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Luigi Saraceni
Un sindaco fuori dal comune
2 Marzo 2019
Articoli del 2013
Dal libro «Un secolo e poco più» (Sellerio, 2019) una cronaca emozionante di un'Italia tra fascismo e rinascita, in cui il sindaco di Castrovillari (CS) con coraggio e determinazione amministra un paese distrutto dalla guerra. (a.b)

In queste pagine l'autore racconta di quando suo padre, Silvio Saraceni, divenne commissario di governo di Castrovillari nel 1944. Come condizione all'accettazione della sua carica Silvio stilò un decalogo in cui chiedeva poteri straordinari (perquisizioni, requisizioni), la possibilità di nominare su base volontaria e gratuita «ausiliari del Comune», da affiancare alla esigua (e non tutta affidabile) pattuglia dei vigili urbani e di usare il titolo di sindaco o commissario del popolo anziché quello di commissario di governo. Gli fu concesso pressoché tutto, ma non il titolo di sindaco. Poté usare quello di commissario straordinario. (a.b.)

Il seguente testo è tratto da «Un secolo e poco più» Sellerio Editore, 2019

Mio padre sceglie di insediarsi il 1° maggio, «festa del Lavoro e del Socialismo». La situazione logistica del Municipio è disastrosa. Tra l’altro manca anche una macchina da scrivere e, naturalmente, il dattilografo. Silvio possiede una Olivetti Lettera 22, su cui aveva imparato a scrivere la sua primogenita, allora quattordicenne. Macchina e figlia vengono trasferite in pianta stabile al Comune, ovviamente senza retribuzione. Il che era, se non proprio giusto, certamente opportuno. E condiviso in famiglia.

Ricordo che però mia madre non fu d’accordo quando, ad una delle mie sorelle che si era ammalata, negò il supplemento di latte e la razione di riso che spettava agli ammalati. E non era d’accordo, mia madre, neppure quando, per non incorrere nei fulmini di Silvio, era costretta a rispedire al mittente qualche modesto, ma all’epoca prezioso, regalo alimentare, un cesto di verdure, un chilo di pane, un litro d’olio. C’era, in questi atteggiamenti, un connotato estremista, un eccesso di «piacere dell’onestà» (l’opera di Pirandello di cui apprezzava soprattutto il titolo).
Un mese dopo l’insediamento in Municipio, il 3 giugno, Fausto Gullo, ministro dell’Agricoltura, gli chiede di assumere l’incarico della «Direzione Generale della Alimentazione», struttura del Governo di Salerno in prima linea nell’affrontare il principale problema del momento. Lui ringrazia e declina, gli sembra un tradimento del suo popolo, che lo ha voluto alla guida del Comune. In questa occasione confida all’amico ministro – forse anche in cerca di «protezione» – il recente scontro che ha avuto con il capitano dei carabinieri: lo aveva ha messo alla porta dopo che, durante una visita di cortesia, aveva detto che sull’approvvigionamento «personale» avrebbero senz’altro trovato un accordo (in seguito sulla stampa apparve la notizia che questo capitano, nel frattempo trasferitosi altrove, era stato arrestato in una delle rare indagini del tempo per corruzione).
Per esporre il suo programma e fare un appello ai cittadini, Silvio vorrebbe affiggere dei manifesti. La tipografia macchiatasi di colpa antifascista è ancora chiusa, così si dà da fare e riesce a farla riavere al tipografo. Dopo la ripulitura delle tracce della falsificazione delle Am Lire, la tipografia può entrare in funzione anche grazie ad alcuni vecchi rotoli di carta rimasti intatti. La prima stampa è il manifesto del «Sindaco», un appello ai cittadini: l’urgenza è assicurare alla popolazione intera il necessario per sopravvivere; tutti hanno il dovere di collaborare; chi dispone di scorte alimentari o di vestiario ha l’obbligo di dichiararlo al Comune, pena la requisizione; contadini e commercianti hanno l’obbligo di portare le loro mercanzie al mercato comunale, dove saranno vendute a prezzi calmierati; il commissario pro tempore intende impiegare i suoi poteri straordinari per snidare accaparratori e mercanti neri, contro i quali sarà usato il massimo rigore; i volontari disponibili al ruolo (gratuito) di «ausiliari» devono presentarsi al Comune che ne vaglierà i requisiti.
Nell’immediato l’appello e la minaccia producono qualche effetto. Al mercato per qualche settimana compaiono prodotti della terra, scarpe e vestiario. Si formano lunghe file, ma quasi tutti riescono a tornare a casa con qualcosa. Il commissario si reca spesso di persona al mercato per controllare che siano rispettati i prezzi e l’ordine nelle file, non sono ammessi favoritismi per censo o ceto sociale, solo donne incinte o con bambini piccoli, anziani e invalidi, hanno la precedenza. (Ricorda mia sorella Fiorenza che una volta, mentre era in attesa, il mercante la riconobbe e la chiamò per farle scavalcare la fila; ma «don Silvio» piombò come una furia e retrocesse mia sorella all’ultimo posto minacciando il mercante di revocargli la licenza).
Intanto arriva la chiusura dell’anno scolastico, che per le scuole elementari si è ridotto a pochi mesi. L’edificio scolastico era stato danneggiato dal bombardamento dell’agosto ’43 ed era tornato agibile solo nel febbraio ’44. Il commissario fa un accorato appello ai maestri, teniamo aperte le scuole almeno fino a ferragosto, poi vi resterà ancora un mese e mezzo di vacanze (allora l’anno scolastico si apriva formalmente il primo ottobre e la scuola cominciava a funzionare a regime addirittura a novembre, dopo i primi quattro giorni festivi).
All’appello rispondono in pochi, cinque o sei; ma sotto la loro guida si improvvisano maestri una decina di volontari, in maggioranza donne. Del resto – spiega il commissario in una riunione plenaria estesa ai genitori – si tratta soprattutto di tenere i bambini lontano dalla strada e dalle precarie condizioni delle famiglie, in cui gli adulti sono impegnati l’intera giornata per sbarcare il lunario. Silvio rimaneva al Comune tutto il giorno e spesso anche la notte, si era fatto portare una brandina («Mi basta un giaciglio», diceva). E altrettanto spesso mia madre gli preparava qualcosa da mangiare che lei stessa o un commesso gli portava sul posto di lavoro.
Era riuscito a procurarsi una vecchia Balilla, usata rigorosamente solo per gli affari del Comune (noi in campagna – sei chilometri di strada – andavamo a piedi). La usava di notte per pattugliare, insieme ai pochi vigili e agli ausiliari, le strade di uscita dal paese, da dove passavano le «esportazioni» della borsa nera. Intanto mercanti e contadini si organizzavano per prendere le contromisure e non sottostare alla «dittatura» (così la chiamavano) del commissario. I mercanti si procurarono muniti nascondigli e trovarono nuovi canali per lo smercio clandestino.
I proprietari terrieri proibirono portava sul posto di lavoro. Era riuscito a procurarsi una vecchia Balilla, usata rigorosamente solo per gli affari del Comune (noi in campagna – sei chilometri di strada – andavamo a piedi). La usava di notte per pattugliare, insieme ai pochi vigili e agli ausiliari, le strade di uscita dal paese, da dove passavano le «esportazioni» della borsa nera. Intanto mercanti e contadini si organizzavano per prendere le contromisure e non sottostare alla «dittatura» (così la chiamavano) del commissario. I mercanti si procurarono muniti nascondigli e trovarono nuovi canali per lo smercio clandestino. I proprietari terrieri proibirono ai loro contadini di raccogliere i prodotti da portare al mercato comunale: preferivano farli marcire, quando non riuscivano a venderli clandestinamente e di fronte alle ispezioni e alle minacce del commissario simulavano furti, danneggiamenti, allagamenti.
Giorno dopo giorno, gli approvvigionamenti si assottigliavano, finché il mercato comunale non rimase deserto. Il commissario tenne un discorso dal balcone del Comune e affisse un bando: dava tempo una settimana a contadini e commercianti per portare al mercato prodotti della terra e mercanzie. Scaduta inutilmente la settimana, requisì due camion di un «pescecane» locale, convocò il popolo e guidò una «spedizione» nei terreni agricoli. Per due giorni consecutivi furono raccolti quintali di prodotti, annotati alla bell’e meglio in un registro con il nome dei proprietari. I prodotti furono portati al mercato e venduti ai prezzi di calmiere. Il ricavato fu distribuito ai proprietari terrieri. L’impresa fu approvata dalla stragrande maggioranza della popolazione, ma incontrò la disapprovazione dei benpensanti e delle autorità costituite.
I carabinieri trasmisero un rapporto alla magistratura, il prefetto chiese giustificazioni scritte. La sezione locale del Comitato di Liberazione Nazionale affisse un manifesto in cui si dissociava. Il commissario rispose con un suo manifesto in cui ricordava al «sedicente» CLN che i partiti politici di cui si dicevano espressione avevano il dovere di stare dalla parte del popolo e non dei suoi affamatori. Il manifesto si concludeva annunciando un comizio del commissario per la domenica successiva. Al comizio partecipò praticamente l’intera comunità. Il popolo in piazza, mentre i dissenzienti se ne stavano ai margini o ascoltavano il discorso da dietro le finestre socchiuse delle case patrizie che si affacciavano sulla piazza.
L’essenza del discorso stava nella sua conclusione: visto che le autorità costituite in nome del re osteggiano l’opera del commissario che agisce in nome e nell’interesse del popolo, di cui riscuote il pieno consenso, non ci resta che proclamarci Repubblica. Il popolo applaudì, più per adesione all’operato del commissario che per fede repubblicana.
In un manifesto affisso qualche giorno dopo (ricordo la minuta, scritta a matita sul retro di una tessera annonaria scaduta), Silvio ribadì che «la Repubblica indipendente di Castrovillari» avrebbe fatto il suo corso nel rispetto della legge, che certamente consentiva al commissario di espropriare, anche con la forza, i beni imboscati dai nemici del popolo. La «Repubblica di Castrovillari» – che lo storico Vittorio Cappelli cita a p. 555 del volume della Storia d’Italia della Einaudi dedicato alla Calabria – è praticamente coeva alla ben più eroica Repubblica della Val d’Ossola, nata nel settembre 1944 in territorio ancora occupato dai nazifascisti e cessata dopo poche settimane di intensa vita democratica. Nel «Regno del Sud» la Repubblica di Castrovillari precede invece la più nota (e più cruenta) Repubblica di Caulonia, che nasce nel marzo 1945.
Alla pubblicazione del manifesto – firmato, in violazione dell’originario accordo, «il commissario del Popolo» – seguirono i fatti. Qualche giorno dopo, convocata ancora la comunità popolare, mio padre organizzò un’altra spedizione nei magazzini di due commercianti di calzature e vestiario. Anche questa mercanzia fu venduta al mercato e il ricavato messo a disposizione dei due, che però lo rifiutarono (il denaro fu depositato in banca con «offerta reale»). A questo punto gli interessi, leciti e illeciti, di contadini, mercanti, trafficanti vari si saldarono al composito fronte degli oppositori politici («sinceri democratici», democratici», neo-liberisti, ex fascisti riciclati, emergenti esponenti dei rinati partiti), in una alleanza che si mise al lavoro per destituire il commissario. Il primo tentativo fallì. Un gruppo di «personalità» si radunò sotto il Comune spalleggiato da una piccola folla. L’intento, probabilmente approvato in alto loco, era di occupare la sede municipale e imporre le dimissioni al commissario. Era il 27 gennaio, giorno della festa del patrono di Castrovillari (San Giuliano), considerato propizio dai «congiurati»: la gente era distratta dalla festa, lo spirito religioso che pervadeva in quel giorno la cittadinanza relegava il commissario, noto miscredente, nella solitudine del suo ufficio, da cui anche i vigili e gli ausiliari si erano allontanati per partecipare alla processione che seguiva il santo. Ma avevano sbagliato i conti. Qualcuno arrivò nel bel mezzo della processione gridando «vogliono cacciare il sindaco, vogliono cacciare don Silvio». D’incanto, tra lo sconcerto di sacrestani e sacerdoti officianti, la processione virò, tutta intera (salvo qualche irriducibile «bizzoca») verso il Comune. Quando il drappello delle «personalità» e la piccola folla che lo spalleggiava videro arrivare quel fiume di gente che inneggiava al sindaco, si diedero a precipitosa fuga, trovando scampo nei già ricordati palazzi patrizi o nei vicoli adiacenti la piazza. Invocato dal suo popolo, il commissario si affacciò al balcone e disse: «Oggi il vostro Santo, che io rispetto anche se non ci credo, così come rispetto tutti voi che ci credete, ha fatto il miracolo: ha ricacciato nelle loro tane i nemici del popolo, i vostri nemici. Viva la Repubblica di Castrovillari». In un tripudio di sacro e profano, il sindaco – ormai lo chiamavano tutti così – fu strappato alla casa comunale, dove rimase un presidio di volontari, e portato in trionfo per le strade principali del paese, fino alla sua abitazione. Qui si affacciò per un nuovo e caloroso discorso al balcone che dava sulla strada, la quale non riusciva a contenere tutta la folla, sicché in molti salirono sui tetti delle case di fronte, rischiando di sfondarli. Io ho un nitido ricordo dell’arrivo del corteo sotto casa nostra, annunciato da una «staffetta» con queste parole: «Stanno portando don Silvio». Mia madre inizialmente si allarmò, perché dalle nostre parti si «porta» qualcuno quando è morto o ferito. Ma mio padre arrivò «portato» sulle braccia dei dimostranti fin sotto casa, anzi fin dentro casa. Noi abitavamo al primo piano e le case di fronte erano tutte a piano terra; anch’io, come gli altri, mi affacciai al balcone e vidi la gente camminare sui tetti. Ecco cosa scrive su questo episodio l’atto giudiziario conclusivo della vicenda: «La maggior parte della popolazione, escluse la classe dei contadini arricchiti e dei commercianti accaparratori e di persone interessate, avea per lui la massima stima ed ammirazione, tanto vero che un tentativo di dimostrazione a lui contraria di qualche risentito si tramutò immediatamente in una dimostrazione a lui favorevole, di gratitudine e di trionfo». Dopo questa manifestazione di popolo si andò avanti tra alti e bassi nella guerra quotidiana contro speculatori e mercanti neri, sulla quale pesava ormai l’aperta ostilità delle autorità costituite e degli oppositori politici. Ovviamente alla fine l’ebbero vinta e il «commissario del Popolo» fu destituito. Accolse l’atto di destituzione – per «insubordinazione» e «lese prerogative delle Autorità costituite» – come un complimento. «È la prova che ho fatto il mio dovere verso il popolo» fu il suo primo commento. Non sapeva che il peggio doveva ancora venire.
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