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Toni Frigo
I fiumi malati. Tra cave e prosecco così il Piave affonda
29 Giugno 2017
Veneto
Seconda puntata sullo stato di salute “della Piave”. «Sia gli agricoltori che i cavatori le chiamano "coltivazioni". Vigneti in riva ed escavazioni svenano il corso d'acqua da Ponte della Priula a Fagarè».

la Nuova Venezia, 29 giugno 2017 (m.p.r.)

VIAGGIO DAL PERALBA AL MARE/2
Così come nella prima puntata del nostro viaggio sul Piave assetato eravano andati a "monte" per raccontare lo sfruttamento dell'acqua da parte delle centraline elettriche private, nella seconda abbiamo percorso le verdi terre che vanno dal Montello ai vigneti nei pressi di Ponte di Piave, dove spesso il fiume sacro alla Patria esonda nelle campagne. Qui il Piave paga il suo debito all'agricoltura e all'ampliamento della zona del Prosecco doc. Ma contemporaneamente paga pegno anche alle numerose cave disseminate sul territorio. Da qui in un decennio sono stati prelevati 360 milioni di metri cubi di ghiaia.

Treviso. Entrambi le chiamano coltivazioni. Ma, in termini idrici, intendono cose diverse e concorrenziali tra di loro. Stiamo parlando degli agricoltori e dei cavatori. A entrambi il medio corso della Piave (fiume-madre), di cui ci occupiamo in questa seconda puntata (dal Ponte della Priula a Ponte di Piave) del nostro "viaggio", lascia il proprio obolo fino a svenarsi e a presentarsi a valle, senza nemmeno la forza per opporsi al ritorno delle acque salate dell'Alto Adriatico. Acque che devastano le coltivazioni di mais e soia riducendole a brulle, asfittiche e ingiallite lande nelle terre veneziane.

Il nostro Caronte oggi è Fausto Pozzobon, presidente della sezione trevigiana di Legambiente (secondo nome, non a caso, Piavenire), storica vedetta contro le depauperazioni causate dai prelievi a monte della Piave (ai canali e ai corsi d'acqua afferenti) e dalle attività di cava, che (c'è poco da ridere) si chiamano anch'esse "coltivazioni". «Ma anche tra le altre coltivazioni, quelle agricole, c'è una novità che grida vendetta al cospetto di Dio: lo sciagurato, per noi buoni bevitori, allargamento del protocollo del Prosecco doc, fa sì che molti rivieraschi abbiano venduto i terreni "in costa" al Piave, fino a far affacciare le viti direttamente sul fiume. Il bisogno di irrigazione è oggettivo e quindi il salasso per la povera Piave è assicurato. In più le rive, con le viti, non sono più trattenute e quindi qualcuno deve provvedere a sistemarle in modo ricorrente, a totale onere pubblico - dice Pozzobon - Risultato: al fiume rimane sempre meno acqua, pescata da pozzi freatici abusivi disseminati in modo selvaggio.
Tornando sul letto del Piave, le voraci macchine dei cavatori spaccano la rete sotterranea delle falde, facendo sì che non sia più come un tempo, quando, sotto i sassi e la ghiaia delle secche, correva sempre l'acqua che garantiva la vita, anche faunistica, del fiume». E qui Pozzobon svela un nuovo fronte, portandoci a vedere un tratto di Piave che sembra il Meno in Germania. Qui è in atto una mega-coltivazione che si allarga all'interno del letto del fiume fino a fargli perdere le precedenti e naturali rive: «In questo momento stiamo tentando di arginare quest'operazione in corso da parte degli industriali della ghiaia, evidentemente benedetti dalle autorità di controllo e dai loro politici di riferimento», dice il nostro Caronte, reduce da un "saltino" al Genio Civile di Treviso dove ha chiesto lumi sull'operazione senza cavare - verbo appropriato - un ragno dal buco.
Pozzobon sottolinea come proprio da questa autorità arrivi addirittura un invito ad alzare i quantitativi escavabili, indicando come non adeguati quelli autorizzati in origine.«Questo sfondamento del Piave a valle del ponte ferrovia della Priula rappresenta una nuova frontiera che ci lascia esterrefatti - aggiunge il presidente di Legambiente - Mai si era osato tanto dai lontani Anni 70, quando solo il pretore La Valle ebbe il coragggio di denunciare lo scempio operato dai cavatori». E le cifre su quel disastro parlano chiaro. Un testimone diretto, Fiorenzo Scarabel di Candelù, all'epoca dipendente di una ditta di escavazione, squarcia il velo del silenzio: «Sono stati sottratti alla comunità 360 milioni di metri cubi di materiale - dice con cognizione di causa - E questo in un periodo che va dagli anni 70 agli anni 80.
Nessuno controllava. Dove son finiti? Una parte della Laguna è diventata l'aeroporto di Venezia, dunque.... Quel disastro restò ignorato». Detto da uno nato nella zona delle Fontane Bianche, che ha visto partire i camion carichi.... E Scarabel ammmonisce: «Da quando i soldi hanno preso il posto dei valori, la Piave è affondata di 5 metri. Basta ingordigia, lasciatela riposare un po' di anni. Vedrete che si riassesta da sé. Ma fermiamoci adesso, subito». I numeri sono importanti anche per quanto riguarda i consorzi irrigui. Perché si parte da un dato sconvolgente, sottolineato in un documento approvato da consigli comunali di paesi della Marca trevigiana, quello del cosiddetto Dmv, ovvero: deflusso minimo vitale che dovrebbe garantire la vita del fiume ed evitare i disastri ambientali provocati dalle "magre" e dalle "secche".
«Ebbene - dice il Caronte che ci conduce nel rovente Piave - sapete per legge quanto dovrebbe bastare a tenere in vita il fiume? Circa 9 metri cubi al secondo. Mentre il minimo, vero, deflusso biologico, ne richiede almeno il triplo: 30. Tenete conto che nel calcolo dell'acqua del Piave sono comprese anche le acque degli invasi con un equivoco orribile che dura da 50 anni: viene conteggiata anche l'acqua della diga del Vajont, che in realtà, come sanno tutti, è, dopo la "scesa" del monte Toc del 1963, solo roccia».
«Una vergogna - ribadisce Pozzobon - Questo dato falso si riverbera sui quantitativi disponibili per il prelievo da parte dei consorzi di bonifica e, naturalmente, anche sulla portata dichiarata del fiume. Ogni volta che Legambiente lo ricorda, avviene una rimozione colpevole da parte di chi sarebbe chiamato a vigilare. Quando chiediamo che la cifra del Dmv cambi con più severi controlli a nord, i sindaci bellunesi, quelli che, sospinti dai trasferimenti dello Stato al lumicino, avallano le richieste di nuove centraline, accusano quelli di pianura di voler portare via l'acqua alla gente di montagna. Attenzione: le falde distrutte dai cavatori e la mancanza di flusso minimo... mortale, fanno sì che tutta la vita presente all'interno del fiume sia a grande rischio: una volta i pesci si salvavano nelle buche d'acqua tra le secche ma la "vita" del fiume sottostante, quello in falda, faceva sì che continuassero a prolificare e a resistere. Ora che la speranza d'acqua è affidata alle periodiche "bombe" cadute dal cielo, si è innescato un circolo vizioso che compromette anche la vita dei pesci».
Potrà anche sembrare strano, ma non sono passati mille anni da quando qui esisteva il mestiere di "pescatore della Piave", che si manteneva e faceva campare la famiglia pescando e coltivando a mais qualche campo in golena. Oggi la cosa sarebbe impensabile: manca l'elemento fondamentale: il pesce, appunto. Che vuoi mangiare?». Tornando alle cave (ne abbiamo contate almeno 8 lungo questo tratto e nei paraggi, visto che le Bandie e Santa Lucia non sono sull'asta del fiume) va detto che non ci siamo sui quantitativi di scavo. La legge regionale consentirebbe di prelevare al massimo 3 mila metri cubi per coltivazione, giustificati da opere idriche o simili. Ma, fatta la legge gabbato lo santo, dall'Istituto Idrografico Piave Livenza e Sile è arrivata la cosiddetta Benedizione del Signor (il nome dell'ingegnere dirigente) che consente di arrivare a 20 mila metri, che fa testo e sulla quale si attaccano in molti. I cavatori ringraziano, i rivieraschi molto meno.
Ancora Pozzobon: «Aggiungo, a proposito di controllo delle attività di asporto, che i numerosi interventi di difesa delle rive del fiume - anche di ingegneria naturalistica - , in tutto il territorio del Medio Piave, sempre con stanziamenti pubblici, molto spesso, si sono rivelati di nessun effetto positivo: i cittadini di Cimadolmo ricordano bene le strutture lignee, incardinate qualche mese prima, divelte dalla corrente, che si sono riversate proprio sui plinti di cemento armato di fondazione del ponte della provinciale 92 a Cimadolmo. Ci piacerebbe che questa non fosse una nostra battaglia ma che tutti i cittadini si facessero carico della loro piccola percentuale, facendo pressione sui comuni per una presa di posizione coraggiosa in difesa del fiume-madre e dei suoi valori».
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