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Gigi Riva
La Siria, Trump e l'impotenza del pacifismo
17 Aprile 2018
2015-La guerra diffusa
La Repubblica, 16 aprile 2016. Che fine ha fatto il pacifismo? Ci sono guerre giuste?.Domande argomentate, che esigono risposte. Proveremo a darle. Perché anche noi ci domandiamo perchè i cortei con le bandiere della pace siano scomparse dalle piazze del mondo (a.b.)

La Repubblica, (a.b.)

Papa Francesco lancia un appello, l’ennesimo, a «tutti i responsabili politici» perché in Siria prevalgano «la giustizia e la pace». Invita «le persone di buona volontà» a pregare. Lo faranno di certo, ciascuno nel dialogo intimo con il divino. Però non sono più un movimento, non sono più massa critica. Da tempo ormai sono vistosamente scomparse dallo spazio pubblico le bandiere arcobaleno, le piazze sono orfane di chi sfilava contro la guerra con lo slogan assoluto “senza se e senza ma”. Anche nell’ultimo caso mediorientale, come in molti recenti, i se e i ma invece abbondano. Stare contro Donald Trump e implicitamente difendere il dittatore Assad accusato di usare i gas? Stare contro Assad e favorire quella frangia di ribelli attestata su posizioni jihadiste? E chi davvero ha usato le armi chimiche?

Gli interrogativi, tutti legittimi, sono peraltro la foglia di fico di un impegno cessato molto prima. Il pacifismo era già moribondo, soffocato dalla propria impotenza a causa di una serie di sconfitte storiche che hanno provocato frustrazione e disincanto. Nella sua versione più intransigente rifiutava qualunque tipo di intervento, compreso quello auspicato da un altro Papa, Giovanni Paolo II, quando si batteva (era il 1992) per il diritto-dovere di ingerenza umanitaria in Bosnia. Tre anni dopo, il bombardamento durato pochi giorni delle postazioni serbe nei dintorni di Sarajevo provocò la fine del conflitto e l’inizio di un ripensamento tra chi circondava le base di Aviano per cercare di impedire il decollo degli aerei americani. La prova più evidente che non esiste una formula adatta a tutte le circostanze. E in occasioni fatali come le guerre è sempre il caso di rimboccarsi le maniche e valutare con pazienza se un intervento è destinato ad alzare o abbassare il livello di violenza. Nei Balcani, lo abbassò. Al contrario, otto anni dopo, dell’invasione dell’Iraq da parte di George Bush il figlio, la cui eredità sono i conflitti ancora aperti. Per fermare quello sciagurato tentativo di “esportare la democrazia” scesero per strada, nel mondo, cento milioni di persone (un milione in Italia). Non servì a nulla: il pacifismo toccò l’apice dell’espansione e l’inizio della disillusione. Si è protestato, dal Vietnam in poi, per le guerre degli altri.
Testimonianze, opposizioni di principio astratte come la lontananza. Dopo le Torri Gemelle, l’Iraq e il conseguente terrorismo globale, è risultato sempre più complicato essere pacifisti, a causa della sensazione di avere la guerra in casa. La neutralità è diventata un lusso.
Vincono le posizioni nette. Col nemico alle porte, il pacifismo è finito in fuorigioco.
Un peccato davvero, persino per chi lo osteggiava. Perché è proprio la sua mancanza, oggi, che impedisce lo sviluppo della dialettica attorno a un tema così cruciale. Le baruffe, anche furibonde, degli anni ‘90 e degli anni ‘10 di questo secolo tra interventisti e non avevano il valore prezioso di instillare il dubbio, nei campi contrapposti. Il cittadino-elettore aveva la sensazione di poter incidere sul processo politico più drammatico, la scelta tra la pace e la guerra. Oggi il campo è sgombro.
Trump, come un dottor Stranamore, “punisce” la Siria, sgancia la superbomba in Afghanistan, minaccia la Corea del Nord, senza che si veda all’orizzonte un corteo. Senza che ci sia un contrappeso al suo bellicismo incontinente. Se era deleterio un eccesso di pacifismo, è ugualmente nefasta la sua totale assenza.
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