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Antonio Polito
Scuola e bullismo
20 Aprile 2018
de homine
il manifesto, Corriere della sera, 20 aprile 2018. La crisi della scuola è il riflesso della crisi di una società nella quale il "titolo" vale mille, mentre i contenuti dell'apprendimento valgono zero. Articoli di Alessandra Pigliaru, Alba Sasso e Antonio Polito

il manifesto, Corriere della sera, 20 aprile 2018.

VERTECCHI: LA SOCIETÀ
DELL’EROISMO DEVIATO»

di Alessandra Pigliaru

«Bullismo. Un’intervista al decano dei pedagogisti italiani sul caso di Lucca e le tensioni tra studenti, docenti e genitori negli istituti. "Non c’è un vero cambiamento in questi episodi recenti. Assistiamo a una forma di esibizionismo, ma la scuola non vive in un luogo separato dal mondo"»

Chiedeva il sei politico lo studente dell’Itc «Carrarà» di Lucca, mentre sbeffeggiava l’uomo di 64 anni a cui ha chiesto di inginocchiarsi domandandogli chi comandasse. Un atto di prepotenza a cui si è tristemente abituati, eppure nella congiuntura dei cinquant’anni del ’68 è piuttosto straordinario osservare come la parabola della contestazione studentesca sia così diversa nel deserto politico contemporaneo che, spesso, non prevede nessun orizzonte di radicalità in cui inserirsi. Né di nuove parole e pratiche da inventare per sottrarre l’insofferenza al puro scacco del disagio. Ciò che emerge è allora la reiterazione della violenza che diventa tortura nella prossemica di quanto accaduto a Lucca e nella riproducibilità tecnica della scena che ci si apprestava ad allestire.

Ne abbiamo parlato con Benedetto Vertecchi, decano dei pedagogisti italiani e protagonista cruciale del dibattito sull’educazione anche in relazione al sistema scolastico. Già presidente del Centro europeo dell’educazione (Cede) e dell’Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione (Invalsi). «Mi sono laureato proprio nel ’68 – racconta il professor Vertecchi che, tra gli impegni accademici, ha collaborato a numerose ricerche promosse dall’Ocse e dall’Association for the Evaluation of the Educational Achievement -. La rozzezza a cui si assiste oggi allora era inimmaginabile. Esisteva un esprit de finesse, a cominciare dalla preparazione politica e culturale degli studenti – oggi quasi del tutto assenti. Ciò nonostante il conflitto sociale era aspro e si aveva la capcità di aprirlo con un senso e un significato».

Cosa è cambiato nel fenomeno del bullismo?

«Il cambiamento non è nel fenomeno in sé ma nell’amplificazione consentita dai mezzi di comunicazione. È vero tuttavia che il bullismo classico era un fenomeno ben diverso perché inteso come forma di manifestazione della forza di chi non ha coraggio; quello a cui invece assistiamo oggi è una forma di esibizionismo, considerando l’enfasi di un certo «eroismo deviato».

Il problema non è nella Rete però…

«È più facile diffondere esempi di bullismo e trarne un beneficio perverso come ritorno di immagine. Detto questo, lo sviluppo di attività in cui compare la prevaricazione di un singolo o di un gruppo sull’altro non è qualcosa che riguarda solo la scuola. Sappiamo che è presente in altri ambiti, assistiamo quotidianamente all’imbarbarimento della cultura sociale che passa per un deterioramento del linguaggio (pensiamo solo alla pessima lingua utilizzata dai nostri politici), esiste una violenza verbale, una lingua sguaiata, veicolata dalla televisione e dagli altri mezzi di comunicazione che diviene un esempio piuttosto pervasivo per chiunque, soprattutto per chi è giovane. Una forma di autorizzazione, di legittimazione alla violenza. Non è una questione morale, è che anche il linguaggio determina dei comportamenti conseguenti».

Crede si tratti di una rottura del patto con la scuola o il problema è un altro?

«Non è il patto con la scuola a essersi rotto, bensì quello della convivenza sociale. Il fatto che simili episodi, variamente articolati, non avvengano esclusivamente in ambito scolasticosignifica che dobbiamo guardare all’ampiezza delle condizioni sociali. Del resto dovremmo finirla con la divisione tra l’educazione formale e quella informale; la scuola non vive in un luogo separato della società.».

Come mai gli e le studenti non riconoscono autorevolezza a chi insegna? È un’esautorazione che passa dalle famiglie?

«La figura dell’insegnante è molto indebolita perché ha perso molti dei caratteri che prima la distinguevano da altri ruoli. Ora l’insegnante è più simile a un professionista intermedio con funzioni modeste e soprattutto ricopre un ruolo non socialmente desiderabile. Il «credito» che gode nei confronti dei genitori è altrettanto modesto. Se consideriamo l’aspetto economico, il lavoro dell’insegnante è sempre stato piuttosto sottopagato; la differenza tra allora e oggi risiede nel prestigio culturale. Cioè è diminuito il credito sociale esattamente come la densità culturale di cui era portatore e a cui poteva dedicarsi. Ora alle scuole vengono dati una quantità di compiti tra i più vari e che tengono molto impegnati nel loro svolgimento».

SCHEDA: VIRALE IL VIDEO DELL’UMILIAZIONE
Ha fatto il giro della rete il video dello studente dell’istituto tecnico Carrarà di Lucca mentre umilia e minaccia il suo docente, chiedendogli il 6 e intimandolo di mettersi in ginocchio. Di ieri è un altro video, proveniente dalla stessa scuola, con protagonisti tre studenti minorenni – accusati ora di violenza privata aggravata in concorso e dunque iscritti nel registro degli indagati. Anche il preside ha presentato denuncia formale.
LA SCUOLA É SOLA
di Alba Sasso

Quel che colpisce nelle immagini diffuse dai media sui fatti della scuola di Lucca è un’aria di tragica normalità. Ricorda altre recenti vicende come quella di una insegnante, quasi in «balia» di una classe in pieno subbuglio, rassegnata, impossibilitata ad agire. Tanto da non essere neppure stata lei a denunciare il fatto. Non è comunque sempre la stessa liturgia: in alcuni casi la classe sembra indifferente o estranea a quanto avviene, in altri casi parteggia per l’una o per l’altra parte.

Ma quel che è più preoccupante è che al di là dei fatti, quel che sembra interessare gli alunni è la «visualizzazione» di quegli stessi fatti e la loro diffusione nel web. Che finisce col contare, anche di più della vita reale. E allora non siamo più solo in una situazione di allarme singolo. Siamo in una situazione nella quale quello a cui stiamo assistendo rischia di essere solo la punta di un iceberg: l’evidenza di un malessere più profondo, che le recenti riforme o presunte tali non solo non hanno risolto, ma addirittura aggravato.Quella scuola che ci raccontano quei video è una scuola antica, quella della lezione frontale, dove conta il voto che assolve o condanna. Dove gli insegnanti sembrano stremati e soli, senza neanche la voglia di socializzare i problemi. Dove il tema di cosa si insegna e si impara a scuola, e come, sembra una questione dimenticata.

Vi ricordate:«un po’di inglese, un po’ di informatica» o le quattro chiacchiere a proposito di sapere della scuola contenute nella legge 107? Ma questa scuola non è la realtà. Anzi le è antitetica. L’individualismo ha permeato la società, le famiglie sostengono i figli, anziché educarli, tutto marcia al contrario.

Si è interrotta, e da tempo, nonostante l’impegno «accanito» di tanti docenti che continuano a fare una «buona scuola», una riflessione sul rapporto tra cultura della scuola e contemporaneità, sul sapere capace di fornire strumenti per conoscere, capire, diventare cittadine e cittadini di un mondo sempre più vasto. E si è pensato addirittura che per essere preparati al mondo, che poi sarebbe solo quello della produzione, possa bastare l’esperienza dell’alternanza scuola-lavoro, realizzata come fosse un’ altra materia di studio. E con esperienze denunciate dalle stesse studentesse e studenti come inutili o addirittura negative. (dai McDonald a Zara).

Manca da tempo un’attenzione, forse anche un bilancio di quel che sta succedendo nelle scuole. Dove certo, i fatti di questi giorni non sono la norma, ma rappresentano un allarme, di cui tener conto. Colpisce ancora il silenzio delle famiglie di fronte a questi fenomeni, quelle famiglie che spesso si comportano solo da utenti, alle volte rissosi e violenti, piuttosto che come componente essenziale del più complessivo governo del sistema.

La scuola è sola, di fronte a problemi enormi. Sono soli i suoi insegnanti, «stanchi di guerra», sono soli quei bulli, sono sole le famiglie e sono soli persino i dirigenti. E purtroppo la scuola torna alla ribalta solo per questi «scandali».

E allora bisogna ricominciare a ricostruire quel tessuto solidale nella scuola e intorno alla scuola, come già tante scuole e territori fanno- ma di loro non c’è traccia nei media- perché hanno capito, a differenza dei mestieranti della politica, che i luoghi della formazione sono decisivi per costruire un futuro migliore per tutte e tutti.

ETICA ED EDUCAZIONE
di Antonio Polito

Perché non reagisce? Perché non lo punisce? Guardando il video girato in quella classe di Lucca, dove uno studente pretende con la violenza il sei politico dal suo docente, e un altro lo prende perfino a testate con un casco, ci siamo tutti fatti questa domanda: perché il professore non esercita la sua autorità?

È da qui che bisogna partire se si vuol trarre una lezione dalla impressionante sequenza di insegnanti intimiditi e maltrattati da «branchi» di studenti, che si filmano e si rilanciano sui social. Ma non per interrogarsi sul coraggio personale di chi viene umiliato. Nessuno, salvo forse chi opera nelle forze dell’ordine, ha un dovere al coraggio fisico sul lavoro.

No, la domanda che dobbiamo farci è come sia potuto accadere che un insegnante si possa sentire così solo, così indifeso, così deprezzato e abbandonato, dalla scuola, dai genitori, dal resto della società, da preferire di lasciar correre, magari sperando di evitare guai peggiori all’istituto e ai suoi stessi alunni. La domanda che dobbiamo farci è dunque politica: se non esista oggi in Italia un’emergenza educativa che dovrebbe costringerci tutti a riflettere e ad agire per ripristinare un principio di autorità nelle nostre scuole.

Qui non si tratta di uscirsene con la solita lamentazione sui bei tempi andati, dare la colpa al ’68 e alzare le spalle come se non ci fosse ormai più niente da fare. Si tratta invece di rimettere in piedi nella nostra era, fatta di smartphone e di Rete, con i giovani come sono fatti oggi, un’idea di libertà che non sia licenza e di autorità che non sia imperio. Anzi, si tratta di far leva proprio sullo spirito critico dei nostri ragazzi, oggi mille volte più stimolabile che in passato, per indirizzarlo verso il bene, piuttosto che verso il male.

Il senso di onnipotenza che pervade un adolescente, e che gli deriva tra l’altro anche da una struttura fisica del cervello ancora in formazione, può condurre infatti a esiti molto diversi.

Sui media finiscono quelli peggiori, vediamo in azione giovani che sembrano aver del tutto smarrito il senso del limite, la linea di confine che passa tra la vita reale e quella virtuale, e che spesso nella vita reale sembrano quasi recitare per il pubblico dei social, ansiosi di costruirsi un’identità di successo, perché oggi si ha successo se si è famosi, qualsiasi sia il motivo della fama.

Ma, diciamoci la verità: da quanto tempo noi, società degli adulti, abbiamo smesso di occuparci di una buona semina, di saperi e di valori, in questi cervelli così fertili, in questi cuori così ricettivi? E, soprattutto, da quanto tempo abbiamo smesso di occuparci della manutenzione non solo delle scuole, ma anche dei docenti: della loro frustrazione, della loro fatica, delle loro solitudini?

Nel suo libro, Ultimo banco, Giovanni Floris riferisce quel che gli ha detto la vicepreside di un istituto del Sud: «Un ragazzo, grazie allo studio, ha l’occasione di dimenticare le mode che ossessionano il gruppo di amici; un bullizzato ha l’occasione di scoprirsi più forte del bullo: la scuola è il mondo in cui il pensiero autorizza l’alunno a crescere libero da stereotipi e costrizioni». È così; o meglio, dovrebbe essere così. Ma noi abbiamo lasciato che i sacerdoti di questo culto della libertà che è l’educazione venissero un po’ alla volta spogliati di ogni rispetto. Lo abbiamo fatto noi famiglie, che scambiamo il pezzo di carta con l’istruzione trasformandoci in sindacalisti dei nostri figli, pronti a ricorrere perfino al Tar contro la valutazione degli insegnanti. Lo ha fatto lo Stato che ha consentito di trasformare i docenti nella categoria di laureati peggio pagata. Lo ha fatto un’austerità di bilancio che ha salvato molte spese inutili ma ha lasciato invecchiare e deperire il nostro corpo docente (in Germania a fine carriera un professore della scuola secondaria guadagna 74.538 euro, in Italia 39.304).

E lo ha fatto una cultura fintamente permissiva, cinica e narcisistica, che spinge a dar ragione ai giovani anche quando hanno torto: per pavidità, per convenienza, perché i ragazzi sono oggi generosi consumatori, divoratori di mode, e modelli per adultescenti che non vogliono invecchiare mai, e per questo vengono vezzeggiati anche nei loro peggiori difetti.

Ieri il raccontava di che cosa è successo in un istituto milanese nel quale il preside ha avuto il coraggio di punire un gruppo di studenti che avevano diffuso sui social le immagini intime di una ragazzina, obbligandoli a una corvée di pulizie nella scuola. Ebbene, molti genitori hanno preso le parti dei figli: punizione eccessiva, quasi una gogna, in fin dei conti la colpa è della ragazza che mandava in giro le sue foto.

Contro questo demone del giustificazionismo, questa paura della responsabilità etica, normativa e talvolta perfino punitiva che i veri educatori devono invece assolvere, bisogna combattere una guerra comune. Il cui esito non è certo meno importante, per le sorti della comunità nazionale, di quello della crisi di governo.

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