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Tomaso Montanari
Solo contro tutti Matteo è vittima di uno schema
18 Luglio 2017
Articoli del 2017
«La continua sollecitazione all’amore verso il capo non regge senza prove d’amore».

«La continua sollecitazione all’amore verso il capo non regge senza prove d’amore».

la Repubblica, 18 luglio 2017 (c.m.c)

Non so se giovi mettere la politica sul lettino dell’analista, specie se l’analista non è estraneo al gioco politico. In ogni caso, se si cerca la ragione della diffusa insofferenza verso Matteo Renzi, la risposta è: Matteo Renzi.

Lungo tutta la sua carriera politica, Renzi non ha lavorato a costruire una comunità, ma a drammatizzare il rapporto tra un capo e la folla. Non con la parola razionale, l’argomentazione, ma con la seduzione dello storytelling, cioè di un marketing capace di vendere al pubblico una scatola il cui unico contenuto era Renzi stesso. «Un rullo compressore lanciato su società e politica per spianare qualsiasi ostacolo», secondo un’efficace definizione di Stefano Rodotà.

Una ultrapersonalizzazione che sostituiva alle istituzioni e ai corpi intermedi la consorteria fiduciaria del capo, il famoso giglio magico. Un ritorno all’antico regime, al tanto vagheggiato Rinascimento: non al dittatore, e nemmeno all’amministratore delegato berlusconiano, ma al principe e alla corte.
Qualcuno ricorderà la massima impresa mediatica del Renzi sindaco: la risibile ricerca della inesistente Battaglia di Anghiari di Leonardo in Palazzo Vecchio. La narrazione opponeva un giovane sindaco che parlava di «sogni», ai «professoroni della storia dell’arte», con la loro incapacità di «essere stupiti dal mistero».

E quando Roberto Saviano puntò il dito contro il conflitto di interessi del ministro Boschi nell’affaire Banca Etruria, Renzi rispose teatralizzando l’amore e l’odio: «Siamo gli unici che vogliono bene all’Italia, contro il disfattismo e il nichilismo, contro chi sfoga la sua frustrazione nelle polemiche ». Era lo stesso schema poi adottato per il referendum, contro i costituzionalisti del No: il rapporto diretto con la gente e la demonizzazione dei portatori di senso critico. Ma la continua sollecitazione all’amore verso il capo non può reggere a lungo senza concrete prove d’amore.

Se il rullo compressore non funziona, la fascinazione si trasforma presto in diffidenza, poi in ostilità. Renzi è passato molto velocemente dalla Provincia, al Comune a Palazzo Chigi. E quando lì è stato evidente che le promesse mancate, le insufficienze di governo, la mancanza di visione, l’incapacità di creare una squadra e di tenere in piedi una comunità minavano la credibilità dello storytelling, il rimedio è stato la scommessa del referendum.

Lo schema più amato da Renzi: lui solo contro tutti, appellandosi alla folla. È finita come sappiamo: tutta la personalizzazione renziana ha cambiato segno in poche ore, dall’amore al suo contrario. L’apprendista stregone è stato travolto dalla forza evocata. E il mancato ritiro dalla politica, solennemente promesso, ha infine trasformato un dramma nell’eterna commedia italiana.

Ora l’errore più grave sarebbe seguire lo stesso schema. E cioè pensare che, finito Renzi, la Sinistra italiana possa ricominciare dal 2014. Quando è evidente che il futuro non può essere il ritorno alla classe dirigente che, con la sua catena di errori e debolezze, ha aperto la strada all’avventurismo personale renziano. Per questo la mia richiesta a Giuliano Pisapia di discutere senza remore la sua scelta di votare sì al referendum non mira (come suggerisce Recalcati) a una nuova personalizzazione, stavolta in negativo: ma, anzi, vuole aprire una seria riflessione di merito.
Quella riforma puntava sulla centralità dell’esecutivo a spese della rappresentanza, sulla figura del capo, su un restringimento degli spazi della critica: è ancora questa la direzione? È questa la via più adatta per combattere la diseguaglianza che sfigura il paese? Lasciamo i capi al loro destino, riprendiamo ad occuparci della comunità.

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