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Simone Pieranni
Rohingya e land grabbing: gli interessi economici oltre alla "persecuzione religiosa"
6 Gennaio 2017
Critica
«Myanmar, Rohingya e risorse. Miniere, legname, progetti geo-termali: risultati dell’esproprio delle terre».

il manifesto, 6 gennaio 2017 (p.d.)

In un paese prevalentemente a tradizione e trazione agricola come il Myanmar, la terra significa ricchezza, vita, cibo, legname, casa, tutto. La ricchezza principale per molte delle popolazioni che vivono nel paese è proprio dovuta alla terra. In particolare i Rohingya, la maggioranza dei quali vive al di sotto delle condizioni minime di sussistenza.
Il problema è che nei loro confronti è in atto da tempo una guerra sotterranea che mira proprio a espropriarli delle loro terre senza che in cambio possano avere alcuna compensazione, né monetaria, né legata a un eventuale impiego di lavoro. Dunque, al di là delle questioni religiose è necessario tenere conto di interessi economici che si celano dietro la loro persecuzione e terribile esistenza. Saskia Sassen sul Guardian del 4 gennaio in un articolo intitolato «La persecuzione dei Rohingya è causata da motivazioni economiche, oltre che religiose?» si è posto proprio questo problema. La verità è che da tempo, sia la giunta militare quanto il nuovo corso «democratico» del paese, hanno puntato sul land grabbing come motore della propria economia per favorire le industrie minerarie, la raccolta di risorse, di legname e per sviluppare l’industria turistica.

Se negli anni precedenti questo era un processo completamente controllato dai militari, dal 2012 grazie alla nuova legge sulla terra, il paese ha aperto la possibilità di acquisire terre anche a investitori internazionali. Come scrive Sassen sul Guardian, «Gli ultimi due decenni hanno visto un massiccio aumento in tutto il mondo di acquisizioni societarie di terreni per l’estrazione, il legname, l’agricoltura e l’acqua. Nel caso del Myanmar, i militari hanno espropriato vaste distese di terreno da piccoli proprietari fin dal 1990, senza alcuna compensazione, ma utilizzando le minacce contro eventuali tentativi di reazione. Questa forma di land grabbing è continuata attraverso i decenni, ma ha ampliato enormemente il proprio giro d’affari negli ultimi anni. La terra assegnata ai grandi progetti è aumentata del 170% tra il 2010 e il 2013. E nel 2012 la legge che disciplina la terra è stata modificato per favorire le grandi acquisizioni societarie».

Secondo i dati elaborati da organizzazioni che si occupano di analizzare i processi di land grabbing in Myanmar, il governo birmano, di recente, avrebbe stanziato 1,268,077 ettari proprio nella zona occidentale del paese, quella abitata dai Rohingya, per lo «sviluppo rurale aziendale»; questo – scrive Sassen – «è un bel salto rispetto alla prima ripartizione formale effettuata nel 2012, per appena 7.000 ettari».

Milioni di persone, quindi, hanno subito una vera e propria persecuzione, costrette a fuggire dalla loro terra, non solo per questioni religiose, anzi. Proprio l’aspetto religioso sembra una sorta di specchietto per le allodole per nascondere una trasformazione territoriale che il governo di Yangoon forse nasconde ai propri cittadini. E responsabili di questi processi sono senza dubbio anche altri paesi ben più avanzati per quanto riguarda il livello generale di vita. Basti pensare che il Myanmar è stretto tra India e Cina, due giganti mondiali e non solo regionali. Paesi ingordi e bisognosi di risorse.

Proprio Pechino, di recente, aveva ingaggiato un confronto con la giunta militare per la realizzazione di una diga, bloccata poi dalle proteste della popolazione locale. Ma evidentemente si trattava di un momento politico particolare, con il cambio del governo e l’arrivo in pompa magna di Aung San Suu Kyi e la sua volontà di aprirsi di più all’Occidente. Rimane il fatto che l’opacità dell’esecutivo è ancora lì, così come le politiche di land grabbing.

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