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Franco Mancuso
Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d'inciampo di Adachiara Zevi
8 Luglio 2018
Spazio pubblico
Casa della cultura, 3 luglio 2018. La città come custode della memoria di tutte le storie traumatiche dell'umanità. Una recensione che diventa riflessione su Venezia e del rischio che questo ruolo importante della città sia soffocato dalla sua mercificazione. (a.b.)

Casa della cultura, 3 luglio 2018. La città come custode della memoria di tutte le storie traumatiche dell'umanità. Una recensione che diventa riflessione su Venezia e del rischio che questo ruolo importante della città sia soffocato dalla sua mercificazione. (a.b.)

Monumenti per difetto. Dalle Fosse Ardeatine alle pietre d'inciampo di Adachiara Zevi (Donzelli, 2014) non è un libro recentissimo. Ma non è inutile leggerlo oggi - o rileggerlo, se lo si è già fatto - per più di una ragione: anzitutto perché mai come in questo momento ci è dato di assistere, fra negazionismo e revisionismo, al rischio della rimozione della memoria degli eventi traumatici occorsi in Europa nel secolo scorso, degli eccidi e delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di cittadini e di intere comunità di ebrei, sinti, rom; poi - e questa è la ragione per la quale il suo commento è ora ospite di Città Bene Comune - perché la sua lettura, intersecando alcuni degli interventi realizzati a partire dal dopoguerra nelle città e nei luoghi dove tali eventi sono accaduti, fornisce un forte stimolo a riflettere sul ruolo che la città può ancora avere nel perpetuare la memoria di eventi che avvengono nel nostro tempo: la città fisica, con la sua durata nel tempo, con i percorsi e gli spazi che consegna alle generazioni future, tanto più necessaria nel momento in cui vengono meno i testimoni di ciò che vi è realmente accaduto.

Non ci si allarmi per il titolo deliberatamente ermetico del libro perché è nello stile dell'Autrice darne di inconsueti e provocatori, ma presto rivelatori, alle sue corposissime opere: come quel Peripezie del dopoguerra nell'arte italiana (Einaudi, 2006) che, ribaltando il rapporto consuetudinario fra i momenti dell'arte e i contesti nei quali essi si trovano, incrocia protagonisti, tempi, luoghi e correnti, pervenendo ad efficacissimi risultati interpretativi. Questo apparente ermetismo del resto scompare già con il sottotitolo; e, subito dopo, nelle prime righe dell'introduzione:

«Monumenti per difetto… Difetto di cosa? Di 'monumentalità', se per essa si intendono alcune prerogative generalmente attribuite ai monumenti: unicità, staticità, ieraticità, persistenza, ipertrofia dimensionale, simmetria, centralità, retorica, indifferenza al luogo, aulicità dei materiali, eloquenza, esproprio delle emozioni... Una storia parziale - dunque - non esaustiva, non una ricognizione che annoveri e classifichi monumenti e memoriali a seconda dei luoghi, dei soggetti, dei destinatari... Una storia non obiettiva ma settaria, che… privilegia la sobrietà sulla ridondanza, l'afasia sull'eloquenza, la sottrazione sull'enfasi, la modernità sul passatismo»

Adachiara Zevi ci prende dunque per mano, e ci accompagna in un lungo e articolato percorso: che parte da Roma, dal mausoleo che ricorda l'eccidio delle Fosse Ardeatine, e si conclude nelle tante città italiane che ospitano oggi gli eventi delle "pietre d'inciampo". Di questo lungo viaggio le tappe salienti sono Roma, Gerusalemme, Udine, Amburgo, San Francisco, Washington, Berlino, Boston, Amburgo (di nuovo), Saarbrüchen, Kassel, Berlino (di nuovo), Trento, Berlino (ancora), Washington (ancora), Berlino (nuovamente), Budapest, Berlino e Budapest (ancora), New York, Milano...
Ma cosa incontriamo - cosa l'Autrice ci fa incontrare - in queste città? Incontriamo sostanzialmente memorie: memorie di comunità diverse, di ebrei soprattutto in diversi paesi e città; ma anche di indiani d'America, di schiavi afro-americani, di sinti, di rom, di veterani del Vietnam. E intersechiamo luoghi, brani di città, frammenti di quartieri, lacerti di edifici, strade, piazze, rive, banchine, binari... Vediamone alcuni, fra i tanti che il libro propone.

Budapest - Memoriale delle Scarpe sulla riva del Danubio

A Budapest, lungo la riva sinistra del Danubio, poco distante dal Parlamento, sessanta paia di scarpe in ferro, di foggia antiquata, disposte a caso, dritte, capovolte, spaiate, come fossero state tolte frettolosamente, quasi ci si inciampa, ancorate alla banchina, evocano la memoria degli ebrei ungheresi uccisi fra il 1944 e il 1945 e gettati nel fiume.

A Berlino, dove i luoghi della memoria sono più numerosi che in ogni altra città, in uno slargo di Lindenstrasse, a pochi metri dal Museo Ebraico, una trama di panche in pietra, disposte com'erano quelle in legno ospitate all'interno, racconta che lì c'era la sinagoga: non ricorda dunque l'edificio, ma i suoi abitanti, evocandone l'assenza. Nella parte settentrionale della città, nella piccola piazza di Koppenplatz, la ricostruzione in bronzo di un interno, il pavimento in legno con sopra un tavolo e due sedie, una delle quali rovesciata, evoca l'ansia dell'abbandono precipitoso dei suoi abitanti. Nel vecchio quartiere di Scheunenviertel, sulle pareti di due case contigue a quella distrutta, sono affisse targhe che appaiono come annunci funebri con i nomi degli abitanti, le date del loro arresto, le professioni che esercitavano.

Poco più avanti, nello stesso quartiere, la proiezione sulle pareti esterne delle case superstiti di immagini delle case abitate dagli ebrei prima della loro deportazione, ne evocano la vita prima della tragedia. A Shöneberg, lungo Haberland Strasse, la strada dove avevano abitato Albert Einstein e Hannah Arendt, i pali della luce e della segnaletica ospitano ottanta targhe stradali che riproducono i decreti contro i residenti, e immagini stilizzate e multicolori che ne evocano gli obblighi, come le limitazioni alle professioni da loro esercitate, o l'interdizione ai luoghi della loro abituale frequentazione; oltre che mappe che mettono a confronto le distruzioni del quartiere negli anni che trascorrono dal '33 al '93.

Il richiamo alla memoria è affidato dunque a interventi discreti, non invasivi, pervasi dall'intento di evocare, piuttosto che descrivere e celebrare. Si assiste così a una progressiva contrazione visuale del "monumento", che conduce in più di un caso ad annullarne la presenza fisica: come ad Amburgo, nella centralissima Joseph-Carlebach-Platz, dove è poco più che l'impronta del tetto, appena tracciata a terra, a ricordare che lì c'era la più grande sinagoga del nord Europa. Nella stessa città, questa voluta contrazione visuale è programmaticamente controbilanciata da un coinvolgimento delle comunità nella realizzazione dell'evento, oltre che nella sua durata nel tempo: in un luogo periferico prossimo a un nuovo centro commerciale, oggi resta solo il ricordo di un "monumento" espressamente concepito perché scomparisse nel tempo: il monumento è - è stato - una colonna quadrangolare in piombo alta dodici metri, pesantissima, pensata in modo da abbassarsi progressivamente, fino a scomparire, man mano che gli abitanti del quartiere, prevalentemente immigrati, apponevano la loro firma sulle sue lisce pareti; vivrà per sette anni, fino alla scomparsa (non ne rimane che una piastra a terra, che ricorda cosa è successo); ma se nessuno avesse firmato - e le firme furono più di 70.000 - la colonna sarebbe ancora lì. È dunque lo spettatore che diviene co-autore, commenta Adachiara Zevi.

Ancora più radicale, in questa stessa direzione, è il "monumento invisibile" di Saarbrücken, che sparisce anch'esso, seppure in modo diverso: lungo il viale lastricato che porta al Castello, già quartier generale della Gestapo e ora sede del Parlamento della Saar, duemila dei sampietrini che lo pavimentano vengono divelti in modo casuale, incisi con altrettanti nomi dei cimiteri ebraici che esistevano nel 1939, e nuovamente interrati, ma rivoltati. È un lavoro che dura tre anni, svolto in collaborazione con studenti e membri delle sessantasei comunità ebraiche esistenti in Germania, e che dà luce a un "monumento orizzontale... che coincide con il pavimento, con la strada, con la città... dove - osserva l'Autrice - i nomi interrati, rivolti verso la terra, invisibili ai vivi, sono leggibili solo dai morti". Unica traccia di tutto ciò, la ridenominazione della piazza, che oggi è Platz des Unsichtbaren Mahnmals, Piazza del Memoriale Invisibile.

Monumenti sottoterra dunque, perché siano massimamente anti-monumentali; ma, come tali, intimamente intersecati con gli spazi urbani che li ospitano. Come, di nuovo, a Berlino, a August Bebel Platz, una delle piazze più importanti della città, a pochi passi dall'Unter den Linden, dove uno spazio ricavato sottoterra, ma qui visibile dai vivi, è coperto da una semplice lastra di vetro - a filo del pavimento, ci si può camminare sopra - che chiude una stanza bianca e luminosa, inaccessibile, contornata da scaffali di biblioteca, bianchi anch'essi, ma vuoti, capienti tanto da poter ospitare ventimila volumi: lo stesso numero dei libri di autori ebrei, comunisti e liberali messi al bando che qui furono bruciati dalle SA e dall'organizzazione studentesca nazionalista nel famigerato rogo del 1933. La si vede appena, questa commovente biblioteca, soprattutto per la flebile luce che di notte la annuncia: ma ha fatto sì che Bebel Platz divenisse un luogo straordinario, nel quale gli eventi di "Table of Free Voices" richiamano ogni anno da tutto il mondo persone dedite al riconoscimento della democrazia.

Berlino - Bebel Platz

Il libro di Adachiara Zevi non trascura certo l'incontro con edifici veri e propri, mausolei, musei e memoriali dell'olocausto, realizzati in varie città del mondo, ma privilegia quelli nei quali gli spazi e le architetture sono concepiti come "attivatori di memorie", piuttosto che come contenitori di oggetti e riproduzioni di eventi. Spazi che generano in chi li percorre "disagio e inquietudine, piuttosto che consolazione e conforto": dal Mausoleo delle Fosse Ardeatine, che incontriamo fin dalle prime pagine, "percorso da agire, non oggetto da contemplare" al Judisches Museum di Berlino, quasi alla fine, percorso anch'esso "claustrofobico, disagevole per le improvvise impennate, sterzate direzionali, disequilibrio dei livelli... labirintico, più che assiale o prospettico". Si capisce che il suo interesse - e dunque anche il nostro - è rivolto principalmente agli interventi che generano spazi, piuttosto che occuparli. Lo dimostra l'ampio commento dedicato al Memoriale per gli Ebrei assassinati in Europa - siamo nuovamente a Berlino - griglia di percorsi fra steli di calcestruzzo alte e continue, posate ortogonalmente seguendo l'ondulazione naturale del terreno; è l'intervento che per Adachiara segna il ponte fra il "monumento come percorso" - le Fosse Ardeatine appunto - e il "monumento come brano di città... campo integrato nel tessuto urbano... nel quale ci si imbatte senza saperlo passeggiando per il centro e il Tiergarten, che... lungi dall'indirizzare, lascia liberi di attraversare senza meta i suoi plurimi e labirintici percorsi….. che non indica cosa ricordare, ma suggerisce percorsi di memoria da seguire, liberamente, in solitudine, silenzio, introspezione".

Così, altrettanto integrato nel tessuto urbano - anche se in modo diametralmente diverso, perché qui occorre recarvisi deliberatamente, piuttosto che intersecarlo liberamente - va considerato il frammento della Stazione Centrale di Milano che ospita il Memoriale della Shoah Binario 21: questo è pur sempre un brano dell'infrastruttura più importante della città, centralissimo, che ci ricorda che lì, di fronte al Palazzo delle ex Regie Poste, al piano terra della stazione, i deportati venivano condotti nascostamente, per essere ammassati nei carri ferroviari che un apposito meccanismo elevatore poi sollevava per instradarli al vero piano dei binari nei convogli diretti ai campi di sterminio.

Luoghi urbani specifici dunque, nei quartieri, spesso nei centri. Che oggi ospitano sempre più diffusamente - e qui il libro di Adachiara Zevi si chiude - quei tanti tantissimi segni discreti, ma per questo più che mai eloquenti, visibili nelle pieghe di tante città che sono gli Stolpersteine, le "pietre d'inciampo" che abbiamo incontrato fin da sottotitolo: piccoli sampietrini interrati davanti alle soglie di abitazioni e luoghi di lavoro di deportati razziali, politici, rom, omosessuali, testimoni di Geova, militari, con la loro superficie liscia e lucente sulla quale è inciso il nome della persona che viene ricordata preceduto da "qui abitava", "qui ha studiato", "qui lavorava", con la data di nascita, la data dell'arresto, il luogo della deportazione, la data della morte... Posti a partire dal 1992, oggi sono tantissimi, più di 50.000, tutti rigorosamente uguali, in tantissime città di venti paesi europei - più di cinquanta in Italia - a formare "una grande mappa urbana... che consente di visualizzare sia la presenza ebraica sia l'estensione della rete della resistenza al nazi-fascismo, sfatando semplificazioni e luoghi comuni...". Oggetti che "diffondendo e decentralizzando la storia, diventano uno strumento formidabile offerto ai cittadini, soprattutto ai giovani, per conoscere il loro quartiere, una prova inconfutabile che quei fatti orribili, che si pensavano accaduti lontano, si sono verificati invece sotto casa... L'intero tessuto urbano è il loro humus... È la città dunque la responsabile della memoria dei suoi cittadini caduti". Nelle loro città di oggi.

È per questo che, al termine dell'itinerario che abbiamo percorso, sia pure con passo necessariamente affrettato, possiamo dire che questo libro offre alle nostre riflessioni un duplice messaggio, positivo e incoraggiante dapprima, ma poi presto allarmante. Un messaggio positivo quando dimostra che le città possono ancora incamerare memorie; che malgrado tutto esse sono ancora (e possono esserlo ancora di più) i luoghi massimamente vocati ad ospitarne di nuove - ad attivarne, direbbe Adachiara Zevi: memorie che vogliano sopravvivere, e che altrimenti rischierebbero di scomparire. Le città dunque, con la loro fisicità, con persone che le attraversano, ci vivono, vi sostano, vi si incontrano. Ancora oggi; ma come è sempre successo, a ben guardare. Ma allo stesso tempo un messaggio allarmante: perché questa forte convinzione, ottimisticamente sostenuta dall'Autrice in questo ora non più ermetico libro, pone se pure implicitamente un drammatico interrogativo, una sollecitazione a riflettere su quello che sta succedendo nelle nostre più amate città, nelle città storiche: quelle che consideriamo preziose e tanto più belle ed amate, proprio perché rivelano fisicamente i segni della storia che le ha modellate e il trascorrere delle generazioni che le hanno percorse adattandole alle loro mutevoli esigenze. In esse constatiamo drammaticamente la quotidiana aggressione di fenomeni sociali ed economici che rischiano di estinguerne i segni delle memorie gelosamente acquisite nel tempo: sia perché perdono progressivamente i loro abitanti, i testimoni impliciti degli eventi che vi si erano succeduti, che non si rigenerano più con il ricambio delle generazioni attraverso cui la memoria si era tramandata, ridotti progressivamente dall'invecchiamento e ora falcidiati dall'esodo; e sia perché in queste stesse città ci si accanisce con indifferenza e superficialità, se non con vera efferatezza, nella trasformazione dei luoghi che avevano custodito le memorie di questi eventi. Lo avverte esplicitamente la stessa Zevi nel corso delle sue peregrinazioni: come quando, parlando del Ghetto di Roma, accenna allo smarrimento di chi oggi lo percorre, o lo vive, trasformato in una sequenza ininterrotta di ristoranti, fast food, pasticcerie e alimentari kasher. O più sopra, quando dialogando con Dario Calimani coglie la sua irritazione per i molti luoghi dello sterminio "inghiottiti dall'avidità del turismo di massa: gli stessi campi di concentramento che diventano copie di baracche imbellettate, finzioni dotate di caffetteria, libreria, cambiavalute e sala conferenze; vere rappresentazioni ad uso del visitatore, prive della loro sventurata umanità... orrore estetizzato". E in qualche pagina prima, trattando dell'United States Holocaust Memorial di Washington, aveva parlato di "americanizzazione della Shoah".

Venezia - Monumento alla partigianana
Foto di Tommaso Saccarola

Tutto ciò sta dunque accadendo, e non può non turbarci per il destino delle nostre amate città; non può non richiamarmi la mia, la Venezia di questi ultimi anni, che pure aveva accolto civilmente, anche se l'Autrice non ne parla, segni sommessi dei medesimi eventi traumatici che altrove ci aveva fatto incontrare: nelle ridenominazioni di alcuni luoghi urbani, come la lunga riva che si affaccia sul bacino di San Marco, che fu Riva dell'Impero fino al dopoguerra, e che è ora Riva dei Sette Martiri a ricordo dei sette prigionieri politici lì fucilati dai nazisti nel 1944; la stessa riva che poco più avanti, di fronte ai giardini della Biennale, è la Riva dei Partigiani, affacciata su un corpo di donna morente adagiato sull'acqua che Augusto Murer scultore e Carlo Scarpa architetto concepirono nel 1961, in memoria delle donne veneziane che avevano partecipato alla liberazione dal nazifascismo; e poi, nella più recente acquisizione dei segni delle deportazioni, le ormai numerose pietre d'inciampo - le ultime sono state posate quest'anno in occasione della Giornata della Memoria - davanti alle soglie di abitazioni del Ghetto, ma poi in altri luoghi della città, anche luoghi di lavoro, come l'università Ca' Foscari, di cittadini ebrei deportati e morti nei campi di sterminio nazisti; tanto più commoventi nei loro messaggi, a Venezia più che altrove, perché muovendoci qui tutti a piedi non si può fare a meno quotidianamente di inciamparvi.

Anche Venezia dunque, che è tutta memoria, dimostra di saperne acquisire di nuova. Ma ciò accade nello stesso momento nel quale in molti dei suoi luoghi importanti, o che importanti sono stati, altre recenti memorie si sono perse, o si stanno perdendo: come le memorie del lavoro, di quella Venezia operaia che aveva animato e rinnovato la compagine sociale del '900, i cui luoghi sono oggi asserviti al turismo, imbellettati e depurati da ogni scoria che ne ricordasse la vitalità che li animava e le tensioni che avevano ospitato - le fabbriche della Giudecca, il grande molino Stucky, il Fontego dei Tedeschi, gli squeri e le tese dell'Arsenale; ma ora anche le case, gli spazi dei cittadini, i mercati e le botteghe, i canali i ponti e i bacini: consegnati al più redditizio mercato del turismo, ad un consumo che si avvale e lucra sulla storicità di questi luoghi.
Non accade solo a Venezia, lo sappiamo bene. E dunque questo libro, che ci fa riflettere su ciò che della storia di ieri la città riesce a salvaguardare e a tramandare e, per confronto, su ciò che va quotidianamente perdendo, è un libro importante.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

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