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Contro la società civile il parlamento dice il si al CETA
6 Luglio 2017
Critica
Si eliminano anche gli standard qualitativi minimi a tutti i prodotti, con risvolti negativi in termini sociali, economici e ambientali. Articolo di C.M.Botta,

TgCom News24 e A.Zoratti, Sbilanciamoci online, 5-6 luglio 2017 (i.b)

TGCom News24, 6 luglio 2017
CETA: ACCORDO DI LIBERO SCAMBIO
EU E CANADA ENTRA IN VIGORE
di Carlo Max Botta

L’accordo di libero scambio tra la UE e il Canada entra in vigore, anche se in forma provvisoria in attesa delle ratifiche parlamentari dei vari stati membri.

Siamo di fronte a un’altra minaccia molto preoccupante partorita nelle stanze segrete della Commissione Europea, la commissione che oggi rappresenta probabilmente il nido mondiale delle lobby. Il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement ) è un trattato simile al TTIP stipulato tra l’UE e il Canada.

Tribunali aziendali. Come il contestatissimo TTIP, anche il CETA prevede un nuovo sistema giuridico, aperto solo alle società e agli investitori stranieri. Questo permetterà alle aziende canadesi di citare in giudizio il governo (nel nostro caso l’Italia) per ‘ingiustizia’ ogni volta che i loro profitti vengono considerati a rischio. Lo stesso vale per un gran numero di società americane che hanno interessi in Canada. In poche parole le lobby potranno istituire una sorta di tribunale sovranazionale privato la cui giurisdizione si pone addirittura al di sopra del nostro ordinamento giuridico.

Una vera follia. Sarà l’ennesima entità indipendente autopotenziata che tutelerà gli interessi delle lobby, svincolandosi allo stesso tempo da ogni giudizio sia morale che politico (come appunto la BCE, il FMI e la stessa Commissione Europea)! Una sorta di dittatura togata che a suon di miliardi potrà mettere in difficoltà qualsiasi Stato che provi ad intralciare gli interessi delle lobby e delle multinazionali.

Il CETA elimina sia le barriere tariffarie (dazi doganali appunto) che quelle non tariffarie, ovvero dei livelli minimi di standard qualitativi previsti per tutte le categorie di prodotto scambiato, inclusi quelli agricoli e sanitari, con enormi ripercussioni negative in termini sociali, economici, ambientali e salutari.

Il Canada ad esempio produce un grano che richiede trattamenti chimici per ovviare alla mancanza del clima ottimale per farlo maturare: sole e sana ventilazione (come ad esempio le aree del sud Italia). Queste sostanza oltre che cancerogene sono pericolosissime in termini genetici.

In merito a tale aspetto sono stati analizzate (su mandato della Coldiretti pugliese) alcune note marche di pasta italiane che hanno adoperato negli ultimi lotti il grano canadese. Dai risultati emerge che tali paste manifestano livelli altissimi di sostanze velenose che nei grani italiani sono pressoché inesistenti.

Inoltre va sottolineato, l’incredibile revisione di tolleranza della Commissione Europea, infatti gli euro-commissari hanno alzato il tasso di tolleranza dell’80% di tali veleni per facilitare appunto il commercio di questi prodotti sulle nostre tavole (tolleranze che prima del CETA erano proibite addirittura già per alimenti destinati agli animali in allevamento).

Tali nuovi livelli di “idoneità” rendono la pasta pericolosa ai bambini al di sotto dei 3 anni (livelli di DON), pertanto già oggi i packaging dovrebbero riportare obbligatoriamente che “il prodotto non può essere somministrato a bimbi di età inferiore ad anni 3“. Capite che invece di migliorare la salubrità alimentare, tali accordi legalizzano l’esatto contrario?

Nessun notiziario però racconta ciò che lo scrivente ha vissuto personalmente a Bruxelles, parlo del modus operandi di tali trattati. Le regole sono più ferree dei vecchi apparati come il KGB sovietico. Giudicate voi se esagero. Innanzitutto a nessun parlamentare è concesso entrare nelle stanze in cui le multinazionali, lobbisti e commissari europei discutono le sessioni del trattato.

I membri accreditati alla commissione che possono entrare nelle “stanze segrete” non possono portarvi all’interno il telefonino, nessun apparecchio elettronico, ancor meno registratori, nessun foglio di carta per appunti e nemmeno una banale biro! Capite la follia? Se fosse una cosa bella e lodevole per il popolo perchè tutta questa ossessionata segretezza? Con una corretta informazione non verrebbe più tollerata questa linea vile ed ingannevole di promozione della lobby UE.

Lo scopo del CETA è quello di ridurre il regolamento per affari. Potrebbero venir meno a tutto campo le basi di tutele per cittadini, lavoratori, consumatori, ambiente ecc; in quanto ritenuti «ostacoli agli scambi». In poche parole anche la nostra Costituzione che si basa sulla salvaguardia della salute e di quei diritti inalienabili, per il CETA è un ostacolo intollerabile (ecco il motivo del tribunale sovranazionale).

Una minaccia per i servizi pubblici. Se non è abbastanza chiaro, lo Stato sarà obbligato attraverso il CETA a cedere alle multinazionali i servizi pubblici inalienabili, fra questi cito ad esempio energia, acqua e sanità. Chi avrà la possibilità economica potrà “comprarsi” tali servizi, mentre per gli altri non ci sarà alcuna pietà o Un orrore che cancellerà ogni dignità del cittadino, specie per le future generazioni.

CETA è una minaccia per l’ambiente. Vengono legalizzati usi di idrocarburi altamente inquinantiattualmente proibiti in Europa oltre ad alzare i livelli di tolleranza di inquinamenti in più campi (che si manifesteranno appunto intolleranti per la salute e per l’ambiente)

Insomma questa Europa impone solo provvedimenti e direttive che, guarda caso, sono tutte, ripeto, tutte azioni che si vedono in netto contrasto con la nostra Costituzione, ma soprattutto in contrapposizione con le esigenze reali e le volontà dei cittadini.

Sbilanciamoci online, 5 luglio 2017
LA LUNGA MARCIA DEL CETA
di Alberto Zoratti

Non è bastato Justin Trudeau, il primo ministro canadese in visita in Italia durante il G7 di Taormina, a far calmare gli animi accesi sul CETA, l’accordo di libero scambio tra UE e Canada sulla strada della ratifica parlamentare. Ci hanno provato, descrivendo il leader canadese come un novello Kennedy, salito sulla trincea della lotta al cambiamento climatico e della difesa delle libertà economiche dinanzi all’America First di Donald Trump. “Un leader femminista”, come ha avuto modo di presentarlo la presidentessa della Camera Laura Boldrini, all’interno di una narrazione che preparava la strada al processo più sostanziale dell’approvazione del trattato.

La lunga corsa inizia da lontano. Era il 2009 e gli accordi di libero scambio di seconda generazione (che comprendono cioè sia l’abbattimento dei dazi che delle barriere non tariffarie) erano appena venuti alla luce. In quel momento gli occhi erano puntati sull’accordo con la Corea del Sud, trattato molto sensibile non solo per i nostri produttori di riso ma anche per le nostre case automobilistiche, che vedevano nei colossi sudcoreani dei possibili competitori. E dove non ha potuto l’agricoltura ci hanno pensato le auto, considerato che l’unico veto all’approvazione dell’accordo con la Corea al Consiglio Europeo dell’ottobre 2011 fu proprio italiano.

Fu in quel brodo primordiale che prese forma il CETA, negoziato in modo opaco e sostanzialmente segreto (le questioni legate alla trasparenza vennero affrontate solo con il TTIP alcuni anni dopo, grazie alle ingenti mobilitazioni e alle pressioni della società civile) fino al settembre 2014, quando con una stretta di mano Unione Europea e Canada suggellarono un accordo che a quanto diceva l’allora Commissario europeo De Gutch avrebbe dovuto vedere la luce in breve tempo. “EU only”, pensavano: dopotutto venne interpretato come “accordo non misto”, cioè di pura competenza europea, e avrebbe avuto il fast track della sola ratifica europarlamentare.

Ma le cose non furono così semplici. Da una parte la mobilitazione della società civile, che spinse fortemente per il carattere misto dell’accordo (cioè con competenze concorrenti Stati membri – Unione europea) e che portò alla decisione di renderlo tale nel Consiglio Europeo del luglio 2016. Nei primi mesi del 2017 la Corte di Giustizia Europea confermò la posizione mista, con una sentenza sull’accordo Unione Europea – Singapore sul suo capitolo investimenti (che era al centro della contesa). Questo fu il caso in cui l’Italia perse quel minimo scatto di orgoglio di pochi anni prima: la Campagna Stop TTIP Italia pubblicò nel giugno 2016 un carteggio privato tra il Ministro Carlo Calenda e la Commissaria Malmstrom in cui l’Italia sosteneva l’ipotesi del carattere EU only. Che in parole semplici significava: evitiamo la ratifica del nostro Parlamento, per correre più veloci verso l’approvazione.

Altri furono gli ostacoli in questa corsa contro il tempo, che vedeva come spade di Damocle le elezioni francesi, quelle potenziali italiane, le tedesche e la stessa Brexit. Nell’ottobre 2016 toccò alla piccola Vallonia, il cui parlamento è titolato a ratificare accordi commerciali (conditio sine qua non per la ratifica del Parlamento belga), e al suo primo ministro Paul Magnette. La lotta di Davide contro Golia durò quasi un mese, velato di minacce, pressioni e intimidazioni. Ma il piccolo parlamento nordeuropeo riuscì comunque nell’impresa di far mettere nero su bianco alcune “linee rosse” da non superare, non ultime la questione dello sviluppo sostenibile e quello della tutela degli investimenti.

Già, perchè a far fronte alle proteste della società civile ci pensava la retorica europea secondo la quale questi accordi di nuova generazione, come TTIP e Ceta, avrebbero garantito alti standard sociali e ambientali. Peccato che il capitolo specifico sia solamente consultivo, che il rispetto alle Convenzioni dell’OIL sia sottolineato ma per nulla rafforzato con meccanismi di enforcement chiari, a differenza di ciò che riguarda la questione investimenti dove un arbitrato specifico ha la possibilità di imporre richiesta di compensazione economica davanti a un arbitrato a quei Governi (nazionali o locali) accusati di distorsione del mercato (o di esproprio indiretto, con un’interpretazione molto ampia). Uno sbilanciamento molto pericoloso, che rischia di diminuire lo spazio di agibilità degli Stati.

Un esempio di come questi due ambiti siano in conflitto lo si trova in Germania, vicino ad Amburgo, dove la Vattenfall (impresa energetica scandinava con molti interessi nel nucleare e nel termoelettrico tedesco), facendo leva su un accordo internazionale di liberalizzazione dell’energia di cui Germania e Svezia sono firmatari (Energy Charter Treaty) è riuscita a far modificare a sua favore una norma sull’emissione di acque di scarico dalla sua centrale termoelettrica alla periferia della città tedesca grazie alla denuncia davanti a un arbitrato. La causa è finita in patteggiamento, con la municipalità di Amburgo che ha scelto di allentare le norme. Peccato che pochi anni dopo, con una sentenza resa pubblica nell’aprile scorso, la Corte di Giustizia Europea ha strigliato il Governo tedesco proprio perché quell’allentamento negli standard è andato contro le norme di tutela ambientale comunitaria.

Anche il CETA presenta un capitolo sulla tutela degli investimenti. Al posto dell’arbitrato classico investitore – Stato (ISDS) una mobilitazione internazionale durata più di un anno ha indotto l’Unione Europea a proporre un dispositivo riformato: un po’ più trasparente e pubblico, ma ispirato agli stessi principi dei vecchi arbitrati. Pochi passi avanti e parziali, secondo le campagne internazionali, che chiedono che il capitolo sia stralciato definitivamente o congelato.

Ma d’altra parte, cosa potrebbe accadere? Il recente caso Ombrina Mare è significativo: l’impresa energetica Rockhopper, propietaria dell’impianto denuncia l’Italia davanti a un arbitrato dell’Energy Charter Treaty con una possibile richiesta di 13 milioni di euro (i dati però non sono pubblici) per il ritiro della concessione di prospezione e di estrazione di idrocarburi dall’Adriatico. Un’azione prevedibile, considerato che sono già diverse le cause a cui l’Italia dovrà rispondere, sempre sotto l’ombrello dell’ECT, per la rimodulazione degli incentivi al fotovoltaico, ma che evidentemente non scalfisce la piena fiducia delle istituzioni negli arbitrati, qualunque struttura abbiano.

Lo sbilanciamento è talmente evidente che lo scorso 3 luglio, a un seminario con la società civile organizzato a Bruxelles dalla direzione commercio internazionale – DG Trade – della Commissione europea proprio sul capitolo “Sviluppo sostenibile” dei trattati di libero scambio, Georgios Altintzis dell’ITUC (International Trade Union Confederation, la confederazione internazionale dei sindacati) sottolineava come il modello proposto negli accordi commerciali sia inaccettabile: problemi con la Corea del Sud sulla libertà di associazione sindacale, con il Guatemala e il Salvador sempre sul rispetto delle Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL) o con la Colombia per il rispetto della Convenzione CITES sulle specie protette, non riescono a essere affrontati e risolti perchè il meccanismo è troppo farraginoso e inconcludente. “Bisognerebbe far sottostare l’approvazione dei trattati di libero cambio da parte dei Parlamenti alla ratifica e applicazione delle Convenzioni OIL e di quelle ambientali” ha sottolineato con forza Altintzis, ma Madeleine Tuininga, direttrice del dipartimento Commercio e Sviluppo sostenibile della DG Trade ha chiarito come “esistano approcci differenti, ognuno con i suoi pro e contro”. In attesa del documento annunciato dalla Commissione Europea sullo sviluppo sostenibile e il commercio, queste parole non depongono a favore di un sostegno incontrastato all’attuale politica commerciale comunitaria.

Criticità evidenti, quindi, ma almeno con il CETA le indicazioni geografiche sono protette, così sottolinea il Ministero dello Sviluppo Economico. “In Canada riceveranno protezione”, ricorda Coldiretti, “un elenco di 171 prodotti ad indicazione geografica dell’Unione Europea tra cui figurano 41 nomi italiani rispetto alle 289 denominazioni Made in Italy registrate”. I produttori canadesi potranno continuare ad utilizzare il termine Parmesan ma anche produrre e vendere, come già fanno, Gorgonzola, Asiago, Fontina (anche se con l’indicazione Made in Canada). Il prosciutto di Parma Dop con il CETA potrà entrare in Canada, ma in coesistenza con quello dell’azienda privata che ne ha registrato il marchio. Una vittoria? Non sembrerebbe.

Eppure nonostante questi limiti e queste criticità, il Governo italiano corre verso una ratifica impedendo un vero dibattito nel Paese. Alla fine di giugno alla Commissione Esteri del Senato una maggioranza PD – Forza Italia, con l’assenza di Articolo Uno MDP, ha spianato la strada verso Palazzo Madama.

Ma in strada, o meglio in piazza – il 5 luglio a piazza Montecitorio – scendono anche la Campagna Stop TTIP Italia, Coldiretti, Slow Food, CGIL, Greenpeace e molti altri, per chiedere uno Stop immediato alla ratifica, e l’apertura di un serio dibattito attorno al tema degli impatti sociali e ambientali non solo del CETA, ma anche degli altri trattati che la Commissione europea sta negoziando, nonostante le critiche e gli avvertimenti provenienti dalla società civile e dal mondo produttivo della piccola e media impresa.

Riferimenti
Sull'argomento abbiamo pubblicato diversi articoli. Segnaliamo in particolare l'appello di Alex Zonatelli e la delucidazione di Monica di Sisto
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