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Filippomaria Pontani
Iran, il regime sciita travestito da agnello
28 Agosto 2017
Articoli del 2017
«Il Paese, che negli ultimi anni ha sempre esercitato potere e influenza oltre i confini, continua a essere oscurantista ed epurare chiunque dissenta».
«Il Paese, che negli ultimi anni ha sempre esercitato potere e influenza oltre i confini, continua a essere oscurantista ed epurare chiunque dissenta».

il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2017 (p.d.)

Ciò che più colpisce nell’immenso palazzo di re Dario a Persepoli (V sec. a.C.) è la scalinata d’accesso: i gradini bassissimi, del tutto incongrui in rapporto a tanta magnificenza, furono voluti dal re – pare – affinché i dignitari e i sovrani in visita, impacciati da vesti e paramenti, non avessero a fare capitomboli.

Evidentemente immemore di tale insegnamento, così come dell’attenta politica di apertura varata da Barack Obama, la diplomazia americana fa oggi il passo più lungo della gamba, e minaccia l’Iran di nuove sanzioni in virtù di presunte violazioni dell’accordo sul nucleare raggiunto a Ginevra nel 2015: un accordo, comunque la si pensi, vitale per la stabilità della regione. Tassello essenziale della retorica incendiaria di Donald Trump, rinterzata per l’occasione dai timori dell’anziano Henry Kissinger circa il sorgere di un “nuovo impero persiano” dopo la sconfitta dell’Isis, l’attacco a Teheran appare quanto meno temerario, e non meno scomposto della recente messa al bando del Qatar (accusato di collusione proprio con l’Iran) da parte di vari Paesi del Golfo all’indomani della visita dello stesso Trump in Arabia Saudita.

L’attacco sul nucleare – preludio per molti a escalation di tipo coreano, specie dopo il Muslim ban – segue infatti l’insediamento del nuovo governo del rieletto presidente Rohani, un esecutivo moderato e di sostanziale continuità, tristemente privo di donne (salvo le tre vicepresidenti), e determinato a proseguire l’alleanza strategica con Russia e Turchia, che in questi giorni d’agosto ha già sfornato accordi miliardari per trivellazioni nel Caspio, colloqui bilaterali (e riservati) tra capi di Stato maggiore, e forti iniziative diplomatiche per risolvere la crisi yemenita e quella siriana (i proficui colloqui di Astana).

Se l’Europa, anche per i propri interessi energetici, appare più prudente (la recente, fortunata visita di Federica Mogherini al Parlamento di Teheran è culminata in un’imbarazzante gara dei deputati a farsi un selfie con la bionda lady Pesc (gli ayatollah non hanno gradito), gli Stati Uniti sembrano non aver inteso che la faccia feroce contro il regime iraniano può rivelarsi in realtà la strada migliore per rafforzarlo, indebolendo la crescente insofferenza interna in virtù dell’unità nazionale e dell’antiamericanismo diffuso. Nessuno qui ha dimenticato che fu la Cia – di concerto con gli ayatollah più retrivi – a rovesciare nel 1953 il governo più progressista e modernizzatore del secolo, quello di Mohammad Mossadegh, reo di voler nazionalizzare le risorse energetiche iraniane sottraendole al latrocinio delle compagnie occidentali.

Ed è opinione diffusa che la stessa rivoluzione khomeinista del 1979 – i cui esiti finali spiazzarono, o talora condannarono a morte, tanti suoi iniziali fautori – sia stata inizialmente avallata, se non orchestrata, anche nell’ambasciata di via Talaqani, il “covo di spie” già teatro di un celebre, lunghissimo sequestro che costò la rielezione al presidente Jimmy Carter. In quell’edificio oggi regnano i pasdaran del regime, che hanno dipinto sui muri una Statua della Libertà col volto della Morte; e proprio dirimpetto, la caserma delle Guardie della Rivoluzione esibisce le gigantografie dei caduti dal 1979 in poi accanto a quelle, recentissime, dei martiri della guerra contro l’Isis (che a Teheran ha messo a segno due sanguinosi attentati il 7 giugno scorso): una guerra che senza l’Iran e le milizie sciite di Hezbollah difficilmente si può vincere.

Lungo le strade delle città iraniane, così come nella valle della Bekaa (la parte del Libano in mano a Hezbollah, ai piedi delle rovine romane di Baalbek), le lunghe teorie di foto di giovani caduti – soprattutto nel conflitto con l’Iraq (1980-88) – rammentano quale ruolo giochi nella cultura sciita il mito del martirio. “Morire da martire vuol dire iniettare sangue nelle vene della società”, recitavano gli slogan degli anni ‘80. Proprio un’eroica sconfitta, quella patita dal nipote di Maometto, Hussein ibn Ali, nel 680 d.C. a Kerbala in Iraq, è del resto l’atto fondativo della fede sciita, al punto che quadratini di terra di Kerbala (la stessa terra che dal 2003 ha assorbito il sangue copioso delle sfortunate truppe d’occupazione americane) sono a disposizione dei fedeli in preghiera all’ingresso delle moschee.
Chi voglia sfidare in blocco gli iraniani, questo popolo fiero e antichissimo, non solo corre il rischio di perdere (per analogia, le recentissime dichiarazioni del segretario alla Difesa James Mattis sulla “non vittoria” americana in Afghanistan sono oggetto sui media iraniani di analisi e dileggi che rincuorerebbero Massimo Fini), ma soprattutto dimentica e condanna alla marginalità quella vasta fetta della società iraniana che ha sete di libertà, e da cui il regime oscurantista e criminale degli ayatollah riceverà – presto o tardi – il colpo di grazia. “Una finestra per vedere / una finestra per sentire / una finestra che come bocca di un pozzo / giunga fino al cuore della terra”, cantava la grande poetessa Farrough Farrokhzad.
Non solo dunque i leggendari festini notturni delle élite di Teheran, ma anche il bambino che guarda gli sconcertanti affreschi del Chehel Sotun a Isfahan (donne nude, per la sorpresa dei soprintendenti capitolini) con indosso una maglietta Nba; o lo studente di legge che a Shiraz ti intrattiene in piazza sulle liriche salaci di Hafez (XIV secolo) come sui film di Kiarostami e Farhadi; o le adolescenti di Yazd che da sotto il chador sbirciano ridacchiando gli allenamenti di giovani aitanti in una palestra sotterranea; o ancora la folla che ogni sera trasforma l’enorme piazza Naqsh-e-Jahan di Isfahan (l’Isfahan delle Lettere persiane di Montesquieu) in una sorprendente declinazione di quell’espace public di cui parlano gli intellettuali nostrani; o i fedeli che a Qom, nel centro religioso che governa la Repubblica islamica, prendono alla lettera il cartello di benvenuto, dove Mosè, Gesù e Maometto figurano sullo stesso piano; o il ristoratore del deserto che insiste a tenere la Coca Cola vera invece del surrogato locale Zam Zam (ma quanto più buoni i suoi succhi di melograno o di cantalupo!); o il ragazzo che dinanzi alla chiesa armena di Nuova Jolfa deplora che dei calciatori iraniani vengano sanzionati dalla Federazione per aver osato giocare con il loro club greco contro una squadra israeliana; o ancora, le migliaia di persone che, stanche dei mullah, il 21 marzo vanno a festeggiare il capodanno persiano (il Nowruz, tuttora la maggiore festività del Paese, legata al rito zoroastriano ad onta dei vani tentativi di Khomeini di islamizzarla) a Pasargade sulla solinga tomba di Ciro il Grande (VI sec. a.C.), il re achemenide che tanti persiani ammirano meno per le sue ragguardevoli conquiste territoriali che non per l’idea di “diritti dell’uomo” contenuta in nuce nell’iscrizione del suo famoso cilindro, oggi al British Museum. È lo stesso, sapientissimo Ciro ammirato dal greco Senofonte, che nel IV sec. a.C. gli dedicò la prima biografia della letteratura occidentale, la Ciropedia nota ai nostri liceali da temibili versioni.
Alle élite politiche dell’Occidente fa spesso comodo richiamare l’attenzione sulle impiccagioni pubbliche, sulla legge del taglione, sulle fatwa, su riti e modi ripugnanti di un regime che nel 1979 partì da Parigi sulle ali dell’entusiasmo di tanti maîtres à penser. Fa comodo anche confondere l’Iran con i Paesi arabi del Medio Oriente, dimenticando che il ceppo etnico è completamente diverso, che la storia è molto più profonda, e che qui le donne – pur obbligate al velo – guidano, lavorano, ereditano, vanno in tribunale (si ricordi l’avvocato Nasrin Sotoudeh, eroina del film Taxi Teheran di Jafar Panahi), e non usano né il burqa né il niqab. Fa comodo condannare l’aiuto di oggi al regime di Assad in Siria, obliterando lo sporco gioco condotto dalle grandi potenze nella guerra Iran-Iraq, con l’unanime appoggio occidentale al proditorio attaco di Saddam Hussein (la Siria di Assad padre fu tra i pochissimi a schierarsi apertamente con Teheran), e per contro la vendita sottobanco di armi al regime degli ayatollah pubblicamente tanto deplorati (l’ormai dimenticato, ma gravissimo, scandalo “Iran-contras”). Solo a posteriori, all’epoca delle Guerre del Golfo degli anni ‘90, gli occidentali si rammentarono all’improvviso dei massacri e delle armi chimiche usate da Saddam contro iraniani e curdi, peraltro fabbricate – secondo le denunce di Falco Accame – con materiali e tecnologia italiani.
È questa l’imbarazzante e perdurante incoerenza che inficia la credibilità di ogni proclama occidentale sui diritti umani, specie agli occhi di un popolo smaliziato e colto, al punto da non voler più traviare i propri sogni verso una nuova, traumatica rivoluzione (non era nemmeno ciò che chiedevano gli studenti scesi in piazza all’indomani della rielezione di Ahmadinejad nel 2009, repressi con rara brutalità): molti preferirebbero oggi riforme atte a uscire dalle secche di una società ingessata. Dopo la recente morte dell’ex presidente Rafsanjani, è ora giunto a capo del potente Consiglio per il Discernimento – che ha funzione consultiva e censoria – l’ayatollah Shahroudi, un iracheno di Kerbala (questo è un segnale dell’attenzione dell’Iran per il nuovo Iraq ormai guidato dagli sciiti), allievo di Khomeini e maestro di Nasrallah: un uomo contrario alla lapidazione delle adultere ma favorevole al controllo dei media e della rete. Così, gli iraniani faticano sempre più a illudersi che a cambiare le cose possano essere i medesimi rappresentanti superstiti di un regime che negli anni ha progressivamente e violentemente epurato chiunque sembrasse dissentire dal leader: dai rivoluzionari di orientamento comunista del Toudeh ai presidenti riformatori Moussavi e Khatami, fino all’ayatollah Montazeri, erede designato di Khomeini fino al momento in cui nel 1989 decise di dissociarsi da alcune delle brutalità del regime.
Nei primi anni ‘80, prima che cadesse in disgrazia, la foto di Montazeri iniziò a comparire ovunque accanto a quella, già ubiqua, di Khomeini. Oggi in quella stessa posizione, nelle botteghe dei barbieri come sui frontoni delle moschee, c’è l’icona dell’opaco ayatollah Khamenei, il vero successore del defunto leader: viene da pensare che forse solo con la morte di Khamenei, e con la fine di quella disgraziata generazione, si apriranno spazi per ripensare uno Stato che ha raggiunto un tasso d’ipocrisia incompatibile coi valori dei suoi veri progenitori (per Zoroastro, la Verità è il principio positivo fondamentale). Nell’attesa che qualcosa cambi (“in Iran sembra sempre debba cambiare tutto, ma non cambia mai niente”, disse una volta Romano Prodi, che il Paese lo conosce a fondo), il lettore italiano che voglia farsi strada fra tante contraddizioni ha a tiro un libretto eccellente e troppo poco noto, scritto dal più esperto dei nostri corrispondenti in loco: L’Iran oltre l’Iran di Alberto Zanconato (Castelvecchi 2016).
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