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Paolo Baldeschi
Democrazia Tecnocrazia Castocrazia
29 Ottobre 2017
Democrazia
La democrazia non è il popolo che deve decidere. “La sovranità è affidata a pochi che operano e decidono nell’interesse dei molti”.
La democrazia non è il popolo che deve decidere. “La sovranità è affidata a pochi che operano e decidono nell’interesse dei molti”.

(segue)

La democrazia non è il popolo che deve decidere. “la sovranità è affidata a pochi che operano e decidono nell’interesse dei molti”. Così Eugenio Scalfari su la Repubblica del 15 ottobre, aggiungendo che nessuno in Italia, purtroppo, la pensa come lui. Rassicuriamo Scalfari: se in Italia coloro che la pensano come lui non osano manifestarsi, in campo internazionale questa idea trova molti proseliti tra sociologi, economisti e politologi: viene chiamata “tecnocrazia” e non è molto diversa dall’aristocrazia, il governo dei filosofi-guardiani teorizzato da Platone, a parte il non trascurabile particolare di essere iscritta nel capitalismo finanziario. In questa linea, La rinascita delle città stato, libro dello stratega geopolitico Parag Khanna, il cui titolo originale, più esplicativo, è Technocracy in America.

Sostiene l’autore che la democrazia è un sistema politico datato, ormai del tutto inefficiente per affrontare le sfide del mondo contemporaneo. Propone, quindi, che al posto di una sgangherata democrazia subentri la “tecnocrazia”, una post democrazia che “ha la virtù di essere sia utilitarista (nel senso di cercare il massimo vantaggio inclusivo per la società) che meritocratica”. Segue un elenco dei vantaggi della tecnocrazia che “diventa una forma di salvezza dopo che una società si rende conto che la democrazia non garantisce il successo di un paese”. Tecnocrazia il cui verticismo dovrebbe essere temperato da un continuo feedback da parte dei cittadini, mediante referendum o altre forme di consultazione.

Ma quale è il significato di tecnocrazia? L’autore oscilla tra un’accezione minimale, un efficiente apparato amministrativo e burocratico al servizio della politica - ma questa non è tecnocrazia - e un significato pieno, come potere conferito e amministrato da tecnici. Esempio del primo significato è la Svizzera, citata come paese modello, mentre il secondo si materializza nella “città-stato” di Singapore, dove si è consolidata una vera tecnocrazia, ciò che implica un partito unico e un governo che si tramanda da padre in figlio.

Quattro sono le principali obiezioni che si possono opporre al politologo indiano. La prima è che non è chiaro il processo di selezione dei tecnocrati. Bene la meritocrazia, ma chi gestisce il tutto? La seconda è che ogni forma di potere tende ad autoperpetuarsi: obiettivo ultimo del potere è il potere stesso, a prescindere dalle buone intenzioni e dagli obiettivi iniziali - lo stanno a dimostrare, nella storia, le innumerevoli tecnocrazie militari che si sono trasformate in dittature. La terza obiezione è che la tecnocrazia di Parag Khanna, definita come “un governo efficiente al servizio dei cittadini”, trascura il fatto che nel mondo capitalistico i cittadini non sono un’entità omogenea, tanto più nella società americana in cui le differenze di censo e di opportunità sono gigantesche e tendono ad approfondirsi: al servizio dei cittadini o del popolo è uno slogan che occulta ogni differenza di classe o di luogo. Infine, il libro ignora completamene lo sfondo in cui opera qualsiasi governo - democratico o tecnocratico che sia - la globalizzazione del capitalismo finanziario che ha indebolito i poteri economici degli stati e ora ne sta assumendo altri, come quelli giudiziari nelle controversie sui grandi trattati commerciali.

Il tutto in una visione del mondo che assegna a ogni stato il compito di combattere una tenzone mondiale per attrarre nel proprio territorio più investimenti finanziari possibili a scapito dei concorrenti. Si capisce perciò che il paese scelto come modello dall’autore sia la “città stato” di Singapore (qui le dimensioni ridotte giocano un ruolo a favore) dove in pochi decenni una nazione arretrata si è trasformata nel paradigma di “tecnocrazia diretta” di maggior successo; dove il primo ministro Lee Kuan Yew, morto nel 2015 con successione filiale, ha “deciso di plasmare la pianificazione strategica sul modello Shell” (si spera senza ripeterne i disastri ambientali) e affida il surplus di bilancio a un proprio fondo sovrano. In linea, anche l’ammirazione per il capitalismo statale del regime cinese, regolato da un governo tecno-politico senza democrazia, mentre appare del tutto fuori luogo il riferimento alla Svizzera.

Libro allora da buttare? Tutt’altro, per almeno tre buoni motivi. Il primo è l’analisi dei guasti e delle degenerazioni della democrazia americana, documentata dettagliatamente e spietatamente. L’autore ne lamenta corruzione e inefficienza, noi lamentiamo che questa democrazia ha portato all’elezione presidenziale di Donald Trump e a un’accelerazione verso i più grandi disastri ecologici e sociali, oltre che verso la guerra. Il secondo motivo che ci riguarda da vicino è la strategia seguita da Singapore per vincere la battaglia nella concorrenza mondiale del capitale. Il maggiore investimento di Singapore è nel capitale umano, sia mettendo a disposizione degli studenti più bravi migliaia di ricche borse di studio per frequentare quotate università straniere, sia attirando i migliori esperti nei rami delle comunicazioni e delle tecnologie avanzate: l’istruzione è la priorità nazionale. Il terzo motivo è la profonda conoscenza di cosa significhi una governance efficiente (che non postula necessariamente una tecnocrazia) in una competizione in cui entrano in sinergia le risorse e il know how del capitalismo più avanzato con apparati amministrativi ben preparati. Una illustrazione che consente di misurare tutta l ‘arretratezza culturale della nostra classe dirigente, pervicacemente ancorata alle grandi opere infrastrutturali come motori di uno sviluppo vecchio di trenta anni.

In sintesi: democrazia in dosi minimali e consenso affidato a ricorrenti consultazioni, piani strategici proiettati nel futuro e non di corto respiro, enormi investimenti nel capitale umano. Ma tutto ciò si può fare anche in un regime democratico? La tesi dell’autore, che qui si rivolge soprattutto alla democrazia statunitense, è che la concorrenza elettorale, sempre più condizionata dai finanziatori che a loro volta condizioneranno le future scelte politiche, porti in sé i germi di un progressivo decadimento delle forme di governo: negli accordi sottobanco, nei veti strumentali, nelle spese inutili, in un mix di inefficienza e corruzione. L’alternativa, se non si vuole l’uomo forte, è una governance tecnocratica in cui la democrazia si esplichi in forme di consultazione e di costruzione di consenso on line (notiamo per inciso che questa è la scelta inconsapevole del movimento 5 stelle quando pensa a un governo di tecnici votato via internet).

Noi, in Italia, abbiamo tecnocrati che hanno dato pessima prova di sé. Per fortuna ci teniamo la nostra democrazia ammaccata, anche se tutte le recenti disposizioni legislative sono mirate a ridurre la sovranità del popolo, valga la recentissima legge elettorale. Abbiamo un parlamento inefficiente e espropriato delle proprie funzioni. Investiamo in ricerca, istruzione, università, preparazione dei giovani e dei licenziati, meno della metà degli altri paesi europei e una frazione rispetto a Singapore, fatte le debite proporzioni. Siamo governati non da una “tecnocrazia”, ma da una “castocrazia”, fatta da politici attenti solo a carriera e privilegi, da lobbisti spregiudicati quando non corruttori, da anziani banchieri e da costruttori garantiti dallo stato (a favore delle banche e qui il cerchio si chiude). Ovvio che la “castocrazia” italiana, non sappia disegnare altri orizzonti di sviluppo se non quello delle infrastrutture inutili o dannose, il cemento al posto del cervello. E poiché tutto questo ha un costo, i politici continuano a mettere sul tavolo un patrimonio che non è loro, ma di tutti: territorio, ambiente, paesaggio.

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