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Maria Novella De Luca
La carica dei profughi bambini che riporta in vita i piccoli borghi
1 Ottobre 2017
2017-Accoglienza Italia
la Repubblica, 30 settembre 2017 «Nell’Irpinia profonda l’arrivo dei migranti in attesa di un permesso umanitario fa riaprire le scuole e ripartire l’economia. E ora gli italiani restano nei comuni che volevano lasciare»

la Repubblica

Petruno Irpino (Avellino). «Si chiama Victory, ma per noi è Vittorio, anzi Vittò. E da quando a Petruro sono arrivati Vittò, Testimony, Marvellous, Shiv e tutti gli altri, anche noi vecchi abbiamo ricominciato a sentirci vivi, qui prima c’erano soltanto silenzio e funerali». Ubaldo Mazza, 80 anni, ex minatore, “zio Ubaldo” per tutti, una selva di capelli bianchi, gioca con Victory, nigeriano di 17 mesi, catapultato dalla vita con la mamma Precious in questo borgo dell’Irpinia arroccato tra boschi e castagneti. Strade di pietra, vento, montagne, l’odore del mosto e dell’uva. «Sapete? Andrà all’asilo. Con tutti questi nuovi bambini il Comune ha deciso di riaprirlo, qui la scuola era chiusa da vent’anni».

Victory corre, saltella, guarda zio Ubaldo e ridono come matti, il mondo — a volte — può anche essere salvato dai ragazzini, un vecchio e un bambino che sanno di essere una coppia irresistibile, testimonial, anzi, di una “integrazione possibile”. Italiani e migranti insieme in un progetto che la Caritas di Benevento ha chiamato Rete dei comuni welcome. Ossia un’alleanza basata sull’accoglienza e su un “welfare locale ad esclusione zero” che fermi l’esodo da questi piccoli paesi bellissimi ma ormai spopolati tra il Sannio e l’Irpinia, disseminati di vitigni abbandonati, campi incolti, bar deserti e nascite zero.

E dunque porte aperte ai profughi in attesa di asilo che attraverso i fondi degli Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) stanno riportando vita, nascite e reddito tra le strade deserte dei borghi. Ma anche alle famiglie italiane più fragili che qui potrebbero ritrovare migliori condizioni di vita. E bisogna addentrarsi nel silenzio di Petruro Irpino, provincia di Avellino, 210 abitanti, dove grazie a sette bambini migranti a breve riaprirà l’asilo, per assistere a un esempio di laboratorio sociale. Dove Precious, nigeriana, fa il tirocinio da parrucchiera, mentre la piccola Testimony passa le sue mattine con Teresa, ragazza italiana che le fa da baby sitter e così si paga gli studi, mentre la mamma Pamela, anche lei nigeriana, lavora in un’azienda agricola.

Nella loro lindissima casa, Rajvir Singh e la moglie Meher, afghani di religione Sikh, preparano ravioli di verdure da cuocere in un brodo speziato, in attesa che Shiv, 10 anni, torni con lo scuolabus. Perseguitati in Afghanistan perché di religione Sikh, Rajvit, Meher e Shiv portano nel cuore il dolore più grande. Racconta Marco Milano, esperto di relazioni internazionali, oggi responsabile dello Sprar: «I talebani hanno ucciso davanti ai loro occhi il fratello di Shiv, Meher non si è mai ripresa…». Per questo Rajvit vuole restare in Italia. «Qui è bello, ci sono le montagne e la terra. Posso lavorare e mio figlio può crescere nella pace». E Rajvit entrerà a far parte della cooperativa che italiani e migranti stanno per fondare recuperando terre e coltivazioni.

«Il Greco di Tufo, l’Aglianico, il Fiano, abbiamo un patrimonio di vigneti che rischiano di morire. Molti giovani di qui — dice Marco Milano — emigrati al Nord o all’estero, stanno tornando per partecipare ai progetti “welcome”. Tanto che oltre ai bambini stranieri ricominciano a nascere i figli di coppie italiane...». Ma non c’è solo Petruro Irpino. A Chianche, dove «c’erano più lampioni che abitanti», era rimasta una sola adolescente italiana, Carmela, adesso ci sono quindici rifugiati e tra poco aprirà un nuovo alimentari “etnico”.

Il cibo è memoria e gli odori che escono dalle cucine si mescolano, il riso e pollo dei migranti, i fusilli al pomodoro delle case italiane. «Favorite — dice Zi’Ngiulina — la mia porta è aperta». Carmela ha un bel sorriso: «Studio a Benevento ma qui, a casa, mi sentivo davvero sola. Adesso con le ragazze e i ragazzi migranti è tornata la vita...». A Rocca Bascerana i rifugiati sono trenta, il sindaco Roberto Del Grosso dice con chiarezza: «L’integrazione c’è stata, possiamo ospitarne altri». «Con i 35 euro al giorno destinati ai richiedenti asilo — spiega Francesco Giangregorio dello Sprar di Chianche — paghiamo i corsi, ma affittiamo anche case dai proprietari italiani. Gli ospiti, poi, con i cinque euro al giorno che vengono loro consegnati come pocket money, fanno la spesa nei negozi di qui che infatti stanno riaprendo».

Insomma una micro-economia che ricomuncia a muoversi grazie a un melting pot italiano e straniero che consuma e chiede servizi. Donne, uomini e bambini che hanno vissuto l’orrore, i lager libici, gli stupri e adesso tra questi boschi che volgono all’autunno sembrano respirare. Hayatt, etiope, bella e riservata, oggi diventata “operatrice agroalimentare”, fuggita dopo lo sterminio della sua famiglia. Mercy e Evelyn, nigeriane, scampate (forse) alla tratta. E tanti, ottenuto lo status di rifugiati scelgono di restare. Noman, ad esempio, assunto legalmente come edile alla fine del tirocinio, così come Seck, del Mali, in una ditta di compostaggio.

«Il nostro obiettivo è che restino, ripopolino i nostri comuni e si integrino in percorsi di legalità», spiega con passione Angelo Moretti, responsabile comunicazione della Caritas, cuore e anima della rete dei “Comuni Welcome”. «I grandi centri di accoglienza del Sud sono in mano alla criminalità, lo sappiamo. Nei nostri progetti gli ospiti invece devono formarsi, vivono in piccoli gruppi, i bambini vanno a scuola. E questo dà dignità. Abbiamo lavorato molto prima che i migranti arrivassero per preparare l’integrazione. Oggi raccogliamo i frutti. E anche questa economia inizialmente assistita, si sta trasformando in economia reale, con le cooperative tra italiani e migranti».

Alle 5 del pomeriggio sulla piazza di Petruro quindici bambini giocano a pallone. Italiani, afghani, nigeriani, sudamericani, ghanesi. «Goal» lo sanno dire tutti. «Quante voci — dice Zio Ubaldo — sembra di essere cinquant’anni fa...».

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