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Piero Cavalcoli
La questione dei “Prati di Caprara”: un’occasione per una domanda all’urbanistica bolognese
16 Novembre 2018
Bologna
Intervento all’istruttoria pubblica del 13 novembre 2018 sul progetto per i Prati di Caprara voluta da 47 associazioni di cittadini per fermare un’operazione di sedicente ‘rigenerazione’ che potrebbe cancellare il Bosco urbano dei Prati di Caprara. Con commento e riferimenti (m.c.g)

Intervento all’istruttoria pubblica del 13 novembre 2018 sul progetto per i Prati di Caprara voluta da 47 associazioni di cittadini per fermare un’operazione di sedicente ‘rigenerazione’ che potrebbe cancellare il Bosco urbano dei Prati di Caprara. Con commento e riferimenti (m.c.g)

É stato un grande evento partecipativo – anzi, secondo Piero Cavalcoli, la prima manifestazione di massa su di un tema urbanistico negli ultimi 50 anni a Bologna - l’istruttoria pubblica sul progetto per i Prati di Caprara voluta da 47 associazioni di cittadini che, con le loro firme, hanno consentito un ampio dibattito critico cui hanno partecipato tecnici e semplici cittadini, il parroco e i rappresentanti dei vari condomini che si affacciano sull’area. Si trattava di fermare un’operazione di sedicente ‘rigenerazione’ (edilizia residenziale con le solite briciole per l‘housing sociale, terziario e l’ennesimo centro commerciale) che potrebbe cancellare il Bosco urbano dei Prati di Caprara. I Prati costituiscono un ecosistema naturale localizzato a 550 metri dal centro storico che svolge (come ha sottolineato anche il FAI che sta raccogliendo firme per eleggerlo a ‘luogo del cuore’) una funzione ambientale cruciale in una delle zone più inquinate della città. Pubblichiamo l’intervento critico di Piero Cavalcoli, un urbanista che ha contribuito a fare la storia, per decenni esemplare, dell’urbanistica bolognese, e che è stato chiamato ad intervenire sul progetto per conto di Coalizione civica - il raggruppamento di sinistra che, alle ultime elezioni amministrative comunali, ha ottenuto l’8% dei voti. L’intervento evidenzia le gravissime responsabilità politiche e le non meno gravi aporie tecniche dell’amministrazione locale (con qualche accento ironico da grande maestro!). (m.c.g.).

Si veda anche l'articolo di Paola Bonora.



LA QUESTIONE DEI “PRATI DI CAPRARA”:
UN’OCCASIONE PER UNA DOMANDA ALL’URBANISTICA BOLOGNESE
L’Assessora all’Urbanistica e Ambiente del Comune di Bologna Valentina Orioli ci ricorda che il tema in discussione riguarda un’area strategica, che costituisce il cuore di una delle “sette città” su cui il Piano Strutturale di Bologna (PSC) ha costruito il disegno futuro di Bologna; quella che si è voluta chiamare “Città della Ferrovia”. Il cuore strategico, appunto, non solo dell’abitato bolognese, ma dell’intero bacino metropolitano. Quella in cui batte il cuore delle relazioni tra le persone in movimento (Stazione Ferroviaria e delle autocorriere, Aeroporto), delle relazioni commerciali (Fiera), delle offerte alimentari e ludiche (Fico) e della principale offerta per la cura delle persone (Ospedale Maggiore).

Cosa si propone per questa area strategica il POC, il Piano Operativo che attua il Piano Strutturale? E dunque che idea si ha, di conseguenza, del futuro della città? Lo dice una disposizione sintetica delle Norme del POC: “Un intervento di sostituzione integrale dell’edilizia esistente e la creazione di un nuovo impianto urbano con la realizzazione di residenze, centri direzionali e commerciali, scuole, parcheggi e un parco di 20 ettari” (Norme, art.11, comma2)

Dunque un nuovo quartiere residenziale, ma quanto grande? Anche questo è noto: 181.810 mq di Sul (Superficie Utile Lorda), pari a 1.164 alloggi, di cui 873 “libera” e 291 di “edilizia sociale” (133 pubblica e 158 privata) (art.11, comma 2 delle Norme e Relazione pag.27), più “eventuali ulteriori quote di capacità edificatorie per la realizzazione di attrezzature e spazi collettivi…. nella misura massima del 10% della Sul complessiva” (Norme, art.11 delle Norme). In definitiva, un nuovo quartiere urbano formato da circa 200.000 mq di Sul, ospitanti un numero di alloggi pari a circa due volte il “Virgolone” del Pilastro.

Ha bisogno Bologna di questo “nuovo impianto urbano” in questa “area strategica”?

NO, ma non lo dico io, lo dice la stessa Relazione del POC (pag.12): “Questo approccio si distacca dall’ipotesi di un dimensionamento del POC legato a un fabbisogno: come si evince dal Documento Programmatico per la Qualità Urbana (documento di base del PSC, ndr), il lieve aumento tendenziale della popolazione nella città non richiede previsioni insediative come quelle che vengono messe in gioco dal POC”
Ma allora? E qui sta la giustificazione più straordinaria “La ragione per rendere possibili interventi di tale dimensione dipende…. dalla volontà di mettere in gioco l’offerta del PSC che ha maggiori possibilità di segnare il futuro della città, incidendo sulla stessa quantità della domanda (inducendo cioè una domanda oggi non presente) oltre che sulla qualità”. Dunque: di un quartiere di queste dimensioni non c’è proprio bisogno, ma se lo facciamo, magari progettato da un Archistar, senza dubbio una domanda oggi inesistente sboccerà di incanto. Si contraddicono in questo modo, oltre a quelle dell’urbanistica, che vorrebbe che si stabilissero le destinazioni dei suoli in base ai fabbisogni, anche le più elementari leggi del mercato e si stabilisce che sarà l’offerta a generare la domanda. Qualcuno dovrà spiegarmi, perciò, per quale ragione la pancia delle banche è piena di alloggi invenduti.

Per la verità l’Assessora Orioli ci dice che i dati più recenti hanno fatto cambiare parere al Comune: oggi (a distanza di soli 2 anni e mezzo dall’approvazione del POC) si registrerebbe un fabbisogno di circa 6.000 alloggi.

Ma benedetta ragazza! A un vecchio urbanista verrebbe da chiedere che cosa insegnano oggi all’Università. Il fabbisogno di alloggi è da sempre composto da segmenti di domanda, derivanti dalla diversa capacità economica degli strati sociali che la caratterizzano. La consistente quantità di invenduto non è il segnale di totale assenza di domanda, ma semplicemente segnala che è sazio quel segmento di domanda che può permettersi i costi degli alloggi che sono sul mercato. Ciò naturalmente non vuol dire che in assenza, ormai da decenni, di una politica pubblica della casa, non esista domanda. I seimila alloggi che oggi sarebbero necessari, rappresentano la credibile richiesta di trent’anni di assenza di edilizia pubblica!
Ma riprenderò questo punto, quando tenterò, in conclusione di “volgere in positivo”, come si dice.

E ora mi chiedo, al di là del fatto che lo stesso Comune non lo giudichi necessario, ciò che viene proposto è almeno sostenibile sotto il profilo funzionale?
NO, e di nuovo non lo dico io, lo dice di nuovo lo stesso POC: “Si è verificato e valutato, attraverso gli studi di carattere trasportistico… che hanno preceduto la redazione del POC, che esistono attualmente le condizioni di sostenibilità per circa il 30% dell’intera capacità edificatoria” (Valsat, pag 21; Relazione, pag.12). Dunque, per rendere sostenibile sotto il profilo funzionale quanto complessivamente proposto sarà indispensabile “…l’adeguamento infrastrutturale necessario, la cui realizzazione potrà determinarsi sia in base all’iniziativa degli operatori interessati alla trasformazione delle aree sia in base all’iniziativa del Comune qualora riuscisse a garantirsi altrimenti le risorse finanziarie” (Relazione, pag.12).
Ottimo, impariamo così altre due cose: primo, che gli Accordi pattuiti con la proprietà non contemplano alcun impegno finanziario relativo al completamento della rete infrastrutturale necessaria per completare l’intero insediamento e, secondo, che, qualora non si manifestasse “l’iniziativa degli operatori interessati”, ci penserà il Comune.

Ma almeno, siamo a posto sotto il profilo della sostenibilità ambientale?
Relativamente: sul tema dell’aria e dell’inquinamento atmosferico la Valsat si occupa esclusivamente di tutelare i futuri abitanti del quartiere e non fa cenno al contributo che l’aumento del traffico generato dai nuovi insediamenti scaricherà sulle generali condizioni dell’aria dell’intera area urbana, mentre, sul tema dello smaltimento delle acque superficiali, ci si dimentica di sottolineare l’aspetto principale del problema, che risiede nel contributo alla impermeabilizzazione dei suoli che gli interventi progettati inevitabilmente genereranno. Al proposito ci si limita a prescrivere che l’indice di permeabilità territoriale debba essere almeno pari al 50% della Superficie Territoriale. Ma quale è adesso l’indice di permeabilità dell’area? Aumenterà o diminuirà dopo gli interventi? Non è dato sapere, con buona pace del Piano di Adattamento al Cambiamento Climatico, adottato dallo stesso Comune proprio mentre adottava il POC e finanziato dall’Europa (Life, “Blue Ap”), che indicava come primo obiettivo dell’amministrazione la scelta di minimizzare la crescita del territorio impermeabilizzato.
Fa un certo effetto certificare, proprio in questi giorni, queste cadute di attenzione.

In sintesi, e in definitiva, pare ragionevole considerare quanto proposto dal POC scarsamente motivato, contraddittorio, inefficace e infine, lasciatemelo dire, in fondo anche un po’ banale, impropriamente dedicato a un’area che è a ragione considerata strategica.
Scarsamente motivato, come ammette anche il Comune, che nega ogni relazione con il fabbisogno.
Contraddittorio, in quanto la Valsat nega la fattibilità del 70% di quanto previsto negli Accordi.
Inefficace, perché contrastato da numerose prescrizioni (per fortuna!) che ne proiettano la realizzazione in tempi difficilmente prevedibili: un impegnativo piano di indagini, da svolgere con Arpa sulla qualità dei suoli, la conseguente “condizione escludente, cioè la possibilità di escludere l’utilizzo delle aree” (Relazione, pagg.11/12) qualora risultassero necessarie bonifiche difficilmente operabili o costose, l’utilizzo solo parziale (30%) delle realizzazioni concesse, in attesa del completamento delle opere infrastrutturali necessarie, a carico di non si sa chi.
Debole e banale, infine, perché, in fondo, anche se il progetto fosse firmato da un’Archistar, si tratta comunque di un ordinario intervento di sviluppo urbano che, anche se non collocato in area agricola, mantiene tutte le caratteristiche della passata e criticabile stagione edilizia, a lungo operata a partire dal PRG dell’85 del secolo scorso che, in nome di una riduzione delle occupazioni di suolo in area agricola, ha operato, con le medesime finalità e caratteristiche, in area urbana, nelle famose “aree interstiziali”. Sottraendo, in nome dell’obiettivo della “città compatta”, circa il 50% delle previsioni a verde pubblico.

Che fare allora? Bisogna avere il coraggio di cambiare strada, correggendo il POC.
É necessario un progetto forte e condiviso, capace di segnare una distanza con la perdurante debole attenzione alle questioni ambientali, che sappia raccogliere le voci, che pur si sono manifestate nel corso stesso della redazione del POC (penso alle prescrizioni della Valsat e ai risultati di importanti progetti europei, da Blue Ap a Gaia) e soprattutto quelle dei cittadini. Se questi ultimi abbracciano gli alberi e nessuno ha mai abbracciato la Meridiana a Casalecchio o l’Unipol di via Larga una ragione ci sarà.
Forte vuol dire anche simbolico ed evocativo, questo sì capace di segnare il futuro. Un progetto che contrasti la tentazione di costruire muri, ostacoli, fratture, che richiami la nostra tradizione di attenzione al nuovo e di rispetto del passato.
A questo si pensa quando si parla di un bosco urbano, un progetto che sappia trovare continuità con la tradizione di questa città, che non ha mai semplicemente nascosto le rovine e le testimonianze di ciò che è stato seppellendolo sotto pezzi anonimi di “sviluppo urbano”, ma ha saputo conservare la memoria del passato reinterpretandolo con il senso del presente. Penso alla Montagnola, ai Giardini Margherita, al Guasto, alla Manifattura Tabacchi. E, in fondo, penso a tutto il centro storico e alla collina.
Un bosco per la pace, ad esempio, in un luogo adibito così a lungo alle armi. E un bosco evocativo della necessità dell’accoglienza e delle relazioni tra gli uomini, in un luogo che connette stazioni, ferrovie e aeroporti e che ha anche visto cosa può determinare l’indifferenza e l’incuria, dimostrando quanto ancora siamo incapaci di accogliere e integrare i più deboli.

Si può fare?
Per rispondere a questa domanda è necessario prendere spunto dall’esperienza dei Prati e allargare il campo delle considerazioni, ponendo domande alla politica urbanistica in generale, bolognese e nazionale.
Il caso dei Prati è infatti significativo di un ulteriore degrado della politica urbanistica, che ha al centro un tema decisivo e in qualche misura nuovo: il ruolo dello Stato nei processi di riqualificazione urbana. L’interlocutore delle esigenze locali di riqualificazione è profondamente cambiato negli ultimi cinque anni: i primi Accordi erano da costruire faticosamente con Generali dell’Arma ed alti dirigenti delle Aziende di Stato, soggetti che, nel panorama multiforme del potere, erano interessati solo al mantenimento del proprio. Ora è diverso: il caso dei Prati ci chiarisce che ora gli Accordi si sottoscrivono con un soggetto del tutto integrato nella attività di speculazione fondiaria e finanziaria: i terreni dei Prati sono di INVITIM.

Cosa è INVITIM?
E’ una “società di gestione del risparmio del Ministero dell’Economia e delle Finanze che ha ad oggetto la prestazione del servizio di gestione del risparmio realizzata attraverso la promozione, l’istituzione, l’organizzazione e la gestione di fondi comuni di investimento immobiliare” (Wikipedia). Dunque una concorrente di Maccaferri, interessata all’investimento immobiliare e alla cosiddetta “rigenerazione urbana” nella misura in cui essa sia fonte di rendita urbana.
Una questione nuova perciò per l’urbanistica, che ha avuto sempre a che fare con una rendita urbana la cui natura era incontestabilmente di carattere privato. Una questione su cui l’urbanistica ha fino ad ora risposto con il fumo della “rigenerazione urbana” a prescindere dai soggetti, dagli operatori, dai fabbisogni, dalle generali condizioni di fattibilità e sostenibilità.

E dunque cosa cambia?
La prima delle novità è che evidentemente tendono a mutare le relazioni istituzionali: una richiesta di solidarietà istituzionale avanzata nei confronti di una società finalizzata a trarre il massimo di profitto ha poche speranze, soprattutto se il rapporto tra i pesi dei contraenti gli Accordi è così sbilanciato in favore dei proprietari delle aree. Il Comune si accontenterà dell’elemosina: una scuoletta, qualche alloggio popolare, un parco lungo e stretto a ridosso del Ravone. Il Comune (e i cittadini!!) dovranno così affrontare tutto il peso che deriverà da una speculazione immobiliare (pubblica!!!), paradossalmente finalizzata, a quanto viene sostenuto, a ripianare i debiti dello Stato. Indicative, in questo senso, le voci che indicano in un piano di dismissioni del patrimonio immobiliare dello stato per 17 miliardi, la promessa all’Europa sulla sostenibilità della manovra finanziaria. Distrutti i patrimoni dei Comuni, si passa così a distruggere il patrimonio dello Stato.
Altra novità è dunque che il cortocircuito logico di questa finalità (diminuire il debito pubblico vendendo il patrimonio dello Stato, e cioè perseguire finalità benefiche generali attraverso misure malefiche a livello locale) non trova alcun contrasto se non quello dei cittadini, che denunciano la assoluta illogicità degli Accordi pattuiti e dei conseguenti strumenti urbanistici. Non una parola dalla disciplina. Non una parola dalla politica.

É forse possibile un’altra strada? Può il Comune pretendere la restituzione di quella parte della rendita che gli appartiene?
Basterebbe che ciascuno facesse il proprio mestiere. Lo Stato che si dedicasse, ora che ha risolto i problemi della povertà, a risolvere quelli dell’evasione fiscale, incamerando così le risorse che occorrono per risolvere i problemi di fabbisogno di edilizia pubblica che ci ricorda Orioli. E rinunciando alle mire di valorizzazione e speculazione fondiaria e finanziaria. E il Comune richiedesse allo Stato quella solidarietà e sostegno che è costituzionalmente dovuto. E riscrivesse gli Accordi intesi alla riqualificazione dei terreni di proprietà dello Stato situati nei Comuni dell’area metropolitana.

Ma si chiede dunque l’impossibile?
A parte l’esperienza che ci ha dimostrato che chiedere l’impossibile è l’unico modo per ottenere il possibile, va ricordato che questo è il momento: una nuova legge urbanistica regionale che, almeno a parole, enfatizza la riqualificazione urbana e la sostenibilità, le elezioni regionali all’orizzonte, anche se cariche di presagi non confortanti, i segnali invece confortanti di resistenza, come quelli della comunità dei Prati.
Possibile è innanzitutto pretendere coerenza dagli enunciati enfaticamente pronunciati dal legislatore regionale. Si tratta di una pessima legge, lo abbiamo sostenuto in diverse sedi e occasioni. Ma si deve cogliere in pieno l’occasione che essa pure ci offre: la formazione in contemporanea, in questi tre anni (uno è già sostanzialmente trascorso) del nuovo Piano Regionale e dei principali Piani dei Capoluoghi.
Possibile è dunque pretendere che il Piano Regionale, dialogando con quelli dei Capoluoghi, affronti in modo sistematico e sostenibile il tema delle aree statali, ponendo in modo autorevole il tema della solidarietà istituzionale e della volontà dei cittadini, così rimangiandosi la tentazione sino a qui perseguita di scimmiottare le richieste di autonomia proprie di strategie politiche che non trovano asilo nella nostra tradizione e nella nostra cultura.

Ricordiamolo: la nostra regione vanta la pianificazione territoriale più antica del mondo. Un asse di siti urbani di impianto romano che i duemila anni seguenti non hanno mai avuto la forza e la necessità di negare. Un asse su cui le civiltà susseguite hanno continuamente aggiunto una propria modernità, senza mai contrastare i segni del passato: la via Emilia, la ferrovia, l’autostrada, l’Alta velocità. E ciò è avvenuto sapendo ogni volta interpretare, con regole nuove, le esigenze di nuova configurazione delle città disposte lungo questo nastro in continua evoluzione. Così, il disporsi delle manifatture lungo la ferrovia prima e lungo l’autostrada poi, a nord dell’abitato, pone a tutti i Capoluoghi la stessa esigenza: quella di un disegno comune, del recupero delle aree dismesse con regole comuni e finalità comuni, regole che solo un nuovo Piano regionale, attento alle volontà dei cittadini e dell’ambiente, può e deve predisporre.
A noi il dovere di pretenderlo, insieme a nuovi e solidali Accordi con lo Stato, proprietario di quelle aree.

Ma, si dice, due ostacoli si frappongono alla volontà di cambiare strada, ridiscutendo le scelte del POC
Il primo consisterebbe proprio nell’impossibilità di denunciare gli Accordi sottoscritti con l’Agenzia del Demanio e con l’INVIMIT, proprietari delle aree in questione, accordi che sarebbe opportuno rispettare sia per correttezza istituzionale che per evitare qualsiasi possibile richiesta di risarcimento; il secondo consisterebbe nelle disposizioni della recente nuova legge urbanistica regionale che, nel previsto periodo transitorio di avvio dell’applicazione delle diposizioni di legge, impedirebbe ogni diversa determinazione o variante dei vigenti strumenti urbanistici.

Per quanto attiene l’inopportunità dell’eventuale denuncia degli Accordi, non credo che essa possa essere presa in alcun modo a pretesto per evitare di mettere mano a una sollecita modificazione del POC e delle scelte descritte. Si tratta semplicemente di mettere in atto quanto previsto all’art.5 dell’ultimo Accordo, sottoscritto il 2 marzo 2015, contenente l’impegno del Comune ad elaborare il POC fino a qui commentato.
L’articolo recita: “La durata del presente Accordo è stabilita in due anni, decorrenti dalla data della sua sottoscrizione, rinnovabili su accordo delle parti. Nell’ipotesi in cui le previsioni del presente Accordo non potessero trovare integrale attuazione, le parti potranno sciogliersi dagli impegni assunti, mediante comunicazione scritta per raccomandata con avviso di ricevimento. In tal caso, le Parti si impegnano a verificare la possibilità di rimodulare obiettivi e finalità dell’Accordo, ai fini della sua attuazione, anche parziale, ovvero a regolarizzare le situazioni medio tempore verificatesi”.
Dunque, nulla osta, se c’è volontà politica, a denunciare o riformulare l’Accordo, stante il fatto che, per quanto so, non ci sono situazioni “medio tempore” da regolarizzare.

Per quanto poi riguarda il presunto impedimento che nascerebbe da una corretta applicazione delle disposizioni contenute nella nuova legge urbanistica, va richiamato quanto enunciato nel capitolo IV° della lettera che il legislatore regionale ha inviato ai Comuni nel marzo di quest’anno: “Nel corso della prima fase triennale del periodo transitorio, i Comuni possono avviare e approvare i procedimenti indicati all’art.4, comma 4, ossia i procedimenti relativi a: a) varianti specifiche agli strumenti urbanistici vigenti….. ma anche varianti ai POC vigenti…. Ovvero POC “tematici” diretti alla pianificazione di specifiche tipologie di insediamenti”. Inteso che le suggestioni appena abbozzate in precedenza sul possibile destino dei Prati possono in pieno riconoscersi in “varianti tematiche al POC”, assieme a quanto è puntualmente proposto dal citato Piano di Adattamento al Cambiamento Climatico, pare dunque non sussistere alcun impedimento amministrativo a quanto invocato e richiesto da migliaia di cittadini.

Dunque, la decisione torna al Comune e ai suoi attuali amministratori: vorranno essere ricordati come coloro che per 1.200 appartamenti invenduti hanno distrutto un bosco di più di quaranta ettari, nel cuore della città? O viceversa pretenderanno coerenza da un presunto “Governo del cambiamento”, richiedendo nuovi Accordi, consoni al dovere di solidarietà istituzionale e rispettosi della volontà dei cittadini?

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