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Gilberto Pierazzuoli
Ecologia del diritto. scienza, politica, beni comuni
2 Ottobre 2017
Libri segnalati
la cittàinvisibile,1 ottobre. «Occorre cambiare la visione del mondo: si dovrebbe cioè passare da un mondo interpretato come una macchina a un mondo inteso come rete di comunità ecologiche » (c.m.c.)

la cittàinvisibile,. «

Fritjof Capra – Ugo Mattei, Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Aboca, Arezzo 2017.

Questo è il terzo libro dell’insieme proposto come documentazione sulla “ecologia politica”. ( i primi due sono .: Déborah Danowski – Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle Paure della fine, Nottetempo, Milano 2017; Philippe Pignarre – Isabelle Stengers, Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio, Ipoc, Milano 2016).

Come potete vedere, siamo ancora di fronte a una coppia di autori: Fritjof Capra e Ugo Mattei. Il primo (fisico e teorico dei sistemi) è, tra le altre cose, il direttore e fondatore del Centro per L’Ecoalfabetizzazione di Berkeley; in Italia è conosciuto per essere l’autore del testo “Il Tao della fisica” edito da Adelphi. Ugo Mattei è professore ordinario di Diritto civile all’’Università di Torino e ricopre la cattedra Alfred and Hanna Fromm di International and Comparative Law allo Hasting College of the Law dell’Università della California. È stato Vicepresidente della Commissione Rodotà presso il Ministero della Giustizia; Presidente dell’acquedotto di Napoli (Arin SPA poi trasformata in ABC); Consigliere di Amministrazione del Manifesto dal 2011 al 2013. Dal 2014 al 2015, Vicesindaco di Chieri presso Torino dove ha organizzato la prima edizione di AREA, Festival Internazionale dei Beni Comuni.

Il senso di questo connubio risiede in una constatazione: se nel campo scientifico si è assistito ad un cambio di paradigma passando da uno di tipo meccanicistico ad uno di tipo sistemico, nell’economia e nel diritto facciamo invece ancora riferimento al primo e cioè a quello meccanicistico con una serie di conseguenze divenute sempre più disastrose dal punto di vista dell’ecologia della terra.

Occorre cambiare la visione del mondo: si dovrebbe cioè passare da un mondo interpretato come una macchina a un mondo inteso come rete di comunità ecologiche in quanto la natura sostiene la rete della vita attraverso dei principi generativi e non estrattivi. Il nodo fondamentale da dover mettere in discussione è dunque quello di una visione della natura dalla quale possiamo prelevare (predare) all’infinito, una natura che ci è perciò totalmente esterna.

Un paradigma che propugna il dominio dell’uomo sulla natura postulando il concetto di “leggi della natura” che sarebbero quindi perfettamente oggettive e stabili nel tempo, postulando anche un approccio di tipo razionalistico e atomistico non solo della realtà, ma della società stessa. Tutto questo diviene, dal punto di vista giuridico, una definizione della società come un aggregato di individui distinti e la proprietà un diritto individuale garantito dallo stato. Secondo gli autori, proprietà e sovranità sono i due concetti intorno ai quali si organizza tutta la visione moderna del diritto.

In questo senso il modo di produzione capitalista ha provocato una deriva storica fondamentale per la quale si è passati da una situazione di abbondanza dei beni comuni e scarsità di capitali a quella odierna per la quale si ha un eccesso di capitale e una carenza di beni comuni, situazione questa che si specchia in una società nella quale si muovono comunità a bassissimo grado di coesione. Tutto questo è un fatto di tipo culturale anche se, all’opposto, viene letto come naturale anche se priva del potere le persone. I punti fermi del paradigma attuale sono quelli che ruotano intorno a pochi concetti: «sulla sovranità dello stato e sulla proprietà privata alimentata dal denaro (in sé un’astrazione giuridica concentrata nelle mani di grandi gruppi bancari)». Situazione questa che ha provocato guadagni enormi per pochi a scapito dell’ambiente e delle comunità locali.

L’auspicato cambio di paradigma giuridico dovrà insistere sull’impellenza di una visione relazionale da dover essere istituzionalizzata in coerenza con i principi che sostengono la vita in questo pianeta. Il presupposto che la natura disponga di risorse infinite è giunto al capolinea, facendo emergere domande sempre più stringenti sui modi di rapportarsi con la natura stessa mettendo in campo un atteggiamento che sia totalmente sostenibile.

Gli autori affrontano la problematica di una documentazione storica delle trasformazioni ideologiche che hanno portato ad abbracciare una chiave di lettura della realtà di tipo meccanicistico a partire prima dalla scienza per la quale con Galileo Galilei si è privilegiata la quantificazione spesso a scapito di elementi qualitativi; con Cartesio una visione del mondo materiale funzionante in modo simile ad una macchina per di più esterna alla mente – con il diritto che diviene una infrastruttura “oggettiva” separata dall’individuo – sino alla visione atomistica messa in campo da Locke.

E se sovranità dello stato e proprietà privata individuale furono i pilastri della modernità giuridica il merito andrebbe di nuovo a Locke questa volta in compagnia di Hobbes, in una operazione parallela che accompagna, portando a compimento, una delle principali fasi di accumulo del capitale. Intorno ai secoli XVI e XVII si attua così la piena convergenza tra scienza, diritto e economia intorno appunto ad alcuni concetti di cui abbiamo appena parlato.

Siamo di fronte a un mondo caratterizzato da abbondanti risorse comuni come foreste o risorse ittiche, alle quali fanno riscontro altrettante istituzioni comunitarie quali, per esempio, le gilde professionali. «Istituti quali la proprietà privata individuale, le società per azioni e gli stati sovrani, nonché la libertà contrattuale in generale e la responsabilità per colpa, furono creati per trasformare alcuni beni comuni in concentrazioni di capitale. […] Il diritto è divenuto uno strumento del dominio dell’uomo sulla natura» (p. 31). Il meccanismo sotteso a tutta questa serie di operazioni era connesso ad una lettura per la quale le altre creature sarebbero vissute in uno “stato di Natura”, cosa che non competeva agli umani che non facevano parte della stessa categoria.

È in questo contesto che si afferma il concetto della libertà di mercato che si articola con la costituzione dello stato che funziona come elemento regolatore in una equazione a somma zero tra i due fattori. Questa contingenza è, addirittura, ritenuta una legge di natura. Da ora in poi la visione economica sarà una visione distorta, di breve termine, lineare, riduzionistica e quantitativa. L’idea stessa di sviluppo è di tipo quantitativo e fa riferimento al concetto di “miglioramento” che risale anch’esso al XVII secolo. Stato e mercato sono elementi derivati del diritto creato dagli uomini (la specie umana), ma appaiono come elementi naturali.

Negli ultimi trentanni, in ambito scientifico, si è cominciato a imporre un paradigma completamente diverso di tipo olistico e relazionale. Il mondo non si interpreta né si rappresenta come una macchina bensì come una rete. In questo ambito la comprensione della vita avviene tramite relazioni e modelli: occorre pensare per sistemi, occorre un approccio di tipo sistemico attraverso i quali la vita è sostenuta attraverso processi di tipo generativo e non estrattivo. L’intero pianeta è un sistema complesso in grado però di autoregolarsi e di comportarsi di fatto come un essere vivente. Il meccanicismo applicato all’evoluzione ci aveva restituito una natura in perenne lotta competitiva per l’esistenza, nascondendo così quegli elementi dimostratisi trainanti, quali la creatività e il costante emergere della novità.

Anche se il pensiero sistemico è in questo momento la punta più avanzata della ricerca scientifica, l’ambito economico giuridico è invece solidamente ancorato al pensiero meccanicistico che ci restituisce una visione della realtà a corto raggio «incentrata sull’individuo, proprietario astratto e atomizzato. Questo “atomo” può godere del diritto individuale di proprietà della Terra, estraendo valore dai beni comuni a scapito degli altri» (p. 37). Il diritto non è un corpo avulso e preesistente dai comportamenti che esso regola, il diritto dovrebbe essere sempre un processo di “commoning”.

Gli elementi costitutivi del diritto saranno allora i beni comuni all’interno di una rete relazionale e non i singoli individui. Se la scienza di avanguardia ha ormai abbracciato un modo di pensare sistemico, il modo di pensare “meccanico” è ancora, nel pensiero comune, il modo giusto di pensare, dimenticandosi che la scienza tutta, opera per modelli cambiandoli e adeguandoli, costruendoli cioè intorno a ipotesi interpretative dei fenomeni, spesso pensando che detti fenomeni si manifestino in termini puri e non comunicanti. In realtà tutti i fenomeni naturali sono interconnessi e le loro proprietà non sono loro intrinseche, ma derivano dal rapporto dei singoli fenomeni con gli altri. Anche parlare di singolo fenomeno sarebbe in definitiva una astrazione.

Il pensiero occidentale, in termini scientifici, evolve da una visione per la quale tutte le parti della natura interagivano tra di loro in vista di una finalità immanente alle stesse (teleologia), a una per la quale occorre occuparsi soltanto delle cose quantificabili, con l’obiettivo di un sapere utile per dominare e controllare la natura dalla quale si estraggono oltre che alle risorse le cosiddette “leggi naturali” che sono oggettive e persistenti e non dipendono dall’osservatore. Credenza assoluta era che un qualsiasi fenomeno complesso potesse essere spiegato riducendolo alle più piccole parti che lo compongono. Percorso questo che, nello stesso tempo, fa anche il pensiero giuridico che si sposta da un terreno consuetudinario ad uno promulgato e codificato, creando di pari passo gli esperti ai quali viene delegato lo sviluppo e l’interpretazione delle leggi che si sovrappongono al sapere frutto dei comportamenti reciproci che la comunità aveva intessuto. Relazioni per le quali le decisioni venivano prese in vista di quelle ulteriori che si potevano intraprendere in un ipotetico futuro e proiettate verso il bene comune.

Qui la connessione con la proprietà privata individuale diventa pregnante con un procedimento apparentemente sottile. Privata poteva essere quella proprietà che non apparteneva a nessuno (res nullius) – tutto quanto poteva appartenere a qualcuno, ma non lo era – da non confondersi con le cose appartenenti a tutti (res communes) come l’acqua, l’aria, oppure il mare; e con le cose appartenenti alla città (res publicae). Ma tutto questo non era ben distinto, in maniera tale che le terre bene comune intorno alle città poterono essere progressivamente privatizzate da grandi aziende agricole schiavistiche. Il concetto di res nullius distinto da res communes permette questa appropriazione. In questo gioco delle parti, «al fine di legittimare l’appropriazione di terreni, schiavi e risorse, ben presto si affermò l’idea che la terra senza un privato proprietario non appartenesse a nessuno, piuttosto che essere di tutti» (p. 108). In questo contesto si innestano le polemiche sulle enclosures che segneranno la trasformazione del paesaggio agrario dell’Europa, e dell’Inghilterra in particolare, dove il bisogno di recintare i pascoli per la produzione di lana da lavorare nelle prime fabbriche, sottrae ai contadini le terre comuni, convertendo gli stessi a lavoratori salariati o a esercito di riserva della forza lavoro in favore del capitale nascente.

Rivoluzione completata e totale sincronia tra concezione scientifica e diritto e economia. Ma lungo il percorso dello sviluppo dei modelli scientifici di descrizione dei fenomeni fisici ed organici, ad un certo punto, si presenta un paradosso. Per il secondo principio della termodinamica, in un sistema isolato l’entropia (la misura del disordine) non decresce nel tempo. I processi fisici, cioè, si svolgono in una sola direzione, dall’ordine al disordine. Questo presuppone un universo che si muove verso un disordine crescente, mentre le osservazioni evoluzionistiche nell’ambito della biologia ci restituivano sistemi sempre più ordinati e complessi.

Ilya Prigogine si rese conto che la seconda legge si riferiva a sistemi chiusi mentre i sistemi biologici sono sempre aperti a flussi di energia e materia. Nel mondo vivente ordine e disordine si creano nello stesso tempo. Si crea allora una prima scollatura con la visione meccanicistica della realtà che trova il suo compimento in alcuni elementi della meccanica quantistica in cui compaiono elementi di relazione e di relazione di relazioni. In biologia si afferma che gli organismi viventi sono realtà complesse non comprensibili tramite il solo studio delle loro parti e derivano il loro comportamento dalle interazioni e relazioni tra le parti stesse. Si va dunque dagli oggetti alle relazioni sconvolgendo così il paradigma dominante. Proseguendo nella ricerca emergono concetti quali reti e flussi, sistemi non lineari. Sempre Prigogine parla poi di “strutture dissipative”, un apparente ossimoro che comunque sottolinea che stabilità e mutamento di fatto coesistono tanto che «la creatività – cioè la generazione di nuove forme – è una proprietà chiave di tutti i sistemi viventi» (p. 131).

Ci si aspetterebbe, a questo punto, un adeguamento paradigmatico del diritto alla nuova visione sistemica e reticolare, ma l’impostazione meccanicistica è di fatto profondamente correlata al modo di produzione capitalista al quale rende un servizio prezioso. Il diritto si professionalizza eliminando così ogni possibile residuo che faccia riferimento a elementi consuetudinari provenienti dal basso, producendo l’esproprio di un “bene comune” importante, quello del proprio ordine giuridico. Questo ha fatto sì che l’accessibilità al diritto stesso è diventata una prerogativa di quegli stessi professionisti, tanto che, per assurdo, non possiamo sapere «veramente dove si trovi il diritto in un momento dato, se non quando lo cogliamo mediante una decisione [nel momento in cui una delle persone addette ai lavori lo coglie]» (p. 164). L’assurdo sta nel fatto che l’esito di un conflitto legale non è così determinabile con certezza come afferma la visione meccanicistica.

Cosa si dovrebbe fare? I nostri autori cercano e propongono delle risposte: «separare il diritto dal potere e dalla violenza, far diventare le comunità sovrane e rendere la proprietà generativa» (p. 167). Il diritto dovrebbe essere, per esempio, considerato un processo continuamente negoziato di creazione di connessioni culturali. Fare poi resistenza con il boicottaggio e l’elaborazione di nuove dottrine della responsabilità. Lottare contro la proprietà intellettuale. Recupero dei beni in degrado anche tramite strutture giuridiche quali i community land trust: «Il diritto di proprietà può essere strutturato in maniera tale per cui i proprietari assenteisti perdano i propri diritti a favore di occupanti che coltivino attivamente la terra» (p. 176). Invertire certi assunti dichiarando che lo stato è una istituzione legittima nella misura per la quale è in grado di proteggere la comunità dall’uso estrattivo della proprietà privata. La comunità dovrebbe essere sovrana ed essa potrà riconoscere anche la proprietà privata purché essa sia di tipo generativo come il permettere l’uso individuale di una abitazione a persone a basso reddito.

È in gioco di nuovo un dispositivo del consenso basato su crescita, innovazione, modernizzazione e, non ultimo, se non correlato, che la ricchezza è misurabile soltanto attraverso il denaro. Per questo si accetta di lavorare “sodo” e vendere il proprio tempo per ottenere un salario con il quale partecipare ai processi di accumulo e di consumo. «Secondo tale concezione, per esempio, il lavoro domestico di cura dei bambini e degli anziani o la produzione del proprio cibo, la realizzazione artigianale dell’abbigliamento o la costruzione del proprio tetto non contano come produzione, non creano ricchezza né contribuiscono al prodotto interno lordo, poiché si verificano al di fuori di una transazione di mercato» (p. 212). Tradotto in altri termini si ha che anche il lavoro di riproduzione fa parte dell’appropriazione capitalistica la cui eventuale carenza (di detto lavoro), derivata dallo smantellamento di beni comuni quali gli elementi di relazione e solidarietà comunitaria, diventa un’occasione in più per il capitale per poterlo mettere sul mercato come servizio dal quale riuscire ad estrarre ancora profitto.

La natura si è evoluta secondo principi volti a sostenere la rete della vita ed erano queste le leggi di natura. Tali principi, formulati oggi in termini di modelli e processi sono «altrettanto rigorosi quanto le newtoniane leggi di gravità» (p. 220). Il diritto derivato da questo cambio di paradigma potrà allora, per esempio, mettere in discussione la stipula di alcune tipologie di contratti «quali molti degli attuali accordi di project financing […] [che] saranno considerati illegali e dichiarati privi di forza esecutiva dai tribunali» (p. 231).

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