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Paolo Cacciari
Non basta pensare al prodotto
22 Luglio 2017
Critica
«Non basta pensare al prodotto e nemmeno al processo, serve un’etica dell’impresa che sia capace di introiettare stabilmente nei suoi comportamenti i principi morali del bene comune».
comune.info.net, 22 luglio 2017 (p.d.)

Che cos’è l’etica? Roberto Mancini, filosofo che insegna Etica pubblica e culture della sostenibilità, ha scritto: “Etica è il nome che diamo alla fedeltà al bene. Una disposizione interiore, un criterio di scelta, uno stile di comportamento e di azione” (Eclissi dell’etica, Altrapagina, ottobre 2011). Da dove viene questa felice prerogativa umana? Dal profondo della coscienza che ci fa capire cosa è giusto e cosa è sbagliato, istintivamente, affettivamente, emotivamente. Nei bambini – sono certo – è così. Ma poi intervengono serie infinite di avvenimenti storici, ideologie, convenienze… che ci fanno credere che il bene comune dipenda da qualcosa d’altro e di diverso dai nostri singoli e specifici comportamenti. Il senso etico e la comune morale cambiano nel tempo, nei luoghi, nei diversi contesti.

Più o meno nel XVII secolo prende corpo in Europa l’etica del nostro tempo: l’etica del capitalismo, l’etica dell’utilitarismo individualista che afferma: se ognuno bada al proprio tornaconto, l’intera società ne beneficerà. L’egoismo individuale diventa virtù pubblica. In fin dei conti (lo ha ripetuto qualche secolo più tardi la signora Margaret Thatcher, credendo di essere moderna) la società non esiste: esiste solo una somma di singoli individui. Il benessere di ciascuno di loro è il benessere dell’insieme della comunità. “Arricchirsi è glorioso”, ha detto Deng Xiao Ping all’inizio delle grandi modernizzazioni che hanno portato la Cina ad essere la più grange potenza industriale. L’economia è diventata la scienza sociale più importante, perché insegna come fare ad aumentare indefinitamente le capacità produttive degli individui rendendoli ingranaggi di una megamacchina votata alla massimizzazione dei risultati.
Già John Locke (Secondo Trattato sul governo, 1662) era stato chiarissimo: “Colui che recinta un terreno e da dieci acri trae maggiore quantità di mezzi di sussistenza di quanto potrebbe trarne da cento acri lasciati allo stato naturale, dona novanta acri all’umanità”. In queste poche righe sono contenuti tutti i fondamenti teorici del sistema e dell’etica del capitalismo. L’appropriazione privata di un bene è non solo giustificata, ma esaltata in forza della ragione di un maggiore rendimento economico del bene utilizzato, di qualsiasi materia prima e fattore di produzione. Le risorse naturali, i beni comuni, comprese le popolazioni indigene insediate, non hanno alcun valore in sé (diritto di esistenza) se non generano utilità economiche tali da poter competere con i sistemi di produzione di tipo capitalistico. L’imprenditore diventa la figura sociale principale, il civilizzatore (colui che sviluppa i ritrovati della tecnica) e il benefattore a cui l’intera comunità deve riconoscere diritti di proprietà sui mezzi di produzione e maggiori quote sui benefici ridistribuiti. Ci sono tutte le premesse per la travolgente espansione del sistema di produzione capitalistico ai danni di qualsiasi altra diversa forma di organizzazione sociale.
Qualcosa, però, è andato storto. Ad un certo punto i costi della crescita economica misurata in valori monetari sono diventati maggiori (specie in campo ambientale) dei benefici sociali percepiti. Il calcolo economico ha preso il sopravvento su ogni altro tipo di valutazione della qualità delle vite personali. La concorrenza si è trasformata in feroce competizione. Il denaro da mezzo è diventato fine. L’avidità ha desertificato i sentimenti compassionevoli. L’egoismo ha riempito la psiche… Potremmo continuare, ma la Laudato si’ di Bergoglio ha reso verità a molti discorsi sulla crisi ecologica sistemica del modello sociale di sviluppo oggi prevalente (leggi anche Il Cantico che non c’era, ndr).
Per cambiare rotta serve quindi un ritorno delle ragioni etiche su quelle meramente economiche (economiciste). Semplicemente, servirebbe un ritorno alla etica della responsabilità (Hans Jonas) da parte di tutti gli operatori economici. Sulla Corporate Social Responsability (responsabilità sociale dell’impresa) si sono scritte intere biblioteche (Luciano Gallino, L’impresa irresponsabile, Einaudi, 2005). Così come sui sistemi di certificazione eco lab e sui listini specializzati delle Borse degli strumenti finanziari “etici”. Ultime comparse le Benefit Corporate. Troppo spesso si tratta di strategie di marketing per mettere a frutto il “capitale di reputazione” delle società. Era già capitato con le tecnologie green washing. Ma i cambiamenti di cui c’è bisogno non possono essere solo di facciata. Abbiamo visto che nemmeno le forme giuridiche più democratiche, come in teoria sono le cooperative e le società non profit, sono sufficienti a garantire delle buone conduzioni aziendali. I cambiamenti devono penetrare fino nei sistemi di governo sostanziali delle imprese. È necessario un processo di auto responsabilizzazione e autodisciplinamento delle imprese che devono maturare l’esigenza di dotarsi volontariamente di propri codici e carte di valori. Per sé stesse, prima che per i “clienti”. Per vivere in pace con sé stessi, prima che per non danneggiare gli altri. Come lo sono i sistemi di autocertificazione partecipata dei produttori biologici o i Bilanci del bene comune della rete delle imprese che l’hanno adottato. Come lo sono le cooperative e le fondazioni di comunità che hanno scelto di integrarsi con le popolazioni insediate in quel particolare contesto territoriale, nel solco delle intuizioni di Adriano Olivetti.
Insomma non basta pensare al prodotto (che sia buono, sano, bello …) e nemmeno al processo (economia circolare, rifiuti zero, basso impatto ambientale …), serve un’etica dell’impresa che – a prescindere dalla stessa forma giuridica adottata – sia capace di introiettare stabilmente nei suoi comportamenti i principi morali del bene comune. Non è poi una grande scoperta se pensiamo che l’articolo 42 della nostra Costituzione tutela la proprietà (quel “colui che recinta un terreno…”) solo se svolge una funzione sociale. Cioè, utile a tutti, non solo agli stakeholders più potenti.


Articolo preparato per l’incontro Etica del prodotto ed etica d’impresa, promosso a Padova il 16 luglio 2017 per Eco & Equo.
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