunque non costituiscono che l`aspetto esteriore della profezia. Il suo nucleo vero indica ben altro. Seguiamo la poesia, scritta, come abbiamo detto, in forma di croce (6).

La dedica chiama in causa Sartre, al quale Pasolini deve la storia di Alì dagli Occhi Azzurri. Pasolini lo ricorda allo stesso Sartre in un altro colloquio avvenuto nel dicembre 1964. Ne era testimone M.A. Macciocchi, che pubblica un resoconto sull`Unità del 22.12.64.

Pasolini si trova a Parigi per far vedere Il Vangelo, resta fortemente deluso per non dire offeso dalla reazione degli intellettuali francesi marxisti. Sartre lo consola e Pasolini dice: "Ho dedicato a Lei, Sartre, una poesia, "Alì dagli Occhi Azzurri", sulla base di un racconto che lei mi fece a Roma...". E Sartre: "Sono del suo avviso che l`atteggiamento (della sinistra) francese di fronte al Vangelo... è un atteggiamento ambiguo. Essa non ha integrato Cristo culturale. La sinistra lo ha messo da parte. Nè si sa che fare dei fatti che concernono la Cristologia. Hanno paura che il martirio del sottoproletariato possa essere interpretato in un modo o nell`altro nel martirio di Cristo". In "La ricotta" Pasolini ha dato proprio questa interpretazione e la reazione della destra alla demistificazione dell`iconografia tradizionale è stata violenta (7). Ma ora, nella "Profezia", il poeta va ancora avanti e insiste sull`altro significato della croce, quello della redenzione/ resurrezione.

La poesia apre subito in tono biblico, racconta di "un figlio" che scende nella Calabria arida, dove:

"... la luna color delle feci
coltivava terreni
che mai l`estate amò.
Ed era nei tempi del figlio
che questo amore poteva
cominciare, e non cominciò. "

Ci troviamo nella Calabria della riforma agraria e l` amore poteva cominciare, perchè

"... Era il tempo
quando una nuova cristianità
riduceva a penombra il mondo
del capitale... "

Già di Engels e di Kautsky è la concezione del primo cristianesimo come precursore del movimento operaio (8). Con una delle sue tipiche forzature Pasolini la capovolge parlando di "nuova cristianità". Ma il tempo non si compie e il figlio "tremava d`ira". Conosciamo dal Cristo del Vangelo pasoliniano questa ira. Un Cristo che non sorride quasi mai.

".... Se egli non sorride
è perchè la speranza per lui
non fu luce ma razionalità."

Ex oriente lux. La "nuova cristianità" invece finisce nelle secche del razionalismo occidentale. "L`operaio di Milano" lotta con "tanta grandezza" per il suo salario, ha "procurato inutilmente" la riforma agraria al contadino del Sud (9) e lo ha "modernizzato inutilmente". Due volte e a brevissima distanza appare questa parola terribile: "inutilmente". Il sapere del figlio si scontra con il sapere "inutile" dello sviluppo e

"... dei concimi chimici
della lotta sindacale, degli scherzi
degli Enti Benefattori, della
Demagogia dello Stato
e del Partito Comunista..."

E così il contadino del Sud compie il suo destino abbandonando la propria terra, emigrando verso "il meraviglioso sole del Nord", sostituendo ai suoi "feticci oscuri" quelli nuovi di zecca, i frigoriferi, la televisione e la "Divinità alleata" delle Commissioni Interne. E "tre millenni svanirono, non tre secoli, non tre anni". Finisce così una storia millennaria, più grande di un`epoca?

"... Ah, ma il figlio sa: la grazia del sapere/ è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forse dall`Africa/"
Irrompe nel nostro mondo un altro sapere, quello dell` irrazionalità (10), sbarca il terzo mondo non addomesticato e ci costringe ad un confronto con una concezione antitetica della vita (11), arrivano

"essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare/ essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi/ in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo/"
ai quali si rivolgeva -come abbiamo visto sopra- la predica di San Francesco, un santo mistico, impregnato di "oriente" (12).


Con questa irruzione la poesia espande le ali, spicca in un volo onirico e dischiude una grandiosa sintesi profetica: "Essi" insegnano "ai compagni operai la gioia della vita", "ai borghesi la gioia della libertà", "ai cristiani la gioia della morte". Il finale unisce il "dolce Papa dal misterioso paterno testone campagnolo" (13) e Trotzky, il bolscevico "industrialista", ma anche simbolo dell`eresia.

"-distruggeranno Roma
e sulle sue rovine
deporranno il germe
della Storia Antica.
Poi col Papa e ogni sacramento
andranno come zingari
su verso l`Ovest e il Nord
con le bandiere rosse
di Trotzky al vento..."

Questa profezia ricorda il titolo famoso che Carlo Levi ha dato a un suo libro di viaggio in URSS, "Il futuro ha un cuore antico", ma accommuna Pasolini in modo sorprendente anche ad un altro grande pensatore marxista eretico, a Walter Benjamin (14). Da origini e da sponde completamente diverse, il pensiero di Benjamin era giunto a due tesi, intorno alle quali ruota il suo pensiero: Non c`è rivoluzione senza un "nucleo ardente teologico" e,rovesciando il "prospettivismo" marxista-leninista: "il compito principale della rivoluzione comunista consiste nella liberazione del passato". Di questo bisogno e delle sue strade ci parla la profezia poetica, onirica e mistica di Pasolini.

Note:

1) vedi Peter Kammerer, "L'uccellaccio vola alto" in: Il Passaggio, anno V, N 4-5, Roma 1992

2) Anche nel primo episodio della sceneggiatura di "Uccellacci e Uccellini" Ninetto svolge un ruolo di "messaggero" o di "mediatore" fra la Koine dei dialetti e la lingua ufficiale del razionalismo europeo, il francese.

3) Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, a cura di Giacomo Gambetti, Milano 1966, 115

4) Recensendo il "Vangelo secondo Matteo" Goffredo Fofi scrive: "Ma è sempre più chiaro però che egli ha scelto il mondo del passato, un mondo che non è più il nostro, e che ha rifiutato di portarvi lo sguardo di chi abbia almeno una certa visione complessiva, di chi almeno un`occhiata abbia saputo rivolgerla anche a quello che è il mondo delle società cosiddette sviluppate, industriali." G. Fofi, La mostra cinematografica di Venezia, in: Quaderni Piacentini, n 17-18, 1964; ristampato in: "Capire con il cinema", Milano 1977, pag. 34; La reazione di Pasolini fu molto risentita, vedi le due lettere scritte a Piergiorgio Bellocchio nell` ottobre 1964 in: P.P. Pasolini, "Lettere 1955-1975", Torino, 1988. Sette anni più tardi in occasione del "Decameron" Fofi insiste: "Come Napoli sta scomparendo e delle contraddizioni di questa metamorfosi, del suo intricarsi nelle fabbriche del Nord o dell`intricarsi della sua economia con lo sregolato sviluppo e la perenne crisi del Sud, dei modi in cui questo enorme processo avviene perlomeno dal `60 in avanti o delle sue prospettive, a Pasolini non sembra fregargliene molto. Canta dunque un popolo di ieri, una forma di "gioia di vivere" naturale...". In: Quaderni Piacentini, n. 44-45, 1971, ristampato in: "Capire con il cinema", Milano 1977, pag. 241

5) "Libri-Paese Sera" del 23.3.1966. Non solo oggi, ma già nell`Italia del dopoguerra suonava come un insulto l`affermazione delle strette parentele culturali di vaste parti dell`Italia preindustriale con l`Africa del Nord o il Medio-Oriente ecc. Vedi le vicende del libro di Franco Cagnetta, Banditi a Orgosolo, denunciato e processato nel 1954/1955. Tutti vogliono essere parenti solo dei ricchi fratelli "mittel-europei".

6) La poesia fa parte di un capitolo "Il libro delle croci" che antepone alla "Profezia" un altra poesia, "La nuova storia", della quale purtroppo non teniamo conto in questa sede.

7) Vedi "Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte", Milano 1977 (Garzanti) e di recente, in occasione della candidatura del magistrato Di Gennaro alla Direzione nazionale antimafia l`articolo di Enzo Golino: "Di Gennaro contro Pasolini", Repubblica del 13. agosto 1992

8) Friedrich Engels, Zur Geschichte des Urchristentums, 1894; Karl Kautsky, Der Ursprung des Christentums, 1909 (seconda edizione ampliata)

9) Come una gran parte della storiografia dell`epoca anche Pasolini vede la riforma agraria come frutto delle lotte sociali del Nord sottovalutando il grande contributo dato dal movimento contadino meridionale; vedi ad es. Paolo Cinanni, Lotte per la terra e comunisti in Calabria 1943/1953, Milano 1977

10) "L`elemento irrazionalistico e religioso è un antico elemento che mi accompagna come uomo e come scrittore da quando sono nato", Pier Paolo Pasolini in: "Una discussione del `64", AA.VV., Pier Paolo Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, Amm.ne Provinciale di Pavia-Comune di Alessandria, 1977, pag 93, ristampato in: Pier Paolo Pasolini, Le regole di un`illusione, a cura del Fondo Pier Paolo Pasolini, Garzanti 1991, pag. 103

11) Pier Paolo Pasolini, L`Aigle, in: Vie Nuove del 29 aprile 1965, ristampato in: Le belle bandiere, Roma 1978, pag. 322

12) Pier Paolo Pasolini, Liliana Cavani, Adriana Zarri in: "Lo scandalo di Francesco" dibattito in: Orizzonti, 5.6.1966; Pasolini critica il film "Francesco" della Cavani dicendo: "Ha `occidentalizzato` al più possibile Francesco. Ha tolto al suo Medioevo quel tanto di orientale che esso, oggettivamente, aveva nelle sue reali condizioni sociali ed economiche. Ha staccato gli elementi orientali... che erano nel mondo di Francesco..."; e ancora: "Direi che, a un non credente, piace di più un San Francesco che parla agli uccelli e fa i miracoli. La religione occidentale, impermeata di laicismo che essa crede rivoluzionario
rispetto al proprio spirito clericale e si sbaglia, tende a mostrarsi scettica e ironica rispetto ai miracoli. Ma i miracoli sono la religione".

13) in: "La Rabbia", film del 1963; e anche: "Il nuovo papa nel suo dolce misterioso sorriso di tartaruga pare aver capito di dover essere il pastore dei miserabili, perchè è loro il mondo antico, e sono essi che lo trascineranno avanti nei secoli con la storia della nostra grandezza" (preso dalla colonna sonora inedita del film).

14) Benjamin era quasi sconosciuto in Italia fino al 1962, anno in cui esce

Huffington post, dal blog Sans Décliner, Snarclens della giovane femminista ginevrina

Vorrei essere un uomo. Solo per un attimo. Per riposarmi.

Vorrei poter uscire la sera senza chiedermi se per caso il mio abbigliamento non sia troppo provocante. Non avrei paura, potrei parlare e rispondere liberamente, ad armi pari con tutti gli altri. Magari avrei paura di finire in una rissa, ma di certo non correrei il rischio di non potermi più guardare allo specchio, il giorno dopo, se uno o più bastardi decidessero di aggredirmi.

Mi piacerebbe credere che il sessismo non sia una cosa seria, o almeno, considerarlo alla stregua dell'AIDS o della fame nel mondo. Una cosa grave, ma che colpisce gli altri e di cui io non sono responsabile, io sto bene. Sarei in grado di elargire consigli freddi e distaccati, quindi molto attendibili, sulla causa da portare avanti e sarei ascoltato, rispettato, come si addice ad un uomo.

Vorrei vivere la mia sessualità, senza stigmatizzazioni, fare sesso con chi voglio e quando voglio (sempre ammesso che lei o lui sia d'accordo), senza il rischio di rovinarmi la reputazione, senza dare l'idea di una persona che cerca disperatamente affetto e attenzione. Vorrei che le mie azioni non fossero sottoposte all'interpretazione e al giudizio altrui. Che mi lascino fare l'amore tranquilla.

Vorrei giocare un ruolo nella cultura. Essere ovunque, sentire riecheggiare le mie parole di continuo. E, a forza di ascoltarle, convincermi che quello che dico è saggio, giusto e che le opinioni altrui sono trascurabili. Che tutti gli altri ronzano intorno alla mia idea. Che io sono al centro e che tutti gli altri sono ai margini.

Vorrei poter dire la mia. Far sentire la mia voce liberamente e parlare di ciò che mi sta a cuore. Sarebbe molto più semplice discutere d'amore, di sesso, d'invidia, di speranze, di nero, di bianco. Sarebbe molto più facile esprimere la mia opinione, parlare delle mie volontà e dei miei interessi. Se avessi davvero questa possibilità, verrei ascoltata.

Vorrei poter pensare che non ho una data di scadenza. Non vedere la vita come una clessidra. Pensare che fra dieci anni sarò più attraente di oggi. Credere che l'amore non sia qualcosa a cui dovrò rinunciare, quando avrò superato i trent'anni. Non avrei paura della vita, se sapessi per certo che, sfiorita la mia bellezza, i veri segnali del mio fascino saranno la forza e il carisma.
Vorrei essere un uomo e scrivere di altre cose. Un romanzo, una poesia. Di certo direbbero che ho talento. Sarebbe bello, solo per un momento.

Questo post è apparso sul blog Sans Décliner, Snarclens, di proprietà dell'autrice è stato pubblicato su HuffPost Francia e tradotto da Milena Sanfilippo.

Il manifesto, 14 marzo 2015

Era un canto, una bal­lata di rac­conto e di rifles­sione, una voce che rac­con­tava una sto­ria comune, sua e del pub­blico che come lei vedeva, capiva e lot­tava. L’Italia in lungo e in largo è l’attacco di una famosa com­po­si­zione di Gio­vanna Marini, vivida e pun­gente nono­stante l’apparente non­cha­lance con cui l’autrice pas­sava in ras­se­gna un paese pieno di con­trad­di­zioni, sof­fe­renze e anche invo­lon­ta­rio umo­ri­smo. Era come il film delle sue «tour­née», che erano veri viaggi di tenace mili­tanza fatti su pul­mini sgan­ghe­rati e treni ansi­manti e affol­lati. Quell’attraversamento di una con­di­zione, sen­ti­men­tale sociale e poli­tica (una sorta di inno nazio­nale alter­na­tivo allora, quando l’ascoltammo le prime volte) torna ora, dopo più di quarant’anni, a rac­con­tare un paese che nel pro­fondo non è cam­biato nelle sue sof­fe­renze, a dispetto delle molte tra­sfor­ma­zioni, spesso solo superficiali.

E torna anche, quell’attacco, a dar titolo a un cd (appena pub­bli­cato da Fini­sterre e distri­buito da Egea­mu­sic) in cui Gio­vanna Marini, assieme, in accordo o in con­tro­canto, con la più brava e solida delle sue allieve, Fran­ce­sca Bre­schi, rac­co­glie molti brani di que­gli anni e degli anni suc­ces­sivi, alcuni dive­nuti famo­sis­simi come I treni per Reg­gio Cala­bria, unica docu­men­ta­zione di una vera epo­pea libe­ra­to­ria, e altri rima­sti in una dimen­sione più intima come Lamento per la morte di Paso­lini o Ragazzo gen­tile. Can­zoni bel­li­sime tut­tora, Com­mo­venti fino alle lacrime, eppure ras­se­re­nanti per il fatto di essere sto­rica testi­mo­nianza di fatti molto importanti.

Gio­vanna Marini ha il dono della poe­sia, che non viene mini­ma­mente scal­fito dal pas­sare del tempo, e dei gusti e delle mode. È uno straor­di­na­rio monu­mento musi­cale del nostro tempo e della vita quo­ti­diana, senza alcuna reto­rica, e senza per altro alcun rico­no­sci­mento dalla cul­tura «uffi­ciale», o tanto meno di governo. Eppure il titolo di quella bal­lata, l’altra sera in una sala dell’Auditorium al Parco della musica romano, era ancora l’occasione di un viag­gio, pos­si­bile e luci­dis­simo, nell’umanità che que­sto paese è stato capace di ela­bo­rare e modu­lare. Una Ita­lia in lungo e in largo che aveva come cabina di comando le due can­tanti, con­sa­pe­voli e emo­zio­nanti, ma ha anche voluto assu­mere il corpo sto­rico e musi­cale di una comu­nità fem­mi­nile dav­vero fuori dell’ordinario, le donne di Giulianello.

Che è un pae­sino rurale in pro­vin­cia di Latina, dove però da sem­pre viene col­ti­vato il canto corale, e di ori­gine reli­giosa, che si allarga ad abbrac­ciare, e immor­ta­lare, ogni aspetto, biso­gno, spe­ranza della vita. Rac­conta la Marini che la prima volta che le incon­trò, tanti anni fa durante le sue inda­gini musi­cali sulla scia di Erne­sto De Mar­tino e Diego Car­pi­tella (cui la serata è stata affet­tuo­sa­mente dedi­cata), se le vide arri­vare su un car­rello trai­nato da un trat­tore, e can­ta­vano senza sosta. Il canto, per le donne di Giu­lia­nello, è una atti­vità a tutto campo, che quasi armo­nizza e rende pos­si­bili tutte le altre fati­che. La loro «lea­der» Lalla ha appena com­piuto 93 anni, ma non si nega vir­tuo­si­smi vocali di alto respiro. Con quel con­tral­tare vivente che dava spes­sore e radici alle loro voci, Gio­vana Marini e Fran­ce­sca Bre­schi hanno fatto bale­nare per una sera una Ita­lia che possa ancora oggi essere attra­ver­sata, nella pro­fon­dità del cuore, vin­cendo gli ammen­ni­coli e i sopram­mo­bili e gli orrori che che tante volte la ren­dono irri­co­no­sci­bile e orren­da­mente sporca.

nella traduzione di Pietro Marchesani, la rubiamo dal blog di Paola Somma (http://amoscrivere1258.wordpress.com/)


Contributo alla statistica

Su cento persone:


chene sanno sempre piu’ degli altri
– cinquantadue;

insicuria ogni passo
– quasi tutti gli altri;

prontiad aiutare,
purche’ la cosa non duri molto

– ben quarantanove;

buonisempre,
perche’ non sanno fare altrimenti

– quattro, be’, forse cinque;

propensiad ammirare senza invidia
– diciotto;

viventicon la continua paura
di qualcuno o qualcosa

– settantasette;
dotatiper la felicita’
– al massimo poco piu’ di venti;

innocuisingolarmente,
che imbarbariscono nella folla

– di sicuro piu’ della meta’;
crudeli,
se costretti dalle circostanze

– e’ meglio non saperlo
neppure approssimativamente;
quellicol senno di poi
– non molti di piu’
di quelli col senno di prima;

chedalla vita prendono solo cose
– quaranta,
anche se vorrei sbagliarmi;

ripiegati,dolenti
e senza torcia nel buio

– ottantatre,
prima o poi;

degnidi compassione
– novantanove;

mortali
– cento su cento.
Numero al momento invariato.

Altre poesie in eddyburg le trovate anche nella cartella Poesie del vecchio archivio

ASSIDUA RICERCA

Ma i lutti e i pianti e le tormentate incertezze
le lucide menti
le lotte senza respiro
l’assidua ricerca del vero
hanno nutrita.

Con l’altrui dolore
l’umano confronto
e le parole dette
sul pane, la casa, la pace per tutti
non bastarono
come le lacrime che lavano l’offesa
e l’ingiustizia dell’uomo sugli uomini.

Un canto ci voleva per tutti i petti

Postilla

Questa poesia l'avevamo scelta un paio d'anni fa (la trovate anche nell'archivio del vecchio eddyburg) tra quelle scritte negli anni Cinquanta da Franco Busetto, lucido comunista italiano e tenace combattente nella società e nelle istituzioni, negli anni della guerra e in quelli della pace. Sono state raccolte e pubblicate a cura di Franca Tessari e Mariuccia Gaffuri, Padova 2011, editrice Il Torchio.

E’ una poesia scritta negli anni anni in cui dagli orrori contro i quali si lottava non si potè uscire del del tutto perché , come ha scritto Busetto, «un canto ci voleva per tutti i petti», e non ci fu. Gli anni che stiamo attraversando sono solo "diversamente brutti". Speriamo che quel canto oggi ci sia... o magari domani.

Obra en marcha: Poesìa, 1965-1980 (Editorial Costarica, 1982, p.186), e dedicata a chi lotta per la difesa degli spazi pubblici

Alfonso Chase Le piazze sono i palazzi del popolo

Le piazze sono i palazzi del popolo

Sull’asfalto o la pietra
il passaggio è un coltello
e ogni labbro un grido

Da strada a strada il mondo cresce.

Anima il mormorio della folla
qualche verità imbavagliata
e svelata appena lanciata in aria

Credo che in ogni piazza
d’angolo in angolo e da strada a strada
il popolo si svela

Ci guardiamo ciascuno faccia a faccia
ognuno riconosce ciascun altro e diventa più forte

Prendi qualche parola dimenticata
e falla tua
così come quando fai l’amore
o senti l’aria.

La casa del popolo sono le piazze
e siamo lì tutti e nessuno.


(Traduzione illetterata di Edoardo Salzano, grato a chi glie ne invia una migliore)

l'immagine in icona ricorda il corteo che inaugurò il nuovo spazio pubblico ottenuto liberando dal traffico e dalle automobili una strada ad Arenzano (GE)
Qui sotto la poesia di Chase in originale e nella traduzione in inglese.


Da "Vista con granellodi sabbia. Poesie (1957-1993)" ripreso dal sito www.gironi.it

Che cos'e' necessario?
E' necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si e' vissuto
e' bene che il curriculum sia breve.
E' d'obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e malcerti ricordi in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di piu' chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all'estero.
L'appartenenza a un che, ma senza perche'.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l'orecchio in vista.
E' la sua forma che conta, non cio' che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.

Trovatori, Einaudi 2007. Segnalata da Vezio De Lucia il 25 aprile 2013

Andatelo a dire

“Andatelo a dire
ai caduti di ieri
che il loro morire

fu come le nevi...”
No, i fuochi di un tempo
non trovano pace...”
“La cenere al vento

riscopre la brace...”
“Una cosa il giudizio...”
“Un’altra la pietà...”
“Lottare per la morte...”
“O per la libertà ...”
“L’unica dignità
della nostra storia
è la memoria
della verità ...”
“Alla vecchia e alla nuova
Resistenza italiana...”
“Contro l’odio che odia...”
“Per l’amore che ama...”
“Andatelo a dire
ai caduti di ieri
che il loro morire
fu come le nevi...”

Persi le forze mie persi l'ingegno

Che la morte m'è venuta a visitare

E leva le gambe tue da questo regno!

Persi le forze mie persi l'ingegno

Le undici le volte che l'ho visto

Gli vidi in faccia la mia gioventù

Oh Cristo me l'hai fatto un bel disgusto

Le undici le volte che l'ho visto

Le undici e un quarto io mi sento ferito

Davanti agli occhi ho le mani spezzate

E la lingua mi diceva "è andata è andata"

Le undici e un quarto mi sento ferito

L'undici e mezza mi sento morire

La lingua mi cercava le parole

E tutto mi diceva che non giova

Le undici e mezza mi sento morire

Mezzanotte m'ho da confessare

Cerco il perdono da la madre mia

E questo è un dovere che ho da fare

lo a mezzanotte m'ho da confessare

Ma quella notte volevo parlare

La pioggia il fango e l'auto per scappare

Solo a morire lì vicino al mare

Ma quella notte volevo parlare

E non può non può

Può più parlare può più parlare

Non può non può

Può più parlare può più parlare

Persi le forze mie persi l'ingegno

Che la morte m'è venuta a visitare

E leva le gambe tue da questo regno!

Persi le forze mie persi l'ingegno

Il canto ricalca la narrazione per orario tipica del modo narrativo popolare. È nelle passioni religiose, soprattutto nel Lazio, in Umbria e nelle Marche, che si cantano le ore collegandole a momenti significativi della Crocefissione.

Pierpaolo Pasolini poeta, scrittore e regista cinematografico, è stato uno dei più ispirati intellettuali del '900. Fu ucciso il 2 novembre 1975 all'idroscalo di Ostia, nei pressi di Roma.

Assidua ricerca

Ma i lutti e i pianti e le tormentate incertezze

le lucide menti

le lotte senza respiro

l’assidua ricerca del vero

hanno nutrita.

Con l’altrui dolore

l’umano confronto

e le parole dette

sul pane, la casa, la pace per tutti

non bastarono

come le lacrime che lavano l’offesa

e l’ingiustizia dell’uomo sugli uomini.

Un canto ci voleva per tutti i petti

PostillaQuesta poesia L'abbiamo scelta tra quelle scritte negli anni Cinquanta da Franco Busetto, lucido comunista italiano e tenace combattente nella società e nelle istituzioni, negli anni della guerra e in quelli della pace. Sono state raccolte e pubblicate a cura di Franca Tessari e Mariuccia Gaffuri, Padove 2011, editrice Il Torchio.

E’ una poesia scritta negli anni anni in cui - come oggi(?) - dagli orrori contro i quali si lottava non si potè uscire del del tutto perché «un canto ci voleva per tutti i petti», e non ci fu.

Wislawa Szymborska,

Scrivere il curriculum

Che cos’è necessario?


E’ necessario scrivere una domanda,


e alla domanda allegare il curriculum.


A prescindere da quanto si è vissuto


il curriculum dovrebbe essere breve.

E’ d’obbligo concisione e selezione dei fatti.


Cambiare paesaggi in indirizzi


e malcerti ricordi in date fisse.

Di tutti gli amori basta quello coniugale,


e dei bambini solo quelli nati.


Conta più chi ti conosce di chi conosci tu.


I viaggi solo se all’estero.


L’appartenenza a un che, ma senza perché.


Onorificenze senza motivazione.

Scrivi come se non parlassi mai con te stesso


e ti evitassi.


Sorvola su cani, gatti e uccelli,


cianfrusaglie del passato, amici e sogni.

Meglio il prezzo del valore
e il titolo che il contenuto.


Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.


Aggiungi una foto con l’orecchio in vista.


E’ la sua forma che conta, non ciò che sente.


Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.


In The Ghetto

(Scott Mac Davis - 1969)

As the snow flies

On a cold and gray Chicago mornin'

A poor little baby child is born

In the ghetto

And his mama cries

'cause if there's one thing that she don't need

it's another hungry mouth to feed

In the ghetto

People, don't you understand

the child needs a helping hand

or he'll grow to be an angry young man some day

Take a look at you and me,

are we too blind to see,

do we simply turn our heads

and look the other way

Well the world turns

and a hungry little boy with a runny nose

plays in the street as the cold wind blows

In the ghetto

And his hunger burns

so he starts to roam the streets at night

and he learns how to steal

and he learns how to fight

In the ghetto

Then one night in desperation

a young man breaks away

He buys a gun, steals a car,

tries to run, but he don't get far

And his mama cries

As a crowd gathers 'round an angry young man

face down on the street with a gun in his hand

In the ghetto

As her young man dies,

on a cold and gray Chicago mornin',

another little baby child is born

In the ghetto

Nel Ghetto

(Scott Mac Davis - 1969)

Mentre la neve cade

In una fredda e grigia mattina a Chicago

Un povero piccolo bambino è nato

Nel Ghetto

E la sua mamma piange

Perchè se c’è una cosa di cui lei non ha bisogno

É un’altra bocca da sfamare

Nel Ghetto

Gente, non capite

Il bimbo deve essere aiutato

O un giorno crescerà essendo un uomo arrabbiato

Guarda me e te

Siamo troppo ciechi per vederlo

Giriamo semplicemente la testa

E guardiamo dall’altra parte

Beh, il mondo va avanti

E il bimbo affamato con un naso moccoloso

Gioca per la strada, mentre un vento freddo soffia

Nel ghetto

E la sua fame divampa

così inizia a vagabondare per la strada, di notte

impara a rubare

e impara a combattere

Nel ghetto

Allora una notte, in disperazione

Un giovane uomo fugge

Compra una pistola, ruba un’auto

prova a correre, ma non va lontano

E sua mamma piange

Come la folla si raduna attorno a questo arrabbiato giovane

Che si affaccia per la strada con una pistola in mano

Nel ghetto

Come il suo giovane muore

una fredda e grigia mattina a Chicago

Un altro bambino è nato

Nel ghetto

La vita non è uno scherzo.

Prendila sul serio

come fa lo scoiattolo, ad esempio,

senza aspettarti nulla

dal di fuori o nell'al di là.

Non avrai altro da fare che vivere.

La vita non é uno scherzo.

Prendila sul serio

ma sul serio a tal punto

che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,

o dentro un laboratorio

col camice bianco e grandi occhiali,

tu muoia affinché vivano gli uomini

gli uomini di cui non conoscerai la faccia,

e morrai sapendo

che nulla é più bello, più vero della vita.

Prendila sul serio

ma sul serio a tal punto

che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi

non perché restino ai tuoi figli

ma perché non crederai alla morte

pur temendola,

e la vita peserà di più sulla bilancia.

Nazim Hikmet

Quando si dileguò la notte

la mimosa rimase

in mezzo al campo

fra le case stupite.

Era sola

fiorita

un firmamento di polline

tremante

nel gelo del mattino.

All’alzarsi del vento

che ondeggiava

fra i rami del fico

ancora nudo

e il melograno secco

rabbrividì all'inganno.

Una febbre di primavera

un errore maligno

fremendo nelle vene

del suo tronco

l’aveva destata anzi tempo

spinta a quel fragile tripudio.

E ora

sulla terra ancora nera

spoglia d'uccelli

gemeva luminosa

nel cuore dell'inverno.

La poesia, senza titolo, è la prima della poemetto "Primavera" nel libro: Piero Bevilacqua, Il vento nella città, introduzione di Alberto Asor Rosa, Roma, Donzelli 2010,

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