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Alberto Giasanti
Le tante voci dalla galera
8 Giugno 2016
Spazio pubblico
«Reclusione, formazione, coscienza. Altro che spostare i penitenziari dal centro alla periferia. È importante che il carcere sia una presenza visibile nella città, per incontrare i demoni che la nostra società, contemporaneamente, evoca e combatte».

«Reclusione, formazione, coscienza. Altro che spostare i penitenziari dal centro alla periferia. È importante che il carcere sia una presenza visibile nella città, per incontrare i demoni che la nostra società, contemporaneamente, evoca e combatte». Il manifesto 8 giugno 2016 (m.p.r.)

«Vendere San Vittore, Regina Coeli e Poggioreale in cambio di penitenziari nuovi»; «Il piano carceri: via dai centri storici. Le nuove prigioni solo in periferia»; «Carceri, è polemica. L’operazione vendita non convince tutti». Sono i titoli di la Repubblica del 27 e 28 maggio 2016, mentre il dibattito-convegno tra funzionari e operatori della giustizia insieme a magistrati, avvocati e docenti universitari riguardo ai «cambiamenti nell’area penale per le professioni sociali», tenutosi il 27 maggio presso l’Università di Milano-Bicocca, pone l’accento sulle misure alternative al carcere come antidoto alla recidiva e sui rapporti sempre più stretti che il carcere deve avere con il territorio. Al tempo stesso l’iniziativa del Ministro della Giustizia di dare avvio, nel maggio del 2015, agli «Stati Generali dell’esecuzione penale» ha portato alla costituzione di 18 tavoli tematici a cui hanno partecipato operatori, studiosi e volontari del settore come anche detenuti, per la definizione di «un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto».

Nell’aprile di questo anno il Comitato degli esperti, che ha coordinato a livello nazionale i tavoli tematici, ha presentato e discusso a Rebibbia il documento finale degli Stati Generali, constatando che «il problema dell’esecuzione penale è un problema culturale, prima ancora che normativo» e facendo capire «come sia socialmente ottusa, oltreché costituzionalmente inaccettabile, l’idea che il carcere sia una sorta di buio caveau, in cui gettare e richiudere monete che non hanno più corso legale nella società sana e produttiva». Un percorso dunque attraverso il quale «la società offre un’opportunità ed una speranza alle persone» e dà a se stessa «un’opportunità ed una speranza di diventare migliore».

Affermazioni queste di civiltà giuridica e sociale al tempo stesso, ma che sono in contraddizione con quanto la stampa nazionale mette in luce, riferendosi alla vendita delle carceri situate nei centri storici e soprattutto alla costruzione di nuovi penitenziari nelle periferie. Se la politica dell’esecuzione penale va verso la prospettiva del ridimensionamento delle misure detentive e di un allargamento di quelle «di comunità» e gli operatori tutti ritengono di grande utilità il lavoro di rete sul territorio per la riduzione della recidiva e la progressiva inclusione sociale delle persone detenute, eliminare le carceri dal centro e costruirle in periferia assume il valore simbolico di un disegno che intende, come afferma Luigi Manconi, rimuovere il male, che si pensa essere dentro il carcere, nascondendolo allo sguardo dei cittadini.

È comunque la risposta che si ritrova nelle città di tutti i paesi dove poveri, bambini di strada e persone marginali devono essere nascosti agli occhi del mondo in nome del decoro. Così la società, pur essendoci totalmente immersa, nega la violenza e cerca di allontanarla da sé, nascondendo la propria parte negativa nell’idea di esorcizzarla, ma questa, se non accolta e riconosciuta, ritorna più potente che mai e prende il sopravvento. Si deve allora guardare al carcere come al luogo dove, in certe circostanze e attraverso dolorose esperienze, fare i conti con la propria ombra apre la strada per addentrarsi nei sotterranei dell’anima o del nostro lupo interiore verso un ulteriore percorso, lungo e faticoso, di conoscenza di sé che porta al riconoscimento dei nostri demoni ed alla ricomposizione ad unità delle nostre parti scisse in un gioco di luci e ombre come anche in un andare e venire tra dentro la galera e fuori nella comunità.

Per dare parola alle tante voci della galera, attraverso le quali la città può forse avere l’idea che i delinquenti sono in realtà persone come noi, vorrei dire della mia esperienza pluriennale di docente che tiene corsi universitari in carcere parlando di mediazione con se stessi, di maschera, di ombra e di doppio. Con la firma dell’accordo tra l’Università degli studi di Milano-Bicocca e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia la formazione in carcere assume una rilevanza istituzionale che dà la possibilità di sviluppare attività di ricerca, culturali e didattiche presso alcuni Istituti penitenziari lombardi e presso l’ufficio di esecuzione penale esterna di Milano e dello stesso provveditorato. La convenzione è rivolta a tutto il personale degli istituti penitenziari, alle persone detenute, ai docenti e agli studenti dell’ateneo, con la possibilità di organizzare in carcere corsi, stage, tirocini e laboratori.

Così una mattina entro in carcere con il gruppo di studenti frequentanti e incontriamo il gruppo di detenuti che intendono seguire le lezioni. Si lavora sul conflitto e sulla mediazione con se stessi che significa fare i conti con il nostro doppio, ma anche con la molteplicità delle nostre identità e con le proiezioni delle nostre ombre. Il corso evidenzia come le storie dei partecipanti si intrecciano quasi a sovrapporsi le une alle altre in un altalenarsi tra singoli e gruppi, tra coscienza individuale e coscienza collettiva, come due sguardi differenti che si confrontano. Alla fine del corso la valutazione degli elaborati e la presentazione degli stessi nella forma di una rappresentazione teatrale. Questo corso ha poi dato luogo alla scrittura collettiva, detenuti e studenti, di un libro dal titolo università@carcere. Il divenire della coscienza: conflitto, mediazione, perdono.

Ci si deve sempre ricordare che per andare oltre la sofferenza è necessario incontrarla nella sua dimensione tragica e certamente il carcere è tragedia e le storie narrate nel libro ne sono una viva testimonianza. È necessario, d’altra parte, indicare una via lungo la quale i sentimenti messi a nudo e violati trovano un luogo di mediazione per potersi esprimere e per potere dare e prendere la parola. È quindi importante che il carcere sia una presenza molto visibile nella città per potere incontrare le nostre maschere e quelle degli altri o, in altri termini, incontrare i demoni che la nostra società, contemporaneamente, evoca e combatte.

Si deve quindi investire non in mura o allontanando il carcere dallo sguardo dei più, ma in formazione e lavoro come in attività ludiche per tutti, sia verso la persona detenuta sia verso chi, a vario titolo, lavora nel carcere e nella comunità.

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