loader
menu
© 2024 Eddyburg
Paolo Lambruschi
Jus culturae, non è Jus soli
18 Settembre 2017
de homine
Avvenire, 17 settembre 2017. In difesa del diritto a essere considerati cittadini del luogo dove si è nati. Una legge che sarebbe almeno un primo passo nella direzione giusta. Ma il cammino per l'uguaglianza dei diritti è ancora lungo. Articoli di Marco Tarquinio e Paolo Lambruschi, con postilla

Avvenire,

IUS CULTURAE,
CREDERE NELL'ITALIA E NEI SUOI FIGLI.
DIAMO UNA LEGGE A PRESENTE E FUTURO
di Marco Tarquinio

Chi e perché vuol mettere paura agli italiani? Chi e perché prova in tutti i modi a istillarci l’idea che la nostra civiltà non sia più buona né “contagiosa”? Chi e perché vuol farci vivere nella chiusura e nella grettezza, in modo da non generare più figli, né dai nostri lombi né grazie alla nostra cultura e al nostro spirito? Chi vuol convincerci che la cittadinanza sia un immeritato stato di grazia, ereditato come una cosa, e non una conquista e riconquista, fatta di diritti e doveri onorevoli e onorati? La lista potrebbe essere lunga. Ma qui, oggi, comincia e finisce con coloro che avversano la nuova legge sulla cittadinanza, già votata alla Camera e ferma al Senato. E dibattono non per migliorarne questa o quella previsione, ma per impedire del tutto la normativa sullo ius culturae e sullo ius soli temperato (nessuno, cioè, diventerebbe mai italiano per il solo fatto di nascere nel Bel Paese…). Una battaglia condotta, purtroppo, per calcolo politicante, con manifestazioni di aperta xenofobia e rimettendo in circolo pregiudizi colmi di vergognoso e sempre meno celato razzismo.

Eppure quanti sono nati in Italia o in Italia sono arrivati da bambini e pensano e parlano italiano, coloro che crescono e studiano qui, condividendo la nostra cultura e le nostre regole di cittadinanza, assimilando i nostri costumi, e appartengono a famiglie di origine straniera ma residenti in questo nostro Paese con permesso permanente o di lungo periodo (e, dunque, sono figli di persone che qui lavorano, pagano tasse e contributi, e non hanno guai con la giustizia) non sono candidati all’italianità, sono già italiani. Non si tratta di concedere nulla, e tantomeno di regalare qualcosa. Si tratta di riconoscere per legge una realtà, vera, importante e buona. Si tratta di rendersi conto che mantenere in una sorta di limbo un bel pezzo della generazione dei nostri figli è un atto di cecità e di ingiustizia. E che farlo per presunto calcolo politico-elettorale è una piccineria umana, una miseria morale e, insieme, una scelta pratica imprevidente e imprudente.

Lungo questa estate 2017, dopo l’editoriale del 17 luglio scorso intitolato «Questa legge s’ha da fare», dedicato appunto allo ius culturae, questo giornale ha dato il via a una campagna informativa semplice e rigorosa. Mentre tanti politici – e purtroppo anche non pochi (dis)informatori – hanno continuato a diffondere slogan e favole cattive contro i nuovi italiani, noi invece abbiamo dato loro volto, pubblicando ogni giorno per due mesi quelle che, in dialogo con alcuni lettori, ho definito «parole di carne e sangue, di anima e di cuore, di sudore e di intelligenza». Non pure opinioni, ma storie di vita. E cioè attese e speranze, fatiche e impacci, traguardi e ricominciamenti di giovani che sono italiani non per tradizione, ma per formazione, per adesione, per maturata convinzione. Persone con radici familiari, culturali e religiose in Asia, in America, in Africa o in altre porzioni d’Europa eppure partecipi della nostra cultura, perché la vivono e le vivono dentro. Non sono tutti uguali, non tutto è sempre lineare nelle loro vicende, non sono perfetti, ma sono persone perbene come, fino a prova contraria, ogni altro figlio di questa terra e della civiltà dell’incontro che la fa speciale da secoli, anche grazie alla sua sinora aperta e salda identità cristiana.

Sono loro, guardateli, su questa prima pagina piena di facce pulite e vere. Sono loro, anche se qualcuno quelle facce continua a scarabocchiarle e distorcerle per trasformarle in quelle di orchi e mostri e terroristi (che esistono anche nella realtà, ma non sono tutta la realtà). E sono proprio loro a essere tenuti nel limbo di una non riconosciuta cittadinanza – cioè di un non pieno e giusto equilibrio tra diritti e doveri nel far parte di una comunità civile dentro la misura delle sue leggi. Guardateli bene, sono loro. E, nonostante qualcuno – mentendo – gridi il contrario, non sono affatto i migranti dell’ultimo approdo dal mare sulle nostre coste, uomini e donne che portano un’altra croce e ben diverse domande di solidarietà e di giustizia.

Guardateli ancora, sono loro quelli e quelle a cui si vorrebbe dire, e già si dice: “No, tu non sei dei nostri, non ti conosco e non voglio riconoscerti”. Oppure e, per certi versi, è quasi peggio: “Sei dei nostri, è vero; ma non è l’ora di dichiararlo, perché più della tua vita mi interessano le percezioni di altri che di te non si fidano per via della tua pelle, per il Paese dei tuoi genitori o nonni, per la tua maniera di pregare…”. Atteggiamenti e propagande sprezzanti che umiliano la loro italianità, e il legittimo sentimento di appartenenza che ne discende, e che sembrano “strillati” apposta per generare in vecchi e nuovi italiani quei reciproci sentimenti di esclusione e di estraneità che portano a speculari ri-sentimenti. Sguardi cattivi e atti di respingimento e marginalizzazione non generano altro che sofferenza e ostilità, picconano ogni patto civile, minano la solidarietà. Un’imprevidenza incredibile, un’imprudenza grave.

Eppure i nuovi italiani sono e restano parte integrante di una generazione di giovani concittadini che non possiamo permetterci di perdere e disperdere. Sono parte integrante di un patrimonio di umanità, una ricchezza d’Italia. Dipende da noi, anche con una legge giusta e finalmente tempestiva, farli essere e sentire continuatori e interpreti del nostro grande passato e protagonisti del presente e del futuro comuni. Insieme.

JUS CULTURAE. FALSE CREDENZE
E SPECULAZIONI PER FERMARE
LA RIFORMA ATTESA
di Paolo Lambruschi

Le fake news, hanno inquinato anche il dibattito sulla riforma della cittadinanza sulla stampa, in tv e sui social media mescolando i piani. Proviamo a vederne alcune.

Effetto calamita. È stato detto che la legge in discussione – che prevede l’introduzione dello ius soli temperato e dello ius culturae – qualora approvata provocherebbe un aumento degli sbarchi attirando torme di disperati e soprattutto di donne in procinto di partorire. Ma la legge arenatasi al Senato non prevede alcun diritto incondizionato alla cittadinanza a chi nasce sul suolo italiano. Colpa in verità anche della politica e di chi abbrevia il dispositivo chiamandolo ius soli come se questo fosse "puro", all’americana. La riforma prevede invece che vi sia uno ius soli temperato applicato a chi nasce in Italia figlio di almeno un genitore regolarmente residente e con permesso di soggiorno di lungo periodo (in Italia da almeno 5 anni). Lo ius culturae inoltre assegna la cittadinanza ai minori non nati in Italia, ma che vi sono arrivati entro i 12 anni di età a patto che vi compiano un intero ciclo di studi e almeno cinque anni sui banchi di scuola. Il provvedimento riguarda l’immigrazione stabile, regolare e stabilizzata. Restano esclusi quindi i richiedenti asilo e protezione umanitaria e chi ha un soggiorno di breve periodo.

Italiani veri mai. Tradotto Il senso è: essere figli di regolari lungo soggiornanti e compiere un ciclo scolastico non basta a rendere cittadini. Questo significa mettere in discussione anzitutto la scuola che non sarebbe in grado di integrare i nuovi arrivati insegnando loro i valori della Costituzione. La realtà di tutti i giorni pare ben diversa. E tra i Paesi europei partner e concorrenti le regole non sono più severe. In Francia, che adotta lo ius soli, ogni bambino nato sul territorio da genitori stranieri diventa francese al compimento di 18 anni se ha vissuto stabilmente nel Paese per almeno 5 anni e se dimostra di condividerne cultura e valori. In Germania diventa cittadino senza presentare domanda chi vi nasce a patto che almeno uno dei genitori risieda regolarmente nel Paese da minimo 8 anni. In Spagna, paladina dello ius sanguinis, per diventare suddito di re Felipe a chi vi nasce, se figlio di stranieri, occorrono dieci anni di residenza.

Sicurezza in pericolo. I cani sciolti dello stato islamico che hanno colpito in Europa in questi ultimi anni erano spesso immigrati di seconda generazione divenuti cittadini. Ma stiamo parlando di Paesi con un passato coloniale ben più lungo e articolato del nostro e quindi con rapporti diversi con un’immigrazione molto più vecchia e che hanno scelto modalità evidentemente sbagliate di integrazione lasciando crescere ghetti fuori controllo sorti nei decenni scorsi. Il problema è il legame tra terrorismo e mancata integrazione, la cittadinanza non c’entra.

Neo italiani in massa. Ci sarà un impatto, ma in prospettiva. Il provvedimento riguarda potenzialmente circa 800mila persone, dei quali 600mila circa alunni delle scuole italiane. Poi, secondo l’elaborazione della Fondazione Leone Moressa su dati Istat e Miur, saranno naturalizzati quasi 60mila nuovi italiani ogni anno. Diventerà italiano un minore su otto. Per contro la popolazione residente attesa per l’Italia secondo previsioni Istat calerà di 2,1 milioni di residenti nel 2045 e di 7 milioni nel 2065. Quadro che avrebbe parziale sollievo dalle naturalizzazioni e da altre migrazioni.

Invasione islamica. Sempre la laicissima Fondazione Moressa stima che due nuovi italiani su tre saranno cristiani.

Cittadinanza obbligata. L’acquisto della cittadinanza italiana continuerà a non essere automatico, ma a realizzarsi con una dichiarazione di volontà espressa o da parte di un genitore entro il compimento della maggiore età o dallo stesso soggetto entro i 20 anni. Il giovane può dunque rinunciarvi.

La riforma non cambia nulla. Le storie che abbiamo raccontato in questi ultimi due mesi rivelano che in molti casi invece la burocrazia italiana e quella del Paese di origine ostacolano l’iter per presentare la domanda in tempi utili e rallentano la risposta. Se la riforma muore, i semi-cittadini continueranno a restare in un inutile limbo.


Siamo ancora ben lontani dal riconoscere a chi è nato in un sito di avere in quel sito la propria patria, e godere degli stessi diritti degli altri. Siamo ben lontani dal riconoscere la diversità delle culture una ricchezza. Per godere della legge occorre soddisfare una serie di condizioni che a me, a te, a lui e a lei che siamo nati e registrati qui non sono richiesti. Se si è stranieri (cioè nati da genitori non italiani) bisogna aver frequentato per almeno 5 anni una scuola italiana. Devi essere stato promosso. La domanda deve essere presentata d un genitore che non sia un “clandestino” né un senza casa.

ARTICOLI CORRELATI
20 Aprile 2018

© 2024 Eddyburg