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Khalifa Amo Khraisse
In Libia il colonialismo italiano non è mai finito
11 Marzo 2018
Italiani brava gente
Internazionale giornale, 9 marzo 2018. Un cittadino della Libia ricorda le dierse fasi del colonialismo italiano: «cambiano i nomi e le giustificazioni, ma oggi di nuovo ci sono persone gettate nei campi di concentramento finanziati dai soldi dei contribuenti italiani»

Internazionale giornale,

Negli anni trenta mio padre ha perso due zii in una battaglia contro i fascisti ad Al Jawsh, un paesino nella Libia occidentale a ventisette chilometri circa da Shakshuk, la città d’origine di mio padre e della nostra tribù. Quel giorno per i tre fratelli era cominciato proprio come nella canzone Bella ciao: “Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor”. Mio nonno è stato l’unico a sopravvivere. Si chiamava Khalifa.

Non ho conosciuto mio nonno, tutto quello che so di lui viene dai racconti che me ne faceva mio padre quand’ero bambino. Quelle storie sono una delle poche cose che condividevamo. Io preferivo i racconti di mia madre, non solo perché mi è più vicina ma anche perché mi descriveva le persone e il loro modo di vestire, di camminare e di parlare, e poi i luoghi e gli odori, i colori e le sensazioni che lei provava.

Ricordo un cartone animato che io e mio fratello adoravamo guardare da piccoli. In uno degli episodi c’era la storia di due fratelli che litigano in continuazione e che per questo finiscono trasformati in cani (credo c’entrasse la magia, ma non lo ricordo con precisione). Mio padre, in silenzio fino a quel punto, sorrideva e diceva: “Visto cosa è successo? Se continuate a litigare capiterà lo stesso anche a voi”.

Gli ultimi testimoni

Ci sono alcune persone, come mio padre, che danno continuamente lezioni di vita, e altre, come mia madre, che ti raccontano una storia e poi lasciano che sia tu a trarre le conclusioni. Da quando sono diventato adulto, forse il periodo più lungo che ho trascorso da solo con mio padre è stato l’anno scorso, quando per qualche settimana è stato ricoverato in ospedale mentre Tripoli era sull’orlo di un’altra lotta tra milizie. Io e mio fratello avevamo deciso di fare turni di ventiquattr’ore per stare con lui, così da essere sicuri che non sarebbe rimasto da solo in caso gli scontri avessero bloccato le strade in direzione dell’ospedale.
Le ore in ospedale erano lunghe, perciò abbiamo cominciato a parlare davvero, tanto. Mi ha raccontato di nuovo tanti episodi che avevo ascoltato da bambino, ma stavolta mi ha dato la versione integrale e ha risposto alle mie domande.
Le ore in ospedale erano lunghe, perciò abbiamo cominciato a parlare davvero, tanto. Mi ha raccontato di nuovo tanti episodi che avevo ascoltato da bambino, ma stavolta mi ha dato la versione integrale e ha risposto alle mie domande.
Ho capito allora che i testimoni dell’epoca dell’occupazione italiana e della seconda guerra mondiale sono anziani, e che i ricordi di queste generazioni spariranno con loro. Senza le loro voci, nessuno potrà più parlare di quell’epoca a partire da un’esperienza personale e l’unica fonte a nostra disposizione resterà il sapere che ci ha trasmesso il regime, con una notevole “sintesi” storica. Questo ha determinato un divario tra le generazioni, e tutte le volte che si crea un divario si crea anche la necessità di riempirlo. Oggi il dibattito su quell’epoca è complicato, e nessuno è interessato a comprendere le complessità.
Per esempio, agli studenti a scuola non s’insegna che molti libici collaborarono con i fascisti, che intere brigate e molti capi tribù lavorarono e combatterono per loro e si divisero al proprio interno per questo. Non leggiamo delle reclute che marciarono al fianco dei soldati italiani per conquistare l’Etiopia. Per non parlare del dibattito sui crimini commessi contro gli ebrei libici: era ed è ancora un tabù. In realtà alcune delle famiglie più ricche nella Libia di oggi devono la loro prosperità a quel periodo, ai soldi e alle proprietà che rubarono agli ebrei costretti a lasciare il loro paese.

Alle generazioni postbelliche sono stati insegnati solo alcuni fatti, che non potevano in nessun modo essere contestati. Per più di quarant’anni il governo libico ha scelto di ignorarne alcuni e amplificarne altri. Lo strumento principale è stato il Centro nazionale per gli archivi e gli studi storici. Fondato nel 1977 con il nome di Centro per le ricerche e gli studi sul jihad libico, nel 1980 era diventato il Centro del jihad libico per gli studi storici. Questo centro è stato istituito soprattutto con l’obiettivo di “condurre ricerche di tipo documentario, raccogliere manoscritti, documenti e opere legate al suo scopo, e documentare tutte le fasi del jihad libico contro la colonizzazione italiana”. Il 24 marzo 2009 lo hanno unito al Centro nazionale per i manoscritti e gli archivi trasformandolo appunto in Centro nazionale per gli archivi e gli studi storici.

All’inizio del 2009 era stato diffuso un “annuncio importante”: “Il Centro del jihad libico sta registrando i nomi dei fratelli che hanno combattuto con l’Italia in Abissinia, Eritrea, Somalia e nella seconda guerra mondiale, e gli impiegati e gli operai libici che hanno collaborato con l’amministrazione coloniale italiana dal 1911 al 1942. I fratelli in questione, i loro nipoti o parenti devono affrettarsi per andare al centro del jihad di Tripoli o alle sue filiali in tutta la Jamahiriya (Libia) per riempire il modulo di registrazione”.

Perché questo improvviso interesse per un argomento fino ad allora trascurato? Il motivo per cui il Centro era stato incaricato di preparare quelle liste è che il governo italiano aveva accordato “il ripristino del pagamento delle pensioni ai titolari libici e ai loro eredi che, sulla base della vigente nominativa italiana, ne abbiano diritto”, secondo quanto si leggeva nel Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Libia e la repubblica italiana firmato a Bengasi nel 2008.

È come se annunciaste la possibilità di pagare i collaboratori del regime nazista nei paesi europei occupati dalla Germania durante la seconda guerra mondiale, compresi quelli che hanno lavorato nei campi di concentramento nazisti e quelli che hanno contribuito a reprimere la resistenza. Quante persone o familiari sarebbero orgogliosi di fare un passo avanti e annunciare che il loro padre o nonno hanno collaborato con i fascisti e ritirare la loro pensione? Non molti, immagino, ed era proprio questo lo scopo di quell’articolo: per quanto umiliante possa essere, non sarà mai davvero applicato, non è altro che un trucco dell’accordo.

L’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha dichiarato a proposito dell’accordo: “C’è un riconoscimento completo e morale dei danni inflitti alla Libia da parte dell’Italia durante il periodo coloniale”. Nonostante le dichiarazioni, esaminando gli articoli del trattato e prestando attenzione non solo a quello che è scritto ma anche a quello che non è scritto, si nota qualcos’altro.

“L’Italia, sulla base delle proposte avanzate dalla Grande Jamahiriya e delle successive discussioni intervenute, si impegna a reperire i fondi finanziari necessari per la realizzazione di progetti infrastrutturali di base che vengono concordati tra i due Paesi nei limiti della somma di cinque miliardi di dollari americani, per un importo annuale di 250 milioni di dollari americani per 20 anni”. Il pacchetto di risarcimento comprende progetti di costruzione, borse di studio per studenti (cento) e pensioni per i soldati libici che hanno prestato servizio nell’esercito italiano durante il periodo coloniale.

Se avessero davvero voluto risarcire le vittime dei fascisti, avrebbero dovuto offrirsi di pagare le vittime dei campi di concentramento e dei tribunali militari, che hanno condannato a morte tanti libici dopo processi sommari. Quello che è stato vagamente annunciato come un “risarcimento completo e morale” non è andato oltre quella frase.

Di fatto l’accordo non solo ha ignorato i crimini dei fascisti, ma ha cercato di premiare i libici che hanno contribuito a commetterli. In quei campi di concentramento è stato ucciso un terzo della popolazione della Cirenaica: quelli che non sono stati giustiziati o non sono morti a causa di epidemie, sono morti di fame o uccisi dalle lunghe marce forzate”. Tutto ebbe inizio quando Mussolini – “il più grande bluff d’Europa”, come lo definì Hemingway – assunse il controllo dell’Italia.

Il genocidio libico


Dopo la marcia su Roma, Mussolini dichiarò dal suo balcone che avrebbe reso di nuovo grande l’Italia. Forse offrì alla folla eccitata una delle sue pose da supereroe; per lui quel balcone era l’equivalente di un account Twitter. La Libia era il primo articolo da spuntare nella sua lista di cose da fare per rendere di nuovo grande l’Italia, e così iniziò la “pacificazione della Libia”, o meglio il “genocidio libico”.

La campagna partì nel 1923, quando soldati armati fino ai denti e sostenuti da aeroplani e mercenari marciarono contro i libici, che possedevano solo vecchi fucili ottomani, cavalli e cammelli. Alla fine del 1924 la Tripolitania era interamente sottomessa. Le tribù erano troppo impegnate a combattere le une contro le altre, e la resistenza disorganizzata ne rese più facile la sconfitta. Nel 1929 le due regioni e il Fezzan del nord furono unificate. La resistenza era ridotta a piccoli gruppi in Cirenaica, sotto la guida di Omar al Mukhtar. Continuarono a condurre una guerra di guerriglia sfruttando la loro conoscenza del territorio e la loro facilità di spostamento.

Distruggere ciò che restava della resistenza divenne la missione del generale Graziani. Per riuscirci era disposto a tutto, anche all’uso di bombe all’iprite, nonostante l’Italia avesse firmato nel 1925 la convenzione di Ginevra sulla messa al bando delle armi chimiche in battaglia. Pensava che il modo migliore per affrontare la resistenza fosse isolarla. Poi diede il via alle deportazioni di massa dei libici rinchiudendoli nei campi di concentramento.

Per descrivere uno di questi campi prenderò in prestito alcuni paragrafi scritti da un sopravvissuto al campo di concentramento di El Aghelia, Ibrahim al Arabi al Ghamari:

«La terra era desolata. Circondati da sabbia e acquitrini, priva di popolazione. C’era un piccolo forte per le ispezioni, circondato da torri, a loro volta circondate da filo spinato per poter contenere il maggior numero possibile di detenuti. C’era un cancello presidiato da agenti di polizia. Fuori a farmi la guardia c’erano contingenti di mercenari somali ed eritrei. Avevano costruito loro le torri con gli uffici del forte per il personale, era compito loro registrare i detenuti e ispezionarli, ogni mattina.
Ogni mattina tutti i detenuti dovevano presentarsi negli uffici del personale per registrare la loro presenza. Se qualcuno non si presentava, voleva dire che era he era morto. Malati e disabili invece dovevano essere portati sulle spalle senza discussione.

Ogni mattina dopo l’appello sceglievano i più giovani e quelli in grado di lavorare e li dividevano in quattro squadre: una era addetta alla pulizia degli uffici, delle latrine e delle stalle, e chi ne faceva parte doveva trasportare sulla schiena i rifiuti fuori dal campo. Un’altra squadra doveva pulire il campo e svolgere altri lavori. I membri di una terza squadra dovevano trasportare sulla schiena le merci dal porto ai negozi, destinati a rifornire soltanto i militari. A una quarta squadra spettava il compito di trasportare fino ai negozi la legna da ardere. Io appartenevo a quest’ultima squadra.
Agli anziani spettava il compito di trasportare i cadaveri e seppellirli.
Ogni giorno c’erano almeno centocinquanta morti. Venivano seppelliti in fosse poco profonde. Non avevano la forza di scavare buche profonde, perciò i cadaveri erano vulnerabili agli attacchi delle iene, dei lupi, delle volpi e dei cani. I corpi andavano in putrefazione e questo ha contaminato tutto il sito, costringendo i responsabili a trasferirlo a un chilometro di distanza.
Tra i detenuti era pericolosamente diffusa la carestia, e molti hanno iniziato a morire di fame. Dopo la morte di un gran numero di detenuti per la fame, la maggior parte dei quali anziani e bambini, le guardie hanno iniziato a distribuire grano importato dalla Tunisia. A ogni persona spettavano due chili di grano ogni due settimane. I detenuti lo cuocevano sul fuoco per migliorarne il sapore e bevevano l’acqua per riempirsi le pance. Molti avevano ulcere in bocca e gengive sanguinanti.
La diffusione di terribili malattie tra i detenuti ha eliminato quasi tutti gli altri. I pazienti venivano ricoverati in tende situate in una angolo lontano del campo, accanto al filo spinato. Se una persona mostrava i sintomi della malattia, la sua famiglia era obbligata a trasferirlo immediatamente in una di queste tende e lasciarlo lì a morire. Nessuno poteva stargli accanto, era proibito. Ogni mattina un parente andava a trovarlo. Se lo trovava morto doveva informare l’ufficio per la registrazione dei detenuti. Questa era l’unica cura consentita. Se una persona ammalata moriva a casa prima di essere stata trasferita nella tenda per i pazienti, venivano inflitte dalle 300 alle 500 frustate ai familiari, che venivano inoltre privati della razione settimanale di grano.
Abbiamo patito molto in queste condizioni disumane: fame, sete e umiliazione erano parte della nostra quotidianità. Non importava se davanti avevano un giovane o un anziano, un uomo o una donna, erano indifferenti a tutto. Le donne venivano frustate sulle gambe e gli uomini sul petto e sulla schiena, dopo averli legati a un palo conficcato per terra.

In occasione di una conferenza stampa durante la sua visita a Roma, Gheddafi ha detto “il mio amico Berlusconi, un amico che oggi tutti i libici conoscono, dopo che con le sue tante utilissime visite in Libia ha aperto la via a questo trattato”. Beh, tutti i libici conoscono Berlusconi solo per la squadra del Milan, e lo ricorderanno per sempre, dopo la sua visita in Libia per firmare il trattato, come il leader italiano che ha baciato la mano di Gheddafi. L’unico e solo canale televisivo nella Libia dell’epoca ha continuato a mandare in onda quel bacio all’infinito. Nel caso non lo aveste visto, ecco a voi un link.

Gheddafi voleva solo questo, apparire. Dal suo punto di vista, voleva dimostrare al mondo e ai suoi cittadini che era ancora “l’uomo di ferro”, come lo definiva Berlusconi. Ha sempre dichiarato di voler rendere di nuovo grande la Libia, addirittura ha rinominato il paese “Grande Jamahiriya araba”. Questa grandezza si manifestava soprattutto nell’ostilità contro le altre nazioni, nei discorsi di odio, nell’eliminazione di ogni opposizione e nell’acquisto di miliardi di dollari di armi con le ingenti riserve petrolifere della Libia.

L’accordo ha inoltre offerto a Gheddafi l’opportunità di ricompensare il suo amico per “’importante contributo dell’Italia al fine del superamento del periodo dell’embargo nei confronti della Grande Jamahiriya”, come sottolineato nell’introduzione all’accordo. Berlusconi non è solo un politico e uomo d’affari, è anche un uomo di spettacolo, come lo stesso Gheddafi, e ha così sintetizzato il vero scopo dell’accordo: “Grazie al trattato siglato oggi, l’Italia potrà vedere ridotto il numero dei clandestini che giungono sulle nostre coste e disporre anche di maggiori quantità di gas e di petrolio libico, che è della migliore qualità”. In poche parole, finché farete scorrere il vostro petrolio e terrete i migranti nella vostra parte di Mediterraneo saremo amici e potremo far finta che nel vostro paese non succeda niente di male.

I nuovi campi


È paradossale che, oltre a ignorare i campi di concentramento e premiare i collaboratori che ci lavoravano, l’accordo abbia gettato le basi per una nuova epoca di campi di concentramento finanziati dall’Italia con l’aiuto di collaborazionisti libici che vengono pagati generosamente. L’unica differenza oggi è che eritrei e somali sono dentro quei campi e non fuori a fare la guardia.

Nel 2011, durante i suoi ultimi mesi al potere, Gheddafi ha spalancato la strada alle barche: chiunque avesse un’imbarcazione veniva pagato per riempirla di migranti e mandarli in mare. Quando il diavolo che conoscevano è andato via, la Libia si è divisa tra molti nuovi diavoli sconosciuti. Il nuovo accordo firmato con Al Sarraj ha revocato e cancellato molti articoli contenuti nella precedente versione. L’ultimo aggiornamento dell’accordo è andato ancora più dritto al punto: ridurre i migranti e tenerli in Libia in cambio di denaro. Stavolta però niente baciamano.

Però c’era un tranello: i nuovi diavoli non sono stati in grado di offrire quello che aveva offerto Gheddafi, ossia il silenzio più assoluto. Per quarant’anni di dittatura Gheddafi ha avuto il totale controllo dei mezzi d’informazione e ha represso tutte le voci, mentre i nuovi signori della guerra non possono controllare del tutto ciò che succede nel mondo. E non si può dire certo che non ci provino.

Tuttavia la parte di questo accordo che preferisco è questa: “A partire dal corrente anno, il giorno del 30 agosto viene considerato, in Italia e nella Grande Jamahiriya, Giornata dell’amicizia italo-libica”. Questa data segna e rappresenta esattamente il contrario, è un promemoria di questo accordo vergognoso e disonorevole. Niente al mondo mi farebbe più piacere oggi di un vero giorno per festeggiare l’amicizia tra Italia e Libia, per avviare una vera cooperazione, uno scambio culturale e un dialogo sincero, distante da loschi accordi disumani.

Libici e italiani non sono responsabili delle azioni dei peggiori tra i loro concittadini. Credo che le persone siano responsabili solo delle loro azioni, di ciò che hanno fatto e anche di ciò che non hanno fatto. Chi approva in silenzio è colpevole tanto quanto chi commette un crimine. Dopo aver letto un libro o guardato un film sulla seconda guerra mondiale e sui crimini orribili commessi da nazisti e fascisti, chiunque a un certo punto si sarà chiesto cosa avrebbe fatto se fosse stato lì, se fosse vissuto in quel periodo. Adesso abbiamo la possibilità di conoscere la risposta. Viviamo in tempi interessanti, oggi sta succedendo di nuovo. Cambiano i nomi e le giustificazioni, ma oggi di nuovo ci sono persone gettate nei campi di concentramento finanziati dai soldi dei contribuenti italiani (adesso mi sembro proprio mio padre).


(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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