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Alberto Rollo
Il duello metropoli-provincia, la nuova frattura italiana,
27 Marzo 2018
Per comprendere
La Stampa 23 marzo 2018 . un tentativo di dare una risposta al significato dei colori della mappa post-elettorale dell'Ilalia. Ma forse quei colori sono troppo pochi per rappresentare alcunchè di significativo

La Stampa 23 marzo 2018 . un tentativo di dare una risposta al significato dei colori della mappa post-elettorale dell'Ilalia. Ma forse quei colori sono troppo pochi per rappresentare alcunchè di significativo

Me la sono appesa quasi sopra la scrivania dove per lo più leggo, lavoro, scrivo. La mappa dell’Italia dopo le elezioni. Coloratissima. Il blu del centro destra, il giallo del Movimento 5 Stelle, il rosso del centro sinistra. La guardo e mi dico: Adesso è arrivato il momento di studiare. Che qualcuno studi. Che non abbia fretta.

Che cos’è quest’Italia? Che cosa hanno in testa gli italiani? Se quello fosse veramente il nostro ritratto, non potremmo davvero arrivare a una identificazione veritiera. Sono opinioni politiche? Sono scelte fatte da cittadini consapevoli del bene comune? E quei colori hanno a che fare con una sorta di guerra civile interna?

Io non credo. E non perché sia particolarmente ottimista. Semmai il contrario. Sono convinto che siamo, questo sì, davvero al centro di una battaglia culturale perduta, o forse mai realmente combattuta. Quando vedo il puntino rosso di Milano e di Torino, e forse solo di Milano centro e di Torino centro, in mezzo al blu, mi vengono in mente New York e San Francisco (sapevano a New York e a San Francisco che cosa avevano in testa i cittadini di Rock Springs dove ha stravinto Rex Rammell, il Trump del Wyoming? Avevano letto i racconti di Richard Ford ambientati in quella città alla fine degli anni ottanta del Novecento?), e poi mi viene in mente Londra centro del pre-Brexit (anche lì c’era qualcuno che aveva un’idea non contrastiva della città del Nord, di Preston, Lancashire o della stessa Birmingham di cui racconta Jonathan Coe?).

Milano è come New York e come San Francisco, da quel punto di vista: qui accade ciò che altrove non accade, qui si discute di diritti umani, qui c’è un intelligente assessore alle politiche sociali , qui ci sono gli archistar, la moda, l’editoria, qui siamo nella “città creativa Unesco per la letteratura”, qui ci sono la Casa della Carità, le Associazioni, il Volontariato, la Fondazione Feltrinelli, la Fondazione Prada, la Fondazione Mondadori, la collaborazione fra pubblico e privato nell’accoglienza di primo livello, per cui senti che l’inclusione è possibile - sia pur con tutte le contraddizioni del caso - come a New York e come a Londra.

E quel che accade altrove, a Rock Springs, Wyoming, a Preston, Lancashire, a Novi Ligure, a Castelfranco Veneto, Romano di Lombardia, non importa. L’Italia è una sterminata provincia, spesso si tratta di provincia ricca, ancora più spesso questa provincia coincide anche con l’Italia della cultura storica, dei monumenti, delle famiglie aristocratiche e delle tradizioni popolari.
A pensarci bene, la provincia del fascismo. Ma qui il fascismo del ventennio non c’entra. C’entrano invece le trasformazioni sociali, “antropologiche”, nonché (anche qui come nelle città) architettoniche, che hanno creato l’Italia “della villetta” (mono o bifamigliare): quel sublime concentrato di isolamento sociale, di trionfo del particulare, di asfissia ideale, di delirio psicologico e di assuefazione al cattivo gusto , quel diffuso monumento alla paranoia e all’orgoglio cellulare che è stato da una parte un simbolo di prosperità e autonomia ma dall’altra anche terreno di coltura di devianze e delitti interfamigliari.

Paradossalmente, nell’uno e nell’altro caso, siamo ignoranti. La politica di quelli che ci piace chiamare “valori” è ignorante. Non lo è ovviamente la Lega, non lo è il centro destra e non lo è neppure il Movimento 5 Stelle. Io non so se Salvini ha studiato l’humanitas della villetta, ma certamente ha ereditato quel che la Lega storica ha sempre saputo di quel mondo. Che cosa conosca o abbia intenzione di conoscere Di Maio, non saprei.

Nei primissimi anni sessanta Truman Capote andò a Holcomb, Kansas, e mise a fuoco un mondo immenso e immensamente ignoto – a partire da un delitto, è vero, ma venne fuori un ritratto sociale delle High Wheat Plains, del Kansas rurale, ricchissimo di umanità e di sfumature (i democratici si contavano sulle dita di una mano). L’opposizione metropoli/periferie è in realtà opposizione metropoli/provincia, quella provincia lì, sempre meno ricca, sempre più inquieta, sempre più diffusa. Non vuole altra cultura che non sia quella analgesica e televisiva dei tronisti e degli chef, quella virtualmente urlata dei social, quella squisitamente razzista del “fuori il diverso” (nero o non nero non importa) che bivacca davanti alle stazioni – non certo quello che i capomastri bresciani vanno a raccogliere nei luoghi convenuti, quello che si prende cura di nonni e di disabili, quello umiliabile in termini salariali.

Ebbene mi prende la sana curiosità che si possa sapere che cosa hanno in testa quelli che non riconoscono il tratto epocale della deriva dei continenti, la necessità di assumere la povertà del mondo come tema comune, la convivenza come un destino ricco di conseguenze. Sono certissimo che di quella che chiamiamo cultura, le aree blu e gialle della mappa temono una cosa sola: la complessità. Cosa c’è mai da apprendere che non sia già saputo altrove? La tecnologia non è esposta a nessuna forma di critica che non sia quella se funziona o non funziona.

Perfino la scuola è guardata con sospetto. La cultura umanistica contemplata nei programmi del centro destra rientra nella “potenzialità del turismo”. Detto questo, la spocchia di chi ritiene di saperla lunga è finita. Per “capire” è ancora presto. È necessario uscire dalle città per cominciare a guardare. Prendere appunti. Accelerare verifiche. Meglio se in comune. Fra i nemici non ci sono solo nemici e spesso, come diceva il poeta, fra quelli dei nemici c’è anche il nostro nome.

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