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Sabrina Tomè
Mose, chiesti 27 anni, stangata per Matteoli
30 Giugno 2017
MoSE
«Processo veloce. Le divergenze con le difese sono nell'ultimo anello: in sostanza i fondi neri c'erano, ma nessuno degli imputati ammette di averli presi».

«Processo veloce. Le divergenze con le difese sono nell'ultimo anello: in sostanza i fondi neri c'erano, ma nessuno degli imputati ammette di averli presi». la Nuova Venezia, 30 giugno 2017 (m.p.r.)

Venezia. La pena più pesante è per l'ex ministro An alle Infrastrutture Altero Matteoli: 6 anni. E poi: 5 per l'imprenditore romano Erasmo Cinque, 4 per l'ex presidente del Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva, 3 per l'imprenditore Nicola Falconi, 2 anni e 6 mesi per l'architetto Danilo Turato, 2 anni e 4 mesi per l'ex presidente di Adria Infrastrutture Corrado Crialese, 2 anni e 3 mesi e 1 milione di multa per l'ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, 2 anni e 500 mila euro di multa per l'ex europarlamentare di Forza Italia Lia Sartori. Inoltre: la confisca dello stipendio e delle somme dei collaudi per Piva; del profitto di 33 milioni 960 mila euro oltre alle somme ricevute per Matteoli e Cinque. Queste le richieste di condanna della Procura di Venezia - 27 anni e 1 mese complessivamente per 8 imputati accusati a vario titolo di corruzione e finanziamento illecito - dopo cinque ore di requisitoria nell'ambito del processo per le tangenti del Mose. «Si tratta di fatti gravi perché hanno riguardato una delle opere pubbliche più importanti del nostro Paese e gli episodi sono durati anni», ha spiegato il pm Stefano Ancilotto, «Nel conteggio si è tenuto conto dei fatti e delle pene di chi ha patteggiato».

Processo veloce.
Ancilotto ha esordito con un ringraziamento al presidente Stefano Manduzio e alle difese per l'equilibrio e la velocità del processo scongiurando così i rischi prescrizione. Tutto è stato scandagliato, ha aggiunto il pm Stefano Buccini, «nessun fantasma aleggia sul processo, nulla è rimasto incompiuto». A garantire la velocità ha sottolineato Ancilotto entrando nel merito delle accuse, è la presenza di alcuni punti fermi. Punti fermi che costituiscono l'impianto del "sistema Mose", durato 10 anni. Si tratta delle frodi fiscali, dei fondi neri alimentati dalle aziende del Consorzio Venezia Nuova, della rete di relazioni del presidente del Cvn Giovanni Mazzacurati sia con i politici locali che con quelli nazionali e dai fatti di grave corruzione «che hanno riguardato destra e sinistra, potere centrale e locale». Le divergenze con le difese sono nell'ultimo anello, ha sottolineato Ancilotto: in sostanza i fondi neri c'erano, ma nessuno degli imputati ammette di averli presi.
L'attendibilita degli accusatori.
Ad accusare sono in molti, tutti ritenuti attendibili dalla Procura. «La collaborazione è frutto non di pentimenti, ma di un interesse processuale», ha messo le mani avanti Ancilotto, «vi è una ricostruzione da parte di persone che arrivavano da mondi diversi e che erano portatori di interessi diversi. Eppure si sono trovate d'accordo nel ricostruire un sistema univoco».
Il sistema e il suo padrone.
Al centro del "sistema Mose" c'era il presidente Mazzacurati, padrone assoluto del Consorzio Venezia Nuova che «grazie all'attività di corruttela si è assicurato un flusso di denaro continuo, l'assenza di controlli e di opposizione al progetto», ha affermato Ancilotto. La "filosofia" di Mazzacurati è stata così riassunta dal pm: corrompo a livello nazionale e locale perché non si sa come cambieranno le maggioranze politiche, mentre l'opera rimane. L'ingegnere è per la Procura perfettamente attendibile quando bel 2013 rende i suoi interrogatori. E decide di collaborare «perché capisce che è finita un'epoca, ancora una volta è arrivato prima degli altri». Le rivelazioni che fa non sono dettate dall'astio: «Fa fatica a usare il termine di mazzetta, tutt'al più parla di oliare il meccanismo», ha sostenuto il pm, «questo non è l' atteggiamento di chi vuole ferire». La sua, secondo la Procura, è un'attendibilità intrinseca ed estrinseca visti i patteggiamenti che ci sono stati.
Le pene più pesanti per Matteoli e Cinque.
La richiesta più severa della Procura è per l'ex ministro Altero Matteoli che, secondo l'accusa, subordinò la concessione dei fondi per le bonifiche di Porto Marghera al fatto che nel Consorzio entrasse la Socostramo, società del suo compagno di partito Erasmo Cinque «al quale Matteoli era completamente soggiogato», ha detto Ancilotto. E ancora: «Il ministro era totalmente asservito agli interessi del Cvn». Lo dimostrerebbe in particolare la lettera con la quale autorizzava l'affidamento diretto dei lavori per la bonifica di Porto Marghera (anziché procedere con gara), rispondendo a una lettera di chiarimenti di Piva che aveva dubbi su come assegnare i fondi ottenuti dalla transazione Montedison (versò i soldi per l'inquinamento causato). «Con questa autorizzazione il ministro "si sporca le mani"», ha detto Ancilotto, «E la condotta del ministro va oltre: sollecita fondi a Tremonti e a Berlusconi».
Maxi risarcimento.
Otto milioni di euro, uno per ogni imputato, è la somma a titolo di risarcimento chiesta dall'Avvocatura di Stato, parte civile, avvocato Simone Cardin, per grave danno d'immagine, danno alla collettività e danno da sviamento. Si tratta della provvisionale, quindi della somma da versare subito: quella complessiva andrà quantificata dal tribunale.
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