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Milena Gabanellie e Dino Martirano
Toghe e politica. Porte girevoli
5 Aprile 2018
Società e politica
Corriere della Sera, 5 aprile 2018. La separazione dei poteri in una democrazia è vitale. Il problema dei magistrati e la riforma che tarda a venire. (m.p.r.)

Corriere della Sera, 5 aprile 2018. La separazione dei poteri in una democrazia è vitale. Il problema dei magistrati e la riforma che tarda a venire. (m.p.r.)

Tutti i cittadini della Repubblica hanno il diritto di accedere alle cariche elettive, e di ritornare, quando lo desiderano, a fare la loro precedente attività. Nel caso dei magistrati che si mettono in aspettativa per candidarsi è vietato iscriversi ai partiti, ma siccome è una questione più di forma che di sostanza, è lecito chiedersi: con quale terzietà si comporterà un giudice eletto in Parlamento, che dopo anni passati a stretto contatto con la politica, rientra nelle aule giudiziarie?


Governo, Parlamento ed enti locali

In questo passaggio di legislatura, fra i magistrati non ricandidati dai partiti troviamo la senatrice Anna Finocchiaro del Pd. Entrò in aspettativa nel 1988, quando era pubblico ministero a Catania; dopo aver militato in un partito per il quale ha ricoperto importanti incarichi nell’arco di 30 anni, ora avrebbe intenzione di indossare nuovamente la toga. L’ex pm di Viterbo Donatella Ferranti è rimasta fuori ruolo per 18 anni, deputata eletta fra le fila del Pd, proprio in questi giorni è rientrata come giudice di Cassazione. Ha chiesto di rientrare in ruolo anche l’ex pm di Milano Stefano Dambruoso, eletto a suo tempo con Scelta civica. Chiedono di rientrare in magistratura Doris Lo Moro (già giudice del Tribunale di Roma), non ricandidata da Liberi e Uguali, e il procuratore Domenico Manzione (sottosegretario all’Interno). Felice Casson invece risulta essere l’unico ad aver dichiarato di non voler tornare a fare il magistrato.

Nella lista dei «fuori ruolo» troviamo Cosimo Maria Ferri, già giudice a Massa, ed ex leader della corrente di centrodestra dell’Associazione nazionale magistrati (il «sindacato» delle toghe). Diventato nel 2013 sottosegretario alla Giustizia in quota Forza Italia nel governo Letta, ha poi mantenuto il suo posto in via Arenula anche con Renzi e con Gentiloni, e ora è stato eletto nel Pd in Toscana.

Michele Emiliano, ex procuratore capo della Repubblica di Bari, e dal 2015 governatore della Puglia, è passato anche da un doppio mandato da sindaco nel capoluogo pugliese. È stato «processato» dalla sezione disciplinare del Csm perché, cumulando la carica di segretario locale del Pd, ha infranto il divieto di iscrizione ai partiti politici. Ma alla fine, la «disciplinare» ha deciso di rimettere gli atti alla Consulta per verificare la legittimità della norma.

La riforma che non c’è

Sulle falle del nostro sistema, nella primavera del 2017 era intervenuto anche l’Organismo di controllo contro la corruzione (Greco) del Consiglio d’Europa, chiedendo all’Italia norme più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica. Nella legislatura appena conclusa i partiti hanno anche provato a mettere dei paletti, ma senza successo. Il testo rimpallato tra Camera e Senato introduceva per esempio l’obbligo di prendere l’aspettativa anche per i magistrati che si candidano alla carica di sindaco o che accettano di fare gli assessori. Obbligo che, incredibilmente, oggi non esiste e rende possibile indossare la toga e la casacca di sindaco o di assessore. Mentre l’incompatibilità territoriale vale solo al rientro (non fai il giudice dove sei stato eletto) ma non alla partenza (non ti candidi dove fai il giudice).

Poi c’è sempre l’eccezione: Giovanni Melillo, procuratore aggiunto a Napoli, uscito nel 2014 per fare il capogabinetto del ministero della Giustizia, è tornato lo scorso anno sempre a Napoli, come Procuratore capo. È stato possibile perché non era stato eletto tra le file di un partito, anche se si tratta di incarico fiduciario e deve pertanto seguire una linea politica precisa. Ma qui si apre un altro capitolo.

Alti burocrati con la toga

Sotto la punta dell’iceberg, rappresentata dai magistrati che finiscono negli organi elettivi, ci sono poi i togati distaccati al Csm, alla Presidenza della Repubblica, alla Corte Costituzionale. I più numerosi però sono quelli chiamati direttamente dal governo a svolgere il ruolo di capo di gabinetto, direttore generale, capo dell’ ufficio legislativo, consulente o esperto giuridico, nelle ambasciate, negli organismi internazionali, nelle giunte regionali, nelle Autorità di controllo. È previsto che il numero non superi i 200, con un distacco che recentemente è stato fissato a 10 anni. La macchina dello Stato, per funzionare, ha bisogno di queste competenze, ma diventa poi difficile sapere cosa succede lungo le tappe di quel «carosello» di incarichi — tra ministeri e stanze del potere — che alcuni magistrati amministrativi percorrono con estrema disinvoltura «in nome della professionalità messa a disposizione della politica»...

L'architrave del potere

Nei posti chiave incontri il giudice partito dal Consiglio di Stato che, nel corso degli anni, transita negli uffici del segretario generale di Palazzo Chigi, in quello del gabinetto del ministro dell’Economia, con la prospettiva di approdare all’Autorità di controllo sulla concorrenza e, infine, ripassare dall’ufficio legislativo del ministero dello Sviluppo economico. E così via, fino al termine del «carosello» che riporta il nostro magistrato — ormai altissimo burocrate — a Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato. Dove tutto torna in caso di contenzioso, e dove — in barba al principio della separazione dei poteri — gli potrebbe anche capitare di giudicare e interpretare norme che lui stesso ha contribuito a scrivere.

I boiardi di Stato

Sono nomi noti a pochi, passano indenni ai cambi di governo, e rappresentano l’architrave del potere che comanda davvero. Si va da Franco Frattini a Roberto Garofoli, a Filippo Patroni Griffi. Passato dalla magistratura ordinaria a quella amministrativa, oggi è presidente di sezione del Consiglio di Stato. Nella sua carriera è stato capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Funzione pubblica con 6 governi, capo di Gabinetto del ministro per le Riforme istituzionali, capo del Dipartimento affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio, segretario generale dell’Autorità garante per la Privacy, ministro per la Pubblica amministrazione, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri.

Senza nulla togliere alle loro capacità, e senza fare di ogni erba un fascio, il problema sta nel meccanismo che crea gli «specialisti» dell’alta burocrazia, ne consente le incrostazioni, e di conseguenza la paralizza.

Articolo tratto dalla pagina del Corriere della Sera qui raggiungibile

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