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Adriana Cosseddu
Il caso serio delle bombe italiane
14 Febbraio 2018
2015-La guerra diffusa
cittànuova.it, 13 febbraio 2018. Le leggi non mancano, a partire dalla nostra Costituzione, ma continua imperterrita la violazione del diritto alla pace, intrinsecamente legato ai due diritti fondamentali: il diritto alla vita e il diritto alla libertà. (i.b.)

cittànuova.it

Siamo nel 1992 quando Norberto Bobbio, filosofo e giurista, scriveva in un “messaggio” per lungo tempo inedito: «In tutti questi anni si sono succedute sempre nuove Carte dei diritti, ma la maggior parte di questi diritti sono rimasti, letteralmente, sulla carta. A cominciare dal diritto alla pace che è strettamente legato ai due diritti fondamentali dell’uomo, il diritto alla vita e il diritto alla libertà». Così, a distanza di anni, sembra riecheggiare allora come oggi, nella sua perenne attualità, quanto scritto dai Padri costituenti nella nostra Carta costituzionale all’art. 11: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

È la ferma volontà di esprimere, anche nei confronti del mondo internazionale, la condanna e la rinuncia alla guerra, in forza di quella dichiarazione contenuta tra i Principi fondamentali della nostra Costituzione.

Guardando già allora a un futuro d’unità fra le Nazioni, anche oltre i confini dell’Europa, non si taceva dai Padri costituenti l’obiettivo di «aprire tutte le vie ad organizzare la pace e la giustizia fra tutti i popoli».

Le leggi non mancano

Sono le tante vittime di guerre taciute o dimenticate, ma alle quali il Comitato Riconversione RWM ha inteso dar voce in nome della pace e dell’umana dignità, nonostante il parere contrario di Confindustria e delle principali sigle sindacali a difesa e sostegno della piena legittimità e del diritto all’attività produttiva della fabbrica di armi in attesa di ulteriore espansione.

A livello internazionale l’Italia, fra l’altro, ha ratificato il Trattato sul commercio internazionale di armi convenzionali (Arms Trade Treaty – ATT), adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, New York, 2 aprile 2013 ed entrato in vigore il 24.12.2014. Ricordiamo che, in particolare l’art. 7, comma 7 prevede che lo Stato Parte esportatore, anche dopo la concessione dell’autorizzazione, possa venire a conoscenza di nuove informazioni rilevanti; in tal caso, lo stesso Stato sarà «incoraggiato a riesaminare» l’autorizzazione accordata.

Basta, dunque, per legittimare il commercio e l’esportazione di armamenti dall’Italia l’iniziale autorizzazione, pur prevista dalla legge 185 del ’90, se è vero che il nostro ordinamento affida proprio alle istituzioni la verifica circa il permanere delle condizioni iniziali?

Quell’autorizzazione non costituisce evidentemente un mero atto formale, ma chiede una verifica sostanziale, affinché l’attività prima consentita non incorra successivamente nei divieti espressamente previsti, che attendono il rispetto da parte di tutti, istituzioni comprese.

Le Risoluzioni europee

Non manca neanche la voce della stessa Unione Europea. Con la Risoluzione del 25 febbraio 2016sulla situazione umanitaria nello Yemen (2016/2515(RSP)) il Parlamento europeo ha chiesto espressamente «l’embargo sulle armi nei confronti dell’Arabia Saudita», sia per le gravi segnalazioni di violazione del diritto umanitario, sia per la conseguente considerazione «del fatto che il continuo rilascio di licenze di vendita di armi all’Arabia Saudita violerebbe […] la posizione comune 2008/944/PESC del Consiglio dell’8 dicembre 2008». Analogamente, la successiva Risoluzione del Parlamento europeo del 15 giugno 2017(2017/2727(RSP)).

Ma ha a che fare tutto ciò con il lavoro, diritto/dovere previsto dalla Costituzione tra i principi fondamentali? Lo è anche quel lavoro produttivo di armi, oggi rivendicato e difeso a favore di una terra certo povera, ma non di bellezze naturali, come l’Iglesiente?

Eppure oggi sempre più spesso accade di sperimentare una drammatica alternativa: tra lavoro e salute (v. caso Ilva di Taranto), o lavoro e rispetto di principi/diritti altrettanto fondanti della convivenza, quali quelli enunciati nell’art. 11 Costituzione.


Gli illegalismi legali e le radici del diritto

Dobbiamo allora essere consapevoli che per operare la riconversione di una attività produttiva occorre ancor prima togliere terreno alle armi, posto che la prima cornice di ogni attività lavorativa è la garanzia di legalità. Quest’ultima deve farsi sostanziale fino ad affermarsi come cultura della legalità per cittadini e istituzioni, e superare il rischio di ricadere in quelli che sono stati definiti “illegalismi legali”.

Ma anche la legalità, nell’ effetto ultimo di ordinare le relazioni sociali, comporta che il suo contenuto non si limiti al “non nuocere”, “non offendere”, “rispettare le norme”, ma arrivi a “guardare al bene dell’altro come al proprio”.

Se i profitti si possono sommare perché non hanno volto e non esprimono identità né storia, nell’obiettivo del bene comune non si può sacrificare il bene di qualcuno, magari distante e sconosciuto, per migliorare quello di qualcun altro, perché quel qualcuno è pur sempre una persona umana.

Una scelta che chiede il coraggio di fermarsi, perché, è il messaggio di Norberto Bobbio, «dobbiamo essere sempre più convinti che il rispetto dei diritti dell’uomo e la conservazione della pace cominciano da ciascuno di noi, singoli uomini e singole donne inermi di tutto il mondo, all’interno di ciascuno di noi, dei nostri pensieri, e delle azioni, anche se piccole, che riusciamo a far seguire con coerenza ai nostri pensieri».

È questo forse il coraggio degli ultimi e il richiamo ai potenti.

Qui l'articolo in orginale.
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