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Tommaso di Francesco
Nakba. La catastrofe infinita
18 Maggio 2018
2015-La guerra diffusa
il manifesto, 18 maggio 2018 Prosegue senza tregua lo sterminio dei palestinesi che difendono il loro diritto a vivere nella propria terra, nella criminale assenza di ogni autorevole organismo internazionale . Un articolo di Tommaso Di Francesco e un appello di 9 intellettuali di Israele (e.s.)

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La politica aggressiva di Israele nei confronti degli abitanti della Palestina non trova sosta, e prosegue con l’assassinio e il ferimento di persone di ogni condizione e ogni età che sti battono a mani nude per difendere il loro diritto a vivere sulla terra in cui sono nati. Non è una politica iniziata oggi. Ha scritto lo storico israeliano Gideon Levy: «Dopo la dichiarazione Balfour, molti ebrei emigrarono
.in Palestina. Al loro arrivo
si comportarono come padroni e il loro atteggiamento nei confronti degli abitanti non ebrei non è cambiato»A chi si presentava e comportava come aggressore i palestinesi risposero impiegarono anchessi la violena. Divampà una guerra che ancora provocamorti e feriti. Le due parti del conflitto non possono essere messe sullo stesso piano. Chi impiega missili, carri armati e fucili di precisione contro un popolo armato di fionde e sassi si rivela come un assassino, e rischia di essere collocato sullo stesso piano di chi lo aggredì nella Shoa. Sembrano considerazioni che dovrebbero essere condivisi da tutti. Ma non è così. La catastrofr continua, i palestinesi che protestano a mani nude per ottenere i propri elementari diritti vengono sterminati dai missili, o dai fucili di precisione dell’armata di Israele.

A seguire un articolo di Tommaso Di Francesco, ela denuncia di un gruppo di intellettuali israeliani con il loro appello perché l’inumana tragedia abbia fine, entrambi ripresi da il manifesto del 18 maggio 2018 (e.s.)

Nakba. La catastrofe infinita
di Tommaso Di Francesco

I settant’anni dello Stato d’Israele sono anche i settant’anni della Nakba, la «Catastrofe» del popolo palestinese, la cacciata nel 1948 di centinaia di migliaia di palestinesi (da 700mila a un milione) in una operazione di preordinata pulizia etnica che li ha trasformati nel popolo profugho dei campi. A confermare laa doppiezza strabica degli eventi nel rapporto di causa ed effetto, è arrivato lo spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, la festa della «grande riunificazione» di Netanyahu; proprio mentre la promessa elettorale mantenuta di Trump provocava la rivolta e la strage di 60 giovani nel tiro al piccione a Gaza. Secondo i versi del poeta palestinese Mahmud Darwish: «Prigionieri di questo tempo indolente!/ non trovammo ultimo sembiante, altro che il nostro sangue».

Invece sulla descrizione in atto del massacro si esercitano gli «stregoni della notizia»: così abbiamo letto di «ordini dalle moschee di andare correndo contro i proiettili», di «scontri», di «battaglia» e «guerriglia». Avremmo dunque dovuto vedere cecchini, carri armati e cacciabombardieri palestinesi fronteggiare cecchini, tank e jet israeliani, con assalti di uomini armati. Niente di tutto questo è avvenuto e avviene. Invece, nella più completa impunità, la prepotenza dell’esercito israeliano sta schiacciando una protesta armata di sassi, fionde e copertoni incendiati. Per Netanyahu poi si tratterebbe di «azioni terroristiche».

Ma la verità è che un popolo oppresso che manifesta contro un’occupazione militare ricorda solo la nostra Liberazione e il diritto dei palestinesi sancito da ben tre risoluzioni dell’Onu (una del 1948 proprio sul «diritto al ritorno»). Sì, la festa triste di un popolo, guidato da Netanyahu e dal nuovo «re d’Israele» Trump, vive della catastrofe di un altro popolo. Che si allunga all’infinito con la proclamazione di Gerusalemme «unica e storica capitale indivisibile di Israele». Altro che due Stati per due popoli: nemmeno due capitali. Intanto per lo Stato d’Israele il «diritto al ritorno» è costitutivo della natura esclusiva di Stato ebraico.

Ai palestinesi al contrario è permesso solo di vivere a milioni nei campi profughi di un Medio Oriente stravolto dalle guerre occidentali e come migranti nei propri territori occupati (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est); di sopravvivere alla fame nel ghetto della Striscia di Gaza. Questa è la condizione palestinese, con il muro di Sharon che ruba terre alla Palestina e taglia in due famiglie e comunità; posti di blocco che sospendono nell’attesa le vite umane; lo sradicamento di colture agricole e le fonti d’acqua sequestrate; le uccisioni quotidiane; e una miriade di insediamenti colonici ebraici che hanno ormai cancellato la continuità territoriale dello Stato di Palestina. Dopo tante chiacchiere di Obama che nel 2009 dal Cairo dichiarava: «Sento il dolore dei palestinesi senza terra e senza Stato». E dopo i voltafaccia dell’Ue che si barcamena sull’equidistanza impossibile e tace, mentre ogni governo occidentale fa affari in armi e tecnologia, e con patti militari – come l’Italia – con Israele, che è da settant’anni in guerra e che occupa terre di un altro popolo.

Allora o si rompe il silenzio complice e si prefigura una soluzione di pace che esca dall’ambiguità di stare al di sopra delle parti – come se Israele e Palestina avessero la stessa forza e rappresentatività, quando invece da una parte c’è lo Stato d’Israele, potente e armato fino ai denti, potenza nucleare e con l’esercito tra i più forti al mondo, mentre dall’altra lo Stato palestinese semplicemente non esiste – oppure sarà troppo tardi. Il nodo mai sciolto – Rabin a parte, non a caso assassinato da un integralista ebreo – da tutti i governi israeliani resta quello del diritto dei palestinesi di avere una terra e uno Stato, fermo restando il diritto eguale d’Israele. Che se però non lo riconosce per la Palestina perché dovrebbe pretenderlo per sé? I due termini ormai si sostengono a vicenda oppure insieme si cancellano. Tanto più che la demografia ormai racconta che le popolazioni arabe hanno oltrepassato la misura di quelle ebraiche. O si avvia una trasformazione democratica dello Stato d’Israele che decide di perdere la sua natura etnico-religiosa di «Stato ebraico», con la pretesa arrogante che i palestinesi occupati lo riconoscano come tale; oppure si conferma la dimensione acclarata di Stato di apartheid come in Sudafrica; con i territori occupati come riserve per i «nativi» nemici.

Scriveva Franco Lattes Fortini nella sua Lettera aperta agli ebrei italiani nel maggio 1989, nella la fase più acuta della Prima intifada: «Con ogni casa che gli israeliani distruggono, con ogni vita che quotidianamente uccidono e perfino con ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura occidentale, è stato accumulato dalle generazioni della diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea e cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere». Provate a rileggere la grande lezione morale di S. Yizhar (Yzhar Smilansky), il fondatore della letteratura israeliana, che in un piccolo romanzo del 1949 Khirbet Khiza – significativamente un titolo in arabo, conosciuto da noi come La rabbia del vento, che aprì un dibattito sulle basi etiche del nuovo Stato – racconta la storia di una brigata dell’esercito israeliano impegnata con la violenza a cacciare famiglie palestinesi.

Il romanzo finisce con queste parole di dolore e rammarico: «I campi saranno seminati e mietuti e verranno compiute grandi opere. Evviva la città ebraica di Khiza! Chi penserà mai che prima qui ci fosse una certa Khirbet Khiza la cui popolazione era stata cacciata e di cui noi ci eravamo impadroniti? Eravamo venuti, avevamo sparato, bruciato, fatto esplodere, bandito ed esiliato (…) Finché le lacrime di un bambino che camminava con la madre non avessero brillato, e lei non avesse trattenuto un tacito pianto di rabbia, io non avrei potuto rassegnarmi. E quel bambino andava in esilio portando con sé il ruggito di un torto ricevuto, ed era impossibile che non ci fosse al mondo nessuno disposto a raccogliere un urlo talmente grande. Allora dissi: non abbiamo alcun diritto a mandarli via da qui!».

«I responsabili della strage di Gaza siano processati»

La forte denuncia e l’accorato appello di 9 intellettuali israeliani

Noi, israeliani che desideriamo che il nostro paese sia sicuro e giusto, siamo sconvolti e inorriditi dall’uccisione di massa di manifestanti palestinesi disarmati a Gaza. Nessuno dei manifestanti rappresentava un pericolo diretto allo Stato di Israele o ai suoi cittadini. L’uccisione di oltre 50 manifestanti e il ferimento di migliaia ricordano il massacro di Sharpeville nel 1960 in Sudafrica. Il mondo allora agì.Facciamo appello ai membri rispettabili della comunità internazionale perché chiedano che chi ha ordinato tale massacro sia indagato e processato. Gli attuali leader del governo israeliano sono responsabili della politica criminale di fuoco sparato su manifestanti disarmati. Il mondo deve intervenire per fermare le attuali uccisioni.

1. Avraham Burg, ex presidente della Knesset e dell’Agenzia ebraica

2. Prof. Nurit Peled Elhanan, vincitrice del premio Sakharov 2001

3. Prof. David Harel, vice presidente dell’Accademia israeliana per le scienze umane e premio Israel 2014

4. Prof. Yehoshua Kolodny, vincitore del premio Israel 2010

5. Alex Levac, fotografo e vincitore del premio Israel 2005

6. Prof. Judd Ne’eman, regista e vincitore del premio Israel 2009

7. Prof. Zeev Sternhell, storico e vincitore del premio Israel 2008

8. Prof. David Shulman, vincitore del premio Israel 2016

9. David Tartakover, artista e vincitore del premio Israel 2002

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